Copertina
Autore Peter Connolly
Titolo Il pensiero yoga
SottotitoloLe origini e i testi, gli sviluppi e le correnti, lo yoga moderno
EdizioneRed, Milano, 2008, Studio 45 , pag. 240, cop.fle., dim. 17x24x2 cm , Isbn 978-88-7447-929-0
OriginaleA Student's Guide to the History and Philosophy of Yoga
EdizioneEquinox, London, 2007
TraduttoreElena Malanga
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe religione , filosofia , paesi: India
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Indice


  5 Le lettere sanscrite e la loro pronuncia

  6 Abbreviazioni usate nel testo


  7 Introduzione

 19 Capitolo I    - Il retroterra della filosofia dello yoga

 24 Capitolo II   - Lo yoga nei testi del Veda

 59 Capitolo III  - Le tradizioni sramaniche: il giainismo e il buddhismo

 87 Capitolo IV   - I poemi epici e la Bhagavad Gita

108 Capitolo V    - I sistemi filosofici ortodossi

157 Capitolo VI   - La nascita delle sette: saivismo, saktismo e tantra

179 Capitolo VII  - Lo yoga moderno

193 Capitolo VIII - Alcune riflessioni sulla psicologia dello yoga


208 Note
226 Bibliografia
233 Indice analitico


 

 

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Pagina 7

Introduzione


La parola 'yoga' rimanda, per molti occidentali, a esercizi e posizioni insolite e a volte contorte. Tutto ciò ha sicuramente un posto di rilievo nella pratica dello yoga, che è, però, molto di più. Nella letteratura antica lo yoga viene infatti descritto e definito come una disciplina più mentale che fisica. Lo yoga è inoltre profondamente legato al subcontinente indiano e a due particolari religioni, l'induismo e il buddhismo, al punto che uno dei maggiori esperti in materia del XX secolo, il rumeno Mircea Eliade, lo ritiene il frutto della psiche indiana, del suolo indiano. Ciò che oggi noi conosciamo come yoga ha in effetti avuto origine e si è sviluppato in India. Non tutti, però, sono d'accordo nel definirlo qualcosa di unico e distintivo del continente indiano: alcuni lo ritengono piuttosto la versione locale di una tradizione mistica di cui si possono trovare esempi in altre culture. In questa sede, comunque, non mi occuperò di questo dibattito: sposerò invece, nel corso del libro, la tesi dello yoga come forma di misticismo propria dell'India, affrontando solo in un capitolo successivo la questione delle varie tradizioni spirituali cui spesso ci si riferisce come 'mistiche' e dei loro eventuali tratti in comune.


Questo libro è il frutto e in parte si rivolge a un corso di filosofia dello yoga ideato per la British Wheel of Yoga, un'organizzazione che cerca di promuovere studi approfonditi e non 'di parte' sulle tradizioni yogiche dell'India. Riflette quindi l'impostazione del corso, e gli insegnamenti yogici contenuti nelle Upanisad, nella Bhagavad Gita e nello Yoga Sutra, che sono il nucleo centrale del piano di studi dell'associazione, costituiscono anche il fulcro di questo lavoro. Non ho però del tutto trascurato le dinamiche più vaste della tradizione indù. Del resto come avrei potuto, visto che la tradizione induista è il contesto stesso in cui lo yoga si è sviluppato?

Ho anche fatto riferimento, in diverse occasioni, alla tradizione buddhista, prassi inevitabile per vari motivi. In primo luogo il buddhismo ci offre uno dei migliori esempi di tradizione yogica. Mi spingerò anche oltre: il buddhismo è intrinsecamente yogico. In secondo luogo la tradizione buddhista si è sviluppata parallelamente alla religione Brahmanica, che ha dato origine a quello che è oggi l'induismo, e le due religioni si sono influenzate a vicenda, non sempre in modo simmetrico. Anzi, a mio parere, lo yoga indù deve a quello buddhista molto di più di quanto quest'ultimo non debba al primo.

In un lavoro come questo l'autore può decidere di adottare un approccio neutro e imparziale nella presentazione di materiale e interpretazioni che danno adito a controversie tra le scuole oppure può prendere più decisamente posizione. Personalmente ho adottato il secondo criterio, anche se in vari momenti parlo degli altri possibili punti di vista. Ciò che mi ha spinto a questa decisione è in parte stato il desiderio di trasmettere al lettore qualcosa del mio metodo di insegnamento, volto a dare basi di filosofia dello yoga quanto a stimolare gli studenti al libero pensiero e alla libera ricerca. Una formazione in questo campo ha in realtà il dovere, per quanto mi riguarda, di stimolare l'autonomia di pensiero. I vari autori di libri o articoli sullo yoga fanno una serie di affermazioni in merito alla storia e alla natura di questa disciplina. Il consiglio che do agli studenti è di vagliare sempre le ragioni a sostegno delle tesi esposte. Se le argomentazioni non sono buone, un sano scetticismo è probabilmente l'atteggiamento migliore.

Un consiglio di questo genere solleva il problema dei cosiddetti 'approcci', 'filtri', 'ottiche' o 'prospettive', ovvero di come presentare e trattare il materiale. Approcci diversi si concentrano e danno maggior significato ad aspetti diversi di una situazione o di un fenomeno. Nelle pagine che seguono mi soffermerò principalmente su tre punti di vista: quello fenomenologico, quello filosofico e quello storico. Ognuno di questi approcci cerca di 'dare un senso' al materiale proposto e al lettore viene richiesto di adottare, di volta in volta, angolazioni differenti. Ogni approccio offre un proprio metodo di interpretazione e sceglie, a sua discrezione, di cosa occuparsi principalmente. Per esempio, uno psicologo che si occupa di yoga tenderà a privilegiare materiale di natura più psicologica, cercando di interpretarlo secondo quest'ottica. In sintesi, la scelta dell'angolazione e del metodo influenza profondamente le conclusioni cui si giunge.


L'approccio fenomenologico

L'approccio fenomenologico tenta di dare senso a 'ciò che si presenta' e di trasmetterlo al lettore. In altre parole cerca di spiegare il più possibile il fenomeno 'nei suoi stessi termini'. Ciò implica, di solito, un tentativo di empatia con gli autori o le tradizioni e l'elaborazione di tipologie che collegano vari aspetti tra loro e scavano in profondità, alla ricerca di schemi e connessioni non sempre evidenti dal punto di vista di 'ciò che si presenta'.

Troviamo un perfetto esempio di tipologia fenomenologica in The Book of Enlightened Masters: Western Teachers in Eastern Traditions di Andrew Rawlinson. Nel libro l'autore propone una tipologia delle tradizioni spirituali elaborata in base alle testimonianze di vari testi sulla spiritualità e di interviste con maestri spirituali moderni. La tipologia proposta ruota attorno a due assi: caldo/freddo e strutturato/non strutturato. Rawlinson dà la seguente definizione dei due assi:

Caldo è l'altro da sé; ciò che è dotato di vita propria. Non vi si ha accesso di diritto. Θ qualcosa di potente, che toglie il respiro ed è collegato alla rivelazione e alla grazia. Θ molto simile al numinoso di Otto.

Freddo è la propria essenza; non occorre cercarla altrove. Vi si ha accesso di diritto. Θ qualcosa di calmo e immobile ed è collegata alla realizzazione di sé.

Strutturato rimanda a un ordine intrinseco del cosmo e della condizione umana. C'è qualcosa da scoprire là fuori e c'è un modo per scoprirlo. Per giungere a destinazione occorre una mappa.

Al contrario gli insegnamenti non strutturati sostengono invece che non vi sia divario tra il punto di partenza e quello di arrivo. Il mezzo e il fine sono gli stessi. Non siamo separati dalla realtà/verità/Dio e quindi non è richiesta nessuna mappa. Tutto è, ed è sempre stato, lì, a disposizione.

Gli assi possono essere rappresentati secondo il seguente schema:


                                Caldo
                                  |
                                  |
                                  |
            Strutturato ----------|---------- Non strutturato
                                  |
                                  |
                                  |
                                Freddo

Si ottengono così quattro quadranti: caldo-strutturato, freddo-strutturato, caldo-non strutturato e freddo-non strutturato. Le caratteristiche primarie di ognuno sono, secondo Rawlinson:


Caldo-strutturato

Questo tipo di tradizione insiste sull'importanza della conoscenza iniziatica, della gerarchia, dell'esercizio della volontà e della manipolazione delle leggi del cosmo al fine della trasformazione di sè. Tra le immagini proposte troviamo il mago e il giocatore d'azzardo e l'idea del salto più che del viaggio. Ne sono un esempio il Tantra induista, il buddhismo Vajrayana, la tradizione Siddha, il ritualismo vedico, la cabala, l'ermetismo, l'alchimia e lo sciamanesimo.


Caldo-non strutturato

Questo tipo di tradizione dà grande importanza alla beatitudine, alla disciplina, all'amore, all'obbedienza, alla sottomissione e alla saggezza. Tra le immagini troviamo l'amante e il martire. Esempi di questo genere di tradizione sono il devozionalismo estatico indù (per esempio, il mistico indiano Caitanya Mahaprabhu), il buddhismo della Terra Pura, il sufismo, il misticismo cristiano (per esempio, Santa Teresa d'Avila).


Freddo-strutturato

Questo tipo di tradizione dà grande rilievo alla consapevolezza imparziale, all'ordine, al progresso, allo sforzo e alla concentrazione. Tra le immagini troviamo l'artigiano e lo yogin e l'idea del lavoro più che della grazia. Esempi di tradizione di questo genere sono lo Yoga Sutra di Pataρjali, il buddhismo Theravada, lo Zen, il Vedanta, ovvero le Upanisad, il Samkhya, il filosofo e mistico indiano Sri Aurobindo e il filosofo greco Plotino.


Freddo-non strutturato

Questo genere di tradizione dà grande importanza all'Essere, alla possibilità di conoscere la verità in ogni momento (non c'è neanche bisogno del salto) e all'assenza di qualsiasi tipo di 'cammino'. Tra le immagini troviamo il saggio e l'eremita e l'idea del 'lasciare andare'. Esempi di questo tipo di tradizione sono l'Advaita Vedanta, il buddhismo Madhyamaka, il Mahamudra, il Taoismo, il buddhismo tibetano Dzogchen e Zen.


Dagli esempi risulta chiaro che le varie forme di yoga si collocano in quadranti diversi e che tra le varie scuole esistono alcune significative differenze. Non è quindi vero che tutte le scuole insegnano la stessa cosa. Mi soffermerò su alcune di queste differenze nei capitoli successivi, quando affronterò il discorso delle varie forme di yoga.

Un'altra tipologia a cui farò ricorso nei prossimi capitoli ruota attorno al concetto di liberazione o salvezza (la soteriologia è la dottrina della salvezza). Θ strutturata in base alle quattro domande chiave cui ogni dottrina di salvezza deve rispondere:

1. Da che cosa devo essere salvato?

2. Con quali mezzi si raggiunge la salvezza?

3. A quale stato accedo una volta che sono stato salvato? Oppure qual è la differenza tra uno stato di salvezza e uno stato di non salvezza?

4. A quale fonte o fonti bisogna attingere per avere informazioni significative da un punto di vista soteriologico?


Le risposte a queste domande variano da tradizione a tradizione, anche se ogni dottrina di tipo soteriologico dà, in un modo o nell'altro, delle risposte. Lo schema a pag. 12 illustra alcune delle varianti principali.

Le risposte alla domanda numero 1 variano in maniera significativa. I concetti cristiani di peccato e alienazione da Dio sono piuttosto diversi da quelli indiani di karma e samsara, anche se gli insegnamenti che riguardano il modo di trascendere tali condizioni (domanda numero 2) sono, da un punto di vista strutturale, incredibilmente simili: in entrambi i casi si parla di sforzo, grazia o una combinazione dei due.


Troviamo una gamma simile di risposte nella tradizione cristiana e in quella induista anche alla domanda numero 3: o c'è una realizzazione dell'unità o un riconoscimento della differenza tra anima e Dio. Nel primo caso salvezza o liberazione hanno un carattere epistemologico: il cosmo non cambia anche se cambiano la percezione e l'esperienza che noi ne abbiamo. Lo stato di non liberazione è uno stato in cui non ci rendiamo conto della nostra unità con il tutto, Dio incluso. Lo stato di liberazione è uno stato in cui ci rendiamo conto di questa condizione. Una volta liberati possiamo, per esempio, amare il prossimo come noi stessi, perché diventiamo consapevoli che il prossimo siamo noi. Nel secondo caso il discepolo fa l'esperienza di Dio e riconosce che l'anima e Dio non sono la stessa cosa. Come dice il devoto medioevale Ramprasada: «Io non voglio essere zucchero, voglio assaggiare lo zucchero». In altre parole non voleva essere Dio, voleva fare l'esperienza di Dio. C'è una dimensione ontologica (l'ontologia è la dottrina dell'essere o dell'esistenza) in tutto questo, perché i cambiamenti portati dalla liberazione vanno oltre il mero cambiamento di percezione: implicano anche una sorta di ricollocamento. Così, per esempio, l'anima passa (spesso con la morte) da un'implicazione con la materia all'associazione con Dio. I cristiani non hanno una versione ateistica della salvezza come quella che troviamo in varie forme di buddhismo, induismo o giainismo, ma la loro cosmologia (in molte versioni) è comunque data, essenzialmente, da Dio, anima e materia: non differisce cioè poi così tanto dalla concezione della scuola indù di Samkhya o dal giainismo (con l'aggiunta di Dio).

Lo schema di questa tipologia si trova nella pagina successiva.

Le risposte alla terza domanda, cioè «a quale stato accedo una volta che sono stato salvato?», spesso combinano due diversi aspetti: quello ontologico e quello teologico. In termini ontologici le prospettive più comunemente adottate, come si può vedere dallo schema, sono il monismo, il dualismo e il pluralismo. Il monismo ontologico sostiene che alla base dell'esistenza tutto è uno; il dualismo che vi sono invece due esseri separati, per esempio Dio e l'universo (in questo caso le anime sono considerate parte di Dio) o le anime e l'universo, come nel Samkhya e nel giainismo. Il pluralismo è un'estensione del dualismo e presenta più di due tipi di esseri (Dio, anime e universo, per esempio). Poiché comprendono più anime individuali, il giainismo e il Samkhya potrebbero essere considerati pluralistici dal punto di vista ontologico. Il motivo per cui vengono di solito definiti dualistici è che le varie anime (purusa nel Samkhya, jiva nel giainismo) sono una identica all'altra.


In termini teologici i tre tipi di concezione che incontriamo più spesso sono il politeismo (molti dei), il monoteismo (un Dio solo) e l'ateismo (assenza di Dio). Ciò che accomuna le due categorie, ontologica e teologica, è che in entrambi i casi un'opzione esclude l'altra. Non si può essere politeisti monoteisti o monoteisti atei. Così come non è possibile essere dualisti monisti o monisti pluralisti. Θ possibile, invece, combinare qualsiasi teologia con ogni tipo di ontologia. Lo dico perché alcuni autori danno per scontato che un certo tipo di ontologia abbia un determinato corrispondente teologico: che, per esempio, al dualismo o al pluralismo corrisponda il monoteismo. Ma non è così.

Possiamo riassumere le varie opzioni in una tabella a due colonne. Tra le due colonne è possibile qualsiasi combinazione incrociata, ma all'interno di ogni colonna non è possibile alcuna combinazione, pena l'incoerenza. In altre parole si può essere, per esempio, monisti politeisti, dualisti politeisti o pluralisti politeisti.

                        ONTOLOGIA   TEOLOGIA

                        Monismo     Politeismo
                        Dualismo    Monoteismo
                        Pluralismo  Ateismo



L'approccio filosofico

Gli approcci fenomenologici privilegiano la descrizione accurata e hanno quindi molto in comune con l'antropologia sociale e culturale. La filosofia ha un approccio abbastanza diverso. I filosofi tendono a essere cauti ed evasivi quando viene loro richiesta una definizione della filosofia e non conosco definizione in merito che possa riscuotere un consenso unanime. Di conseguenza mi limiterò a proporre una 'definizione funzionale', ovvero quello che io intendo quando uso il termine filosofia. Questa definizione è costituita da due parti.

Da un lato i filosofi sono tendenzialmente scettici, poco inclini ad accettare affermazioni a meno che non vi siano valide ragioni a sostegno. Pretendono non solo che l'evidenza sia provata, ma anche che la sua interpretazione sia inferita, cioè logicamente valida. Dall'altro cercano di rispondere alle loro stesse richieste presentando le proprie argomentazioni in maniera rigorosa e sistematica.

Quindi la filosofia combina, a mio parere, una mente scettica (che si manifesta con un atteggiamento 'investigatorio' rispetto alle affermazioni fatte da altri) con un impegno a presentare le proprie idee in modo sistematico e argomentato.


Lo yoga della tradizione aveva spesso un taglio chiaramente filosofico. La differenza tra i vari maestri riguardava i modi con cui perseguire più efficacemente la conoscenza che portava alla liberazione oppure le rivelazioni sulla natura del mondo una volta che questa conoscenza fosse stata acquisita. C'erano dibattiti attorno a questi temi e le discussioni, assieme ad altri fattori, spingevano i maestri nella direzione della filosofia. Fondamentale era la questione epistemologica, lo studio della conoscenza e del modo in cui la otteniamo.

La maggior parte delle scuole di yoga erano d'accordo nel sostenere che noi acquisiamo ciò che chiamiamo conoscenza in tre modi principali: percezione (pratyaksa), inferenza (anumana) e testimonianza (sabda). Non erano d'accordo, però, sul tipo di status che legittimamente spettava a queste fonti. La terza modalità era la più controversa, con l'ortodossia Brahmanica che ne accettava l'autorità (poiché voleva che le scritture avessero uno status pari o addirittura superiore a quello attribuito alla percezione o all'inferenza) e i meno ortodossi che avevano un taglio più scettico. Gli stessi termini venivano inoltre usati in modo diverso dai diversi maestri. Il maestro vedantino sankara, per esempio, usa spesso il termine 'percezione' in riferimento alle scritture: sosteneva, infatti, che le scritture riportassero la percezione degli antichi saggi e dovessero per questo avere lo stesso valore della percezione diretta del singolo.


Il Buddha ci fornisce un ottimo esempio di pensiero filosofico antico in merito a problemi di carattere yogico in generale ed epistemologico in particolare. Il suo approccio è fondamentalmente doppio: considera dapprima una serie di posizioni assunte sul tema della conoscenza identificandone i vizi di fondo, poi illustra quelle che lui considera delle basi solide per qualsivoglia teoria della conoscenza.

Nel Sangaravasutta del Anguttara Nikaya suddivide gli sramana e i bràhmana in tre tipi rispetto al discorso epistemologico e colloca se stesso nella terza categoria:

1. I tradizionalisti, che basano la propria dottrina sulla tradizione, l'autorità o la testimonianza.

2. I razionalisti, che basano la propria dottrina sul ragionamento e sulla logica.

3. Gli sperimentalisti, che procedono secondo una conoscenza intuitiva personale della verità.

Ogni categoria comprende una serie di sottogruppi (essenzialmente individuati in base alle argomentazioni che apportano a sostegno delle proprie concezioni).


I tradizionalisti

Nel Bhaddiyasutta il Buddha individua dieci argomentazioni inadeguate a sostenere concezioni, credenze, opinioni. Sei di queste riguardano tradizione o autorità e quattro ragionamento o inferenza. Quelle che afferiscono ad autorità o tradizione sono:

• testimonianza;

• tradizione;

• diceria;

• esperienza della letteratura (ovvero la conoscenza che viene dalle scritture);

• perché così deve essere;

• il concetto che 'il 'recluso' (il maestro) è da noi venerato'.

Secondo il Buddha autorità e tradizione sono inutili se non possono essere ricondotte all'esperienza personale di qualcuno. Nel Tevijjasutta del Digha Nikàya (I discorsi del Buddha) e nel Cankisutta troviamo una trattazione più circostanziata del tema.

Ecco un estratto che ci dà un'idea dello stile del Buddha:

Si può avere fede in una cosa, ed essa è vacua, vana e falsa; e si può anche non avere fede in una cosa, ed essa è reale, vera ed esatta... La verità, Bharadvajo, ricercata da un uomo intelligente, non fa trovare subito unilateralmete la conclusione: 'Questo solo è verità, stoltezza il resto!' ... Se un uomo ha fede e, dicendo 'tale è la mia fede', ricerca la verità e non ne trae subito unilateralmente la conclusione: 'Questo solo è verità, stoltezza il resto!'

In altre parole se qualcuno crede in una testimonianza o in una tradizione dovrebbe affermare di credere che ciò sia vero invece di dichiarare che ciò è la verità.


I razionalisti

Le quattro argomentazioni non esaurienti che afferiscono al ragionamento sono:

• logica;

• inferenza;

• dopo aver considerato le ragioni;

• dopo aver riflettuto su una teoria e averla approvata.

Il Buddha non è contro il ragionamento in quanto tale, ma contro chi gli attribuisce troppo valore e lo usa al fine di arrivare a posizioni dogmatiche.

Buddhagosa (V secolo) individua quattro tipologie di 'ragionatori':

• quelli che ragionano sulla base della tradizione (essenzialmente della teologia);

• quelli che ragionano sulla base della memoria;

• quelli che ragionano sulla base dell'esperienza meditativa;

• i puri ragionatori.

Il ragionamento del primo tipo si basa su fondamenta non sicure, dato che ogni tradizione contiene verosimilmente degli errori. Nel secondo e nel terzo caso il ragionamento è basato sull'esperienza e la critica del Buddha riguarda non l'esperienza in sé, ma il processo di estrapolazione dalla medesima. Quindi:

1. una persona che ricordi una o due nascite (precedenti) e sostenga che, dato che è esistita nel passato nel tale e tale posto, l'anima è eterna, è una persona che ragiona secondo premesse basate sulla retrocognizione;

2. colui che, in virtù della propria esperienza giainica, sostiene che, poiché la sua anima è felice nel presente, deve esserlo stata anche nel passato e lo sarà nel futuro e accetta la teoria che l'anima è eterna, è un ragionatore intuitivo.

In entrambi i casi il ragionatore è andato oltre l'evidenza dell'esperienza e ne ha tratto un'inferenza non giustificata che, secondo il Buddha, porta ad affermazioni false credute vere. Nel caso dei ragionatori puri l'errore è doppio:

• innanzitutto il loro modo di ragionare a priori (sulla base, cioè, di principi accettati) è un ragionare su quello che dovrebbe o deve essere e non su quello che è;

• in secondo luogo traggono deduzioni infondate.

Il Buddha non poteva quindi ritenere affidabili credenze basate sull'autorità o la tradizione, sull'autorità e il ragionamento, su un'esperienza limitata e il ragionamento o sul puro ragionamento. Il Buddha pare, più che altro, contro qualsiasi credenza o concezione.

Nel Dighanakhasutta individua tre atteggiamenti verso concezioni o credenze:

• sono d'accordo con ogni concezione;

• sono d'accordo con alcune concezioni ma non con altre;

• non sono d'accordo con nessuna concezione.

Θ un testo piuttosto difficile, ma il suo messaggio essenziale è che le prime due posizioni portano a «dispute, contrarietà e preoccupazioni». La terza posizione è «vicina al distacco, all'assenza di catene, di gioia, di desiderio, di avidità», ma se vi ci si attiene in maniera dogmatica può diventare anch'essa vincolante e motivo di disputa. Quindi, se da un lato il Buddha è per l'assenza di ogni concezione, dall'altro non è neanche per la presa di posizione, dogmatica, secondo cui ogni concezione è falsa. Sembra piuttosto incoraggiare uno stato mentale che cerchi di minimizzare qualsiasi elemento possa essere causa di dispute, contrarietà, preoccupazioni. Interrogato in merito a questioni epistemologiche, tende a rispondere in due modi:

• mantenendo un nobile silenzio;

• ridefinendo il problema secondo una terminologia buddhista.


Gli sperimentalisti

Il Buddha si colloca in questa categoria. Ci sono, peraltro, vari tipi di sperimentalisti. I materialisti (Carvaka o Lokayata) erano empiristi. L'unica esperienza che contemplavano era quella dei sensi. Il Buddha, invece, fa riferimento all'esperienza meditativa e alla conoscenza che si ottiene attraverso di essa. Raccomanda di raggiungere il quarto jhana (quarto livello meditativo) e poi di indirizzare la propria mente, stando attenti a non inferire in modo inappropriato, verso i tre tipi di conoscenza da lui acquisiti nella notte del risveglio:

• la conoscenza di vite precedenti;

• la conoscenza delle cause della rinascita;

• la conoscenza della distruzione dei veleni (asava).


Questo è, secondo il Buddha, l'unico modo per dare fondamenta solide alla dottrina sulla natura delle cose. Ed è a questo punto, naturalmente, che ciò che il Buddha afferma va di pari passo con la filosofia e diventa passibile della critica, da lui rivolta ad altri, di andare oltre l'evidenza. Un conto è descrivere le esperienze fatte durante la meditazione, un altro rivendicare la loro veridicità, che è esattamente quello che il Buddha fa nel momento in cui dichiara di vedere il mondo così com'è (yathabhutam).

Certo, molto dipende dal tipo di dichiarazione: se sta affermando una verità («è così che le cose realmente sono») o se sta dicendo «è così che a me appaiono». Soltanto in quest'ultimo caso, per dirla con le sue stesse parole, si «preserva la verità».


L'approccio storico

L'esempio del Buddha ci mostra che si può essere uno yogin e al tempo stesso un filosofo. Quindi, quello che consiglio al lettore è di essere un fenomenologo e cercare di capire la materia, nei limiti del possibile, nell'ambito dei suoi stessi termini, ma anche un filosofo e cercare di mettere in discussione le affermazioni fatte e di chiedere valide ragioni a loro sostegno. Il lettore deve anche essere messo nella condizione di apprezzare le problematiche che emergono dai tentativi di ricostruzione storica.

La 'ricostruzione' è un concetto fondamentale, oggi, negli studi di carattere storico. Gli storici contemporanei attingono al maggior numero di informazione possibile. Cercano anche di offrire analisi e spiegazioni degli eventi. Questo modo di lavorare è in netto contrasto con quello dei loro predecessori, antecedenti al XX secolo, che tendevano a enfatizzare il ruolo delle intenzioni umane nelle loro ricostruzioni e ad adottare un approccio fondamentalmente narrativo.

Personalmente seguirò, nell'occuparmi di filosofia indiana, gli ultimi sviluppi della ricerca storica, cercando, quando sarà opportuno, di spiegare perché le tradizioni si sono evolute in un certo modo e riassumendo i tipi di cambiamento emersi.

La storia ha a che fare con la cronologia, mette temporalmente in relazione persone, eventi e creazioni umane. La cronologia può essere di due tipi: assoluta o relativa. La cronologia relativa è, essenzialmente, il processo tramite il quale si determina che cosa viene prima e che cosa viene dopo. Stabiliamo una cronologia relativa quando affermiamo, per esempio, che l'insegnante X è vissuto prima dell'insegnante Y o che la scrittura P è precedente alla scrittura Q. Ciò può essere spesso determinato in virtù di criteri unicamente interni, per esempio la lingua in cui i testi sono stati redatti. Se vogliamo fare affermazioni specifiche come «l'insegnante X è vissuto dal 483 al 403 a.e.v. e l'insegnante Y dal 324 al 250 a.e.v.» o «la scrittura P risale all'anno 720 e la scrittura Q al 640» abbiamo bisogno di convalide esterne, come un'iscrizione o un riferimento in un'opera di cui abbiamo la data precisa. Una datazione di questo genere prende il nome di cronologia assoluta, perché oltre all'ordine relativo abbiamo anche punti di riferimento fissi.


Per molti dei testi e delle personalità più influenti della storia della filosofia indiana può essere stabilita, con un certo margine di sicurezza, solo una cronologia di tipo relativo. Le cronologie assolute sono spesso oggetto di consistenti dibattiti. Ciò non sorprende affatto, perché se due testi offrono essenzialmente lo stesso tipo di insegnamento è probabile che uno abbia preso dall'altro e la domanda 'chi ha preso da chi?' diventa importante nel processo di ricostruzione. Se poi uno dei testi è, per esempio, Brahmanico, e l'altro buddhista, al dibattito si aggiunge un'ulteriore dimensione. Le posizioni prese all'interno dei vari dibattiti assumono particolare importanza per i neofiti, che spesso mostrano un rispetto eccessivo per le concezioni espresse da autori o libri e non di rado scambiano i pareri per fatti.

Generalmente la tendenza, tra gli studiosi indiani e coloro che seguono tradizioni spirituali dell'India, è di collocare le cronologie di tipo assoluto in un tempo decisamente precedente rispetto alla controparte occidentale. Quindi, nel momento in cui per noi diventa importante stabilire una cronologia, buona regola sarà consultare il maggior numero di fonti possibili e assicurarsi che queste comprendano opere che rispecchiano entrambe le posizioni. Come i filosofi anche gli storici pretendono che le affermazioni fatte siano sostenute da prove e/o da argomentazioni adeguate.

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