Copertina
Autore Enzo Collotti
CoautoreH. Mommsen, W. Benz, H. Friedländer, C. Natoli, L. Picciotto, B. Mantelli, G. Schreiber, I. Tibaldi, E. Traverso, G. Gozzini, S. Capogreco, A. Maiello, A. De Bernardi, P. Battifora, A. Viganò, B. Distel, al.
Titolo Lager, totalitarismo, modernità
SottotitoloIdentità e storia dell'universo concentrazionario
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009 [2002], Economica , pag. 308, cop.fle., dim. 14x20,5x1,8 cm , Isbn 978-88-6159-269-8
CuratoreEnzo Collotti
TraduttoreSimona Basso, Maura Miglietta
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe storia criminale , lavoro , storia: Europa , paesi: Germania , paesi: Russia , storiografia
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Indice


 IX     Presentazione
        di Raimondo Ricci


        Genesi del lager nell'esperienza nazista

  1  1. Dalla Repubblica di Weimar allo Stato nazionalsocialista
        di Hans Mommsen

 13  2. Il razzismo antiebraico nel regime nazista
        di Wolfgang Benz

 27  3. Dall'eutanasia alla soluzione finale
        di Henry Friedländer

 42  4. Profilo del Nuovo Ordine Europeo
        di Claudio Natoli


        Fenomenologia del lager

 69  5. Il sistema concentrazionario nella Germania nazista
        di Enzo Collotti

 89  6. I campi di sterminio nazisti. Un bilancio storiografico
        di Liliana Picciotto

128  7. Il lavoro forzato nel sistema concentrazionario nazionalsocialista
        di Brunello Mantelli

146  8. Prigionia di guerra e sterminio
        di Gerbard Schreiber

157  9. La geografia della deportazione italiana e le sue destinazioni
        di Italo Tibaldi


        Lager, totalitarismi, modernità

171 10. Il totalitarismo. Usi e abusi di un concetto
        di Enzo Traverso

182 11. Lager e gulag: quale comparazione?
        di Giovanni Gozzini

218 12. Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista.
        Una ricognizione tra storia e memoria
        di Spartaco Capogreco


        La trasmissione della memoria

241 13. La memorialistica
        di Adele Maiello

246 14. La memoria della Shoah e la ricerca storica
        di Alberto De Bernardi

262 15. Shoah e deportazione nei lager nazisti: una sfida per la didattica
        di Paolo Battifora

274 16. La responsabilità dello sguardo
        di Aldo Viganò

277 17. I campi di concentramento come luoghi della memoria.
        I musei e gli archivi dei lager
        di Barbara Distel

282 18. Il Centro di documentazione ebraica contemporanea
        di Luisella Mortara Ottolenghi

285 19. L'Associazione nazionale ex deportati
        di Aldo Pavia

289 20. L'associazione nazionale ex internati
        di Stefano Caccialupi

294 21. Gli Istituti della Resistenza.
        Conservare, costruire, trasmettere la memoria storica
        di Laurana Lajolo


299     Indice dei nomi, luoghi, eventi, organizzazioni




 

 

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3. Dall'eutanasia alla soluzione finale

di Henry Friedländer


Gli storici ci hanno fornito una molteplicità di risposte relative al processo di eliminazione in massa del regime nazista. Una di queste riguarda le radici ideologiche del genocidio e della categoria delle vittime, obiettivo di quel genocidio. Un'altra riguarda il processo decisionale degli esecutori e l'ordine cronologico delle esecuzioni. Le mie risposte a tali domande a volte sono in accordo e a volte no con quelle avanzate da altri storici. Invece di presentare un'analisi storiografica esporrò qui le mie personali opinioni.

Il genocidio nazista non si è verificato in un vuoto. Esso fu soltanto il metodo più radicale per escludere alcune classi umane dalla comunità nazista tedesca. La linea politica di esclusione seguì e si sviluppò nel corso di oltre cinquant'anni di opposizione scientifica all'eguaglianza fra gli uomini. Fino alla svolta del secolo, l'élite tedesca, vale a dire i membri delle classi professionalmente evolute, aveva progressivamente accettato un'ideologia di ineguaglianza umana. Genetisti, antropologi e psichiatri avanzavano una teoria di ereditarietà umana che si mescolava con la dottrina razzista ultranazionalista, tale da formare una ideologia politica basata sulla razza. Il movimento nazista assorbì e sospinse gli ideologi. Dopo la loro ascesa al potere nel 1933, i nazisti crearono la cornice politica che rese possibile trasformare quell'ideologia di ineguaglianza in una politica di esclusione. Al tempo stesso l'élite burocratica, professionale e scientifica fornì al regime la necessaria legittimazione di quella politica.

Il regime voleva istituire una società basata su una comunità nazionale razzialmente omogenea, fisicamente robusta e mentalmente sana, utopica visione condivisa sia a livello sociale sia individuale. Tre categorie di cittadini tedeschi non rientravano nei parametri di tale società visionaria. Essi erano i disabili, gli ebrei e gli zingari, e l'ereditarietà determinava la loro selezione come vittime. Nonostante il regime perseguitasse e spesso eliminasse donne e uomini per le loro convinzioni politiche, per la loro religione, comportamento o attività, i nazisti applicarono una politica integrale di esclusione e di sterminio soltanto alle tre categorie biologicamente definite.

Per tutti gli anni trenta, il pragmatismo guidò la politica di esclusione del regime, che nel comune linguaggio dei nazisti e degli scienziati della razza aveva il senso di "rigenerazione fisica attraverso l'eliminazione" (Aufartung durch Ausmerzung). Quanto agli ebrei, la categoria più numerosa da eliminare, il regime instaurò leggi intese a estrometterli dalla vita pubblica ed economica della nazione; riteneva inoltre che una totale esclusione fosse anche attuabile grazie a un'emigrazione forzata. Contro gli zingari, entità di consistenza molto minore, applicò le leggi istituite per gli ebrei, comprese le leggi razziali di Norimberga, ma stante l'impossibilità di emigrare per gli zingari, questi vennero incarcerati in primitivi campi di concentramento detti "campi degli zingari". Quanto ai disabili, l'esclusione fu ancora più radicale: la sterilizzazione coatta. La legge sulla sterilizzazione, varata il 14 luglio 1933 con l'ambiguo nome di Legge per la prevenzione contro la propagazione di malattie ereditarie (Gesetz Verhutung erbkranken Nachwuchses), aprì la via all'attacco contro i disabili e costituì la base della legislazione eugenica e razziale del regime. In base a essa, prima della guerra, furono sterilizzate circa 300 000 persone.

Nel tardo 1938, all'approssimarsi della guerra, il regime nazista decise di impiegare contro i disabili la più radicale forma di esclusione: l'eliminazione delle vittime attraverso l'uccisione di massa. Fu allora che Adolf Hitler autorizzò l'uccisione di bambini disabili, estendendo negli anni seguenti tale ordine agli adulti e assegnando a Karl Brandt, il suo medico personale, e a Philip Bouhler, capo della sua cancelleria personale, la funzione di plenipotenziari per questa micidiale operazione di sterminio. Bouhler a sua volta ne affidò l'esecuzione a Viktor Brack, caporeparto della Kanzlei des Führers, la Cancelleria del Fiihrer (KDF). Brack e la KDF istituirono organismi di facciata, situati in una villa a Berlino in Tiergartenstrasse 4, per nascondere la loro complicità in tale operazione segreta. Chiamandola eufemisticamente eutanasia e definendola, più onestamente, «distruzione delle vite indegne di essere vissute (Vernichtung lebensunwerten Lebens)», gli esecutori facevano riferimento all'operazione di sterminio come Operazione T4.

L'uccisione in massa dei disabili, che ebbe inizio nell'inverno 1939-1940, fu seguita nel 1941 da quella degli zingari e degli ebrei. Le radici ideologiche dell'eliminazione dei membri di queste tre categorie biologicamente definite e già preventivamente escluse sono reperibili nella visione eugenica e razziale di coloro che le attuarono. Una maggioranza di storici tuttavia ne ha visto le prime radici nell'antisemitismo, anche se la composizione delle categorie delle vittime mostra che tale asserzione non può essere accettata quale unico e significativo motivo. Molti hanno sottolineato l' unicità del fato ebraico, assegnando ai soli ebrei la designazione di vittime dell'Olocausto, classificando invece, come avvenuto di recente, i disabili e gli zingari come vittime di genocidio. Queste però sono differenze semantiche prive di intrinseco significato.

I nazisti sterminarono moltitudini, ivi compresi oppositori politici, membri della Resistenza, élite di nazioni conquistate, ma basarono sempre tali decisioni sulle credenze, sulle azioni e sullo status di quelle vittime. Vennero così braccati e spesso uccisi individui di fede comunista e socialista e prigionieri di guerra sovietici per la loro politica; polacchi, russi e ucraini per la loro nazionalità; Testimoni di Geova (Bibelforscher) per la loro religione; omosessuali e criminali per il loro comportamento e, per le loro attività, membri della Resistenza di tutte le nazioni europee conquistate. Per i disabili, gli zingari e gli ebrei vennero invece applicati criteri differenti. Gli appartenenti a queste categorie non potevano sfuggire alla loro sorte mutando i propri comportamenti e le proprie convinzioni: essi venivano selezionati perché esistevano e né la lealtà allo stato tedesco, né l'adesione all'ideologia nazista, né la partecipazione all'impegno bellico avrebbero potuto modificare la determinazione di sterminio del regime nazista.

Io non nego il posto preminente occupato dalla cosiddetta "questione ebraica" nella visione del mondo di Hitler e neppure la priorità assegnata, dai principali esecutori, all'incarico di sterminare gli ebrei, ma ciò non altera il fatto che i disabili e gli zingari furono a loro volta sterminati in quanto parti di una politica tesa a purificare le basi genetiche della nazione germanica.

Gli storici che sostengono l' unicità del fato ebraico tengono conto solo del punto di vista dei promotori, focalizzando le loro scelte e la loro adesione alla linea politica. Il compito di fornire una spiegazione al comportamento di coloro che concepirono tale politica e alla sua attuazione appartiene ovviamente agli storici, ma ciò non può determinare la classificazione delle vittime. A tal fine io preferisco porre l'accento proprio su queste: al pari degli ebrei, furono sterminati sia i disabili che gli zingari in quanto categorie biologiche – uomini e donne, bambini e vecchi –; tutti furono vittime dell'Olocausto. Come vedremo, soltanto i membri di queste tre categorie furono vittime di una catena di montaggio dello sterminio di massa (fabrikmassiger Massenmord).

Con la decisione di perpetrare un'uccisione di massa il regime nazista passò il suo Rubicone. Avrebbero potuto essere emanati altri atti di repressione, con la possibilità per il regime di conservare la sua reputazione di nazione improntata a "legge e ordine", pronta a garantire ai propri cittadini la sicurezza della legge (Rechtssicherheit), ma tale criterio non avrebbe potuto in alcun modo contemplare un simile sterminio di massa. Per comprenderlo dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al processo decisionale che l'ha prodotto.

In poche parole, Adolf Hitler prese tale decisione e impartì l'ordine di eseguirla. L'evidenza dimostra che egli impartì l'ordine verbalmente. Anche se alcune testimonianze confermano l'ordine verbale di Hitler, noi non possiamo essere certi del modo in cui fu formulato. Ovviamente è possibile che egli lo abbia emesso in forma di proposito, che esso fosse cioè un'autorizzazione verbale più che un ordine. Il fatto che egli ne abbia affidato l'incarico a Karl Brandt e Philip Bouhler sembra comunque dimostrare che si trattasse di qualcosa da eseguire. E noi sappiamo non solo che Hitler era informato dell'operazione, ma che interveniva quando era necessario e che era sempre l'arbitro finale di ogni decisione importante. A Norimberga Karl Brandt testimoniò che quando si incontrò con il Führer per decidere quale agente letale dovesse essere impiegato, fu lo stesso Hitler a optare per l'uso del gas. Al termine della propria testimonianza, Brandt disse con orgoglio a chi lo interrogava: «Questo è proprio un caso in cui nella storia della medicina vengono fatti i maggiori passi in avanti». Questa bizzarra dichiarazione non fu un commento isolato, ma solo l'estremo esempio del fascino esercitato dalla tecnologia esibito da coloro che diressero personalmente le operazioni letali. Tanto che, quando fu chiesto all'ingegnere Walter Heess, a capo del Kriminaltechnische Institut, come si potesse giustificare l'uso di gas per eliminare esseri umani, rispose: «Di cosa parlate? Dopo tutto funziona (Was willst Du denn, es geht dock)».

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Pagina 89

6. I campi di sterminio nazisti. Un bilancio storiografico

di Liliana Picciotto


Ricordiamo per punti alcune acquisizioni fondamentali della storiografia riguardo alla politica di sterminio messa in atto dallo stato nazista.

1. Il progetto dei nazisti di eliminare fisicamente, da qualsiasi territorio caduto sotto la loro influenza, esseri umani in ragione della loro pretesa diversità naturale e spirituale, riguardò essenzialmente il popolo ebraico; a questo progetto furono associate anche le popolazioni zingare di ascendenza Sinti e Rom. Quando si parla di politica di sterminio o di campi di sterminio, ci si riferisce qui solo a quel progetto.

2. Lo stato nazista si avvalse di un sistema repressivo fondamento del quale erano i campi di concentramento, nei quali rinchiudere e punire gli oppositori. Con l'espansione geografica della Germania, tali campi di concentramento (Konzentrationslager, KL), si moltiplicarono e si internazionalizzarono includendo sempre nuovi prigionieri arrestati nei loro paesi di residenza. Nell'aprile del 1942 si aggiunse un fine prettamente economico che divenne la ragione stessa dell'esistenza dei campi di concentramento e rese il regime di sopravvivenza interna ancora più duro. I prigionieri dei KL divennero una popolazione di schiavi senza protezione, soggetti al totale sfruttamento della loro forza-lavoro. Agli occhi dei gestori del sistema concentrazionario, il valore della vita stessa perse d'importanza: i lavoratori che si debilitavano per lo sfinimento o morivano a causa degli stenti, potevano essere sempre sostituiti con nuovi arrivati. La rete dei campi di concentramento, il loro sistema organizzativo, lo sfruttamento del lavoro, facevano capo a un Ufficio centrale delle SS denominato Ufficio centrale per l'amministrazione e l'economia, Wirtschafts-Verwaltungshauptamt (WVHA), creato il 1° febbraio 1942, al cui vertice stava Oswald Pohl.

3. Per quanto riguarda la politica di sterminio degli ebrei d'Europa, politica che procedette parallelamente a quella del sistema repressivo dei campi di concentramento, non si può parlare di una decisione ma di un processo decisionale. Questo passò attraverso diversi stadi: coinvolse prima gli ebrei dell'Unione Sovietica, poi gli ebrei del Governatorato generale (distretti polacchi di Cracovia, Varsavia, Radom, Lublino e Leopoli) e del Wartheland, regione della Polonia occidentale annessa al Reich (comprendente tra gli altri il distretto di Lódz e la provincia di Posen), poi la restante parte degli ebrei dell'Europa occidentale, poi della Slovacchia, Jugoslavia, Boemia, Moravia, Grecia, Ungheria.

4. In ognuna di queste fasi dello sterminio degli ebrei, la procedura di applicazione fu diversificata: fucilazioni sommarie in Unione Sovietica; eliminazione entro camion a gas e conseguente sepoltura (seguita da una fase di cremazione a cielo aperto dei cadaveri) nel Wartheland; gassazioni con impianti fissi e sepoltura (anche in questo caso seguita da cremazione a cielo aperto) nel Governatorato generale; gassazione con impianti fissi e cremazione dei corpi con impianti appositamente costruiti in Alta Slesia presso il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.

5. Il passaggio dalla fase delle fucilazioni sommarie a quello dell'uso del gas fu fortemente influenzato dallo sviluppo della politica tedesca di eliminazione degli individui portatori di handicap. La politica razzista ed eugenetica, rivolta contro le cosiddette "vite che non meritano di essere vissute" ed eufemisticamente chiamata di eutanasia, era in realtà una politica di assassinio. Il progetto, denominato Operazione Eutanasia o T4, attivo dal 10 settembre 1939, fu sospeso ufficialmente il 24 agosto 1941 e portato avanti in segreto, sotto il nome di 14F13, per eliminare i prigionieri dei lager giudicati inguaribili o troppo debilitati. Il gas utilizzato per dare la "morte misericordiosa" era il monossido di carbonio, confezionato in boccette. L'assassinio avveniva in speciali centri "sanitari" dove il "malato" era introdotto in un locale di piccole dimensioni camuffato da doccia. Dai fori di una tubatura che correva lungo la base usciva il gas asfissiante, introdotto dall'esterno da un medico. Il programma di eutanasia fu, sia dal punto di vista amministrativo, sia da quello tecnico, la prefigurazione della gassazione di massa degli ebrei nel quadro della "soluzione finale".

6. Le date relative a ognuna delle fasi del processo decisionale di sterminio degli ebrei d'Europa sono ancora in discussione da parte della comunità degli storici. Al contrario, salvo qualche dubbio per Auschwitz, sono note le date d'inizio di ognuna delle procedure di sterminio: in Urss fu avviata nel luglio o nell'agosto del 1941; nel Wartheland (Polonia) nel dicembre del 1941; nel Governatorato generale (Polonia) nel marzo del 1942; in Alta Slesia (Polonia) nel gennaio-febbraio del 1942.

7. I luoghi prescelti per l'attuazione dello sterminio di massa furono quelli ad alta concentrazione ebraica e travolti dall'avanzata dell'esercito tedesco: in territorio sovietico a est del fiume Bug; nel Wartheland il castello abbandonato di Chelmno, sul fiume Ner; nel Governatorato generale i campi appositamente costruiti di Treblinka, Sobibór, Belzec (parzialmente anche Majdanek); in Alta Slesia il campo di concentramento e di lavoro di Auschwitz.

8. La prima fase in Urss si distingue dalle successive per aver avuto un teatro mobile del massacro, nel senso che furono gli assassini ad andare verso le vittime e a ucciderle nei luoghi stessi delle loro residenze, mentre in Polonia si verificò il contrario. Gli impianti di sterminio divennero stabili e l'organizzazione prevedeva che fossero le vittime a essere trasportate dal luogo della loro residenza verso il luogo di sterminio.

9. Tra la fase delle fucilazioni sommarie e quella degli impianti fissi di sterminio ce ne fu un'altra, ancora poco studiata, durante la quale furono posti in uso i camion a gas. Si conosce relativamente bene solo quella applicata nel castello di Chelmno, ma altri furgoni di questo genere furono messi in funzione su vari scenari del teatro di guerra.

10. All'interno dei poteri forti dello stato nazista, l'incarico di attuare la politica di sterminio in ognuna delle quattro fasi sopra elencate al punto 3. fu assegnato alla potente organizzazione poliziesca denominata RSHA, acronimo di Reichssicherheitshauptamt, Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, al cui vertice stava Heinrich Himmler, capo supremo delle SS e della polizia del Reich.

11. All'idea iniziale dello sterminio totale subentrò, nel luglio del 1942, l'idea di sfruttare parzialmente la forza-lavoro degli ebrei deportati; fu allora che fu introdotta la pratica della selezione tra abili e inabili al lavoro; i primi, in ragione di circa il 20% del totale, furono destinati al lavoro schiavistico, i secondi all'assassinio immediato.

12. Sussidiaria al progetto di sterminio, ma a esso intrinsecamente organica, fu la spoliazione totale dei beni materiali degli assassinati, nel senso che tutto venne confiscato per poi essere riciclato. Con tutto, si intende non solo gli averi ma anche quelle parti del corpo degli assassinati che potevano venire riutilizzate, come capelli, denti d'oro, protesi sanitarie. La merce rapinata veniva accuratamente recuperata, suddivisa, pulita, stoccata, registrata, valutata e messa a disposizione dell'economia del Reich.

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Lager e gulag: quale comparazione?

di Giovanni Gozzini


Ogni tentativo di rispondere alle domande circa la possibilità di comparare l'universo concentrazionario nazista e quello sovietico deve affrontare due problemi preliminari. Il primo è rappresentato dall'apertura, solo recente, degli archivi ex sovietici: ne deriva, infatti, un considerevole divario tra i risultati raggiunti dal lavoro di raccolta della documentazione e dal dibattito storiografico nei due diversi ambiti di ricerca. L'approccio comparativo sconta così un inevitabile squilibrio che contribuisce a rendere particolarmente provvisorie le proprie acquisizioni.

Il secondo problema riguarda invece la messa in discussione di uno dei paradigmi interpretativi che tuttora occupano lo spazio del dibattito dedicato al tema dello sterminio nazista: quello della sua unicità. Nei suoi termini classici, questa posizione è stata formulata dallo storico tedesco Eberhard Jäckel:

L'assassinio nazista degli ebrei rimane incomparabile perché mai in precedenza uno stato, attraverso l'autorità dei propri leader responsabili, ha deciso e annunciato lo sterminio totale di un certo gruppo di persone, compresi i vecchi, le donne, i bambini, i neonati e tradotto in pratica questa decisione con l'uso di tutti i possibili strumenti di potere a disposizione dello stato.

È difficile non notare la forzatura della realtà implicita in una asserzione così assoluta: dall'Armenia, alla Cambogia, al Rwanda, il Novecento è tragicamente ricco di esempi di "pulizia etnica" che nelle intenzioni e nei risultati ricordano da vicino il caso nazista. Ma a conferire forza al postulato della singolarità di Auschwitz è il timore di una possibile equazione tra storicizzazione e relativizzazione (quindi attenuazione) dei delitti nazisti: l'incommensurabilità del male commesso intrattiene un rapporto reciproco con l'impossibilità di confrontarlo. A ben vedere, quindi, la proclamazione dell'unicità di Auschwitz serve a trasformare il fatto storico in monumento, a conferirgli il valore simbolico di uno standard negativo, la cui unica possibile spiegazione oggettiva risiede nel punto di vista soggettivo delle vittime che vi erano destinate. Solo la memoria dei testimoni, cioè, può restituirci la verità del male radicale – nel doppio senso di sofferenza e malvagità – da essi soltanto sperimentato. Estratto dalla storia e collocato sul piedistallo dei simboli universali, Auschwitz diventa qualcosa di sacro ma nello stesso tempo anche di sterile, un totem e nello stesso tempo un tabu: l'uomo qualunque può separarlo da sé, relegarlo tra i "mostri" di una realtà aliena che non gli appartiene e non lo coinvolge. Lo stesso termine che siamo abituati a usare quando parliamo dello sterminio nazista, "Olocausto", riflette un messaggio particolare fatto di unicità e di mistero: di lontananza. Com'è noto, questo termine (che indica la pratica, diffusa tra i popoli pastori dell'antichità, di offrire alla divinità una vittima sacrificale bruciandola completamente nel fuoco in segno di ringraziamento o di riconciliazione) è del tutto assente nel sostantivo ebraico di cui dovrebbe pur essere la traduzione: Shoah, cioè "distruzione". Si tratta quindi di una terminologia impropria, di una deviazione non indifferente dal significato originario, che tende a relegare lo sterminio nazista nel regno mitologico della sacralità unica e inspiegabile: «Un evento misterioso», per usare le esplicite parole di uno studioso americano, «un miracolo rovesciato, per così dire, un evento di portata religiosa nel senso che non è opera dell'uomo, almeno nel significato comune del termine».

Come si vede, dal postulato dell'unicità al postulato dell'incomprensibilità il passo è breve. A seguire questo modo di pensare, infatti, Auschwitz, in quanto evento-limite della storia umana, è destinato a rimanere «una terra di nessuno della comprensione, una scatola nera della spiegazione, un vuoto di significato extrastorico». La rinuncia pregiudiziale alla comparazione si risolve così in una sorta di disarmo unilaterale dello storico che confessa la propria impotenza a comprendere e a spiegare (e di conseguenza a combattere). Come di fronte al fuoco scatenato dal fulmine, la mitizzazione religiosa serve all'umanità per risolvere la propria impotenza, per riappropriarsi in qualche modo di quanto non riesce a dominare. Il rapporto fra l'uomo e la divinità annulla, o quantomeno lascia sullo sfondo, il rapporto fra l'uomo e i suoi simili, cioè la responsabilità terrena e concreta di chi all'Olocausto ha posto mano di propria volontà. L'intenzione sacrosanta di restituire onore e dignità alle vittime rischia di conferire alla "distruzione" un senso provvidenzialistico che, alla pari di ogni altro sacrificio, sembra implicare la necessità e il merito catartico della sofferenza ricondotta a un Dio terribile e imperscrutabile, e che assegna al popolo ebraico il ruolo eletto di capro espiatorio, pronto ad assumere su di sé e a riscattare il male del genere umano.

In realtà il postulato della incomparabilità della Shoah appartiene alla dimensione mitopoietica della costruzione di "verità" alimentate dalla memoria e strumento formativo di identità collettive: una dimensione che poco ha a che fare con la ricerca storica. Per sua stessa natura, la memoria è portata a singolarizzare il passato e ad assolutizzare il proprio punto di vista soggettivo: per lo storico rappresenta quindi una fonte cruciale (l'unica in grado di restituire lo spessore di vita dell'esperienza diretta) ma, in quanto tale, solo uno dei diversi strumenti a disposizione per una ricostruzione più ampia che vada al di là del ricordo dei testimoni.

In modo particolare questa tensione tra storia e memoria emerge sul piano dell'analisi e della spiegazione causale degli eventi. Spesso la memorialistica dei sopravvissuti al lager (e al gulag) collega la singolarità della propria esperienza a una spiegazione monocausale del male sofferto: l'inumana crudeltà dei carnefici. Ha scritto Primo Levi:

Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l'autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, e insieme, ci porta sollievo.

Eppure lo stesso Primo Levi, dieci anni dopo, descrive in termini radicalmente diversi i propri aguzzini: «Erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso». In modi e tempi diversi la ricerca storiografica sugli universi concentrazionari del nostro secolo ha vissuto la stessa evoluzione. La generazione di storici che domina la scena nell'immediato dopoguerra (Friedrich Meinecke in Germania, Benedetto Croce in Italia) interpreta la dittatura come il prodotto di forze demoniache estranee alla civiltà occidentale. Questa visione "parentetica" di un passato scabroso appena trascorso gode allora di grande fortuna perché probabilmente è la più idonea per un pubblico che ha bisogno di rinascere, di allontanare in un'altra galassia il racconto del male e di tornare prima possibile alla rassicurante convinzione di vivere in un mondo diverso, più civile, dove quelle cose non potranno più accadere. Concentrare le responsabilità sui pochi "mostri alieni" che sono stati dirigenti dei passati regimi significa chiudere l'inquietante pagina della "zona grigia" di connivenze estesa a una fascia ben più ampia di popolazione ed eludere il nodo politico-istituzionale dell'epurazione. Come già allora scrive Hannah Arendt, sono troppi i padri di famiglia che, per difendere la propria sicurezza, hanno accettato di non vedere, non sentire, non parlare.

Con il ritardo che deriva dalla situazione di inaccessibilità delle fonti, anche la sovietologia angloamericana è a lungo dominata da una generazione (Robert Conquest, Richard Pipes) che condivide una visione dello stalinismo come «dittatura monolitica e unitaria, la cui esistenza è fondata sul terrore»: un terrore la cui origine risiede nella crudeltà dei governanti. A ben vedere, questo tipo di approccio si fonda sulla combinazione di un doppio paradigma interpretativo interamente mutuato dalla storiografia sul nazismo e sulla Shoah: il cosiddetto "paradigma intenzionalista" che riconduce lo sterminio degli ebrei alla coerente e immutabile volontà omicida di Hitler, da un lato, e il paradigma del totalitarismo che assimila le popolazioni civili tedesca e sovietica a masse amorfe, atomizzate e soggiogate dalla violenta coercizione poliziesca esercitata dai rispettivi regimi, dall'altro. Nazismo e stalinismo vengono così identificati come sistemi politici che ricorrono al terrore non solo come mezzo per la vittoria sugli avversari politici ma anche come metodo di governo. L'universo concentrazionario di lager e gulag rappresenta lo specchio deformato di moltitudini "libere" private dei diritti individuali e di ogni possibilità di scelta, piegate all'obbedienza e costrette alla sospensione della propria coscienza umanitaria. Paradigma intenzionalista e paradigma del totalitarismo convergono nello scagionare le popolazioni civili da ogni corresponsabilità con le politiche seguite dalle istituzioni che le hanno governate. Sulla base del principio che solo una piccola parte di tedeschi è stata nazista, il cancelliere Adenauer può ricostruire l'identità di una Germania Federale tanto più necessaria per l'Occidente quanto più la guerra fredda divide il mondo; sulla base della categoria di "culto della personalità" la destalinizzazione avviata da Chruscev può delimitare le colpe al "mostro" Stalin, conservando il potere degli uomini e delle istituzioni che Stalin hanno servito.

Questi stereotipi demonizzanti hanno fatto il loro tempo. La generazione dei padri di famiglia appartenenti alla "zona grigia" e colpevoli di omissione si avvia al tramonto; la guerra fredda con i suoi obblighi di schieramento e demonizzazione è finita. È maturo il tempo per una riflessione storiografica più pacata e approfondita. Uno dei maggiori storici del nazismo, Martin Broszat, con argomentazioni applicabili anche allo stalinismo, sostiene:

Alla luce di nuove catastrofi e atrocità l'epoca nazista ha perso molto della sua singolarità e ci rimane solo un bagaglio di convinzioni, tanto salde quanto vaghe, che non hanno più una forza morale. Immagini come quella del "nazismo regno del terrore" sono diventati stereotipi stanchi e solo una nuova, più profonda, analisi storica può renderli di nuovo moralmente utili.

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Nel movimento nazista l'adozione della violenza come strumento di lotta politica rappresenta una scelta programmatica e identitaria discriminante, che si traduce nell'organizzazione di una milizia paramilitare di partito. Secondo un copione già sperimentato con successo in Italia da Mussolini, la conquista nazista del potere segue una strategia del doppio binario: il credito di rispettabilità che Hitler riscuote nell'establishment politico e finanziario si fonda anche sull'opera di intimidazione quotidiana svolta da SS e SA, entrambe create all'inizio degli anni venti. Diretta principalmente contro comunisti e socialdemocratici, la loro mobilitazione crea il caos e la richiesta d'ordine da parte delle maggioranze silenziose. Al tempo stesso accresce il potere negoziale di Hitler come l'unico politico in grado di esercitare un'autorità su queste frange violente. La milizia di partito svolge un'azione di propaganda attraverso la pratica concreta dei propri obiettivi (in primo luogo la lotta ai presunti nemici del Reich) ed è quindi strumento di un contropotere nazista esercitato dal basso: offre un'immagine di efficienza e di forza, mentre rompe i confini normali della legalità ed espone tutti alla minaccia di una forza senza remore e senza rivali. «Ogni comizio che è protetto esclusivamente dalla polizia» scrive Hitler nel Mein Kampf «scredita agli occhi della massa coloro che lo organizzarono». Ma SA e SS rappresentano anche l'immagine vivente del nuovo stato razziale, centro del progetto politico nazista: una élite di giovani scelti in base alla purezza del sangue e dei tratti somatici, uniti da un codice d'onore e da una struttura di tipo militare ma anche da riti e simboli di tipo religioso. Queste organizzazioni rispondono a uno schema esoterico, di comunità degli eletti, che fonda la propria superiorità sulla capacità di dominare sentimenti normali ed eseguire compiti impossibili ai più: l'esercizio della violenza contro gli avversari assume un valore iniziatico, il crimine fa parte di una strategia di identificazione, rafforza e rende irreversibile l'identità di appartenenza. È lo stesso Himmler a spiegare meglio di tutti, in un discorso destinato a rimanere segreto, la logica omertosa di una missione superumana e antietica che lega il primo crimine pubblico delle SS (il massacro delle SA nella Notte dei lunghi coltelli del 30 giugno 1934) con lo sterminio degli ebrei: il tempo di "pace" con il tempo di guerra.

Qui davanti a voi voglio ricordare in tutta franchezza un'altra questione molto difficile. Almeno una volta è necessario parlarne apertamente tra noi e nello stesso tempo osservare il più rigoroso silenzio in pubblico. Non abbiamo esitato il 30 giugno 1934 a compiere il dovere che ci era stato ordinato, di mettere al muro e fucilare i camerati che avevano sbagliato; non abbiamo esitato a non parlarne mai in tutto questo tempo e in futuro. Grazie a Dio, il silenzio mantenuto tutti insieme è una verità consacrata dal tempo e da noi posseduta. Ognuno di noi è rabbrividito e però ognuno ha avuto chiaro che questo era il prossimo segno da dare di nuovo, il segno che ci era ordinato e che era necessario. Mi riferisco alla evacuazione degli ebrei, allo sterminio del popolo ebraico. Sono cose di cui si parla con facilità: «Il popolo ebraico viene sterminato», dice qualsiasi membro del partito, «è chiaro, fa parte del nostro programma». E poi arrivano tutti, i nostri bravi 80 milioni di tedeschi, e ognuno porta l'ebreo che gli sta a cuore. D'accordo, gli altri sono maiali, ma questo è un ebreo di qualità migliore. Di tutti quelli che parlano così nessuno c'è stato, nessuno è stato presente. La maggior parte di voi sa cosa significa un mucchio di 100 cadaveri, di 500, di mille cadaveri. Aver sopportato tutto ciò e, eccezion fatta per umane debolezze, essere rimasti persone decenti, è ciò che ci ha reso duri. Questa è una pagina gloriosa della nostra storia che non è mai stata scritta né mai lo sarà.

Il prerequisito di un'ideologia della violenza rende automatica e scontata la pratica di luoghi di tortura riservati ai nemici. Fin dal marzo 1933 Himmler, che il nuovo regime ha messo a capo della polizia di Monaco, annuncia l'istituzione di un «campo di concentramento per prigionieri politici» nella vicina cittadina di Dachau.

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A differenza della Germania, la Russia conosce una tradizione di provvedimenti amministrativi (non ratificati da sentenze giudiziarie) di condanna alla deportazione e al lavoro forzato nelle terre desolate della Siberia, che risale al tempo degli zar: molti dei leader bolscevichi, da Lenin a Stalin, ne hanno fatto personale esperienza. Ma la violenza non assume nel movimento comunista russo la stessa centralità che ha in quello nazista. I bolscevichi rompono radicalmente con le consuetudini terroristiche di molti gruppi antizaristi e nell'ambito della sinistra rivoluzionaria russa non sono gli unici a organizzare "guardie rosse" armate a difesa del movimento, la cui struttura militare appare peraltro assai meno evidente e curata di quanto non accada nel partito nazista. Il ricorso alla violenza contro gli oppositori si configura come una scelta sistematica solo dopo lo scioglimento d'autorità dell'Assemblea costituente nel gennaio 1918 e si accompagna alla crescente consapevolezza di combattere una battaglia di minoranza contro i poteri forti dell'economia e della società: circostanza, quest'ultima, che differenzia in modo decisivo l'esperienza sovietica da quella nazista. Da un lato, perciò, la violenza antidemocratica viene fatta valere come dura necessità dettata dalle circostanze; dall'altro, appare la necessaria conseguenza della dottrina marxista della "dittatura del proletariato": fase transitoria di consolidamento del potere rivoluzionario contro le resistenze del mondo borghese. Di questa logica da "comunismo di guerra" è possibile trovare una formulazione esemplare nel rapporto svolto da Lenin a nome del Comitato centrale all'XI congresso del partito nel marzo 1922:

L'idea di costruire la società comunista con le mani dei comunisti è puerile [...] I comunisti sono una goccia d'acqua nel mare, una goccia d'acqua nel mare del popolo [...] Potremo dirigere l'economia soltanto se i comunisti sapranno costruire questa economia con le mani altrui e nello stesso tempo impareranno dalla borghesia e le faranno seguire il cammino da loro voluto [...] Rendere innocuo lo sfruttatore, dargli un colpo sulle mani, ridurlo al lumicino è l'aspetto meno importante del lavoro. Però bisogna farlo. E la nostra GPU e i nostri tribunali debbono farlo, e non nel modo fiacco come è stato fatto finora; essi devono ricordare di essere dei tribunali proletari, attorniati da nemici in tutto il mondo. Questo non è difficile e in generale l'abbiamo imparato. In questo campo bisogna esercitare una certa pressione e non è cosa difficile farlo. L'altro aspetto della vittoria – costruire il comunismo con mani non comuniste, saper fare praticamente ciò che è necessario nel campo economico – consiste nel trovare un legame con l'economia contadina, soddisfare i bisogni dei contadini in modo che il contadino dica: «Per quanto difficile, penosa e straziante sia la fame, vedo tuttavia che questo potere, sebbene non sia quello solito, dà vantaggi pratici che si possono realmente toccare con mano».

In ossequio a tale logica già nel dicembre 1917 è stata creata la CEKA (una polizia politica straordinaria alle dipendenze del Comitato militare rivoluzionario di Pietrogrado) che nel febbraio 1922 viene sciolta e sostituita da un apposito dipartimento di lavoro del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD, sigla di Narodnyi Komissariat Vnutrennykh Del): la GPU. La prima menzione di "campi di concentramento" risale all'estate 1918 – in concomitanza dell'attentato a Lenin e del pieno avvio della guerra civile – quando il commissario del popolo alla guerra, Trockij, ne propone l'istituzione come misura deterrente nei confronti dei renitenti alla leva militare nelle file dell'Armata Rossa.

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Mentre il lager nazista individua con precisione i propri detenuti sulla base di discriminanti prima politiche e poi razziali, il campo sovietico accoglie una tipologia multiforme di "nemici del popolo", diretta conseguenza della sindrome di accerchiamento del nuovo regime rivoluzionario. La dittatura hitleriana infatti non si scontra né con una particolare opposizione da parte dei tradizionali centri di potere dell'economia e della società tedesca, né con un'ostilità delle altre nazioni. Attraverso la gestione del sistema Schutzhaft-Lager la milizia di partito incarnata dalle SS conduce il "lavoro sporco" di normalizzazione degli avversari dell'ordine costituito e, al tempo stesso, penetra nella macchina statale sotto il segno distintivo di un'alterazione profonda delle regole della convivenza civile, che evita tuttavia di coinvolgere la vita quotidiana della maggioranza dei tedeschi. Una legislazione di emergenza divenuta permanente configura la Germania nazista come un "doppio stato" dove, accanto allo stato normativo che formalmente conserva alcune parvenze dello stato di diritto, si impone uno stato discrezionale, diretto e realizzato da militanti liberi da vincoli legali e fedeli unicamente al credo ideologico della cieca obbedienza ai loro capi. Dal giugno 1936 Himmler unifica le cariche di capo delle SS e di capo della polizia tedesca, sviluppando alle proprie dirette dipendenze un apparato armato di spionaggio e repressione (che nel 1939 arriva a contare 240 000 unità) parallelo e teoricamente subordinato al ministro dell'interno, Wilhelm Frick, ma in realtà del tutto autonomo. Nel settembre 1939 Himmler crea un Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, che riunifica tutti gli organismi di polizia: la sezione IV dell'Ufficio incorpora la GESTAPO (la polizia segreta di stato creata nel 1933) e riserva un apposito reparto (nella sottosezione dedicata ai territori occupati) al problema dell'emigrazione, la cui direzione viene assegnata ad Adolf Eichmann, il maggiore delle SS destinato a diventare il responsabile dell'Ufficio per la questione ebraica.

Viceversa, il consolidamento del governo sovietico avviene sotto la minaccia della guerra civile e sconta una condizione di isolamento che spinge verso la creazione di un sistema repressivo più generalizzato e indistinto, incaricato di coprire tutti i settori della società. Nasce di qui una delle maggiori peculiarità storiche dell'universo concentrazionario sovietico: l'essersi progressivamente rivolto, a differenza del lager nazista, verso un'opera di epurazione interna della propria popolazione. Le modalità di costruzione del doppio stato appaiono simili a quelle naziste (legislazione di emergenza, polizia politica straordinaria) ma si accompagnano a un più radicale processo di rifondazione costituzionale che sconta un'ostilità ambientale assai maggiore. Non per caso un altro aspetto che fin dagli esordi distingue i campi sovietici è la centralità del lavoro produttivo, cui l'ideologia assegna un ruolo cruciale di rifondazione del patto sociale e di rieducazione dei soggetti controrivoluzionari. Un decreto del gennaio 1918 orienta in tal senso l'intera gestione delle carceri e l'amministrazione dei campi delle Soloveckie utilizza, a partire dal 1926, il lavoro forzato dei detenuti per soddisfare contratti di produzione per altri organismi statali: il campo di concentramento acquista così una propria collocazione organica (e non residuale) nel progetto complessivo di rifondazione in senso sovietico della società russa.

Nella ricerca storiografica sul sistema sovietico, paradigma intenzionalista e paradigma totalitario hanno definito interpretazioni opposte (ma speculari) del problema dei rapporti tra Lenin e Stalin. La prima si appoggia al cosiddetto "testamento" di Lenin, che consiglia al partito di rimuovere Stalin dall'incarico di segretario generale, per circoscrivere al culto della personalità introdotto da quest'ultimo una degenerazione autoritaria che stravolge i contenuti originari della rivoluzione. La seconda istituisce un nesso deterministico di continuità assoluta e obbligata tra i due. In realtà, seppure costituisca un aspetto originario e strutturale del regime nazista come di quello sovietico, l'universo concentrazionario non rimane sempre uguale a se stesso né in Germania né in Urss: conosce invece un'evoluzione che riflette da vicino le scelte razionali messe in atto dai gruppi dirigenti dei due regimi per reagire alle congiunture della politica nazionale e internazionale. Su questa evoluzione esercitano un peso costante le diverse condizioni in cui quei gruppi dirigenti hanno conquistato e mantenuto il governo. Gulag e lager non appartengono al regno irrazionale della crudeltà umana; costituiscono strumenti di gestione del potere.

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Alla luce di questa importanza diretta e indiretta dell'universo concentrazionario, non appare convincente l'argomentazione così largamente diffusa, secondo cui la differenza fondamentale tra comunismo e nazismo risiede nelle intenzioni: laddove il primo avrebbe tentato di realizzare con mezzi "cattivi" un fine "buono" (l'uguaglianza), il secondo, invece, avrebbe tentato di realizzare un fine intrinsecamente "cattivo" (lo stato razziale). È stata questa, per molto tempo, l'argomentazione degli storici più contrari all'uso della categoria di totalitarismo e alla possibilità di una comparazione tra nazismo e stalinismo.

A me pare invece che la predisposizione, condivisa da numerosi esecutori e non solo da pochi mandanti, a utilizzare mezzi "cattivi" sia in relazione proprio alla grandezza (quale essa sia) del fine proposto. Da un lato, quella predisposizione corrisponde quindi all'asservimento dei meccanismi istituzionali e dei codici giuridici a una ideologia assoluta, secondo la quale i cittadini non possono più essere considerati tutti uguali di fronte alla legge ma vanno distinti tra "amici" e "nemici" della rivoluzione; dall'altro, rappresenta la manifestazione paradossale di una razionalità burocratica moderna, abituata a identificarsi totalmente con "l'azienda" cui si appartiene e a posporre la morale rispetto al successo tecnico: la razionalità di un mondo nel quale la deresponsabilizzazione dei soggetti procede parallela alla divisione e separazione delle loro mansioni.

Al tempo stesso, proprio l'episodio del Generalplan Ost mette in evidenza una differenza sostanziale: il sogno di grandezza nazista si nutre di propositi espansionistici su scala europea, volti ad affermare una supremazia tedesca di tipo razziale nei confronti delle popolazioni dell'Est europeo. Nel novembre 1938 il pogrom della Notte dei cristalli avvia un mutamento irreversibile di funzioni e dimensione dei lager nazisti in Germania e in Austria: il numero totale di detenuti sale bruscamente da 10 000 a 60 000, per la prima volta sulla base di un esplicito e univoco criterio razziale, che colpisce principalmente gli ebrei. Alla fine della guerra gli internati tedeschi nei lager saranno meno del 5%.

Finora si era pensato che questa dimensione razziale, nazionalistica, espansionistica e coloniale rimanesse sostanzialmente estranea all'impianto del gulag staliniano e al Grande Terrore degli anni trenta, riconducibili a una logica tutta interna di epurazione in difesa della rivoluzione. In realtà i nuovi dati che emergono dall'aggiornamento costante della ricerca storiografica sul regime sovietico sottolineano con forza due elementi. Il primo è il ruolo diretto e personale esercitato da Stalin nella formulazione dei criteri repressivi e nella verifica della loro applicazione. Questa potente centralizzazione dell'apparato concentrazionario sembra smentire l'idea, avanzata da alcuni storici "revisionisti", di un "terrore dal basso" esercitato in forma caotica e incontrollata: qualcosa di simile all'ipotesi interpretativa della «radicalizzazione cumulativa» che è stata proposta come possibile spiegazione dello sterminio nazista.

Il secondo elemento è quello del meccanismo delle "quote". A partire in modo particolare dalla collettivizzazione forzata dei primi anni trenta, il centro del regime sovietico impartisce alle amministrazioni periferiche obiettivi da raggiungere in termini di detenuti e giustiziati per ciascuna delle categorie da colpire: controrivoluzionari, kulaki, ma anche dal 1937 "nazionalità della diaspora", cioè minoranze nazionali legate a stati stranieri. In base a queste direttive centinaia di migliaia di famiglie vengono deportate e recluse (per i bambini è previsto l'internamento in appositi orfanotrofi da approntare per l'occasione), il capofamiglia condannato alla pena capitale. Il nemico della rivoluzione viene quindi individuato secondo meri criteri di appartenenza etnica (con un'estensione automatica delle sue colpe ai familiari) e il terrorismo repressivo è utilizzato esplicitamente come test di efficienza della macchina statale, all'interno di un quadro di pianificazione e di colossale ingegneria sociale. In qualche modo un precedente significativo di questa "categorizzazione" e scomposizione sistematica della popolazione può essere considerato la cosiddetta "decosacchizzazione": quando, nel contesto della guerra civile tra il 1919 e il 1920, viene deportata e in parte uccisa sul posto una minoranza consistente della popolazione cosacca nella regione del Don (da 300 000 a 500 000 persone su un totale di tre milioni). La qualifica di cosacco si sovrappone allora a quella di alleato delle armate bianche e di ricco proprietario terriero, dando luogo a una persecuzione di «nemici della rivoluzione» che talvolta si estende alla devastazione di interi villaggi e alla espulsione in massa della popolazione (compresi vecchi, donne e bambini).

Questa sovrapposizione torna a manifestarsi più tardi, quando il rapporto tenuto da Stalin al comitato centrale del PCUS il 3 marzo 1937 collega la teoria dell'inasprimento della lotta di classe nella società socialista, che rappresenta il fondamento dottrinario del Grande Terrore, a un forte rilancio dell'idea di una patria accerchiata da potenze ostili: ne deriva una psicosi della "quinta colonna" che verrà tradotta in pratica nel teatro della guerra civile spagnola. Eppure i dati che possediamo sulla composizione etnica degli internati nei gulag tra il 1937 e il 1940 (in raffronto alle percentuali che formano il mosaico delle nazionalità sovietiche) mostrano una particolare presenza di russi rispetto ad altri gruppi (ebrei, ucraini, bielorussi, polacchi, tedeschi, armeni, lettoni) e tendono quindi a escludere una pratica sistematica di persecuzione nei confronti delle minoranze non russe. Tuttavia, in conseguenza dell'attacco nazista il Cremlino ordina alla fine del giugno 1941 la condanna al lavoro forzato di interi gruppi nazionali (tedeschi, finlandesi e romeni) che nell'estate 1944 vanno a comporre un totale di circa 400 000 internati, considerati nemici alla stregua dei loro connazionali residenti fuori dei confini dell'Urss. Gli stessi dipendenti del NKVD preposti alla gestione dei gulag che appartengono a queste nazionalità vengono epurati e imprigionati nei campi. Nel quadro della drammatica ritirata sovietica poco meno di mezzo milione di tedeschi del Volga sono deportati in zone della Siberia che gli stessi rapporti del NKVD definiscono impreparate ad accogliere la massa di prigionieri. Ma ancora nell'inverno 1943-1944, quando le sorti della guerra sembrano ormai volgere al meglio, altri gruppi etnici subiscono la stessa sorte in via di rappresaglia: ceceni, ingusci, tatari, calmucchi, bulgari, greci e armeni (per un totale stimato di oltre 900 000 persone) vengono accusati di collaborazionismo col nemico nazista e deportati in Siberia, in Kazakistan e in altre regioni dell'Urss.

Nella strategia repressiva staliniana, quindi, la sovrapposizione di criteri etnici e criteri politici non appare soltanto come la risposta sommaria a una situazione di emergenza determinata dalla guerra; è anche il frutto di un disegno organico derivante dall'ideologia ufficiale. La persecuzione fisica, quantificata in quote, entra a far parte della routine burocratica e di un modo d'essere e di operare della macchina statale: a differenza di quanto accade in Germania, l'universo concentrazionario sovietico sopravviverà alla morte del dittatore. Talvolta, per conseguire i propri scopi, l'azione terroristica di stato non rinuncia a incoraggiare e sfruttare deliberatamente l'odio razziale: come risulta evidente nel caso del "complotto dei medici ebrei" che la stampa di partito propaganda con ampiezza negli ultimi mesi di vita di Stalin.

Rimane tuttavia il fatto che, a differenza del lager, il gulag è essenzialmente finalizzato a un'opera di repressione interna (spesso indirizzata contro i vertici dello stato e del partito): una differenza che rinvia a caratteri costitutivi dei due regimi. Mentre Hitler è il fondatore e l'indiscusso interprete del nazismo, Stalin conquista il potere assoluto dopo una dura battaglia combattuta nel gruppo dirigente sovietico, nel corso della quale l'aspro dibattito sulla linea politica si mescola alle accuse personali. Nel decennio compreso tra la Notte dei lunghi coltelli e il fallito attentato al Führer del luglio 1944 il gruppo dirigente nazista osserva invece una sostanziale tregua interna. L'autorità carismatica di Hitler incoraggia la competizione tra i suoi sottoposti ma la fedeltà al capo rappresenta uno dei capisaldi dell'ideologia di regime e garantisce la continuità organica di una catena di comando, che si nutre anche della "radicalizzazione cumulativa" frutto dello zelante spirito di emulazione dei militanti. Nel gennaio 1941 il capo della Polizia di sicurezza Reinhardt Heydrich formalizza le gerarchie dell'universo concentrazionario nazista. Dachau e Auschwitz I (aperto dal maggio 1940) sono considerati campi di concentramento di primo livello, con scopi di rieducazione. Buchenwald, Flossenbürg e Auschwitz II (iniziato a costruire nell'ottobre 1941 a Birkenau) costituiscono lager di secondo livello destinati a casi più "gravi". Al terzo livello, più duro e destinato agli "irrecuperabili", appartengono invece altri lager come quello di Mauthausen, che con il decreto "Notte e Nebbia" del dicembre 1941 si aprono a tutte le persone «pericolose per la sicurezza dei tedeschi» nei paesi occupati dal Reich.

Ma la guerra contro l'Unione Sovietica sollecita energie nuove nel campo della "pulizia" delle retrovie del fronte orientale da ebrei, oppositori e prigionieri di guerra particolarmente pericolosi (come i commissari politici dell'Armata Rossa): in periferia si avviano iniziative che sconvolgono il quadro disegnato a tavolino da Heydrich. La famosa conferenza di Wannsee, che si tiene nel gennaio 1942, si limita a coordinare le diverse iniziative locali maturate in tale contesto: dalle fucilazioni di massa delle Einsatzgruppen (i reparti delle SS al seguito dell'avanzata in territorio russo) ai gaswagen (i camion a tenuta stagna che utilizzano i gas di scarico del motore) impiegati dal dicembre 1941 a Chelmno, alle camere a gas sperimentate nello stesso periodo da Höss ad Auschwitz II. Utilizzando personale e competenze formatisi nell'esecuzione dell'Operazione Eutanasia riservata ai cittadini tedeschi "incurabili", alcuni lager posti in territorio polacco (oltre a Chelmno e Auschwitz II, Treblinka, Belzec, Sobibór, Majdanek) attivano strutture permanenti per la morte di massa attraverso gas asfissianti. L'uso di una tecnologia complessa finalizzata allo sterminio e allo smaltimento dei cadaveri (camere a gas e forni crematori) costituisce così una peculiarità dell'universo concentrazionario nazista e della sua efficienza ordinata, moderna e burocratica, che non trova riscontri nei gulag sovietici, dove le procedure per la morte di massa sono più rozze e tradizionali (torture, esecuzioni capitali, privazioni e logoramento attraverso il lavoro).

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Viceversa, nell'universo concentrazionario sovietico l'ideologia del lavoro svolge un ruolo originario e determinante. Dal 1929 tutte le pene detentive superiori a tre anni devono essere scontate nei campi di lavoro forzato: nelle regioni del Nord viene allestita una rete di nuovi campi speciali, che alla fine del 1930 contengono più di 40 000 prigionieri. Si tratta di una misura che intende risolvere il problema del sovraffollamento e delle spese crescenti delle carceri ordinarie, ma che corrisponde anche a un intendimento più generale del regime: in un discorso del febbraio 1931 Stalin lancia una sorta di ultimatum al paese, fissando in dieci anni l'arco di tempo entro il quale la nuova Urss può vincere la sfida economica con l'Occidente oppure soccombere. Nell'agosto 1932 la Legge sulla difesa delle proprietà di stato condanna a morte o a dieci anni di lavori forzati chiunque danneggi la produzione di fabbrica e il raccolto dei campi: in base a essa nel giro di quattro anni più di 120 000 persone vengono condannate al lavoro forzato. La nuova costituzione del 1936 formalizza il principio secondo cui ogni cittadino è tenuto a svolgere un lavoro socialmente utile: l'universo concentrazionario parallelo alle carceri ne risulta integrato a pieno titolo nell'architettura dello stato sovietico, perdendo quel carattere di emergenza e di duplicità parallela che invece continua ad avere sotto il regime nazista.

Dal 1930 la sezione del NKVD che se ne occupa assume la denominazione di Glavnoe Upravlenie Lagerei ("Amministrazione centrale dei campi"), il cui acronimo gulag diverrà universalmente noto. A metà degli anni trenta l'universo concentrazionario sovietico assume la complessa fisionomia che rimarrà sostanzialmente inalterata nel ventennio successivo. Le carceri ordinarie rappresentano il luogo di detenzione dei condannati minori (a pene inferiori a tre anni) e di interrogatorio e transito verso i gulag: alla fine del 1940 la loro popolazione viene stimata attorno al mezzo milione di unità. Alla stessa data, secondo i documenti conservati nell'Archivio di stato della federazione russa, risultano presenti in territorio sovietico 53 campi di lavoro forzato con circa 1 300 000 detenuti. Sono questi i gulag veri e propri, dedicati alla costruzione di grandi opere (come i canali tra il Baltico e il mar Bianco, tra la Moscova e il Volga), all'estrazione mineraria (come il famigerato gulag di Kolyma), al taglio del legname. Vi sono poi 425 "colonie di lavoro correttivo" con le stesse finalità produttive dei gulag, che nel 1940 contengono più di 300 000 internati, e infine insediamenti speciali dove sono confinate le famiglie contadine oggetto delle deportazioni dei primi anni trenta: il numero di questi esiliati oscilla appena sotto il milione. A differenza di quanto accade in Germania, il contributo di questo insieme di lavoratori forzati all'economia sovietica appare del tutto rilevante e si accentua negli anni di guerra, quando l'avanzata nazista contrae bruscamente di un terzo la popolazione attiva. Tra il 1941 e il 1944 esce dall'universo concentrazionario sovietico più di un decimo del nickel e delle granate di mortaio prodotti in Urss; le statistiche del NKVD stimano in meno di un terzo del totale la quota di internati inabili al lavoro. Nelle intenzioni e nei risultati il gulag assolve un ruolo produttivo che il lager non ha: anche l'amnistia concessa all'indomani della morte di Stalin a più di un milione di reclusi trae origine dalla crisi economica di un complesso concentrazionario sovrappopolato e sempre meno remunerativo, nonostante il salario simbolico concesso dal 1949 ai detenuti in grado di lavorare. Nel gulag lo sterminio appare perciò un effetto del ricorso a una forza-lavoro schiavistica impiegata senza scrupoli in condizioni proibitive con il deliberato proposito di "consumarla", piuttosto che l'esito di un'ideologia e di una volontà immediatamente ed esclusivamente "eliminazionista" per principio, come quella che si viene stabilendo nei campi della morte nazisti situati in territorio polacco. Di qui deriva l'assenza nei gulag di una tecnologia specificamente dedicata alla morte di massa.

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Un problema in qualche modo parallelo e autonomo rispetto a quello dell'universo concentrazionario è rappresentato dalla "riforma agraria attraverso lo sterminio" realizzata in Urss all'inizio degli anni trenta. Il 2 marzo 1930 tutti i giornali sovietici pubblicano un articolo intitolato Vertigine di successo con cui Stalin critica i dirigenti pubblici locali responsabili di eccessi nella politica di collettivizzazione delle terre. Stalin segna così un salto di qualità nella sua strategia di gestione e conservazione del potere: per la prima volta traccia un filo diretto con la popolazione, che ne anticipa il malcontento deviandolo verso la burocrazia di partito, assunta come obiettivo negativo e unico capro espiatorio: uno schema di ragionamento semplice ed efficace che verrà riproposto in occasione delle grandi purghe degli anni successivi. Ma l'articolo viene anche interpretato come un dietro-front ufficiale, in seguito al quale diversi milioni di contadini abbandonano i kolchoz. La fuga dalle fattorie collettive determina una brusca recrudescenza dell'iniziativa statale nelle zone dell'Ucraina, del Volga, del Caucaso settentrionale: secondo le stime sovietiche tra il 1930 e il 1933 vengono "dekulakizzate" 600 000 proprietà e deportate più di 200 000 famiglie. A partire dal 1932 quelle stesse regioni sono colpite da una carestia determinata dai cattivi raccolti degli anni precedenti e da una contrazione pari a un quinto del totale della produzione agricola dell'Urss. Nondimeno i fondi dell'Archivio statale russo per l'economia documentano che tra il 1932 e il 1934 la dirigenza staliniana continua a esportare grano dalle regioni più flagellate dalla carestia e ad aumentare le riserve di grano ammassate nei depositi statali. Le stime più recenti e accurate condotte sulle fonti demografiche ufficiali valutano tra i quattro e i sei milioni di morti il frutto di questo uso della carestia come strumento di normalizzazione della struttura di classe delle campagne: un disegno consapevole e deliberato di "ingegneria sociale" attraverso uno sterminio di massa realizzato sia direttamente mediante espropri forzati e deportazioni, sia — in misura di gran lunga maggiore — indirettamente mediante privazioni e omissioni di soccorso.

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Quest'ultima circostanza introduce un'ulteriore significativa differenza tra lager e gulag. Fino allo scoppio della guerra anche dai campi di concentramento nazisti è possibile uscire in seguito ad amnistie decretate dal regime, per effetto delle quali, come abbiamo visto, il numero degli internati conosce notevoli fluttuazioni. Ma dopo il 1939 un caso Rokossovskij all'interno dell'universo concentrazionario tedesco appare impensabile: non solo perché il lager non serve a un'opera di epurazione interna e quindi non accoglie alte cariche dello stato o membri del gruppo dirigente nazista, ma anche perché le porte dei campi si chiudono definitivamente per chiunque vi entri. Viceversa l'universo concentrazionario sovietico è contraddistinto da un elevato turn over (che rende particolarmente difficile ogni stima quantitativa): nel biennio 1937-1938 poco più di un terzo dei detenuti nei campi di lavoro correttivo viene liberato e un altro 5% viene rubricato nei registri ufficiali come "fuggito". Due decreti del luglio e del novembre 1941 autorizzano il rilascio e l'arruolamento immediato nell'esercito di 420 000 internati: alla fine della guerra, il totale degli ex detenuti al fronte arriva a sfiorare il milione. Ma le partenze dei richiamati sotto le armi sono compensate dalle deportazioni dei gruppi nazionali equiparati a nemici: nel 1950 la popolazione dell'universo concentrazionario supera di nuovo i due milioni e mezzo, equamente ripartiti in campi e colonie.

Solo in parte questa natura relativamente aperta del gulag può essere spiegata con l'alta percentuale di detenuti (all'inizio del 1940 pari al 57%) condannata a pene inferiori a cinque anni: una delle pratiche abituali della giustizia sovietica di quei tempi è infatti la reiterazione delle condanne per via amministrativa. Mi pare invece più plausibile un'altra ipotesi. Il lager non è strettamente indispensabile per la sopravvivenza del regime nazista: non nasce per difenderlo da un ambiente ostile (lo dimostra il numero contenuto dei detenuti negli anni prebellici) e durante la guerra serve alla realizzazione della "soluzione finale" che figura tra i programmi della dittatura. Il lager nazista è quindi un luogo-simbolo sia della violenza che distingue la "durezza" del movimento fin dalle origini, sia della sua missione epocale di pulizia etnica. Nei confronti dell'universo concentrazionario il potere sovietico mantiene invece una costante attenzione strumentale, che di volta in volta si concentra sul suo carattere deterrente rispetto al resto della società e sulle sue funzioni produttive. Nella massa dei detenuti una quota rilevante è costituita da cittadini normali, vittime di una repressione generalizzata che non ha obiettivi precisi (politici o razziali) ma che viene adoperata come strumento altrettanto normale (e perciò terrorizzante) da parte di un governo privo in misura crescente del consenso popolare. A differenza del lager, il gulag è una struttura necessaria per la conservazione del potere di una rivoluzione minoritaria: obbedisce all'ideologia del lavoro socialmente utile, si adatta a diverse "ondate" (secondo il termine coniato da Solzenicyn) di categorie di reclusi, è pronto a riconoscere altre priorità (come il richiamo al fronte militare), ha un regime di sorveglianza più elastico e allentato. Un episodio come la rivolta del campo di Vorkuta, che nel gennaio 1942 vede le guardie carcerarie prendere possesso del campo e marciare verso la città più vicina fino a scontrarsi con l'esercito, sottolinea ulteriormente queste differenze di natura; soprattutto se paragonato alle "marce della morte" con cui le SS cercarono fino alla fine di portare in fondo l'ordine di sterminio che era stato loro impartito.

Da tali differenze deriva la minore "efficienza" mortuaria del gulag, che è data non solo dall'assenza di strutture (e di campi) appositamente dedicate alla morte di massa, ma anche dalla maggiore attenzione attribuita alle funzioni produttive. Secondo i dati per ora in nostro possesso, negli anni prebellici la mortalità "naturale" nei campi di lavoro forzato raggiunge tassi annui del 10%, con punte del 15% in concomitanza della carestia nel 1933 (vicini a quelli coevi dei lager nazisti) mentre negli anni di guerra tocca un picco del 17% nel biennio 1942-1943, per poi ridiscendere sotto il 5% dopo il 1945. Solo nei gulag peggiori, quelli minerari di Kolyma e Vorkuta, i tassi di mortalità arrivano ai livelli del 30% paragonabili a quelli dei "più miti" lager nazisti. Al netto di quelli provocati dalla "riforma agraria attraverso lo sterminio" attuata nei primi anni trenta, il totale di decessi "naturali" avvenuti prima della guerra all'interno dell'universo concentrazionario sovietico viene oggi stimato in circa un milione, mentre la perdurante carenza di documentazione sugli anni postbellici impedisce ancora un computo complessivo delle vittime del sistema sovietico. Le esecuzioni capitali documentate dalle fonti ammontano a quasi 800 000 nell'intero periodo 1921-1953, ma si concentrano fortemente (più di 680 000) nel biennio del Grande Terrore.

Su un piano strettamente quantitativo questa macabra contabilità rimane quindi lontana non solo dagli oltre sei milioni di cadaveri smaltiti dai lager nazisti, ma anche dai livelli raggiunti dalle fucilazioni a cielo aperto realizzate dalle Einsatzgruppen naziste sul fronte russo (1 300 000, secondo le stime di Hilberg). Ma un ritmo "industriale" di quasi mille fucilazioni al giorno, per quanto distribuito in centinaia di campi e colonie, testimonia di un'attività omicida svolta con regolarità in tempo di pace nella routine quotidiana del gulag: un aspetto costitutivo, in altre parole, della sua "normalità". L'eliminazione dei detenuti non rappresenta lo sfogo casuale della "crudeltà" dei carnefici, bensì una prova (spesso fissata preventivamente in quota numerica da raggiungere) dell'efficienza del sistema nella repressione dei propri nemici e, nello stesso tempo, uno strumento terroristico dal formidabile potere deterrente funzionale al governo della popolazione, dentro e fuori il gulag. Per il nazismo, invece, la morte di massa corrisponde non già a un metodo di governo, bensì all'esecuzione di un progetto di pulizia etnica su scala continentale ed epocale: se ne spiegano così i maggiori volumi quantitativi e la maggiore precisione razziale.

Una volta calato nel dettaglio dei processi storici, il raffronto tra lager e gulag mostra importanti capacità euristiche. L'universo concentrazionario può funzionare da osservatorio particolare della natura e dell'evoluzione dei regimi di cui costituisce fin dall'inizio parte integrante, per sottolinearne le profonde diversità strutturali. Non è lo specchio deformato delle società "libere" che continuano a vivere all'esterno delle sue recinzioni – immagine letteraria e impressionistica, che non corrisponde all'esperienza storica plurale della grande maggioranza dei cittadini sotto Hitler e Stalin – ma più semplicemente uno strumento di governo, esterno alla costituzione formale dello stato e perciò escluso da ogni controllo, che pratica sistematicamente la violenza fisica nei confronti degli oppositori (veri o presunti).

Nel caso tedesco il lager vive un processo di trasformazione che lo reca alle dipendenze della milizia di partito più legata al progetto razziale e assolve a compiti (non esclusivi ma largamente dominanti) di eliminazione di massa degli ebrei europei in quanto "contaminatori" della purezza e della forza della razza ariana. Nel caso sovietico il gulag conserva una maggiore stabilità e centralità istituzionale (anche produttiva) come luogo terminale di una repressione di massa che cresce di volume insieme alle difficoltà del regime, viene utilizzata come banco di prova dell'efficienza statale ed è finalizzata alla concentrazione del potere nelle mani di una parte del vertice di partito contro il resto del gruppo dirigente e gli altri poteri forti (esercito, amministrazione pubblica, sindacati) potenzialmente antagonisti. In entrambi i casi due ideologie assolute, feroci avversarie reciproche, forniscono a mandanti ed esecutori giustificazioni morali potenti perché legate alla grandezza di un piano di ingegneria sociale (di classe o di razza) radicalmente alternativo ai sistemi politici fino ad allora sperimentati dalla civiltà umana.

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12. Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista. Una ricognizione tra storia e memoria

di Spartaco Capogreco


Non appena l'Italia entrò nella seconda guerra mondiale, alcuni funzionari tecnici della Direzione generale di pubblica sicurezza del Ministero dell'interno si rivolsero ai tedeschi per conoscere l'organizzazione dei loro campi di concentramento. In risposta, lo stesso Reinhardt Heydrich, capo dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), si affrettò a scrivere al capo della polizia italiana, Arturo Bocchini, inviandogli il "regolamento" dei campi germanici ed esprimendo la sua piena disponibilità a ricevere eventualmente una "delegazione di studio" composta da funzionari italiani. Già nell'aprile del 1936, d'altra parte, il commissario capo di pubblica sicurezza Tommaso Petrillo aveva visitato il campo di concentramento di Dachau; e, nel dicembre 1938, il direttore e il vicedirettore dell'Ufficio studi sulla razza del Ministero della cultura popolare, Guido Landra e Lino Businco, erano stati in quello di Sachsenhausen, dove avevano incontrato esponenti nazisti di primo piano. Ma tali contatti "tecnici" rimasero fatti episodici non suffragati poi da volontà e atti politici concreti. Bocchini, in particolare, lasciò cadere l'invito di Heydrich, adducendo difficoltà dovute allo stato di guerra e alla carenza di personale.

I campi di concentramento italiani della seconda guerra mondiale, a parte il nome, ebbero poco o nulla in comune con i Konzentrationslager. La "filosofia ispiratrice" dell'internamento civile fascista non mirava, in linea di principio, allo sfinimento degli individui e/o allo sfruttamento del lavoro schiavistico. L'obiettivo perseguito era la messa al bando degli elementi "indesiderabili" e "pericolosi", a partire dagli oppositori politici interni. I modelli di riferimento dei campi fascisti della seconda guerra mondiale non sono pertanto da ricercare – come, purtroppo, talvolta avviene – nei lager tedeschi, e neppure in quelli di altri regimi totalitari, ma piuttosto nella stessa prassi concentrazionaria italiana che, negli anni quaranta, aveva alle spalle una sua esperienza ben consolidata.

Le deportazioni e l'internamento dei civili erano pratiche già note all'Italia monarchico-liberale, che le aveva utilizzate sia nella penisola che nei possedimenti d'oltremare. Si pensi, per esempio, alle tristi condizioni delle migliaia di libici deportati a Ustica e alle isole Tremiti dopo la rivolta di Sciara Sciat del 1911, o al terribile campo di prigionia di Nocra, istituito nel 1895 su una delle isolette che fronteggiano Massaua.

Tuttavia fu sotto il fascismo, soprattutto durante alcune particolari campagne coloniali, che i campi di concentramento vennero utilizzati dall'Italia in grande stile, e le deportazioni si spinsero ai limiti della "pulizia etnica" e dello sterminio. Nel 1930, il generale Rodolfo Graziani, divenuto governatore della Cirenaica, portava a compimento la "pacificazione" della regione mediante una campagna di deportazione in massa senza precedenti nella storia dell'Africa moderna. Al fine di creare "un distacco territoriale" tra i ribelli e la popolazione sottomessa, quasi centomila seminomadi del Gebel (un ottavo dell'intera popolazione libica di allora) vennero rinchiusi in quindici campi di concentramento contrassegnati dal vessillo tricolore, installati nella Sirtica, alcuni dei quali comprendevano fino a ventimila tende. Durante le lunghe e terribili marce di deportazione, i ritardi non erano ammessi: chi indugiava veniva immediatamente passato per le armi. El-Agheila, Marsa el-Brega, Agedabia, Sidi Ahmed el-Magrun, Soluch, Ain Gazala, el Abiar: sono questi i nomi dei campi maggiori. Nel settembre 1931, sul piazzale di uno di essi, gli italiani impiccarono Ornar al Mukhtar, il leader della resistenza locale.

Durata circa tre anni, la segregazione dei libici si concluse nel settembre 1933, quando di tutti i civili deportati, ridotti all'inanizione o sottoposti al lavoro coatto, restavano in vita meno di sessantamila. Gli storici di regime definirono quella dei campi della Sirtica «una grande e singolare impresa», ma per la stampa internazionale si trattò, invece, di «una visione da incubo». Ancora oggi, purtroppo, quei nomi sono sconosciuti e distanti dalla coscienza civile degli italiani.

Nel 1935, a poche settimane dall'inizio del conflitto italo-etiopico, un grande campo di concentramento italiano veniva aperto a Danane, in Somalia. Avrebbe dovuto accogliere militari nemici; ma durante la guerra d'Etiopia, che fu un conflitto prettamente di annientamento, di prigionieri se ne fecero ben pochi. Il campo si riempì invece di civili, soprattutto a guerra finita: notabili, funzionari, monaci copti, indovini, cantastorie ecc. Vi trovarono posto anche i resti dell'esercito imperiale etiopico e delle formazioni ribelli. Dall'ottobre 1935 al marzo 1941, si avvicendarono a Danane circa 6500 internati tra etiopi e somali; poco meno della metà dei reclusi persero la vita per la sottoalimentazione e le disastrose condizioni igienico-sanitarie.

In Italia, la possibilità di deportare gli avversari mediante il loro confinamento su piccole isole o in località sperdute e disagiate, introdotta per legge nel novembre del 1926, costituì uno degli elementi chiave del sistema repressivo e coercitivo fascista. La forzatura operata dal legislatore all'istituto del "domicilio coatto" di epoca liberale, dal quale il "confino di polizia" traeva derivazione, consistette soprattutto — come ha sottolineato Leonardo Musci — «nell'applicare in massa agli oppositori politici una misura che era stata prevalentemente destinata a un'area di emarginazione sociale oscillante fra la delinquenza comune e il ribellismo generico». Ma la novità più importante rispetto alla legislazione prefascista fu rappresentata dal carattere autonomo acquisito dal "confino" rispetto alla "diffida" e all'"ammonizione", che costituivano due misure di prevenzione più lievi. Da provvedimento cui ricorrere in second'ordine nel caso in cui fossero rimaste senza effetto le prime due (questa era stata la funzione del "domicilio coatto"), il confino divenne infatti una misura autonoma e "di prima battuta".

Tuttavia, nell'Italia fascista non vi furono campagne di deportazioni di massa degli avversari come si ebbero nella Germania degli anni 1933-1934: alla fine del 1926 erano stati confinati "soltanto" 900 dissidenti; e dal 1926 al 1943, nell'arco dei diciassette anni di applicazione del provvedimento, il numero dei confinati si aggirò sulle 17 000 unità. Sia le cifre complessive che quelle relative ai primi mesi di assegnazione al confino, pongono il nostro paese ben lontano dall'ordine di grandezza della deportazione politica interna avutasi in Germania. Ma, per un computo esatto della situazione italiana, alle cifre del confino politico bisogna aggiungere quelle relative all'internamento civile che, come si dirà più avanti, nella seconda guerra mondiale venne largamente utilizzato dal regime fascista con finalità di repressione politica e sociale (sono circa 7000 i fascicoli personali degli italiani internati perché "pericolosi in linea politica").

Il fascismo, sia per ragioni legate al modo in cui aveva raggiunto il potere, sia per la diversità delle forze che lo avevano appoggiato e per le mediazioni che aveva dovuto realizzare, nel comminare il confino scelse la via di una repressione "costante ma non eclatante", tendente a isolare le avanguardie e a contenere il numero dei deportati, per non accreditare, specialmente all'estero, l'immagine di un antifascismo ancora vitale e numeroso. D'altra parte Mussolini non aveva bisogno di ricorrere a deportazioni in massa perché, di fatto, nel 1926 non esisteva in Italia alcuna minaccia insurrezionale da parte dell'antifascismo. Perciò, si limitò a "reprimere selettivamente", isolando, tramite il confino, gli antifascisti militanti dal resto della popolazione italiana, mentre i dirigenti e i quadri principali dell'opposizione venivano possibilmente affidati alle cure del Tribunale speciale per la difesa dello stato.

Nel famoso "discorso dell'Ascensione", pronunciato alla Camera il 26 maggio 1927, riferendosi alle recenti misure di polizia, Mussolini sostenne di aver previsto la deportazione di tutti i cittadini che fossero "sospetti di antifascismo" o dediti "a una qualsiasi attività controrivoluzionaria". In realtà, il duce non perse occasione per raccomandare a polizia e prefetti di "non creare falsi martiri" attraverso l'uso eccessivo delle assegnazioni al confino. Minimizzare la consistenza delle opposizioni era, del resto, il modo attraverso cui il fascismo preferiva rispondere alla propaganda antifascista svolta all'estero dagli esuli italiani. Analoga funzione aveva la pubblicazione in "giornali amici", italiani e stranieri, di tranquillizzanti articoli sulla vita di confino (presentata pressappoco alla stregua di una villeggiatura) miranti ad accreditare l'idea che scopo della deportazione politica fosse quello di eliminare dalla circolazione i "disturbatori" che ostacolavano il cammino dell'Italia fascista "verso un futuro radioso".

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A fianco dell'internamento ufficiale e "regolare" gestito dal Ministero dell'interno (quello sin qui descritto), l'Italia fascista ne espresse uno "selvaggio", messo in atto dalle proprie forze armate. Tale strumento si realizzò, per la sua gran parte, nei territori del regno di Jugoslavia occupati o annessi in seguito all'invasione nazifascista del 6 aprile 1941. In quelle zone – si vedano, in particolare, gli studi di Enzo Collotti, Tone Ferenc, Teodoro Sala e Giacomo Scotti –, nel quadro di un'occupazione violenta e dalle connotazioni esplicitamente razziste, l'esercito italiano e, in misura minore, le autorità civili di occupazione, fecero frequente ricorso a metodi tipicamente nazisti, quali l'incendio di villaggi, la fucilazione di ostaggi civili e la deportazione in massa della popolazione in speciali campi dì concentramento.

Nei territori jugoslavi, oltre all'obiettivo di allontanare dalle principali località nuclei consistenti di civili suscettibili di aiutare i partigiani o di prendere le armi contro gli italiani, il provvedimento d'internamento perseguiva quello – certamente non secondario - della "sbalcanizzazione" dei territori. Questo vecchio proposito fascista (che oggi diremmo di pulizia etnica), nella Slovenia occupata e annessa all'Italia come "provincia", si pensò di realizzarlo attraverso la sostituzione delle popolazioni autoctone con coloni italiani, provenienti da lontane regioni del Regno.

Nel Montenegro le deportazioni dei civili vennero avviate sin dal luglio 1941, nel quadro di quella "carta bianca" concessa, di fatto, dai comandi militari superiori ai vari reparti per ottenere maggiore durezza repressiva nei confronti dell'insurrezione popolare. Nelle altre regioni della Jugoslavia ciò avvenne in misura consistente a partire dal gennaio 1942, momento in cui il potere dell'esercito divenne pressoché assoluto, e i suoi vertici indicarono, tra le prime misure da adottare, l'"internamento totalitario" delle popolazioni locali.

Nella famigerata "Circolare 3 C", emanata il 1° marzo 1942, il generale Mario Roatta, comandante della II armata, delineò la summa tattico-operativa del comportamento delle truppe e dell'atteggiamento da tenere verso le popolazioni sottomesse. La circolare – che in parte ricalcava misure già in vigore nel Montenegro sin dal luglio 1941, e in parte anticipava quelle adottate dal Feldmaresciallo Albert Kesselring nel 1944 per stroncare la Resistenza italiana – sarebbe divenuta la principale pezza d'appoggio in base alla quale, nel dopoguerra, la Jugoslavia avrebbe chiesto all'Italia l'estradizione per crimini di guerra dello stesso generale Roatta. È in quel testo che si rinvengono le prime disposizioni scritte sull'internamento manu militari, configurato come provvedimento di primaria importanza nel quadro della lotta volta a stroncare la rivolta popolare jugoslava. Le direttive di Roatta prevedevano, nelle zone di operazione, la deportazione di interi gruppi sociali e professionali "pericolosi", comprese quelle famiglie dalle quali, "senza chiaro motivo", risultassero assenti componenti di sesso maschile di età compresa tra i sedici e i sessant'anni. In primo luogo l'internamento era previsto per operai, disoccupati, profughi, senzatetto, ex militari, frequentatori di dormitori pubblici, studenti disoccupati, persone senza famiglia, studenti universitari, maestri, impiegati, professionisti, operai, ex militari italiani trasferitisi in Jugoslavia dalla Venezia Giulia dopo l'avvento del fascismo e, infine, per i "simpatizzanti del movimento partigiano". La stessa sorte (con in più la confisca del bestiame e la distruzione delle abitazioni) sarebbe toccata agli abitanti delle case prossime ai luoghi in cui venivano attuati dei sabotaggi, a meno che, entro quarantotto ore dall'attentato, non fossero stati identificati i responsabili. Quanto alle persone da internare, una prima codificazione comprendeva gli uomini dai sedici ai sessant'anni, ma questo limite venne presto superato, e il provvedimento fu esteso anche alle donne e ai bambini. Al contempo, la prevista demarcazione tra internamento "protettivo", "precauzionale" e "repressivo" diveniva sempre più labile e, di fatto, difficilmente individuabile.

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Arthur Koestler, per dare un'idea delle condizioni di vita nei campi di concentramento non nazisti, ha immaginato un'unità di riferimento della quale il campo francese di Le Vernet d'Ariège (dov'egli fu recluso nel 1939) costituiva "lo zero dell'ignominia". Prendendo a misura l'ipotetica scala di Koestler, si può dire che i campi italiani gestiti dal Ministero dell'interno non sconfinarono mai nel "sottozero"; mentre sconfinarono abbondantemente i campi allestiti dall'esercito italiano in Jugoslavia, in Albania e in Grecia, e anche qualcuno di quelli ubicati nei vecchi confini del Regno d'Italia, dove, in alcuni periodi, lo scenario quotidiano era dominato dalla lotta per la sopravvivenza e dalla morte dei deportati per la fame e le terribili condizioni igienico-sanitarie.

Dell'intero capitolo relativo all'internamento fascista durante la seconda guerra mondiale, la parte a gestione militare fu quella numericamente più significativa (furono circa 100 000 i civili jugoslavi deportati) e, sul piano del diritto, la meno giustificabile. Per via delle dure condizioni di vita degli internati, a essa furono addebitate reiterate violazioni del diritto internazionale bellico e dello stesso codice penale militare di guerra italiano. Non a caso, alla fine del conflitto, i principali responsabili e organizzatori dei campi di concentramento e del sistema di deportazione impiantato dall'esercito italiano (tra i primi, il generale Mario Roatta, solitamente ricordato come "protettore di ebrei"), vennero additati come criminali di guerra. E, quantunque la mancanza di una "Norimberga italiana" abbia fatto sì che le accuse di "internamento in condizioni disumane", come quelle relative ad altri crimini, inoltrate alle apposite commissioni internazionali dal governo jugoslavo e da quello di altre nazioni aggredite dall'Italia, siano cadute praticamente nel vuoto, è innegabile che buona parte di quegli internamenti di massa siano più assimilabili alle deportazioni arbitrarie e ai crimini di guerra che non alle tradizionali misure discrezionali adottabili, nel corso di un conflitto, nei confronti della popolazione civile.

Si può affermare quindi che l'assunto del decreto del duce del 4 settembre 1940 sul trattamento degli internati – che, riecheggiando la convenzione di Ginevra, li voleva «trattati con umanità e protetti contro ogni offesa» – venne sostanzialmente rispettato nei campi del Ministero dell'interno, ma quasi mai in quelli di competenza del Regio esercito.

La collocazione extra legem di queste ultime strutture appare del tutto evidente, se si considera inoltre che ai civili jugoslavi internati, definiti "italiani per diritto di annessione", l'Italia negò anche lo status di "sudditi nemici". Così come, in buona parte, negò quello di prigionieri di guerra ai componenti del disciolto esercito jugoslavo, rastrellati e internati dopo la conclusione delle operazioni belliche vere e proprie. In tal modo i civili jugoslavi vennero privati, sin oltre la caduta del regime fascista, persino del supporto delle organizzazioni umanitarie. Soltanto il 19 agosto 1943 il Ministero degli esteri concesse al comitato internazionale della Croce rossa la possibilità di assistere i civili ex jugoslavi internati in Italia, a condizione che tale atto non avesse «carattere ufficiale de jure, ma soltanto di pratica e umanitaria azione di soccorso».

Parlando dei campi fascisti, una questione appare ineludibile: quella del "vuoto di memoria" che ha accompagnato quei fatti per così lungo tempo nel dopoguerra; gli italiani "brava gente" si sono adagiati per anni nella presunzione che i campi di concentramento li riguardassero solo in quanto vittime, e non anche nel ruolo attivo di deportatori e costruttori di lager, cosicché quella realtà è rimasta sostanzialmente estranea alla memoria pubblica nazionale del dopoguerra.

Diversamente che in Germania, dove la riflessione e l'elaborazione sulle responsabilità del nazismo hanno interessato profondamente larghi settori della società, in Italia i conti col passato sono stati fatti in misura molto trascurabile. Peraltro, l'eccessiva insistenza sul radicamento sociale della Resistenza – come sottolinea Anna Bravo – «ha finito per avvalorare l'idea di un popolo unanimemente antinazista e perciò riabilitato in massa. Un popolo nella sostanza incolpevole, quando non vittima».

Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, le cause di una rimozione tanto forte e generalizzata sono molteplici: alcune specifiche dell'internamento, altre di tipo più generale che si sovrappongono e si confondono con la questione ben più ampia della mancata elaborazione del passato fascista e coloniale italiano. Tra le prime cause c'è sicuramente la "relativizzazione" dell'internamento civile determinatasi (non soltanto in Italia) al cospetto dell'universo concentrazionario nazista. La particolare efferatezza dei crimini commessi dai tedeschi, la drammatica forza emotiva di Auschwitz fornivano un alibi assai comodo per relativizzare e sminuire le responsabilità dell'Italia fascista di fronte all'alleato tedesco.

Va poi considerato l'oggettivo interesse degli Alleati a "non colpevolizzare", alla fine della guerra, un'Italia ormai entrata a far parte della loro orbita politico-strategica. Interesse che ha determinato, di fatto, la mancata condanna dei criminali di guerra italiani e ha ridotto a un'operazione di facciata l'epurazione del personale civile e militare coinvolto col vecchio regime. Si favorivano così l'affermarsi nel nostro paese di un senso comune largamente autoassolutorio e di una rappresentazione oltremodo "rassicurante" della storia italiana del Novecento.

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