Copertina
Autore Patricia Cornwell
Titolo Autopsia virtuale
EdizioneMondadori, Milano, 2012 [2011], NumeriPrimi , pag. 370, cop.fle., dim. 14x21,5x2,3 cm , Isbn 978-88-6621-029-0
OriginalePort Mortuary [2010]
TraduttoreAnnamaria Biavasco, Valentina Guani
LettoreMargherita Cena, 2012
Classe thriller , gialli , narrativa statunitense
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Pagina 9

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Nello spogliatoio del personale femminile butto il camice sporco nel cesto dei rifiuti pericolosi e mi tolgo gli altri vestiti e gli zoccoli. Mi domando se la scritta nera sul mio armadietto, COL. SCARPETTA, verrà cancellata subito dopo la mia partenza per il New England, domani mattina. Finora non ci avevo pensato, ma è un'idea che mi disturba. Una parte di me non vuole andare via.

La vita alla base dell'Aeronautica militare di Dover, nel Delaware, ha i suoi lati positivi, malgrado i sei mesi di formazione molto impegnativa e la desolazione di avere a che fare ogni giorno con la morte per conto del governo degli Stati Uniti. La mia permanenza qui è stata sorprendentemente priva di complicazioni. Posso addirittura dire che è stata piacevole. Mi mancherà il fatto di alzarmi prima dell'alba nella mia modesta stanzetta, indossare pantaloni, polo e scarponcini militari e attraversare il parcheggio al buio e al freddo per andare alla sede del golf club a bere un caffè e mangiare qualcosa prima di salire in macchina e raggiungere il Port Mortuary, dove non sono io a comandare. Lì lavoro per l'AFME, il medico legale delle Forze armate, e sono sotto parecchie persone di grado superiore al mio. Non spetta a me prendere decisioni critiche, per cui non sempre vengo consultata. Non sarà così al mio ritorno nel Massachusetts, dove invece sono io la responsabile di tutto.

Oggi è lunedì 8 febbraio. L'orologio sulla parete sopra i lavabi bianchi e lucidi segna le 16.33. Le cifre luminose, rosse, sembrano un avvertimento. Fra meno di novanta minuti devo essere alla CNN a spiegare ai telespettatori che cosa fa un patologo radiologo forense, in gergo RadPath, e perché ho deciso di diventarlo, e che cosa c'entrano Dover, il dipartimento della Difesa e la Casa Bianca con la mia scelta. Perché non sono più un semplice medico legale, immagino che dirò, e neppure una riservista dell'AFME. Dall'11 settembre 2001, da quando gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq, e adesso con il massiccio invio di truppe in Afghanistan, il confine tra il mondo militare e quello civile è svanito definitivamente. Ripasso mentalmente i punti che dovrei citare nel mio discorso. Un esempio che potrei fare è questo: lo scorso novembre, nell'arco di quarantott'ore sono arrivati a Dover tredici combattenti caduti in Medio Oriente e altrettante vittime da Fort Hood, nel Texas. Le maxiemergenze non si verificano più soltanto sui campi di battaglia, e per la verità non sono più tanto sicura di sapere che cosa si intenda ormai per campo di battaglia. Sembra che ce ne siano ovunque, dirò alla TV. Le nostre case, le scuole, le chiese, gli aerei di linea, i luoghi dove andiamo a lavorare, a comprare, a divertirci ormai sono diventati tutti dei campi di battaglia.

Mentre raccolgo cosmetici e articoli da bagno, passo in rassegna le osservazioni che intendo fare sull'imaging tridimensionale - cioè sull'uso della TAC, la tomografia assiale computerizzata, in sala autopsie - e mi riprometto di sottolineare che, sebbene l'unica struttura civile in grado di effettuare autopsie virtuali negli Stati Uniti sia la mia nuova sede di Cambridge, nel Massachusetts, presto Baltimora seguirà il nostro esempio e la tendenza si diffonderà. L'esame autoptico tradizionale, in cui si seziona il cadavere scattando una serie di fotografie, sperando di non tralasciare nulla e di non introdurre artefatti, può essere drasticamente migliorato e reso più preciso grazie alla moderna tecnologia, ed è giusto che questo avvenga.

Mi dispiace non essere a World News stasera, perché in realtà preferirei fare questa conversazione con Diane Sawyer. Il problema con la CNN è che sono ormai un'ospite abituale e la confidenza fa perdere il rispetto. Avrei dovuto pensarci prima. Invece mi rendo conto solo ora che c'è il rischio che l'intervista sconfini nel personale. Avrei dovuto avvertire il generale Briggs di questa possibilità e anche di quello che mi è successo stamattina, quando la madre furibonda di un soldato morto mi ha aggredita verbalmente al telefono accusandomi di avere compiuto gravi discriminazioni nei confronti di suo figlio e minacciando di fare scoppiare uno scandalo.

Chiudo lo sportello metallico dell'armadietto, che sbatte facendo un rumore simile a una detonazione. Cammino scalza sul pavimento di piastrelle beige, liscio e fresco sotto i piedi, con il mio cestino di plastica contenente shampoo e balsamo all'olio di oliva, scrub esfoliante a base di alghe marine fossili, un rasoio, una bomboletta di gel spray per la rasatura delle pelli sensibili, detergente liquido antibatterico, spugna, collutorio, uno spazzolino da denti e uno da unghie e olio Neutrogena profumato, per quando avrò finito. Entro in una delle docce aperte, dispongo ordinatamente tutto quanto sulla mensola di piastrelle e apro l'acqua calda, regolandola alla massima temperatura che riesco a sopportare. Mi giro sotto il getto potente per bagnarmi tutta, alzo la faccia verso la doccia e quindi mi guardo i piedi bianchi, lasciando che l'acqua mi massaggi il collo e la testa e allenti un po' la tensione muscolare. Intanto entro mentalmente nella cabina armadio del mio appartamento alla base per decidere come vestirmi.

Il generale Briggs - John, come lo chiamo quando siamo soli - vuole che indossi la tuta mimetica dell'Aeronautica o, meglio ancora, l'uniforme di servizio blu, ma io non sono d'accordo. Penso che dovrei presentarmi in borghese, come sempre quando appaio in TV, magari con un semplice tailleur scuro e una camicetta color avorio. Al polso metterò il sobrio Breguet con cinturino di cuoio che mi ha regalato mia nipote Lucy, non il cronografo Blancpain con il grosso quadrante nero e la lunetta in ceramica che mi ha regalato sempre lei, perché ha la passione degli orologi e di tutto ciò che è tecnicamente complesso e costoso. Non pantaloni, ma gonna e tacchi alti, in modo da sembrare disponibile, non aggressiva. È un trucco che ho imparato tanto tempo fa in tribunale. Ho scoperto che ai giurati piace che mi si vedano le gambe mentre descrivo fin nei minimi dettagli anatomici le ferite mortali e le varie fasi dell'agonia di una vittima. Briggs disapproverà la mia scelta in fatto di abbigliamento, ma ieri sera, mentre bevevamo qualcosa guardando il Super Bowl, gli ho ricordato che nessun uomo, tranne Ralph Lauren, può permettersi di dire a una donna come vestirsi.

Il vapore nella doccia si muove, disturbato da una corrente d'aria. Mi sembra di sentire qualcuno e mi irrito. Potrebbe essere chiunque del personale – militare, medico o con altre mansioni – autorizzato a entrare in questa struttura altamente riservata, che ha bisogno di andare in bagno, di disinfettarsi, di cambiarsi. Penso alle colleghe con cui ho appena finito di lavorare nella sala autopsie principale e ho la sensazione che si tratti di nuovo del capitano Avallone. Mi è stata addosso tutta la mattina, durante l'esame tomografico, come se io non fossi in grado di farlo da sola, e ha continuato ad aleggiare come una nebbia bassa intorno alla mia postazione di lavoro per il resto della giornata. Probabilmente è lei a essere appena entrata. Un attimo dopo me ne convinco e provo un moto di risentimento. "Lasciami in pace!"

«Dottoressa Scarpetta?» mi chiama con la sua voce melliflua e priva di qualsiasi passione che sembra seguirmi ovunque. «La vogliono al telefono.»

«Sto facendo la doccia» grido per farmi sentire nonostante lo scroscio dell'acqua.

È un modo per dirle di lasciarmi in pace. "Un po' di privacy, per cortesia." Non voglio vedere né il capitano Avallone né nessun altro in questo momento, e non perché sono nuda.

«Mi scusi, ma Pete Marino ha bisogno di parlarle.» La voce pacata si avvicina.

«Potrà aspettare cinque minuti?» urlo.

«Dice che è importante.»

«Gli può chiedere cosa vuole?»

«Dice solo che è importante, dottoressa.»

Prometto di richiamarlo subito e probabilmente sembro maleducata, ma non posso accontentare sempre tutti, malgrado le mie buone intenzioni. Pete Marino è l'investigatore con cui lavoro da metà della mia vita. Spero che non sia successo niente a casa. No, Marino me lo direbbe se si trattasse di una vera emergenza, se fosse successo qualcosa a mio marito Benton, o a Lucy, o se ci fosse un problema grave al Cambridge Forensic Center, di cui sono la direttrice. Non si limiterebbe a farmi riferire da qualcuno che mi vuole parlare per una faccenda importante. Con ogni probabilità è solo impaziente. È un impulsivo e, quando gli viene un'idea, me la deve comunicare immediatamente.

Spalanco la bocca per sciacquare via l'odore di carne umana bruciata e decomposta che mi è rimasto in gola. Il tanfo dei cadaveri su cui ho lavorato oggi mi sale nei seni paranasali portato da ondate di vapore, molecole di putrida biologia che mi hanno accompagnato fin sotto la doccia. Mi sfrego le unghie con il detergente liquido antibatterico, lo stesso che uso per i piatti o per decontaminare le scarpe dopo essere stata sulla scena di un crimine, e mi spazzolo denti, gengive e lingua con il Listerine. Mi lavo le cavità nasali fin dove riesco ad arrivare, strofinando ogni centimetro quadrato di pelle, poi mi insapono i capelli, non una ma due volte. Il tanfo permane; non riesco a sentirmi pulita.

Il soldato morto di cui mi sono appena occupata si chiamava Peter Gabriel, come il famoso cantante rock, ma era un soldato di prima classe, di stanza nella provincia di Badghis, in Afghanistan, da meno di un mese quando un ordigno rudimentale, ricavato da un pezzo di tubo di plastica riempito di PE-4 e chiuso con una lamiera di rame, ha perforato la blindatura del suo Humvee scatenando una tempesta di fuoco all'interno. Al soldato di prima classe Gabriel ho dedicato quasi tutta la mia ultima giornata di lavoro in questa grande struttura ad alta tecnologia in cui medici legali e scienziati delle Forze armate si occupano abitualmente di casi che l'opinione pubblica non immagina di loro competenza, come per esempio la morte di JFK e la recente identificazione in base al DNA dei membri della famiglia Romanov e dell'equipaggio del sottomarino H.L. Hunley, affondato durante la Guerra civile. Il nostro è un ente nobile ma poco conosciuto, le cui radici risalgono al 1862, all'Army Medical Museum, i cui chirurghi tentarono di salvare Abraham Lincoln mortalmente ferito e poi gli fecero l'autopsia. Dovrei raccontare tutto questo alla CNN. Mi impongo di concentrarmi sulle cose positive e di non pensare a quello che mi ha detto la signora Gabriel. Non sono un mostro, non sono intollerante. "Quella povera donna era sconvolta." È naturale: ha perso il suo unico figlio. I Gabriel sono neri. "Come ti sentiresti se fossi nei suoi panni, santo cielo? Tu non sei razzista, lo sai."

Mi accorgo che è di nuovo entrato qualcuno nello spogliatoio, ormai pieno di vapore come un bagno turco. Ho il battito accelerato per il caldo.

«Dottoressa Scarpetta?» Il capitano Avallone sembra meno incerta di prima. Forse ha delle novità.

Chiudo l'acqua, esco dalla doccia e prendo un telo di spugna per coprirmi. Il capitano Avallone è una vaga presenza che intravedo vicino ai lavabi e agli asciugamani elettrici ad aria calda. Riesco a distinguere solo i capelli scuri, i pantaloni militari color cachi e la polo nera con lo stemma ricamato, blu e oro, dell'AFME.

«Pete Marino...» esordisce.

«Adesso lo chiamo.» Prendo un altro telo da uno scaffale.

«È qui, dottoressa.»

«Come sarebbe a dire?» Quasi mi aspetto di vederlo apparire nello spogliatoio, come una creatura preistorica che emerge dalla nebbia.

«La aspetta sul retro, vicino all'ingresso di servizio, dottoressa» mi informa. «La accompagnerà all'Eagle's Rest a recuperare i bagagli.» Lo dice come se fossero venuti a prendermi quelli dell'FBI, come se fossi stata arrestata o licenziata. «Ho ordine di accompagnarla da lui e di fornirvi tutta l'assistenza necessaria.»

Il nome di battesimo del capitano Avallone è Sophia. Ha appena finito l'internato in radiologia ed è sempre maledettamente formale e ossequiosamente cortese quando ti sta addosso. Non è il momento. Mi incammino sulle piastrelle con il cestino e lei mi segue.

«Non parto fino a domani. E non ho in programma di andare da nessuna parte con Marino» dico.

«Posso occuparmi io della sua macchina, dottoressa, visto che non la prenderà...»

«Gli ha chiesto cosa diavolo è successo di così urgente?» Prendo dall'armadietto la spazzola e il deodorante.

«Ci ho provato, dottoressa» risponde. «Ma è stato poco collaborativo.»

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