Copertina
Autore Franco Cordero
Titolo Nere lune d'Italia
SottotitoloSegnali da un anno difficile
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, Saggi , pag. 224, cop.fle., dim. 140x210x18 mm , Isbn 978-88-11-60038-1
LettoreLuca Vita, 2004
Classe politica , diritto , paesi: Italia: 2000 , costume
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Indice

 0. Il profumiere, gli argentieri,
    una via lattea                            5
 1. Come nasce casa d'Arcore                 14
 2. I tristi tè del Cappellaio               19
 3. L'esca delle riforme                     24
 4. La tredicesima mossa                     29
 5. Chiose a un'ordinanza                    33
 6. I sette predicati                        37
 7. La nuova barbarie                        41
 8. Il carnevale della procedura             45
 9. I tanti modi d'avere ragione:
    retoriche del secolo incipiente          49
lO. La borsa della giustizia                 61
Il. Cosa succederà martedì 14 aprile?        65
12. Procedura, pirateria, vaudeville         69
13. Canterino e logomaco pro domo sua        73
14. L'urlo del ciclope                       77
15. Glossa alla peste                        81
16. I giorni dell'egoarca                    87
17. L'ultima perfidia                        91
18. L'oracolo neutrale                       95
19. Gli scherzi dell'immune                  99
20. Tartufi d'ogni stagione                 103
21. Il traghetto d'acheronte                108
22. L'incoercibile                          112
23. I torneatori del dialogo                116
24. Grand slam                              120
25. Sua signoria mangia il banco            124
26. L'occultista politicante                128
27. Ha le zanne quel fagocito               138
28. Intellectus angelicus                   142
29. Tropismi e acqua dell'oblio             144
30. Due anime in musica                     148
31. Commedia buffa                          152
32. Assalto ai nervi                        156
33. Cronaca d'una prigionia                 160
34. L'ascesa del venerabile                 165
35. L'intervista al «Corriere»              169
36. Enciclica da Palazzo Madama             173
37. Era meglio Gelli                        177
38. Quanti rubiconi guada B.                181
39. Era innocuo il lupo                     182
40. La mancata Austerlitz del sire d'Arcore 186
41. Immunità                                190
42. Quel joker alla quindicesima mossa      191
43. De gratiis                              195
44. Post mortem d'un lodo                   199
45. Meminisse iuvat                         203
46. Perfidi Alisei                          207

Indice dei nomi                             217

 

 

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Pagina 14

l.
COME NASCE CASA D'ARCORE



L'uomo più ricco d'Italia, padrone d'un micidiale apparato televisivo, giocava la partita elettorale ad armi diseguali, favorito dal vuoto normativo (mancano regole sui conflitti d'interesse), ma sia grato agli avversari se ha vinto: due in particolare, maestri d'astuzie suicide; l'archetipo italiano è Ludovico il Moro. Quasi incredibile ma vero, degli ex comunisti pensano in categorie berlusconiane.


Tre aneddoti su B. Con quanta empatia venerdì 23 agosto racconta i suoi miracoli all'assise riminese Cl: l'ecclesia invoca luce; e toltasi la giacca, l'uomo d'Arcore ne irradia torrenti. Poche settimane dopo, ritto sulla jeep, passa in rivista un battaglione acclamante «Silvio!, Silvio!». Martedì 26 novembre il Tribunale viene da Palermo a sentirlo a proposito del sodale bibliofilo, sotto accusa d'affari mafiosi, e lui non risponde, quale ex possibile imputato d'un procedimento connesso. Siamo nella norma? Sulla sinistra complicano l'anomalia artisti d'una politica esoterica. L'archetipo italiano è Ludovico Sforza, detto il Moro, usurpatore del ducato milanese (reggente dal 1479, spodesta l'erede Ciangaleazzo). Philippe de Commines lo descrive instabile, sottile, ombroso, funambolo, «homme sans foi»: la paura gli stimola un funesto eretismo tattico; temendo gli Aragona (Isabella, moglie del nipote in gabbia, è un'aragonese, nipote del re Ferdinando), tresca con Massimiliano d'Absburgo, poi chiama Carlo VIII; gioca partite sincrone; ogni tanto cambia cavallo e finisce malissimo. Caso altrettanto tipico, nel mondo slavo, l'ultimo ministro degli esteri polacco anni Trenta, colonnello Joszef Beck. Alla domanda d'un ospite straniero, cosa pensi d'Hitler, risponde inarcando le sopracciglia: bravo, e sorride; ma quanto dista dal colonnello Beck (A.J.P. Taylor, The Origins of the Second World War, Penguin Book, p. 248). Voleva sedere a Monaco, Quinto Big: concupisce l'Ucraina; non degna le proposte tedesche su Danzica e Corridoio, sicuro d'intimidire i colossi confinanti; tra due lievi colpi del dito sulla sigaretta incassa l'inutile garanzia inglese; rifiuta l'aiuto russo, molto equivoco ma era la sola carta; e in tre settimane la Polonia sparisce. Esempi da ripensare quando intenditori sopraffini deplorano che gli allarmisti «strillino al regime». Ogni tanto i politicanti parlano lingue lunatiche. Nel lessico comune, dove «regime» significa varie cose, è chiaro che l'Italia 2002 ne subisca uno: sono tanti quanti gli stili governativi; e visto l'attuale, definiamolo regime personale.

Ha qualcosa delle Signorie trecentesche. Il punto comune sta nell'investitura popolare o balìa ma, issato al potere dalla borghesia grassa, il Signore, appena può, taglia il cordone ombelicale inaugurando politiche meno classiste: perequa i carichi fiscali; nel Pavese i Visconti abbassano i magnati e proteggono le campagne, oppresse dal Comune; a Firenze il duca d'Atene tutela i popolani. La metamorfosi, insomma, porta anche ordine, giustizia, stabilità. È cominciata dal voto assembleare: gli oligarchi delegano i poteri; il mandatario s'emancipa quale vicario imperiale; e dal titolo signorile ereditario nasce lo Stato (A. Anzilotti, Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Laterza, 1930, pp. 1-31). Ora, mentre le Signorie puntavano al futuro, B. incarna forme regressive del potere. Nella fisiologia dei partiti alterni il sistema ammette profondi dissensi (mercato del lavoro, fisco, scuola ecc.), ma qui sono a repentaglio i fondamenti, come non avviene tra Pompidou o Giscard d'Estaing e Mitterrand oppure quando Margaret Thatcher sbaraglia le Trade-Unions. Solo i finti ciechi non vedono la malattia italiana. Era cresciuto sotto l'ala d'una consorteria politica, orfano della quale irrompe sul campo perché deve salvarsi. Nell'anno 1992 l'auriga dal garofano rosa arrancava, poi affoga. Cade il trinomio Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), vacanti Quirinale e Palazzo Chigi. L'establishment muore infognato nel malaffare, avendo condotto l'Italia a due dita dalla bancarotta: fosse ancora vitale impedirebbe i processi mobilitando inerzie vischiose (così avveniva ai bei tempi); e moltiplicato da psicodrammi popolari, violenti quanto labili, l'evento giudiziario affretta lo scioglimento. Naufragano Dc, Psi, Psdi. Vanno alla deriva masse d'elettori captabili dal concorrente più abile. L'unico sopravvissuto è l'ex Pci in cerca d'identità. Manca l'organismo politico dell'opinione liberalsocialista. Mai viste congiunture così fluide.

Anziché puntare sulle lobbies o assumere politici professionisti, B. giostra a viso scoperto, incurante degli avvertimenti (del fedelissimo Alter Ego): cava dall'azienda un partito, avendo sotto mano masse elettorali nel suo pubblico televisivo; imbarca i postfascisti, sdoganandoli dalla quarantena, e Lega; sceglie una sigla dal lessico nazionalcalcistico; rende ossequio labiale al movimento epuratorio, mentre raccoglie l'eredità attiva della classe politica folgorata; inalbera insegne d'anacronistico anticomunismo; e spende tante ciarle. Passerà alla storia come supremo antipedagogo, l'Attila degli schermi. Gli spettatori hanno 11 anni, ripete senza requie, esigendo dagli spacciatori formule elementari che vadano diritte alla midolla: dove soffia lui, non cresce più l'erba intellettuale; altro che i dottori Mabuse e Caligari nei film espressionisti tedeschi. Paragonati agli attuali, i vecchi programmi televisivi erano arte, varia cultura, decoro, sentimento morale. In mano sua lo spettacolo diventa ignoranza, volgarità aggressiva, ciarlataneria, svago plebeo. Con tali arnesi cattura mezza Italia, pescando nelle acque vedove, erede d'un ceto sulla cui caduta versa lacrime da coccodrillo, imputandola al complotto comunista, mentre se fosse meno istrione, ammetterebbe d'avervi guadagnato. L'avventura governativa dura appena 6 mesi. Sconfitto 2 anni dopo, sopravvive benissimo ai 5 nel deserto, anzi, cresce sulla pelle degli alleati e ruba voti agli antagonisti, nei quartieri operai, ad esempio. Stavolta piglia tutto.

Più che vittoria sua, è un suicidio ex adverso. Rammentiamolo, perché le memorie politiche deperiscono. Nella primavera 1996 il Centrosinistra vince sul traguardo, avendo giocato meglio la partita con uno schieramento dall'area liberale alla neocomunista, mentre sulla destra mancano i voti della Lega. Gli obiettivi sono chiari: condurre l'Italia nell'Unione europea, riassestando i conti; e regole severe sui conflitti d'interessi, cominciando dalle televisioni. L'opera riesce a metà: buono l'esecutivo; funesta la politica nelle Camere; quanto meglio lavora il governo, tanto meno vitale appare; i becchini contano le settimane; l'aspirante erede postula un B. senza futuro politico o addomesticabile, due ipotesi false, e avvia dialoghi intesi niente meno che a rifondare la Repubblica. L'affabile mago vende fumo, nel qual mercato incanterebbe anche Asmodeo, uno dei più fini alla corte diabolica. L'abbaglio costa caro nella partita con un eversore quale costui era ed è. Alla falsa diagnosi seguono scelte empie. Imperdonabile l'oblio del conflitto d'interessi, né aveva senso colpire le toghe, nemmeno incombesse un temibile potere inquisitoriale: dei dulcamara tengono consulto; un barbiere arrota i ferri; l'Italia corrotta trova benevoli rivalutatori; corre voce che processi berlusconiani siano risolubili extra ordinem, Dio sa come, magari attraverso salvacondotti parlamentari, simili alle lettres de grace con cui monarchi iure divino salvavano i loro protetti. La Bicamerale tiene a balia filosofie forzaitaliote. Passi falsi elettorali completano la débacle, e poteva finire peggio.

B. deve molto ai «comunisti»: erano manna elettorale i diavoli rossi, né fiatavano gli opinanti cosiddetti liberali (salvo schernire l'«apocalittica» antiberlusconiana, e dopo le figure ridicole o pietose al governo, apparso qual è l'uomo d'Arcore, un bagalùn d'l lüster bravissimo solo nell'arricchirsi sulla pelle pubblica, gli rendono l'ultimo servizio predicando il disgelo); non fosse esistito quel Pci, lo inventerebbe; vuole oppositori su misura. Qualche uomo della nomenclatura convola nelle sue file o se lo sogna partner. Lievitano affinità trasversali e pose dialoganti. Ma ogni tanto batte dei colpi un'etica immanente nella storia: e allora le furberie amorali perdono; uomini d'apparato divorano i concorrenti; poi, nonostante l'imprinting bolscevico o forse a causa dello stesso, cadono nelle fauci berlusconiane. S'illudevano d'averlo catturato, quasi non fosse il suo mestiere spacciare illusioni da quando intratteneva i croceristi sulle navi. Bisognava chiudere seriamente la partita. Gli epigoni del Moro filano intese costituenti, l'accreditano e gli lasciano l'ordigno con cui li sgomina. In francese l'idea è presto definita: i dialoghi sono auspicabili con Chirac, avversario, ma lui era Le Pen, nemico; né appare meno predone dopo la vittoria, meno che mai adesso, con l'acqua alla gola. Il lupo nell'ovile non perde i vizi; e se falsi testimoni lo dicono penitente, stia attento l'uditorio: sono favole da Malebolge, le fosse «color ferrigno» contenenti il mondo della frode, «ruffiani, ingannatori, lusinghieri» e simili (Inferno, XVIII).

(«la Repubblica», 30 dicembre 2002, I dieci anni dell'Impero d'Arcore)

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Pagina 37

6.
I SETTE PREDICATI



Ha dei cantori in sottana e cotta il regime d'Arcore ma forse riescono più utili pulpiti «neutrali», quando rispettano le misure. Ogni tanto commettono gaffes: stavolta il chierico paragona pitture polemiche del fenomeno B. allo psicotico antisemitismo nazista, copre d'ingiurie chi le piglia sul serio ed enumera sei stigmate, secondo lui non decentemente asseribili; nell'analisi delle quali vediamo quanto fedelmente abbiano lavorato i pittori. Insomma, par trop de zèle, nomina la corda in casa dell'impiccato.


Sotto vari aspetti è un caso monstre: accumula soldi a montagne; lava il cervello alle masse contemplanti acquisite attraverso gli schermi; votato dalle quali, adopera governo, Camere, apparati pubblici quasi fossero fattorie sue; gravemente imputato, scatena campagne terroristiche contro accusatori e giudici; applica un'implacabile pedagogia della volgarità; nato imbonitore, esercita il mestiere in sbalorditive antìfrasi affermando il contrario dell'evidente, mano sul cuore, come quando racconta d'avere adempiuto ogni punto del programma, o vanta tanto longanime liberalismo editoriale, da essersi signorilmente allevato larghi dissensi interni; l'opposizione più temibile gliela muove Mediaset, esclama sogghignando. Niente da obiettare finché lo dica lui, famoso barzellettiere, o cantino salmi i chierici. L'affare diventa serio se li riascoltiamo da opinanti liberali (dicono d' esserlo).

Nella rubrica «Il dubbio», furibonda roccaforte dogmatica, P. Ostellino ha scoperto qualcosa («Corriere della sera», 4 gennaio): che l'ormai esile stampa d'opposizione abbia ridotto i lettori a massa «trinariciuta» (così G. Guareschi chiamava i succubi del partito comunista); e implicitamente paragona i libellisti contra Berlusconem a Julius Streicher maestro elementare norimberghese, paleonazista, rabbioso antisemita, Gauleiter della Franconia, poi rimosso perché troppo malfattore e psicotico, sebbene conservi i favori hitleriani. Non lo nomina o forse non sa chi sia, ma equipara le «assurde» caricature berlusconiane all'ebreo «basso, naso adunco, capelli ricci, sporco, avido, avaro, sessuomane», quale appariva nello «Stürmer», foglio teppistico-pornografico del predetto Streicher, e calca la mano nel paragone dei rispettivi lettori: incolti, superstiziosi, fanatici gli antisemiti; l'antiberlusconismo attecchisce nel giro «qualunquista, antidemocratico, manicheo». Possibile che un pubblico «appena appena colto» beva la pittura del B. «affarista, bugiardo, corrotto e corruttore, imbroglione, psicopatico, pericoloso»? «Non saprei rispondere».

Col suo permesso rispondiamo noi su ciascuno dei 7 predicati, cominciando da «affarista». Indubbiamente, «uomo d'affari» suona meglio, ma né Balzac né Flaubert userebbero un qualificatore così vago da assimilarlo agli asceti del capitalismo calvinista. Se l'affliggono ipotesi maligne ventilate dai curiosi, le stronchi esibendo una storia analitica dell'incipiente ascesa. Alcuni fatti constano: passi avere in casa lo stalliere mafioso; nei tardi anni Settanta appartiene alla P2 (tessera n. 1816) dove nessuno va ad affinarsi lo spirito o dire rosari, tanto meno gl'imprenditori edili qual era ancora; poi allestisce televisioni commerciali senza concorrenti, sulle ali del privilegio concessogli da Bettino Craxi, suo massimo referente, prima che quel regime soccomba d'endemico malaffare; e se «affarismo» significa anche sfruttamento economico delle leve politiche (cito dal Larousse), la definizione gli sta a pennello, come quella reperibile nel «Vocabolario della lingua italiana», secondo cui è affarista chi «negli affari cerca il guadagno [...] fine a se stesso». Era ed è passione filantropica? Ridicolo poi sdegnarsi perché gli danno del bugiardo. Ridono anche Iacopo Ortis o quel tenore nella Lucia, disperatissimi suicidi. Supponiamo che, male consigliato, proponga querela rivendicando l'onore reale (ossia chieda un accertamento sui fatti de quibus): tema del giudizio, se davvero affermi spesso cose mai avvenute o neghi le evidenti; i querelati vanno sul velluto, senza il disturbo d'addurre prove; i fatti notori non ne richiedono.

Che sappiamo, nessuno lo qualifica «corrotto»: a parte ogni questione sul merito, sarebbe aggettivo incongruo; certo, non è un atleta della morale, né pare scrupoloso nel senso della cura d'anime, dove «scrupolo» designa morbose crudeltà autoanalitiche. «Corruttore», invece, è pertinente, visto che esistono due accuse: d'avere corrotto dei giudici in cause enormi (viene da lì l'impero editoriale); e una sentenza dichiara estinto dal tempo l'ipotetico ma probabile delitto, mentre i correi stanno tuttora alla sbarra. Vi sta anche lui nell'altro giudizio, avendo furiosamente tentato d'evaderne, né siamo alla fine. Accusa infondata? Se ne difenda confutandola davanti al Tribunale. L'epiteto «imbroglione», infine, evoca un simpatico scenario: fiere, imbonitori sul palco, folle col naso in su e occhi sgranati; nel quale stile aveva garantito meraviglie agli elettori firmando un contratto dagli schermi.

Ne restano due. «Psicopatico» non è un complimento ma al posto del focoso arringatore, prima d'emettere fuoco consulterei lessicografi e psichiatri: qualificano così ogni comportamento anomalo, definibile o no malattia (questione molto aperta, fluidi essendo i confini); ad esempio, l'Io gonfio da scoppiare, un modo autistico d'agire ignorando gli altri, nonchalance dei fatti, vari «disturbi della personalità». Eccone uno catalogato dalla psichiatria forense: N commette trasgressioni; e anziché sentirsi colpevole, sviluppa furiose risposte aggressive. Forse l'abbiamo visto. Negli ordinamenti moderni le norme penali obbligano tutti, ricchi, altolocati, umili, poveri diavoli: l'accusa gli attribuisce delitti nient'affatto veniali; il processo serve a stabilire se li abbia commessi, ma lui lo rifiuta, ritenendosi diverso dai soliti animali umani; sbraita invettive sulla «malagiustizia»; scatena l'inferno; trucca le leggi. Nel Lehrbuch der Psychiatrie, parte speciale, IV capitolo, E. Bleuler enumera figure note al lettore italiano: l'ipertimico eccitabile o addirittura esplosivo, l'egocrate, l'affabulatore lesto nell'abbindolare la gente; e stupisce, nota l'autore, quanta ne incantino. Tali anomalie non ostano al successo, anzi: nelle psicosi «acted out», uno soverchia i concorrenti meno disimbiti, ridisegnandosi settori del mondo (ora aiutato da potenti ordigni. Savonarola, povero frate, doveva sgolarsi dal pulpito; con poca fatica l'imperatore dei networks miete una messe favolosa); e quanto più gli riescono le stregonerie, tanto meno tollera l'isonomia (nome greco dell'essere uguali davanti alla legge); magari fabbrica un mondo dove i vecchi valori costituiscano un handicap o addirittura colpa, se è abbastanza forte da riscrivere le norme. È materia plastica l'uomo. Insomma, tutto dipende dal contesto sociale: nell'Olanda calvinista l'estroverso, logorroico, baccagliante, non mette becco fuori dalle fiere; nell'Italia delle televisioni è re; e chi là raccoglieva stima qui affoga.

Che infine sia «pericoloso» (settimo e ultimo titolo), lo confermano gli atti. Basterebbe l'invenzione sul falso in bilancio a favore d'una criminalità affaristica qui impunita, mentre negli Usa liberisti il falsario sta anche 25 anni al fresco: pandemoni pro domo sua; piani d'asservimento del potere giudiziario, col pubblico ministero ridotto a tirapiedi del governo (eletto dal popolo, farfuglia Sua Eccellenza padana il guardasigilli), affinché dove batte il sole d'Arcore non capitino più le disavventure sotto le quali s'era sbriciolato un establishment; e tolti gli ebeti, chiunque vede dove conducano tali regimi, alla bancarotta. Dunque, «Al Capone e la sua banda?», ringhia l'apologeta. Ma no, risparmi le similitudini truculente, sebbene qualche testimone vi sia d'uno stile forzaitaliota «gang» (senti l'on. F. Mancuso). Notiamo piuttosto come Al Capone sia un boss qualunque, caduto su banali infedeltà fiscali: cosa succederebbe se fosse padrone della stampa e radio?; o peggio ancora se, esistendo networks televisivi, li dominasse? Provi a domandarselo, indi mediti sulla pericolosità d'un regime dove B., quasi monopolista dell'informazione, raccoglie nelle urne quel che semina dagli schermi. Col suo permesso ventiliamo l'ottavo qualificativo, «selvaggio». Tale lo spettacolo offerto a reti unite da Arcore, mercoledì mattina 29 U.s., quando, imbellettato, dichiara guerra alla giustizia, invocando «i suoi pari». Discutere con un simile titano? Fatica meno chi spieghi Plotino o Leibniz al Gran Khan dei Tartari.

(«la Repubblica», 6 febbraio 2003, Le critiche al Cavaliere e gli strani liberali)

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Pagina 142

28.
INTELLECTUS ANGELICUS



Esperienze del genere letterario «enciclopedia», visto come tentata evasione dai limiti in cui la macchina biofisica confina l'apprendimento e memoria individuali.


Nel liceo, poi all'università, ignoro l'arnese enciclopedico: le quantità prescritte del sapere sono acquisibili dai testi più o meno ufficiali; poi nella pratica avvocatesca sfoglio il «Nuovo Digesto» Utet, invecchiato dalle ricodificazioni fasciste; nei tardi anni Cinquanta, puntando al mestiere accademico, uso trattati, commenti, monografie, glosse. Nascono allora «Novissima Digesto» e l'«Enciclopedia» Giuffrè, dove metto piede con tre voci. È san Tommaso l'erculeo enciclopedista nel quale m'imbatto componendo una fenomenologia delle norme («Gli osservanti», Giuffrè, 1967): Doctor angelicus racconta, disseca, classifica l'universo, da Dio ante mundum alla fisica subatomica, puri spiriti, corpi, anime, materia, forma, cause, astri, mondo sublunare, aldilà, passato, presente, futuro, in una prosa notarile ingannevolmente nitida. Anno Domini 1978 Einaudi mi chiede una lunghissima voce sul fenomeno giuridico destinata alla sua «Enciclopedia» (embrione dei «Riti e sapienza del diritto», Laterza 1981). Da giovane avevo quanta memoria mi serviva: invecchiando scopro vera la metafora d'una fisica mentale; saturi gli spazi, possiamo ancora mettervi qualcosa ma svaniscono pari quantità d'altro materiale, sicché i contenuti fluttuano. È già tanto ritenere qualche mappa sintattica. Perciò abbiamo bisogno dei «thesauri». Ne enumero alcuni dai miei scaffali: «Dictionnaire historique et critique» par Mr Pierre Bayle, quarta ed. olandese, 1730, 4 giganteschi tomi, 2038 voci allestite in tempi miracolosamente corti, 1692-1697; Ph.-A. Medin, «Répertoire universel et raisonné de jurisprudence», 17 tomi, 1812-1825; "Der kleine Pauly Lexicon der Antike», München 1979, compendia in 5 voll. gli 80 dell'omonima «Realencycloplädie»; dom Augustin Calmet, «Dictionarium historicum, criticum, chronologicum, geographicum et literale Sacrae Scripturae», 4 tomi, Venetiis 1726-1731; Fleury & Fabre, «Histoire ecclésiastique», 36 voll., Paris 1758; «Troisième et dernière Encyclopédie théologique», i cui 3 voll. ne concludono 50 editi dall'abate J.-P. Migne, au Petit-Montrouge, autrefois Barrière d'Enfer, maintenant dans Paris, 1860-64, al quale formidabile impresario devo i 15 tomi degli Opera omnia agostiniani, estratti dalla «Patrologia latina»; «Dizionario biografico» italiano, sinora 60 voll. (Aaron-Guglielmo da Forlì), il cui epilogo non vedrei nemmeno varcando i cent'anni. Le enciclopedie dicono quanto poco sappia l'individuo: evocano l'«intelletto agente» d'Aristotele, Avicenna, Averroè, separato, impersonale, comune al genere umano; ne sogno una dove ci sia tutto l'importante, distillato nel puro etere intellettuale; che coniughi l'ammirevole "Dictionnaire de théologie catholique» a Bayle, Voltaire, Nietzsche, perché ogni dizionario serio «vire au pamphlet» (R. Etiemble, préface a Voltaire, «Dictionnaire philosophique», ed. Garnier); e filtri le fantasmagorie platoniche nel Wiener Kreis; è uno spettacolo il mondo sub specie aeternitatis, visto senza interessi obliqui.

(«la Repubblica», 29 agosto 2003, Il mio primo enciclopedista fu l'erculeo san Tommaso)

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Pagina 203

45.
MEMINISSE IUVAT



Triste storia del come non basti vincere, se poi i vincitori, mezzi succubi del vinto i cui modi imitano, riescono a scavarsi la fossa sedendo al suo tavolo: avviene nella Bicamerale, la cui funesta pantomima dura 18 mesi; risalgono a quel pool d'intelletti dottrine berlusconiane su come tenere a freno la magistratura, inibendo curiosità moleste. Completa il quadro una complice o stupida inerzia sul conflillo d'interessi. Incassati i profitti, B. disdice le finte intese. Agli elettori disgustati resta l'arma del non voto: dieci milioni e mezzo, tra astenuti e schede bianche, ma gli strateghi d'allora seguitano imperterriti; secondo loro, la politica è scienza esoterica, da professionisti; forti della quale, smentiscono la favola d'un regime italiano pluto-telecratico, come se non fosse sintomo tipico dare dell'ossesso a chi tocca l'establishment.


Che l'Italia sia malata, è notorio, e ha un nome la malattia. Lasciamo da parte gli antecedenti remoti. I prossimi datano dall'inverno 1996, quando affiora l'idea d'un «governissimo» rosso-blu: sul quale presupposto riceve l'incarico A. Maccanico; alla giustizia B. vuole un futuro presidente Rai non gradito dal Quirinale; programmi osés, ad esempio, abolire il falso in bilancio e «amnistia totale» (il confidente è P.F. Pacini Battaglia, in G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani pulite, Editori Riuniti, 2002, 480ss., 491ss., utilissimo repertorio). Siccome hanno un limite gli empi ibridismi, l'affare va a monte. L'avversava G. Ferrara. Con qualche voto in meno, domenica 21 aprile vince l'Ulivo: padrone al Senato, 157 seggi contro 116; nella Camera, 284 contro 246, è determinante Rifondazione comunista con i suoi 35. Cabale ai vertici: una commissione bicamerale rifonderà lo Stato; guai se cadesse la leadership berlusconiana del Polo, dichiara M. D'Alema, 31 maggio, convinto d'essersi trovato un partner nel lavoro ciclopico (ivi, 488s.). Nove mesi prima, offeso sul «Giornale», gli dava del mentecatto, da affidare a «due signori in camice bianco», se fossimo un paese normale: non può andare al governo chi impersona «tutti gli aspetti negativi dello spirito italiano»; «logica del clan», insofferenza delle regole ecc. Imperdonabili, dunque, le bestialità seguenti: appena una stagione dopo, se ne fida (23 gennaio 1996); e addirittura postula o almeno non esclude che Mediaset abbia interessi collimanti con quelli del Paese (31 dicembre 1996: ivi, 377s., 488s.). Quando B. annuncia d'avere scoperto una microspia nell'appartamento romano, 11 ottobre, e il presidente Ds della Camera chiama gli onorevoli colleghi in seduta straordinaria, D'A. deplora il clima d'intrighi, veleni, sospetti, indi passa alle metafore calcistiche auspicando «un colpo di reni», affinché l'Italia esca dall'atmosfera infetta «riscrivendo le regole della convivenza civile e democratica» (ivi, 498ss.).

Non è una novità l' aër caliginosum dove volano bassi i diavoli, secondo le Summae medievali, ma nessuno aveva ancora scoperto l'agente satanico nel pubblico ministero e tribunali così poco riguardosi da adempiere i rispettivi compiti senza togliersi il cappello davanti ai potenti che delinquono: P. Folena denuncia una regressione al Medioevo, notando quanto più evoluti siano i metodi spezzini (indagini su Pacini Battaglia e consorti) rispetto agli ambrosiani; le toghe «non sono mica l'avanguardia della rivoluzione», sogghigna il leader, 17 ottobre; e L. Violante fustiga i «magistrati pericolosi», abili nel costruirsi una «carriera sul consenso popolare» (26 ottobre: ivi, 521). Cova umori malsani la commissione presieduta dal leader Ds. L'atto istitutivo, 24 gennaio 1997, le assegna i seguenti temi: forma dello Stato, governo, bicameralismo, garanzie, corrispondenti alla Parte seconda, Titoli I-III, artt. 55-100; resta fuori il quarto titolo, «La magistratura», artt. 101-13. Concepita così, non serve al magnate. Lo sparviero G. Ferrara parla fuori dei denti: le pendenze berlusconiane sono il punto numero 1; se D'A. non imbriglia i persecutori, dimentichi «le pensioni, l'ingresso in Europa, le riforme, tutto»; ma «vedrete», qualcosa concederà la Sinistra (qui, 9 febbraio 1997). La nsposta arriva quattro giorni dopo: «magistratura e potere politico», questione capitale; i commissari vi scaveranno. L'augusto partner, impresario televisivo, nomina addirittura Dante, esortando l'Ulivo a provare quanta «nobilitate» abbia. Grazie al Cielo, «il clima è molto positivo» (23 febbraio).

Infatti, B. va sul velluto. Il quarto comitato, «sistema delle «garanzie», tiene banco de iustitia. Lo presiede un verde dal passato mosso: ultras cattolico, Lotta continua, partito radicale, Psdi, Psi modulo Craxi; s'era qualificato castigamatti antigiustizialista ed esordisce lapidario; «l'Italia non è Stato di diritto» (Barbacetto, Gomez, Travaglio, 546ss.). Sono alta alchimia i sette testi elucubrati dal consesso, le cosiddette «bozze Boato». Licio Gelli rivendica i diritti d'autore, perché gli copiano il «Piano» d'una «rinascita democratica» databile intorno al 1976. Spigoliamo qualche idea: da terzo potere, la magistratura scade a «ordine», come avvocati, farmacisti, geometri, periti tessili ecc.; requirenti e giudicanti in carriere distinte; nelle rispettive sezioni del Csm, subordinato al parlamento, l'indefesso presidente vuole tanti politici quante le toghe o almeno 12 contro 18; corte disciplinare a 9 teste (solo 4 i magistrati ordinari) e procuratore generale eletto dal Senato; procure agli ordini del guardasigilli, il quale una volta l'anno riferisca alle Camere su come ha gestito l'apparato; impunità dei fatti delittuosi i cui effetti lesivi non superino date soglie, Dio sa come misurabili, con tanti saluti alla legalità penale (art. 25 Cost., c. 2, ma sotto B. le norme costituzionali numquam obstant: padrone dei seggi, le riscrive quando voglia); un sermone prefigura l'attuale art. 111. Quanto veleno nella coda: il pubblico ministero indaga sui reati dei quali ha notizia; lo postulano immobile finché non arrivino denunce, querele, referti, rapporti (l'idea ispira un disegno già emerso dal febbrile laboratorio legislativo blu). Tale essendo l'Intellectus Boatus, appare meno calamitosa la riforma berlusconiana dell'ord. giud. votata dal Senato, 21 gennaio 2004.

La commedia dura 18 mesi: avevano un patto, ricapitola beffardo G. Ferrara, e ha resistito più d'un anno; B. collaborava alle riforme (rimaste sulla carta), finché i contraenti lo garantissero «dall'agguato giudiziario» (Il foglio, 4 aprile 1998). Sarebbe iniquo dire che non l'abbiano aiutato: fiorivano ipotesi su come liquidare le partite pendenti, magari attraverso voti parlamentari (pura follia notavo: «Procedura penale», IV ed., 1998; poi VI ed., 2001, 644); senonché gli ordinamenti evoluti impongono limiti al perpetrabile. Incassati larghi profitti, B. rovescia il tavolo (tarda primavera 1998) ma che segni lascia l'aborto bicamerale: i frutti dell'albero avvelenato maturano nei 23 mesi seguenti; le Camere legiferano come B. se avesse già rivinto. La Grecia conquistata cattura «ferum victorem», canta Orazio, mentre qui l'incantatore businessman plagia l'avversario inoculandogli i suoi valori, chiamiamoli così. Il Centrosinistra aveva perso ogni credito nell'avvilente mésaillance, completata dalla complice o stupida inerzia sul conflitto d'interessi. Domenica 13 maggio 2001 vengono al pettine le malfamate «bozze», nonché una funesta semiotica: gergo politichese, mimica leziosa, sorrisi autocompiaciuti; corre voce che il consulente sia M. Costanzo, uomo Mediaset. I nove milioni d'astenuti e la valanga delle schede bianche (1.500.000) significano profondo disgusto: come nel «Processo», cap. II, quando Josef K., dopo essersi sgolato illudendosi d'avere ascoltatori solidali o almeno attenti, dal distintivo sotto la barba capisce che i due partiti sono finti; corrono tutti sotto la stessa bandiera. Ogni tanto le bussole biologiche sbagliano: balene s'arenano; uccelli migratori volano alla deriva; politici professionisti saltano dalla torre. Stavolta il moto aberrante dura 33 mesi post sconfitta. Non so come definire altrimenti la sbalorditiva massima, tante volte ripetuta, che B., cattivo governante, sia però interlocutore in perfetta regola. Qualcuno crede che parole, messinscene, atti segnalino un regime personale pluto-mediocratico? Fantasie d'ossessi visionario

("la Repubblica», 10 febbraio 2004, La conquista della giustizia e la sindrome della sinistra)

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