Autore Chiara Colombini
Titolo Anche i partigiani però...
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2021, i Robinson Letture , pag. 178, cop.fle., dim. 13x20x1,7 cm , Isbn 978-88-581-4376-6
LettoreGiangiacomo Pisa, 2021
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1940 , guerra-pace , destra-sinistra












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                            3

- Una battaglia di retroguardia?, p. 3
- Il campo della memoria, p. 6
- Una contesa mai finita, p. 8
- Amalgama, p. 12
- Perché riprovarci?, p. 14


1. Tutti rossi                                         19

- Il derby, p. 19
- Quattro gatti, p. 20
- Una scelta, molte strade, p. 22
- Non tutti comunisti. Ma tanti, p. 30
- Il calderone, p. 32
- Concordia discorde, p. 34
- «Gli uomini sono uomini», p. 36


2. Inutili e vigliacchi                                38

- Il crescendo, p. 38
- Spazi e tempi, p. 39
- Ancora numeri, p. 40
- Il libretto delle istruzioni, p. 43
- Guerriglia: come la peste, p. 46


3. La violenza è colpa loro                            54

- Le mani sporche di sangue, p. 54
- Le ferite della memoria, p. 55
- Dati alla mano, p. 58
- Combattere in città, p. 61
- Tra azione e reazione, p. 65
- Partigiani = terroristi, p. 69


4. Rubagalline                                         71

- Responsabili della violenza e pure ladri, p. 71
- Questioni di sopravvivenza, p. 72
- Una scala della paura, p. 77
- «Se qualcuno manca, paghi:
  oggi non c'è via di scampo», p. 79
- Alla prova, p. 81
- Equilibrio instabile, p. 84


5. Assassini                                           86

- Tutti colpevoli, nessun colpevole, p. 86
- Tra guerra totale e guerra civile, p. 88
- Uccidere, p. 91
- «Nati come fuorilegge», p. 93
- La "resa dei conti", p. 98
- Insorgere, p. 100
- L'onda: tra guerra e pace, p. 104
- Venti mesi, venti anni, p. 107


6. La storia la scrivono i vincitori                  113

- La madre di tutte le accuse, p. 113
- La responsabilità «più dura, più ingrata», p. 115
- Dalla guerra alla pace, p. 117
- L'ultimo colpo di coda, p. 123
- Processo alla Resistenza, p. 129
- Memoria inquieta, p. 130
- Fragilità. Risorsa, p. 134


Note                                                  137

Bibliografia                                          157

Ringraziamenti                                        173

Indice dei nomi                                       175


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

Introduzione



Una battaglia di retroguardia?

A un primo sguardo, siamo fuori tempo massimo e ci apprestiamo a una battaglia di retroguardia. Nel nostro presente circolano umori che richiamano alla mente il passato più buio dell'Italia, il fascismo. Una miscela di atteggiamenti che, al di là delle aperte rivendicazioni di quel passato, offre legittimazione - come se fosse saltato un tappo - a posizioni e affermazioni non nuove ma fino a pochi anni fa pronunciate a mezza bocca, per allusioni, con un vago senso di vergogna. Specialmente sull'onda della ricorrenza del centenario della fondazione dei Fasci di combattimento, nel 2019, si è molto discusso - tra storici, scrittori, intellettuali, e in tv, sulla stampa e sui social network - se sia appropriato o meno etichettare come fascismo questo clima, con riflessioni che hanno chiamato in causa l'identità italiana, da un lato, e l'incidenza delle trasformazioni mediatiche sul linguaggio politico e sulle relazioni sociali, dall'altro. Quale che sia la risposta che si vuole dare all'interrogativo, è forte la sensazione di essere ormai ben oltre gli attacchi alla Resistenza, che sembrano un problema tutto sommato marginale, sopravanzato dai fatti, anche perché la distanza temporale che aumenta pare rendere il ricordo di quegli eventi sempre più sbiadito e, prima ancora, l'interesse verso di essi sempre più tenue.

Eppure, il complesso di umori che galleggia nel nostro presente si è certamente nutrito e ha prosperato anche grazie ai giudizi via via più liquidatori che sono stati dati della Resistenza nel corso del tempo. Circa trent'anni fa si è iniziato a denunciare - e si è continuato a farlo in seguito con allarme crescente - un'offensiva revisionista ai suoi danni, animata dalla volontà di metterne in discussione il significato storico, politico ed etico. Non ha ottenuto una vittoria piena su tutta la linea, quell'offensiva, ma è impossibile non constatare che ha raccolto ben più di un successo. Non appena si scalfisce un po' la crosta del disinteresse che oggi sembra circondare la Resistenza, infatti, affiorano giudizi che pescano a piene mani in accuse e polemiche che, con maggiore o minore intensità, hanno percorso tutto il dopoguerra, che nel tornante degli anni Novanta hanno trovato un'inedita vitalità e che oggi sono parte integrante del senso comune.

Sono singole affermazioni, avanzate con forme e toni ora più aggressivi ora più trattenuti, che vanno dalla critica di alcuni aspetti alla condanna definitiva e in blocco della Resistenza. Sono asserzioni indipendenti tra loro e non necessariamente tutte compresenti ma, accostate le une alle altre, finiscono per comporre un discorso coerente al suo interno, tanto immediato nelle sue argomentazioni - e per questo efficace - quanto popolato di luoghi comuni che tagliano con un colpo secco ogni complessità. A fare da collante, un assunto di fondo: finalmente, dopo tanto tempo, è possibile raccontare tutta la verità sulla Resistenza, sino ad ora tramandata in modo parziale quando non apertamente falso perché "la storia la scrivono i vincitori". Variamente collegati a questa base di partenza, e talvolta tra loro, arrivano poi i giudizi più specifici. Quelli che hanno scritto e falsificato la storia della Resistenza sono vincitori - e combattenti - per modo di dire, perché in realtà sono stati gli Alleati a sconfiggere í tedeschi. Dal momento che gli angloamericani avrebbero trionfato in ogni caso sulla Germania nazista, la guerra che i partigiani si sono ostinati a combattere, oltre che inutile di fatto, è stata controproducente, irresponsabile e - quando il ragionamento viene portato alle estreme conseguenze - criminale: le loro azioni, nient'altro che agguati a tradimento, hanno provocato la guerra civile fra italiani e scatenato la reazione brutale dei tedeschi, che hanno consumato la loro vendetta sulla popolazione inerme con rappresaglie e stragi. Se risparmiati dalla violenza, i civili sono stati comunque ostaggio dei partigiani, che hanno vissuto sulle loro spalle, gettandoli per mesi nella paura e pretendendo aiuti a mano armata.

In sostanza, dunque, i partigiani sono una massa di avventurieri e mezzi delinquenti. Oppure - e comunque una cosa non esclude l'altra - una massa di esaltati accecati dall'ideologia: tutti comunisti, va da sé, o idealisti ottusi che, per ingenuità o consapevole complicità, fanno il gioco dei rossi. La prova provata è il momento della Liberazione - più che una festa, un film dell'orrore -, perché è allora che i partigiani mostrano il loro vero volto, certamente non quello di cavalieri senza macchia, infierendo senza pietà sul nemico sconfitto, con l'obiettivo di fare la rivoluzione, rovesciare l'ordine sociale e imporre la dittatura.


Il campo della memoria

In questo discorso complessivo si intrecciano e si sovrappongono, talvolta fino a confondersi, voci di natura diversa, che affondano le radici nel "campo" in cui nasce e cresce la memoria della Resistenza.

O meglio, le memorie, perché di quello che accade in Italia tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, fin dall'immediato dopoguerra, si danno ricordi e racconti multipli e in costante conflitto tra loro. Perciò il "campo" è un terreno di competizione: non solo perché al suo interno c'è la memoria dei vinti (i fascisti) contrapposta a quella dei vincitori (gli antifascisti), ma anche perché questi ultimi sono divisi tra loro, sia per orientamenti e programmi politici, sia per la lettura che danno della Resistenza. Le forze antifasciste che ne sono state protagoniste concordano sul fatto che essa costituisce l'origine e la legittimazione del sistema politico della nuova Italia, ma si rifanno a quell'esperienza con gradi di convinzione e di trasporto differenti. Da questo punto di vista, si riproducono diversità presenti già durante la lotta, le quali però dopo la sua conclusione si irrigidiscono e si esasperano a causa delle lacerazioni provocate dalla guerra fredda.

Se i vincitori sono divisi, i vinti, pur con varie declinazioni e sfumature, continuano a rivendicare con fierezza la militanza sotto le insegne del fascismo della Repubblica sociale italiana, e a giudicare la Resistenza un tradimento dell'onore nazionale e i partigiani dei servi al soldo dello straniero, angloamericano o sovietico, che con metodi barbarici, crudeli e vili hanno combattuto per imporre al paese la rivoluzione sociale.

Per di più, i contendenti non sono nemmeno due soltanto. Oltre alle due memorie contrapposte frontalmente, ci sono infatti anche quelle di quanti hanno attraversato i venti mesi tra il 1943 e il 1945 senza schierarsi, cercando semplicemente di sopravvivere alla guerra. Con un'immagine efficace, Roberto Chiarivi ha parlato di una «memoria grigia», differente tanto da quella fascista («nera») quanto da quella antifascista («rossa»). Benché sia difficile ridurre quest'ultima a un solo colore, la definizione fotografa bene una galassia di posizioni varie, alle quali nel dopoguerra danno voce «L'Uomo qualunque» di Guglielmo Giannini (prima un settimanale e poi un partito), altri giornali e riviste come «Gente», «Oggi», «Il Tempo», «Candido» di Giovanni Guareschi , e penne famose come quelle di Indro Montanelli e di Leo Longanesi. Sono le posizioni della parte della società che, rimasta "alla finestra" durante il conflitto, guarda poi con insofferenza alla competizione sulla sua memoria; che vorrebbe solo lasciare dietro le spalle quel passato tragico e ricominciare a vivere in tranquillità, evitando di porsi troppe domande sul ventennio della dittatura, sostenuta o sopportata senza eccessivi affanni. Di qui nasce una memoria "a-fascista", che non è sovrapponibile a quella dei reduci di Salò perché prende le distanze dal fascismo, giudicandolo non tanto negativo in sé quanto colpevole di avere portato il paese in guerra senza però essere in grado di vincerla. Ma la memoria grigia è in contrasto soprattutto con quella antifascista, alla quale guarda con un misto di irritazione e apprensione perché essa, facendo leva sulla Resistenza, pretende di imporre una trasformazione politica, sociale e morale del paese, una prospettiva di cui questa parte dell'opinione pubblica diffida, dal momento che aspira all'ordine ed è ostile al cambiamento, e più in generale all'idea che la politica debba plasmare la vita della società. Così, se tale memoria grigia si smarca da quelle concorrenti di vinti e vincitori, non è equidistante e di fatto finisce per avere molte assonanze con quella nera, anche e soprattutto in ragione dell'anticomunismo che segna la guerra fredda. Da a-fascista, in breve diventa anti-antifascista.


Una contesa mai finita

La contesa, che si definisce in questi termini appena tacciono le armi, prosegue poi ininterrotta per tutta la storia dell'Italia repubblicana, arrivando, man mano rimodellata, fino a noi. Non è necessario ripercorrerne nel dettaglio l'evoluzione, che del resto è stata studiata a lungo e da molti, tenendo conto dell'incidenza di più fattori, dalle trasformazioni degli equilibri politici interni ai condizionamenti internazionali, dal dibattito storiografico all'attenzione mediatica. Richiamare in modo schematico le diverse stagioni della memoria pubblica della Resistenza può servire però per avere un quadro di come, e attraverso quali passaggi, si sia arrivati alla situazione di oggi.

Se tra la fine del conflitto e per tutti gli anni Cinquanta la memoria ufficiale del nuovo Stato coincide con quella antifascista, ciò non significa che essa riesca a diventare un patrimonio ampiamente accettato. Al contrario, per l'antifascismo sono anni difficili. La divisione del mondo in due blocchi contrapposti piomba sui contrasti tra le forze politiche che hanno preso parte alla Resistenza e sulla già di per sé complicata transizione al tempo di pace (con le difficoltà economiche che acuiscono i conflitti sociali; con l'epurazione che va a rilento lasciando transitare nell'Italia repubblicana pezzi dello Stato fascista quasi integri; con l'avvio di migliaia di processi contro partigiani per azioni compiute durante la lotta). Sulla Resistenza, che resta centrale per le sinistre ma molto meno per la Democrazia cristiana saldamente al governo, in quell'arco di tempo cala un velo tessuto di oblio e di fastidio. Se la memoria fascista resta confinata tra i nostalgici della Rsi, quella anti-antifascista prospera sotto l'ombrello elettorale della Dc.

La situazione muta con gli anni Sessanta. Mentre sulla scena internazionale si attenua il contrasto tra Usa e Urss e in Italia, chiusa la fase del centrismo, si avvia quella del centro-sinistra, che si intreccia con il boom economico, il velo di oblio cade e si accende un nuovo interesse nei confronti della Resistenza, anche grazie alla sua riscoperta da parte della generazione dei figli di quelli che l'hanno vissuta. Stabile nel suo "recinto" la memoria dei neofascisti, perde terreno invece quella grigia, in favore di quella antifascista (sebbene al suo interno continuino a convivere anime diverse in tensione tra loro). E la tendenza si conferma, crescendo anzi di intensità, tra la fine del decennio e gli anni Settanta.

È allora che la Resistenza raggiunge il picco di ciò che oggi chiameremmo popolarità. A farla diventare un riferimento centrale per ampi settori della società, pur in modi e con scopi differenti, concorrono da un lato le lotte sociali animate da studenti e operai e la diffusa mobilitazione politica per la conquista di nuovi diritti, dall'altro la stagione dei terrorismi. Davanti allo stragismo nero e ai tentativi golpisti di stampo neofascista o anticomunista che seminano la paura di un ritorno del fascismo, e davanti al terrorismo rosso - che peraltro rivendica per sé l'eredità della Resistenza -, la società e le istituzioni richiamano come un esempio l'unità delle forze antifasciste nel biennio 1943-1945, e ritrovano una risorsa e un collante nella lotta che ha dato origine alla democrazia ora sotto attacco.

Proprio gli "anni di piombo" segnano però una rottura. L'offensiva terrorista contribuisce a insinuare nel senso comune l'abitudine a stabilire in modo distorto uno stretto legame tra militanza, violenza e Resistenza, un nesso che getta su quest'ultima una pesante ombra di sospetto. Il riferimento alla lotta partigiana si appanna ulteriormente nel corso degli anni Ottanta: mentre diventa evidente che il sistema dei partiti sta perdendo contatto con la società, viene messa in discussione l'idea che esista un rapporto "naturale" tra democrazia e antifascismo, perché quest'ultimo appare contaminato dal totalitarismo comunista. Questa argomentazione, fino ad allora cavallo di battaglia delle forze di destra e della Dc, viene ora ripresa anche dai socialisti che, giunti per la prima volta alla guida del governo, intendono erodere a proprio vantaggio i consensi del Partito comunista.

E le ombre di sospetto sulla Resistenza sono destinate a infittirsi a causa dei cambiamenti radicali che scompaginano il mondo politico italiano tra il 1989-1991, quando il crollo del Muro di Berlino pone fine all'equilibrio bipolare che ha regolato il pianeta per oltre quarant'anni, e il 1992-1993, quando sotto i colpi dello scandalo di Tangentopoli cessano di esistere o si trasformano tutti i partiti del cosiddetto "arco costituzionale". È la fine del quadro politico nato dalla Resistenza e che da essa ha tratto legittimazione. La corruzione venuta clamorosamente alla luce getta discredito sulla "partitocrazia" - come sempre più spesso si dice - e questo si riverbera sulle sue origini, sul sistema dei partiti antifascisti riuniti nel Comitato di liberazione nazionale e alla testa della Resistenza. È esattamente in questa fase che l'ondata revisionista rompe gli argini, quando si affermano forze politiche che nulla hanno a che vedere con quel sistema, o perché legate al passato opposto del fascismo (come il Movimento sociale italiano, che si trasforma in Alleanza nazionale), o perché nuove (come la Lega Nord e Forza Italia). È allora che nel dibattito pubblico, grazie al contributo decisivo dei giornali, non solo di destra, e della televisione, viene posta in modo via via più incalzante l'urgenza di definire un'altra fonte di legittimazione per il nuovo assetto politico. La Resistenza non solo cessa di essere un riferimento ideale e simbolico: sempre più apertamente è indicata come un ostacolo sulla strada della costruzione di una memoria condivisa del passato, presentata come unica ricetta in grado di dare basi solide a una democrazia finalmente pacificata. In nome del rispetto per tutti i morti e in nome della "buona fede" con cui tanti giovani nel 1943-1945 hanno fatto le loro scelte, convinti di servire la patria, si richiede senza tanti giri di parole un'equiparazione tra partigiani e combattenti di Salò. E a queste argomentazioni delle destre non sono insensibili nemmeno gli eredi delle forze politiche della sinistra (a cominciare dal Partito comunista), i quali, recisi i legami con le proprie origini, in quel momento stanno ricercando una nuova identità. Nel frattempo, la richiesta di equiparazione e di più larga "cittadinanza" per la memoria fascista, fino ad allora patrimonio dei nostalgici, si trasforma senza troppe difficoltà in rivendicazione aperta del valore storico dell'esperienza della Rsi.

Per questa via iniziano a diventare moneta corrente nel discorso pubblico e nel senso comune a proposito della Resistenza toni e temi in precedenza propri della memoria anti-antifascista o coltivati nella più ristretta cerchia di quella fascista. E gli stessi argomenti sono rimasti in circolazione, sostanzialmente invariati, negli ultimi vent'anni, mentre intanto nel dibattito pubblico si è discusso a ripetizione della nascita di una "seconda" repubblica, dopo la fine della "prima", e poi dell'avvento di una "terza" in parallelo alle ulteriori trasformazioni del sistema politico, con la comparsa di nuove forze e nuovi attori, e la sparizione o il declino di quelli protagonisti della svolta degli anni Novanta.


Amalgama

Se restano invariati i contenuti del discorso - che ora guarda con sufficienza e fastidio alla Resistenza, ora la svilisce o la condanna -, ci sono però alcune discontinuità. In primo luogo si ripropongono in un presente in cui, pur caduti da decenni i riferimenti politici e ideologici che hanno strutturato il mondo prima del crollo del Muro di Berlino, si stenta a individuarne di alternativi, mentre si rendono malsicuri concetti e principi come democrazia, uguaglianza, libertà, a lungo ritenuti punti fermi. E, soprattutto, quei contenuti si ripropongono, oltre che sui media tradizionali, anche attraverso strumenti nuovi, con la pervasività, la rapidità e il linguaggio sincopato propri della Rete. Inoltre, si ha l'impressione che quegli argomenti, con l'allontanarsi nel tempo dei contesti e degli schemi ideologici in cui hanno preso forma, a furia di essere ripetuti, si siano come fusi in un magma fitto di rimandi interni, nel quale non è sempre facile distinguere la matrice culturale e politica (neofascista? anti-antifascista? qualunquista? semplicemente "benpensante"?) di ciascuna asserzione.

A dire il vero, però, oggi forse non è nemmeno così importante sforzarsi di individuare di volta in volta l'esatta provenienza di accuse e polemiche, né di dare sistematicamente un volto, un nome, una storia a quanti le hanno costruite e alimentate nel tempo. Piuttosto, serve rivolgere l'attenzione ai tratti comuni, a partire da quello più evidente. Tutte le voci "contro" hanno per bersaglio i partigiani e in seconda battuta le forze politiche che si sono adoperate per organizzarne e sostenerne la lotta. Il bersaglio è la Resistenza armata. Ed è per questa ragione che le pagine che seguono si concentrano su di essa, lasciando sullo sfondo le altre forme di contrasto all'occupazione nazifascista. Infatti, la Resistenza civile (con particolare attenzione al ruolo delle donne), l'impegno degli operai nelle fabbriche, degli internati militari in Germania, dei deportati, tutte le esperienze "non armate" di lotta che il lavoro degli storici ha messo in luce nel corso dei decenni, sottolineandone l'importanza, le caratteristiche specifiche e la non subordinazione alla guerra partigiana, è come se fossero fuori fuoco, protette dal cono d'ombra di un sostanziale disinteresse. Andando al cuore del problema, quel che non si perdona ai partigiani è non solo di essersi ribellati al sistema di dominio tedesco e fascista (cosa che hanno fatto anche le altre Resistenze), ma soprattutto di averlo fatto in armi, di averlo fatto ricorrendo alla violenza.

È attraverso questo canale che alcuni elementi del racconto che mette in stato d'accusa la Resistenza sono filtrati anche nel discorso che oggi intende difenderla (e che ovviamente è e resta diverso nei suoi intenti). In ragione della condanna - unanime almeno a parole - della violenza e della guerra, oggi diventa disturbante pensare che anche "i buoni" hanno sparato e ucciso, e tutto ciò rende difficile sottrarsi alle critiche che insistono sugli aspetti più duri della guerra partigiana. Il punto non è stabilire se quella condanna sia o meno condivisibile eticamente e politicamente, ma considerare la sua efficacia in termini storici. Perché spesso essa rischia di saltare a piè pari una valutazione dei contesti (di allora e di oggi), portando a leggere e giudicare attraverso lenti odierne scelte e azioni compiute nei venti mesi che trascorrono tra il 1943 e il 1945, in una situazione radicalmente differente. Questa tendenza ha contribuito non poco a trasformare il concetto stesso di Resistenza: più storici, con prospettive diverse, hanno colto come si sia progressivamente ampliato, fino a confondersi con l'idea più generale della resistenza alla guerra, della volontà di sopravviverle. Prende forma così una specie di nebulosa nella quale soffrire le privazioni imposte dal conflitto o fare la fila per comprare il pane con la tessera annonaria non sono molto distanti da compiere scelte di contrapposizione attiva al sistema di occupazione. Lungo questo percorso si è definita una rappresentazione della Resistenza sempre più generica e sfuggente, nella quale perdono spessore le caratteristiche specifiche delle diverse forme di lotta e finiscono per smarrire i loro contorni precisi persino i nemici. Escono di scena o restano in ombra i partigiani, o quanto meno gli aspetti più difficili e al contempo i più concreti della loro battaglia, a favore di altre esperienze lontane dall'uso delle armi. Quasi che fosse necessario farsi perdonare qualcosa di ciò che allora è stato, quasi che mostrare un volto più "rassicurante" della Resistenza fosse l'unica via per preservarne la memoria oggi. Ne nasce, insomma, una narrazione depoliticizzata, anestetizzata, con una «declinazione debole dell'antifascismo», per cui la Resistenza non fa più paura e non è nemmeno così importante ricordare «a favore di chi e contro che cosa» sia sorta.


Perché riprovarci?

Se il quadro è questo - un racconto della Resistenza sospeso tra i cavalli di battaglia della vulgata anti-antifascista o neofascista da un lato e una versione addomesticata o soft dell'antifascismo dall'altro -, perché tornare per l'ennesima volta a ribadire la natura e le ragioni di quella lotta? Perché, se quasi ottant'anni di sforzi in questa direzione non sono bastati a bonificare una volta per tutte il senso comune da trite panzane, storture e, nella migliore delle ipotesi, letture sommarie?

Vale la pena di farlo innanzitutto perché quella lotta, allora, il fascismo l'ha sconfitto e, se non ha ottenuto una vittoria completa in seguito, al tempo stesso ciò che ha lasciato in eredità è stato sufficiente per impedire che esso rinascesse. La Resistenza non ha zittito le voci contrarie perché ha dato origine a un sistema di convivenza civile che non ha negato la parola agli "altri", per quanto questi abbiano costantemente lamentato improbabili censure. Ha creato anticorpi che mai sono andati perduti, nemmeno nelle fasi più difficili della storia italiana. E non sono perduti nemmeno ora: al contrario, sono una risorsa da tenere cara e da puntellare per fronteggiare il clima in cui siamo immersi, che, comunque lo si chiami, rimette in discussione i principi di uguaglianza, di libertà e di giustizia che regolano il vivere civile.

Rinsaldare gli anticorpi richiede di continuare a ritornare tenacemente e malgrado tutto alla storia, perché soltanto in apparenza la rappresentazione della Resistenza che oggi prevale si nutre di smemoratezza e ancora meno di disinteresse per il passato. Piuttosto si alimenta e trae forza da un rapporto con la storia che, in termini più generali, si è trasformato di pari passo con i cambiamenti che hanno ridisegnato il modo di vivere, di pensare, di comunicare e i rapporti tra le persone. Aggrappati alla Rete, viviamo tutti in una sorta di «eterno presente», ma ciò non impedisce che ci si rivolga continuamente all'indietro, alla ricerca di una specie di passato à la carte, fatto di episodi, temi, esempi pronto uso, da spendere in un discorso che invecchia in pochi attimi ma che allo stesso tempo viene rilanciato e ripreso senza sosta. Questo meccanismo, connaturato ai media in generale ma amplificato a dismisura dalla Rete, tende a eliminare ogni profondità storica, ad azzerare i contesti, a semplificare brutalmente, trasportando gli avvenimenti del passato nel presente - come se il tempo fosse immobile - e giudicandoli senza tanti complimenti con lo sguardo dell'oggi.

Se si pensa al caso specifico degli attacchi alla Resistenza, cosa può rispondere alle esigenze di velocità e immediatezza della comunicazione meglio di un luogo comune, stratificatosi nel corso degli anni ma riverniciato a nuovo a ogni rilancio? Cosa meglio di un singolo evento strappato dal tempo in cui si è verificato e raccontato come se fosse accaduto appena ieri? Tanto più che questa stessa logica si giova di due altri ingredienti di grande efficacia comunicativa. In primo luogo, la scelta di affastellare tanti episodi ovviamente decontestualizzati (possibilmente scabrosi o direttamente macabri), scendendo nei particolari più minuti per ottenere un taglio cronachistico, con la certezza che tutto ciò suscita implicitamente in chi legge l'equazione "numero + dettaglio = credibilità". E pazienza - o forse tanto meglio - se ciò che resta è di fatto una grande confusione in cui è impossibile separare la sostanza dal superfluo. In secondo luogo l'opzione di puntare sulle emozioni che solo le vicende personali sanno trasmettere: accendere i riflettori sul singolo individuo, preferibilmente sugli aspetti privati e famigliari che rendono umano e in fondo bonario chiunque, facendo passare in secondo piano scelte e posizioni assunte sulla scena pubblica, e mettere avanti argomenti come la "buona fede", che hanno un significato sul piano individuale ma nessuno spessore quando si ragiona in termini di vicenda collettiva.

È appena il caso di precisare che le vicende delle persone sono una chiave indispensabile, che calarsi nelle loro emozioni e sensazioni è ciò che rende viva e comprensibile la storia: ma solo se e quando si tiene presente al tempo stesso il quadro generale e collettivo in cui le loro vite si sono spese. Ed è appena il caso di aggiungere che la ricostruzione di episodi singoli, anche i più minuti o problematici, con la maggiore precisione possibile, è un compito essenziale di cui gli storici si fanno carico - e tra l'altro a dimostrarlo ci sono decenni di lavoro certosino da parte degli Istituti storici della Resistenza, che inoltre mettono a disposizione di tutti i documenti che custodiscono. Ma la ricostruzione di ciascun episodio non può che andare di pari passo con quella altrettanto accurata del contesto storico in cui è avvenuto.

Davanti a tutto questo è spontaneo chiedersi se il problema vero sia non tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata. Se così è, più che recuperare e difendere la memoria, serve tornare testardamente a raccontare la storia della Resistenza, e le storie degli uomini e delle donne che l'hanno vissuta. E alla logica che stipa il discorso pubblico sulla guerra partigiana di crimini e pagine oscure, non basta reagire con quella uguale e contraria che contrappone di volta in volta atti di eroismo e pagine edificanti. C'è soltanto l'imbarazzo della scelta per farlo, ovviamente, ma nel rumore confuso e costante prodotto dal meccanismo semplificato della comunicazione non si riesce a uscire dalla sensazione di uno squallido pareggio: 1 a 1 e palla al centro. Forse è più produttivo rifiutare quel terreno di gioco, recuperare complessità, dare profondità storica e concretezza alla distanza che ci separa da quegli anni, riconducendo gli eventi ai problemi di fondo della storia della Resistenza, provando a calarsi nella realtà dura e drammatica ma anche piena di speranza e generosità di quei venti mesi tra il 1943 e il 1945 che tanto hanno significato per la storia di questo paese. Non si tratta né di celebrare né di giustificare a ogni costo, ma al contrario di conoscere ciò che è stato, di farsene carico in tutti i suoi aspetti: e di rivendicarlo per come è stato.

Una battaglia come questa, poco importa se di retroguardia o no, merita di essere combattuta.

| << |  <  |