Copertina
Autore Gianni Clerici
Titolo Australia Felix
EdizioneFandango, Roma, 2012, Galleria , pag. 236, cop.fle., dim. 14x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6044-252-9
LettoreFlo Bertelli, 2012
Classe narrativa italiana
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Indice


1.   Glauco Levi                      7
2.   Royal Australian Air Force      13
3.   Enemy Alien                     19
4.   Prigioniero                     24
5.   Jack Ceretti                    30
6.   La farm                         38
7.   Rifiuto di direzione            43
8.   Liberazione                     47
9.   Ritorno in banca                51
10.  Wooldridge                      57
11.  Prestiti                        63
12.  Viaggio in Italia               68
13.  A Roma                          71
14.  Tennis Parioli                  78
15.  La frana                        83
16.  La visita dei due               87
17.  Ostia                           90
18.  Rain Forest                     96
19.  Evonne                         108
20.  Dream Time                     115
21.  Scrivere e dipingere           124
22.  In mezzo al fiume              130
23.  Corrobori                      133
24.  Professor Hutchinson           146
25.  Irriakura                      150
26.  Pittori                        158
27.  Nuovo direttore                164
28.  La biblioteca del museo        168
29.  Namatjira                      171
30.  Gibber                         176
31.  Ralf                           181
32.  Dimissioni                     186
33.  Raccolta quadri                189
34.  Un dono proibito               195
35.  Mostra                         199
36.  Il reverendo Wade              203
37.  La monetina                    208
38.  L'artista                      211
39.  Nuova mostra                   214
40.  L'invasione della civiltà      217
41.  Dieci quadri                   220
42.  Documentario                   223
43.  Fine dell'intervista           228


 

 

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Pagina 7

1.

Glauco Levi


"Sì. Perché no?". Glauco Levi ripeteva, guardandomi, le parole pronunciate al telefono, quando, dopo essermi presentato, gli avevo spiegato le ragioni per le quali desideravo fargli visita, nella sua villa vicina a Torquay, nello Stato del Victoria.

"Perché non chiacchierare con lei, che si presenta, ancor prima che in qualità di giornalista, come amico di uno dei miei più cari amici, Carlo Della Vida."

Glauco Levi rimase a fissarmi, uno sguardo intelligente e umano, che finì di mettermi a mio agio, come non accade spesso all'inizio di una intervista: una vicenda alla quale il giornalista non del tutto cinico si affaccia sentendosi in qualche modo uno spione, o quantomeno un importuno.

"Ma mi dica, prima di tutto, come sta Carlo?"

Risposi che Carlo Della Vida l'avevo incontrato circa un mese prima della mia partenza per l'Estremo Oriente, dove mi recavo per l'annuale resoconto ai Campionati d'Australia di tennis, che si svolgono a Melbourne, circa cento chilometri dal luogo in cui ci trovavamo, la villa che Glauco aveva ribattezzata Ostia.

Il mio giornale mi aveva affidato, infatti, l'incarico di intervistare qualche italiano che si fosse affermato sino a raggiungere ruoli di eccellenza, e non inferiore notorietà. Insieme a Levi, avrei dovuto incontrare i costruttori Grollo, Ralph Bernardi, sindaco di Melbourne, Luciano Bini il cosiddetto Re del Caffè, Giancarlo Giusti.

Ed era stato Della Vida ad insistere, e ripetermi che simili personaggi sarebbero stati interessantissimi.

Ma Glauco Levi era qualcosa di più, un suo amico intimo, con cui aveva condiviso la gioventù, e, insieme, qualche decisione determinante, di quelle che danno una svolta alla vita.

"Siamo stati compagni al liceo Virgilio di via Giulia, a Roma – sorrideva Levi. –

E giocavamo insieme, quasi giornalmente, al Tennis Club Parioli: mi correggo, al circolo Tennis Parioli, dal giorno in cui i fascisti abolirono le parole straniere. Fu proprio in seguito a quella scelleratezza, unita alla decisione di denominare il nostro amato tennis Pallacorda, che iniziò a nascermi dentro una delle spinte che dovevano condurmi qui.

Ma non sono esatto – continuò, sogguardando il taccuino, sul quale tracciavo, come mi è solito, una sorta di scaletta dell'intervista. – La prima spinta ad andarmene venne forse da un dialogo col papà di Carlo, l'uomo più intelligente che avessi sin lì conosciuto, che mi spiegò perché mai avesse rifiutato la sottomissione al fascismo.

Ricorderà Gianni – e qui sorrise, chiedendomi se potesse chiamarmi con il mio nome – ricorderà che, già negli anni Trenta i fascisti si spinsero a chiedere una sorta di avallo ufficiale a quei professori universitari che non fossero membri del partito. Furono pochissimi, soltanto quattordici, a rifiutarsi di firmare.

Tra questi, il padre di Carlo, il professor Giorgio Della Vida, che decise di emigrare negli Stati Uniti, e divenne un luminare dell'Università di San Diego. Pochi anni più tardi, mi ritrovai in Gran Bretagna, a Oxford, dove mio padre aveva insistito a inviarmi, per una tradizione famigliare che risaliva a tre precedenti generazioni, legate agli inglesi da interessi e attività di lavoro.

La vicenda del professor Della Vida fu l'ultima, e non certo la minore, di una concatenazione di eventi che, tra il 1936 e il 1938, alle prime avvisaglie delle leggi antiebraiche, spinsero mio padre e mia nonna a convocare un consiglio di famiglia: una vicenda tipica di noi Levi in casi di assoluta necessità.

Fu proprio nonna Sara, una donnina non meno anziana di quanto io sono ora, la più determinata nell'insistere perché si prendesse una decisione dolorosa, ma indispensabile.

Noi Levi siamo forse più italiani che ebrei, cittadini di un paese che ci aveva accolti da più di cinque secoli, profughi da uno dei tanti pogrom che non hanno cessato di colpire la comunità israelitica.

In Italia, come ricordò la nonna, ci eravamo tanto inseriti da perdere, quasi completamente, le nostre connotazioni razziali.

Per quanto mi riguarda, non ero stato nemmeno circonciso, né entrato, se non occasionalmente, in una Sinagoga.

Del bisononno materno potrà trovare il nome tra i Mille che partirono al seguito di Garibaldi. Il nonno aveva addirittura aderito al Partito Nazionale Fascista, sinché le vicende che portarono all'alleanza con Hitler non l'avevano spinto a non rinnovare la tessera.

Ma, dai fascisti, non erano giunte che avvisaglie di un pericolo, peraltro contraddette, sino al 1936, e confermate invece con la legge antiebraica del 1938.

I tempi stavano dunque decisamente cambiando. Gli equilibri dell'alleanza, e ce lo confermava anche un amico quale l'ambasciatore in Germania Bernardo Attolico, stavano mutando giorno dopo giorno in favore di Hitler.

Ed era allora il caso di guardarsi alle spalle, ricordarsi di passate vicende che ci offriva una lunghissima successione di sofferenze, spossessamenti, assassini collettivi."

"Io, per me, di andarmene a quasi ottant'anni, non me la sento – affermò nonna Sara. – Sono nata qui, e spero che, di morire qui, mi sia permesso."

Ma, aggiunse, rivolgendosi ai suoi due figli, e a noi nipoti, non avevamo il diritto di esporci ad un dramma molto probabile.

E si doveva liquidare, per quanto possibile, il patrimonio immobiliare, e parcheggiare fuori dall'Italia denaro e titoli.

Nella cassaforte svizzera, o ancor meglio in America.

"E perché no in Australia? – mi ricordo di aver esclamato –. Almeno laggiù, i tedeschi non ci arriveranno mai.

Si votò, a questo punto, e ricordo di aver visto piangere, per la prima volta, mia mamma, cattolica praticante.

Mentre io ritornavo nella mia amata Oxford, mio padre e mio zio iniziarono a smantellare, in tutta fretta, quel che i nostri antenati Levi e Castelli avevano assemblato in secoli di onesto lavoro, dapprima a Ferrara, e poi a Como. I più anziani si sarebbero trasferiti in Svizzera, a Vevey, un paesino non lontano da Losanna dove i miei passavano regolarmente le vacanze.

E anch'io, alla soglia della mia laurea in business administration, pensai più di una volta di raggiungerli.

Ma dovevo aver dentro i geni che avevano portato i miei antenati a tante migrazioni.

In una successiva riunione di famiglia, questa volta in Svizzera, discussi a lungo l'ipotesi che, oltre a quella elvetica, pareva la più logica, mentre si addensavano le nubi della guerra: stabilirsi negli Stati Uniti.

Qualsiasi cosa fosse accaduta in Europa, gli americani si sarebbero tenuti fuori dal conflitto, o quantomeno la guerra non sarebbe giunta all'interno del loro continente.

Era un paese, gli Stati Uniti, nel quale chi avesse voglia e titoli per lavorare, era accolto a braccia aperte. E, al di là della presenza incoraggiante di Giorgio Della Vida, un grande amico di papà, il banchiere Giannini, era prontissimo ad offrirmi un posto consono ai miei studi britannici.

Ricordo la nonna, sempre lei, che saltò su a dirmi: "E poi, a New York, non ti mancherebbe sicuramente il tuo diletto tennis. Figurarsi, con quel club che si ritrovano, a Forest Hills".

"Se è per questo – osservò mio fratello minore – non vanno male nemmeno al Kooyong di Melbourne, anche quello sede di un Grande Slam."

Ridemmo, mentre mio padre ricordava che, per un onesto seconda categoria par mio, quei Club erano forse troppo altolocati.

Ma l'idea della Australia mi venne lì.

Mi venne anche in mente un libro, Eureka Stockade, sulla corsa all'oro di metà Ottocento nei dintorni di Melbourne, e l'incredibile partecipazione italiana, guidata dal mazziniano Raffaello Carboni.

Per secoli gran parte dell'Europa non aveva tollerato gli ebrei, mi dissi, e alcuni paesi sembravano prepararsi, una volta di più, a nuovi pogrom.

Perché, allora, non tentare una soluzione integralmente nuova, in un paese, ma che dico paese, un continente nato da poco più di un secolo.

Il mese seguente ero su un piroscafo inglese, lo S.H.M. Victoria, che mi avrebbe sbarcato nella baia di Port Phillip, a Melbourne.

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Pagina 30

5.

Jack Ceretti


Nel commentare, scoraggiato, le motivazioni riferitemi dal funzionario, dovetti rendermi conto che egli non era il solo a condividere una visione addirittura mussoliniana della realtà.

"Chi non è con noi è contro di noi", stava scritto, in lettere cubitali, sui casolari e le stazioni ferroviarie d'Italia.

Anche all'interno del campo, una simile visione aveva finito col permeare i prigionieri, e si erano venuti a formare due partiti, oltre ad un terzo che accettava a malincuore la situazione alla quale il destino ci aveva sottoposti, ma non ne traeva la benché minima opinione politica.

Dopo la ricusazione del mio appello al magistrato, io stesso mi ero rassegnato alla routine quotidiana, nella squadra di Pernigo, e ai bridge serali nella tenda del conte Cocciuti.

Aveva anche ottenuto, il conte, il privilegio di un apparecchio radio, e grazie a ciò noi bridgisti eravamo i soli informati degli sviluppi della guerra.

Mi ritrovai così a svolgere, in qualche modo, una funzione di agenzia stampa.

Non erano in pochi, infatti, a chiedermi cosa avessero detto le news della sera precedente,

Tra gli interessati, uno ve n'era, molto accanito, un contadino figlio di immigrati piemontesi, Jack Ceretti: un tipo col quale mi ritrovai a conversare in inglese, lingua che preferiva allo slang italo-australiano col quale si esprimevano moltissimi internati.

Era venuto a sapere, Jack, della mia domanda di arruolarmi nella Royal Air Force, e ne aveva tratto la logica conseguenza che io facessi parte degli antifascisti.

"Siamo una minoranza, nel campo" non si trattenne dal dirmi un giorno, scuotendo la testa.

E continuò, osservando che era non solo incredibile, ma illogico, che gente costretta ad abbandonare il proprio paese per la povertà giungesse a schierarsi dalla parte di un dittatore che aveva sventato, a difesa della borghesia e della monarchia, una possibilissima rivoluzione: una rivoluzione che avrebbe condotto i proletari, quelli da cui uscivano proprio loro, gli immigrati, a condizioni di vita accettabili, e soprattutto umanamente più eque.

L'opinione di Ceretti mi colpì, tanto che, nella mia funzione di portavoce radiofonico, lo cercai io stesso, curioso di ottenere una sua lettura delle notizie che mi giungevano.

Mi resi, via via, conto che, insieme a Jack, c'era un bel gruppo di internati, non solo antifascisti, ma soprattutto marxisti.

Grazie al mio status, e alle scuole frequentate in Italia sino alla maturità classica, non avevo avuto, del marxismo, che un'idea assolutamente vaga.

Nei tre anni di permanenza a Oxford avevo, poi, attraversato momenti di autocritica, in cui mi dicevo che un match di tennis in meno, e una visita in più alla straordinaria biblioteca dell'università mi avrebbero giovato.

Ma confesso che, con tutta la buona volontà, non ero riuscito a spingermi oltre una ventina di pagine del Capitale.

Ora, le opinioni di Ceretti erano talmente distanti dalle mie idées reηues da apparirmi non solo interessanti, ma da rimettere in gioco tutta una visione, non troppo meditata, della società: e della mia stessa vita, all'interno della società borghese.

L'amicizia con Jack, e con qualche membro del suo gruppo – non oso chiamarlo partito – doveva rafforzarsi ancor di più in seguito ad un grave incidente.

Mi trovavo, al solito, quella sera, seduto al tavolo del conte Cocciuti, quando la porta si spalancò, e ci trovammo di fronte ad un uomo barcollante, che perdeva sangue da una vasta ferita alla testa.

Era Ceretti. Fra noi giocatori si trovava fortunatamente un medico, e riuscimmo a sapere in seguito che la ricerca d'aiuto di Jack si era diretta alla nostra capanna proprio per quella ragione.

Al medico, dopo iniziali difficoltà, la direzione del campo aveva finito per riconsegnare gli strumenti professionali, e gli fu dunque possibile ricucire la ferita, ordinare a Ceretti di rimanere immobile sul suo lettino, sinché, il mattino seguente, avrebbe denunziato il fatto al direttore del campo.

Ci sorprendemmo nel sentire il ferito affermare con voce rotta che preferiva non fare nessuna denunzia, a condizione che il medico lo aiutasse.

Erano stati, disse, tre dei fascisti, ad attenderlo nelle latrine, e a tentare di ucciderlo con i bastoni. Una denunzia, aggiunse, avrebbe condotto ad una più severa applicazione delle regole di prigionia, e finito col danneggiare tutti. Di più, avrebbe potuto spingere gli antifascisti a una vendetta, creato un clima di guerra civile tra noi italiani.

Mentre ci si guardava, increduli, fu Cocciuti a prendere la parola.

Si rivolse, primo fra tutti, al medico, pregandolo di rilasciare una diagnosi per ferita accidentale. E, ottenuto l'assenso, ci congedò, trattenendo Ceretti sul suo lettino, per rendersi garante della soluzione della vicenda, il mattino seguente.

Passarono quarantottore prima che il ferito ritornasse in circolazione.

Come lo rividi, nel circolo dei suoi amici, mi schiacciò l'occhio, a chiedermi una tacita conferma di riservatezza.

Da quel giorno nacque, da parte mia, una autentica ammirazione nei suoi riguardi e in quella sua visione della vita che mi era stata, sin lì, estranea.

Divenimmo amici, se così posso dire.

Pur continuando a far parte del gruppo di Pernigo, mi ritrovai più volte a sostituire, in quello di Ceretti, un componente in cattiva salute.

Jack non era da meno di Pernigo nella capacità di soluzioni manuali a qualsiasi problema. Diceva infatti di sé "I am an handy man" uno che sa far di tutto, e in definitiva non possiede una qualifica professionale.

Tra i suoi incarichi c'era quello di occuparsi dell'utilizzo di alcuni campi nei dintorni di una fattoria abbandonata.

Ottenuti dopo infinite preghiere e una successione di richieste degna – diceva – della burocrazia borbonica, due buoi e un trattore, aveva provveduto a dissodare, e a piantare, un'intera coltivazione di verdure.

Di fronte alla masseria degradata era rimasto un grande tavolo di pietra, all'ombra di due eucalipti, ed era lì che ci sedevamo insieme a Tom, la guardia destinataci dal direttore del campo.

Anche Tom era stato, da borghese, un contadino, inurbatosi a svolgere una trafila di lavori.

Dopo qualche tempo si decise ad aprirsi con noi. I suoi antenati erano stati, come molti degli aussies originari, guardie o ladri.

Le guardie reclutate forzatamente nelle campagne britanniche, o tra i ribelli irlandesi. I ladri condannati all'estradizione per colpe che, più tardi, avrebbero condotto soltanto a qualche mese di carcere.

Scontata la pena, né Sua Maestà la regina Victoria, né i successori, offrivano gratuitamente un viaggio di ritorno.

Tom era divenuto così l'ultimo erede di un poveraccio, responsabile di aver acquistato una carretta di abiti rubati; uno che, scontati cinque anni di lavori forzati a Norfolk Bay, in Tasmania, si era ritrovato nell'impossibilità di far ritorno a Birmingham, e rivedere la famiglia. E quindi ne aveva creato una nuova, con una donna carcerata in Australia – diceva Tom – per amori venali.

Non era possibile non divenire amici di una simile persona, capace di dichiarare, mentre dividevamo il rancio: "Non mi sento meno condannato di voi, con questo mio obbligo di carceriere."

"Siamo vittime dello stesso padrone borghese", ribatté Ceretti, per iniziare uno dei suoi monologhi, in cui dimostrava, e non era difficile, che il destino degli antenati suoi, e di Tom, era stato deciso dai proprietari terrieri italiani, e dalla upper class britannica.

Hitler aveva, nel frattempo, aggredito anche l'Unione Sovietica, e Ceretti si era sentito sollevato dalle critiche che non era stato il solo a rivolgergli, a proposito del patto di non aggressione tra Ribbentrop e Molotov, che aveva causato l'invasione della Polonia.

Era lì, era con i sovietici aggrediti dai nazisti, che Ceretti avrebbe voluto combattere, fosse stato libero.

E non serviva, se non a irritarlo, che gli ribattessi che Francia, Belgio, Olanda erano state egualmente invase.

"Θ una guerra, quella, tra nazioni borghesi, tra paesi che si battono solo per difendere una supremazia economica – ribatteva Ceretti –. Paesi colonialisti, gente che ha sottomesso e resi schiavi milioni e milioni di poveracci.

La guerra che la Russia deve vincere sarà utile a esportare un nuovo modo di vivere, un mondo di eguali."

Di lì, da una condizione simile alla schiavitù, non era facile ribattere alle argomentazioni di Ceretti.

Provai a farlo, più di una volta, con convinzione sempre meno viva.

Né gli altri nostri compagni, e soprattutto Tom, parevano avanzare dubbi.

La nostra vicenda, intanto, non faceva che protrarsi, quasi non fossimo altro che condannati a vita.

Le pallide speranze di un ritorno in libertà erano soprattutto legate all'andamento della guerra, e ricordo che Cocciuti ebbe modo di procurarsi qualche bottiglia di birra, e distribuirla tra i bridgisti, il giorno in cui gli Stati Uniti, aggrediti a Pearl Harbour, non poterono più rimandare l'entrata in guerra.

Quella storica decisione portò con sé un piccolo miglioramento per noi prigionieri. La necessità di rafforzare, numericamente, le difese verso est, condusse a una rotazione dei nostri guardiani, che vennero rimpiazzati da una compagnia di richiamati, che avrebbero potuto essere nostri zii.

E, al tempo stesso, concorse a creare un tribunale incaricato di vagliare il comportamento e l'atteggiamento politico dei prigionieri.

Per un paio di settimane aumentarono le visite di parenti e amici, e mi vidi chiamato, un giorno, contemporaneamente a Ceretti.

Mentre, a visitarmi, era il mio amico Malcolm, di fronte a Ceretti stava una giovanissima ragazza, l'incarnato scuro di italiana del sud, e, insieme, gli occhi azzurri da anglosassone.

Iniziammo a guardarla, io e Malcolm, e, accortosene, fu lo stesso Ceretti a presentarcela: si chiamava Teresa, era la sua unica nipote.

Continuammo nelle nostre conversazioni e, quando giunse il suono che annunciava la fine delle visite, fu Malcolm a volgersi verso Ceretti, per chiedergli se potesse riaccompagnare Teresa con la sua macchina.

Jack si irrigidì, come e più delle volte in cui si cercava di obiettare alle sue convinzioni politiche. "No grazie – rispose – è venuta in treno, e tornerà in treno. Non siamo gente che si può permettere un'automobile."

Sull'argomento mi sarebbe accaduto di tornare qualche giorno dopo, mentre si consumava l'ultimo lunch in compagnia di Tom, che partiva con un battaglione diretto alla Nuova Guinea, avamposto per un possibile sbarco dei giapponesi.

Al di là della sua severità nei riguardi di Teresa, dissi, non mi pareva che la proprietà di un'utilitaria, una Ford, fosse una connotazione borghese peccaminosa.

Proprio auto simili, aggiunsi, avevano prodotto un benefico miglioramento nella vita della working class americana.

Per una volta, Ceretti non se la sentì di ribattere. Fu invece Tom che, nel togliere dal suo sacco ben cinque preziose birre, una per ciascuno dei presenti, iniziò un discorso di addio.

L'esperienza trascorsa insieme a noi, disse, non solo l'aveva arricchito, ma le idee di Ceretti l'avevano conquistato, gli avevano permesso di vedere il mondo con occhi diversi. Levò il bicchiere in direzione della fattoria, per un augurio.

Sperava, dichiarò, che ci si potesse ritrovare in quegli stessi luoghi, ed iniziare una nuova vita, in comune, da amici, a far crescere, senza padroni, prodotti della terra. Ci unimmo tutti, e intonammo He is a jolly good fellow.

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Pagina 115

20.

Dream Time


Il mattino seguente, quando mi svegliai, cercai invano quella che, nel corso della notte, mi aveva detto di chiamarsi Evonne.

Trovai, in cucina, una teiera ancora tiepida e, sul tavolo, alcune fette di pane grigliato. Evonne era scomparsa. Nel riflettere su quanto era avvenuto, pensai che avrei dovuto aspettarmi qualcosa di simile.

Ma non fui del tutto frustrato dicendomi che, da una persona simile, era difficile attendersi un comportamento non solo logico, ma tipico di una ragazza anglosassone.

A confortarmi, era anche il fatto che Evonne non avesse lasciata la collana, segno di una rinuncia a terminare la storia appena iniziata.

Averla tenuta con sé significava, probabilmente, una visione positiva dell'accaduto, o della possibilità di rivederci.

Avevo un impegno che non ero in grado di disdire, a Melbourne.

Ma, come fui in auto ed ebbi percorso un centinaio di metri, misi la retromarcia, per scendere, e infilare, bene in vista, la chiave nella porta d'ingresso.

Non c'era in casa gran che da rubare, mi dissi, e valeva comunque la pena di correre quel rischio, lasciando un messaggio decifrabile a Evonne.

Sarebbero, tuttavia, passati non meno di quindici giorni, e tre notti a Ostia, perché, quando stavo ormai perdendo le speranze, Evonne riapparisse.

Sorridente, senza nessuna spiegazione, come se il suo ritorno fosse la cosa più ovvia del mondo.

Dopo una nuova notte incantevole passata insieme, accettò, mentre mi mettevo in strada per Melbourne, l'offerta di una chiave di casa.

Poteva usarla a suo piacimento?, s'informò. Quando e come volesse? E io, sarei ritornato spesso?

Avute le mie risposte, mi precedette nell'uscire, e si allontanò fino a scomparire nel fitto delle mangrovie.

Finii tardi con l'ufficio, quel pomeriggio, e, passando davanti ad un negozio di vernici e tele, decisi di acquistare tutto quanto poteva essere utile a dipingere.

Raggiunsi Ostia, e, pur deluso dall'assenza di Evonne, scaricai vernici e tele nella sala, in modo che fossero in evidenza.

Preparai una rapida cena, dormii, e ritornai al mio appartamento di Melbourne.

Riprovai la sera seguente a visitare Ostia, e la successiva.

Il desiderio di rivedere Evonne, la delusione, mi spinsero anche a dirmi che quella vicenda era troppo bizzarra, il mio ruolo occasionale, passivo, mentre era lei a determinare gli incontri, a suo completo piacimento, quando ne avesse l'estro.

E anche: chi era Evonne, come viveva, dove mai si nascondeva, come poteva passare le notti, nutrirsi?

Non esistevano villaggi, e nemmeno agglomerati di case, o addirittura ripari, nei dintorni di Ostia.

Soltanto qualche villa, rigorosamente chiusa al di fuori dei week-end o delle vacanze scolastiche.

Cosa pensare, allora?

Decisi dunque di attendere il sabato successivo, con uno scetticismo che spesso si corrompeva in fastidio, ma mi resi conto di sperare ancora di vederla quando evitai la proposta di Malcolm di organizzare un doppio sul mio vecchio court in cemento.

Non avevo ancora finito di parcheggiare l'auto che un'occhiata lungo la spiaggia mi rivelò la presenza di Evonne.

Sedeva vicino a quello che doveva essere il suo luogo preferito, con le gambe incrociate, e di fronte a sé teneva la più grande delle tele che avevo acquistato.

Allertata dal rumore dell'auto, sollevò un pennello, in segno di saluto, per riprendere subito a dipingere.

Chiamai, salutai a mia volta accennando a rivederci più tardi. Non volevo turbarla o interromperla, con la mia curiosità.

Entrai in casa, provai inutilmente a leggere, e infine, col mio cesto di palle, scesi sul vecchio campo, sollevai e tesi la rete, e presi a battere.

Un esercizio che facevo spesso, quand'ero solo.

Non era trascorsa mezz'ora che Evonne sarebbe giunta alle mie spalle, tanto silenziosa che avrei dovuto attendere si palesasse con un applauso, ad un mio servizio ben riuscito.

Che quel suo battimani non fosse un caso lo avrei subito appreso, con sbalordimento autentico, nell'ascoltare, insieme a una risatina, l'affermazione "Sembri Sedgman".

"Ma certo so chi è Sedgman" avrebbe soggiunto, alla mia domanda.

"L'ho anche visto giocare in gara, l'anno scorso, al White City di Sydney."

Le avrei, a questo punto, offerto la mia racchetta, e ancor più sorpreso, l'avrei vista battere una palla, in modo certo elementare, ma non inetto.

"Ci ho provato qualche volta, la nostra scuola aveva due campi", avrebbe soggiunto. "Ma ci si divertiva di più con il volley."

"Prendevate anche il tè, alle cinque?" non mi trattenni dal domandare, e non finii di sorprendermi alla sua risposta affermativa.

Tornammo in casa, per ritrovarvi, issato sul cavalletto, un dipinto: simile, per non dire identico, al disegno che avevo visto sulla sabbia.

"Prima il tè. Faccio io", suggerì Evonne. "Tu riposa." Ubbidii, ammirandone l'eleganza.

Ero rimasto, al contempo, ad osservare il suo dipinto.

Pareva, già l'ho detto, un disegno astratto, e, nella mia incompetenza, rimanevo a domandarmi quale fosse il significato delle linee, punti, macchie di colore che lo componevano.

Non facevo che guardarlo, quando Evonne fu di ritorno con il tè, me ne versò una tazza, e sorrise: "Stai tentando una cosa impossibile – osservò – come tradurre un racconto da una lingua della quale non conosci l'alfabeto".

E, mentre scuotevo la testa, "Non sei in grado di limitarti a guardare, senza pensare?"

"Lascia che provi – le dissi. E, dopo non molti secondi: Non sono capace" confessai.

"Mai sentito parlare del Dream Time?", domandò.

"No", ammisi.

"Ho sempre qualche difficoltà a spiegarlo, perché non esistono corrispettivi nella civiltà europea per qualcosa che non si può definire religione, o stato di sogno, o mondo mitico, ma che è un po' tutte queste cose insieme.

Mi guardò, dovette capire che non capivo, e sorrise.

"Prendi il mio quadro" disse. "Sembra quello che voi chiamereste un quadro astratto, o quantomeno non figurativo, vero?"

"Certo." Risposi. "E invece?"

"Invece rappresenta un mito, la pioggia, vedi tutti quei trattini, e il sole, vedi tutti quei raggi, che stanno camminando in forma di uomo e donna all'avvento del Dream Time. Nel corso del loro cammino, vanno via via creando delle leggi non solo per gli uomini, ma per gli animali, e il territorio.

Il sole, alla fine, vivrà lassù nel cielo, brilla durante il giorno, è così caldo e secco che giunge a cuocere la terra, specie nel deserto. E a sviluppare le piante e gli animali.

La pioggia prende la forma di Serpente-Arcobaleno, riesci a riconoscerlo, quella specie di grande Esse che nasce da uno spazio blu, e ha come origine dei piccoli laghi, o sorgenti, che si tramutano in milioni di gocce, e aiutano a rinnovare cicli di rigenerazione."

"Trovo qualche difficoltà a seguirti – dissi - Ma il quadro mi piace."

"Lascia che finisca – continuò Evonne. – Quel che ho dipinto significa anche che il sole necessita della pioggia, e viceversa, perché il mondo esista.

Senza il sole la terra sarebbe inondata, senza l'acqua non crescerebbe più nulla. Uccelli e animali muovono da un punto all'altro quando il sole diviene troppo caldo, o il serpente eccede nello sputare acqua, e allora devono intervenire i venti per ripulire il cielo.

Tutto è connesso per mantenere equilibrio, porre le fondamenta di una vita non solo sociale ed economica, ma rituale."

"Una specie di favola biblica" osservai io.

"Assolutamente no" affermò Evonne, quasi avesse interrotto un racconto malinteso da un bambino.

"Nel Dream Time non esiste la minima idea di peccato, e non c'è nessun concetto di Dei, né di inferno o paradiso, punizione o ricompensa.

Gli Antenati possono essere sia buoni che cattivi, o entrambe le cose.

Hanno dato vita a un mondo che è intriso di significati.

E, a tali significati, l'uomo accede via via, grazie a rivelazioni di individui che hanno la capacità di iniziarlo."

"E tu?", tentai di scherzare.

"Oh, io non mi trovo nelle condizioni per essere iniziata.

Sono peggio di una mezzo sangue."

Ed Evonne iniziò a raccontarmi la storia della sua famiglia.

Un nonno bianco, uno squatter, come li chiamavano allora, aveva convissuto per più di un anno con sua nonna, per poi abbandonarla, in una comunità aborigena di fine Ottocento: "Una di quelle concentrazioni di baracche, occupate da servi, che lavoravano per i coloni bianchi in condizioni di semischiavitù."

Giunta in età scolare, sua mamma era stata prelevata dagli incaricati della cosiddetta Aboriginal Protection Board, e trasportata in un istituto di Adelaide, dove aveva studiato, era stata convertita al cattolicesimo, e assegnata ad una ricca famiglia, insieme ad un'altra ragazza.

Si trovavano in condizione di assoluta dipendenza, non venivano nemmeno trattate male, anche se non si poteva certo definirle libere, prive di reali diritti com'erano. "Per non parlare – aggiunse – del diritto di voto, che non ho nemmeno io."

Ascoltavo, non so dire se più incredulo o addolorato, domandandomi se fossi stato cieco o avessi voluto esserlo.

Ero in Australia da più di dieci anni, avevo preso atto della presenza degli aborigeni soltanto nel vederli raggruppati fuori da qualche pub, con una bottiglia di birra in mano, molto spesso ubriachi. O, in fila, il venerdì, non lontano da casa, in attesa di riscuotere il sussidio di disoccupazione.

Avevo, al più, distribuito qualche spicciolo, perché era un'abitudine che, fin da piccolo, mi aveva insegnato la mia straordinaria nonna, dicendomi di mettermi nei panni di chi chiedeva, e ringraziare Iddio di poter dare.

Ora, nell'ascoltare Evonne, mi sentivo d'un tratto colpevole, pur dicendomi che, di quell'Australia del passato, non ero certo responsabile, né lo erano stati i miei.

Evonne continuava a parlare di sua mamma, tanto attraente che, a sedici anni, era stata messa incinta dal figlio dei padroni di casa.

Un giovane che non aveva osato sposarla, ma che si era almeno assunto la responsabilità di aiutarla materialmente nell'affitto di due stanze, dove Evonne era cresciuta, mentre la mamma lavorava a intrecciare cesti che venivano venduti da un negozio, uno dei primi, di prodotti aborigeni.

"Mio padre si è poi sposato in chiesa, naturalmente con una australiana bianca, e non è mai stato un vero padre, ma piuttosto una sorta di funzionario di se stesso, impegnato dapprima ad aiutarci materialmente e, quando ebbi cinque o sei anni, tramite un suo incaricato.

L'ho visto l'ultima volta al funerale della mamma – continuò. – Imbarazzatissimo, certo preoccupato che lo notassero. Mi ha consegnato un biglietto da visita dal quale aveva accuratamente cancellato il numero del telefono di casa."

Mi stavo domandando come fosse riuscita, Evonne, a tirare avanti, e fu di nuovo lei ad anticiparmi: "Ha continuato a mandarmi un regolare assegno al portatore, che ho riscosso con infinita vergogna, sinché non sono riuscita a raggiungere una borsa di studio.

Una borsa di studio, all'Università di Adelaide – continuò – alla Facoltà di Storia. Con specializzazione sulla vita degli aborigeni".

Tacevo, e non fui tanto stupido da non capire che, alla fine, Evonne era aborigena solo per un quarto.

Si sentiva, però, totalmente identificata agli aborigeni, e le ragioni, dopo vicende simili, erano più che comprensibili.

Mi dissi che non era onesto coinvolgerla in una storia che avrebbe potuto farla soffrire, non meno di quanto fosse accaduto a sua madre e sua nonna.

La strinsi con infinita tenerezza, ma non riuscii a dirle altro che la mia casa era sua, e che avrebbe potuto restarvi sinché voleva.

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24.

Professor Hutchinson


La successiva giornata lavorativa non dovette essere delle più redditizie, sebbene avessi avuto la fortuna di rimanere solo, a controllare dei depositi.

Il mio pensiero non finiva di distrarmi verso la vicenda dei giorni precedenti.

Compii egualmente il mio dovere di bancario, e mi assentai soltanto dopo che furono scoccate le cinque.

Ma non facevo che domandarmi quale potesse essere il significato del quadro, che avevo portato con me in ufficio.

Avevo telefonato preventivamente al professor Hutchinson, e lo trovai solo, nel museo, ormai deserto dopo la chiusura.

Hutchinson rivolse subito la sua curiosità al dipinto. Lo vidi assentire, quasi si fosse atteso il soggetto, addirittura le immagini raffigurate, e me le indicò, percorrendole con il dito: "Questi circoli — disse — possono rappresentare delle pozze d'acqua, mentre quello che appare un serpente sarà forse un pitone, ma non solo. La scena si svolge su due piani, uno realistico, l'altro simbolico. L'acqua è uno dei simboli primigeni della vita, ha un ruolo fondamentale nella creazione del mondo, il serpente è una raffigurazione creativa, sia perché vive nell'acqua ma perché può anche assumere il ruolo riproduttivo di una madre, o di un pene, che alla nascita sono correlati". Il professore sorrise, per aggiungere: "Il quadro è certo una indicazione del Dream Time, ma quello che non vedo raffigurato è il tuo arrivo, per di più a bordo di un aereo, e quindi di una sorta di uccello. Forse l'autore ha preferito offrirti una lettura del luogo in cui abita, e un sottinteso invito a ritornarvi".

Assentii, ma la mia aria interrogativa spinse quel bravo studioso a continuare: "Il Dream Time è il fondamento della vita degli aborigeni, una sorta di mondo simbolico creatore del nostro, fenomenico. E dal Dream Time che giunge all'uomo la legge della conoscenza, una legge che non si deve trasgredire. Il tempo in cui viviamo è iniziato nell'istante in cui gli antenati si dedicarono alla creazione, uscirono dall'eternità.

Allora il sole splendette nel cielo, e la terra ricevette per la prima volta la luce. Gli esseri soprannaturali, gli antenati totem, si materializzarono in forme di animali o piante, per metà umani. Viaggiarono, cacciarono, lottarono tra loro, e mutarono l'aspetto della terra, fin lì costituita di materia informe. Crearono fiumi, colline, animali, e tutto quanto ora siamo in grado di vedere. Divennero essi stessi rocce, o alberi, o fiumi. Terminata una simile fase attiva, si riassorbirono in quello a cui avevano dato forma, facendo sì da costituire un'esteriorità consacrata, siti in cui gli umani trovassero devota ispirazione e assistenza.

Il nostro mondo apparve così, non solo illuminato dagli astri, ma visitato dal lavoro, le nascite, le morti. Quello che è, ancora, oggi".

Hutchinson sorrise, quasi a scusarsi di una lezione che, osservò, io dovevo già conoscere.

Ammisi di aver già ascoltato qualcosa di simile, ripensando a Evonne, ma dichiarai al contempo tutta la mia ignoranza, e ottenni subito comprensione dal professore, che osservò come l'inizio del mio soggiorno australiano non fosse stato ideale per conoscere la storia di un paese che, per molti anglosassoni, non aveva più di due secoli. "Mentre – osservò – questa civiltà esiste da almeno quarantamila anni, da quando ancora l'Australia non era diventata un'isola." Mi offrì, insieme alla sua totale disponibilità, una tessera, utile alla frequentazione del museo e, soprattutto della biblioteca.

"E conta su di me come consulente, quando qualcosa ti sembra oscuro" ribadì, prima di accompagnarmi alla porta e, dopo una vigorosa stretta di mano, affermare: "Ma non dimentichiamo il tennis, mi raccomando".

Ritornai verso casa immerso in pensieri simili a quelli che avevo avuto da bambino, quando nonna Sara mi raccontava le storie di due libri, la Bibbia e i Vangeli. Era più facile allora – ammisi – credere alle favole, e, da grande, avevo perso di vista una visione sacra della vita, per lasciarmi assorbire da un'etica laica, abbastanza rozza, costruita su una visione di moralità e immoralità.

In questo aveva certo influito l'atteggiamento dei miei genitori, che avevano abbandonato la via della Sinagoga, sostituendola molto superficialmente con quella della Chiesa Cattolica.

Ed eccomi, d'un tratto, di fronte ad una visione del mondo lontanissima dal materialismo, impregnata di miti.

Il Dreaming, lo stato del sogno, mi dissi, e riflettei sul fatto che noi europei, passati dalle divinità dell'Olimpo a quelle della Bibbia, le avessimo, in gran parte, dimenticate.

Forse, finii di ragionare sulla porta di casa, il destino mi aveva offerto una magnifica occasione di ripensarci.

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