Copertina
Autore Patricia Cornwell
Titolo Nebbia rossa
EdizioneMondadori, Milano, 2013 [2012], NumeriPrimi , pag. 382, cop.fle., dim. 13,8x21,5x2,5 cm , Isbn 978-88-6621-046-7
OriginaleRed Mist [2012]
TraduttoreAnnamaria Biavasco, Valentina Guani, Riccardo Valla
LettoreLuca Vita, 2013
Classe gialli
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La ferrovia taglia l'asfalto screpolato della strada che porta in quella regione degli USA chiamata Lowcountry. Mentre passo sopra i binari arrugginiti, di un colore che mi ricorda il sangue rappreso, penso che forse dovrei tornare indietro, invece che proseguire verso il GPFW, il carcere femminile della Georgia. È giovedì 30 giugno e mancano pochi minuti alle quattro: farei ancora in tempo a prendere l'ultimo volo per Boston. Ma so già che non lo farò.

In questa zona, lungo la costa della Georgia, si alternano fitti boschi, vaste praterie e paludi attraversate da rigagnoli e canali su cui volano bassi egrette e aironi. Dai rami degli alberi pende la barba del frate e dal sottobosco spunta infestante il kudzu; cipressi giganti, dai tronchi nodosi e contorti, paiono creature preistoriche che avanzano lente nelle paludi. Non ho visto alligatori né serpenti, ma sono certa che ce ne sono parecchi. Si saranno nascosti, spaventati dal rumore della mia marmitta.

Non so come ho fatto a finire su questo ingombrante trabiccolo bianco, che non tiene la strada e puzza di fritto, di fumo di sigaretta e anche un po' di pesce marcio. Al mio assistente, Bryce, avevo raccomandato di prenotare una berlina di media cilindrata, sicura e affidabile, con airbag e GPS, preferibilmente una Volvo o una Camry. Quando all'aeroporto mi si è presentato un ragazzo con un furgone privo di condizionatore e senza neanche una cartina a bordo, gli ho detto che doveva esserci un errore, che doveva avermi portato il mezzo destinato a qualcun altro. Lui però mi ha fatto vedere che sul contratto c'era il mio nome, Kate Scarpetta. Ho ribattuto che io mi chiamo Kay, non Kate, e che non mi importava se sul contratto c'era il mio cognome: non era quello il veicolo che avevo prenotato. Il ragazzo, in canottiera, bermuda e scarpe da pesca, molto abbronzato, si è scusato a nome della Lowcountry Concierge Connection: non sapeva cosa fosse successo, forse un problema del computer. Avrebbe certamente provveduto a procurarmi la vettura che avevo richiesto, ma purtroppo ci sarebbe voluto un po' di tempo: non era sicuro di riuscire a evadere la richiesta in giornata.

È andato tutto storto, da quando sono partita. Mi pare di sentire mio marito, Benton, che bisbiglia: "Te l'avevo detto!". Me lo rivedo, ieri sera, appoggiato al tavolo di travertino della cucina, alto, snello, folti capelli grigi, la faccia scura. Abbiamo bisticciato perché non voleva che venissi qui. Ho ancora un po' di mal di testa... non so perché certe volte mi convinco che mezza bottiglia di vino possa servire a fare pace. So benissimo che non è vero. Forse ne abbiamo bevuto addirittura più di mezza. Era un ottimo pinot grigio, limpido, leggero, con un lieve retrogusto fruttato.

L'aria che entra dal finestrino è calda e densa e ha l'odore pungente e solforoso di foglie marce, fango e acqua stagnante. Prendo una curva in pieno sole con il furgone che sussulta e vedo alcuni avvoltoi dal collo rosso che beccano qualcosa in mezzo alla strada. Si alzano lentamente in volo, battendo le grosse ali, e io sterzo per non passare sopra la carcassa di un procione che emana un tanfo putrido a me ben noto. I morti puzzano tutti allo stesso modo, che siano uomini o animali. Riconosco a distanza l'odore della morte e, se scendessi a controllare, probabilmente sarei in grado di identificare la causa del decesso di quella povera bestia, quando è avvenuta, le circostanze del suo investimento e magari anche il tipo di veicolo.

Sono un medico legale, anche se alcuni mi definiscono un coroner o pensano che faccia parte della polizia. In realtà ho una laurea in medicina con specializzazione in anatomia patologica e ho seguito corsi di perfezionamento in patologia forense e radiologia 3-D, questo significa che prima di effettuare l'autopsia sottopongo il cadavere a una TAC. Ho una seconda laurea in giurisprudenza e il grado di colonnello nella riserva straordinaria dell'Aeronautica, quindi lavoro per il dipartimento della Difesa, che l'anno scorso mi ha affidato la direzione del CFC, il Cambridge Forensic Center, gestito congiuntamente con lo Stato del Massachusetts, il Massachusetts Institute of Technology (MIT) e Harvard.

Il mio lavoro è stabilire i meccanismi per cui certe cose portano alla morte e altre no, siano esse una malattia, un veleno, un problema medico, un atto di Dio, un'arma da fuoco o un ordigno esplosivo improvvisato (IED). Seguo le direttive del governo degli Stati Uniti e ogni mia azione deve avere fondamento legale. Redigo perizie giurate e vengo chiamata a deporre nei procedimenti giudiziari, e per questo motivo non mi è concesso fare una vita normale, avere opinioni personali o reazioni emotive neanche di fronte ai casi più efferati e raccapriccianti. Ho il dovere di essere sempre distaccata e obiettiva. Nonostante quattro mesi fa sia stata vittima di un episodio di violenza in cui ho rischiato di morire, devo essere stoica e inamovibile come una roccia. Devo essere calma, fredda e determinata.

"Non mi soffrirai di disturbo da stress postraumatico, vero?" mi ha detto il generale John Briggs, comandante dell'AFME - l'Istituto di medicina legale delle forze armate - dopo l'attentato alla mia vita lo scorso 10 febbraio. "Sono cose che succedono, Kay. Il mondo è pieno di delinquenti."

"Sì, John, lo so: sono cose che succedono" gli ho risposto, come se andasse tutto bene, come se avessi tutto sotto controllo. Ma non è vero: non mi sento affatto bene. Voglio cercare di capire che cosa ha rovinato la vita a Jack Fielding e intendo fare di tutto perché Dawn Kincaid paghi per quello che ha fatto. Voglio il massimo della pena: ergastolo senza condizionale. Voglio che non esca mai più dal carcere.

Guardo l'ora senza togliere le mani dal volante, perché ho paura di sbandare. Forse dovrei tornare indietro. L'ultimo aereo per Boston parte fra meno di due ore. Ce la posso ancora fare. Ma non voglio. Ho preso una decisione, nel bene o nel male, e la porterò fino in fondo. È come se avessi inserito il pilota automatico. Forse sono un'incosciente e mi lascio trasportare dal mio desiderio di vendetta. Sono arrabbiata, lo so. Come ha detto ieri sera mio marito, che è uno psicologo forense dell'FBI, mentre preparavo la cena nella nostra casa di Cambridge, una casa antica, fatta costruire da un noto trascendentalista: "Ti stai lasciando manipolare, Kay. Fai il gioco di qualcun altro, anche se non te ne rendi conto. Pensi di essere piena di iniziativa, di perseguire un ideale di giustizia, ma in realtà stai solo cercando di placare i tuoi sensi di colpa".

"Non è colpa mia se Jack è morto."

"Ti sei sempre sentita in colpa nei suoi confronti. Tendi ad avere sensi di colpa per un sacco di cose quando invece non c'entri niente."

"Ho capito. Ogni volta che ho la sensazione di poter fare qualcosa di utile e giusto, secondo te dovrei diffidare di me stessa." L'ho detto mentre, con un paio di forbici da chirurgo, toglievo il guscio ai gamberoni che avevo appena fatto bollire. "A me sembra di cercare coraggiosamente informazioni che possano essere utili per fare giustizia, ma in realtà sono i sensi di colpa a spingermi."

"Ti senti responsabile di tutto, pensi di dover sistemare tu ogni cosa o che tocchi a te prevenire le tragedie. Sei sempre stata così, da quando eri piccola e ti occupavi di tuo padre malato."

"Di sicuro non posso prevenire le tragedie" gli ho risposto, buttando i gusci nella spazzatura. Poi ho messo una manciata di sale grosso nell'acqua che bolliva sul mio piano cottura a induzione in vetroceramica, di cui sono molto fiera. "Jack è stato molestato da piccolo, e io non potevo farci niente. Non potevo nemmeno impedire che si rovinasse la vita. Adesso è stato ammazzato e non sono riuscita a evitare neanche questo" Ho preso il coltello. "Non è merito mio nemmeno se sono ancora viva, diciamo la verità." Tutto questo mentre tritavo cipolla e aglio sul tagliere di polipropilene antibatterico. "Non sono morta solo perché ho avuto una fortuna sfacciata."

"Dovresti stare alla larga da Savannah, Kay" mi ha detto Benton e io gli ho chiesto di stappare il vino, per piacere. Ce ne siamo bevuti un bicchiere, ma abbiamo continuato a bisticciare. Abbiamo mangiato senza appetito la cenetta che avevo preparato con amore e, nonostante sia convinta che chi mangia bene vive felice, siamo stati infelici tutta la sera. Per colpa di quella donna.

Kathleen Lawler ha fatto una vita d'inferno. Attualmente sta scontando vent'anni di carcere perché ha investito un ragazzino sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, ma ha passato più tempo in galera che a piede libero, essendo già stata condannata negli anni Settanta per molestie a un minore. Quel minore era Jack Fielding, il mio vice, che ora è morto. Lo ha ammazzato con un colpo di pistola alla testa Dawn Kincaid, la figlia nata dalla relazione con Kathleen Lawler e data in adozione subito dopo la nascita, quando la madre era in carcere. Una storia lunga, insomma. Me lo dico e me lo ripeto continuamente, in questo periodo. Se c'è una cosa che ho imparato nella vita è che da cosa nasce cosa, sempre. La tragica storia di Kathleen Lawler è un esempio di quello che intendono gli scienziati quando dicono che il battito d'ali di una farfalla può scatenare un uragano dall'altra parte della Terra.

Mentre guido un furgone rumoroso e poco affidabile in un paesaggio paludoso e infestato di piante selvatiche, che probabilmente non è cambiato molto dall'era dei dinosauri, mi chiedo quale battito d'ali abbia dato origine a Kathleen Lawler e alla scia di morte e sofferenza che si è lasciata dietro. La immagino nella sua cella di due metri per tre, con toilette in acciaio, letto di metallo e finestrella protetta da rete metallica con vista sul cortile dove ci sono un po' d'erba, tavoli e panche da picnic in cemento e cabine wc mobili. So che ha solo due cambi di vestiti, che non sono vestiti "per il mondo libero", come mi ha spiegato nelle e-mail che mi ha mandato e a cui non ho mai risposto, bensì divise da carcerata, brache e casacca. Ha letto almeno cinque volte tutti i libri nella biblioteca del carcere e scrive molto bene, sostiene. Qualche mese fa mi ha spedito una poesia da lei composta, dedicata a Jack:


DESTINO

lui tornò come soffio di aria e io ero terra,
e ci trovammo ma non subito.
(non c'era nulla di male, in realtà,
meri cavilli
cui non badammo,
inutili.)
dita di fuoco.
freddo, freddo acciaio.
fornace spalancata
dal gas acceso...
dimenticato come le luci di un motel accogliente.

L'ho letta e riletta ossessivamente, studiandola parola per parola alla ricerca di significati reconditi, e ho temuto che dietro al riferimento al gas acceso ci fosse una volontà di morte. Forse Kathleen Lawler ha istinti suicidi e vede la morte come un motel capace di accoglierla benevolmente, ho detto a Benton, ma lui mi ha risposto che è la poesia di una donna sociopatica e disturbata, che pensa di non aver fatto nulla di male. Ha fatto sesso con un bambino di dodici anni ospite di una comunità per minori in difficoltà in cui lei lavorava come terapeuta, ma secondo lei non c'era niente di male. Anzi, era una storia bellissima, un'unione purissima, un amore perfetto. Era destino. Kathleen ne è convinta, mi ha detto Benton.

Due settimane fa ho smesso di ricevere e-mail e il mio avvocato mi ha telefonato per dirmi che Kathleen Lawler ha chiesto di vedermi per parlare di Jack Fielding, che io ho aiutato a diventare anatomopatologo e con cui ho lavorato vent'anni, anche se non continuativamente.

Ho accettato di andare nel carcere femminile della Georgia a parlare con lei, ma non in qualità di direttrice del Cambridge Forensic Center, né come medico legale delle forze armate o perito del tribunale. No, semplicemente come amica. Oggi non sarò la dottoressa Kay Scarpetta. Sarò Kay e basta. E l'unica cosa che Kay e Kathleen hanno in comune è Jack. Ciò che ci diremo non sarà protetto da segreto professionale e nessuno presenzierà al nostro colloquio: né avvocati, né guardie, né altri dipendenti del carcere.

La pineta si dirada, la luce cambia e sbuco in una zona aperta, che sembra un'area industriale. Cartelli di metallo mi avvisano che la strada sta per finire e che proseguire è vietato se non si dispone di regolare permesso. Supero un cimitero di macchine, pieno di camion e vetture dalle lamiere contorte, e poi un vivaio con grossi vasi di piante ornamentali, bambù e palme. Davanti a me c'è un prato con petunie e tageti disposti a formare le lettere CPFW – Georgia Prison for Women –, come se si trattasse di un parco pubblico o di un campo da golf. C'è un palazzo di mattoni rossi con un colonnato bianco che spicca per la sua solennità fra le costruzioni di cemento con il tetto di metallo protette da alte recinzioni e filo spinato che brillano sotto il sole.

Facendo approfondite ricerche, ho scoperto che il GPFW è un carcere modello, da molti ritenuto esemplare per il suo impegno educativo e riabilitativo, considerato molto umano e illuminato. Corsi di formazione aiutano le detenute a imparare un mestiere: idraulica, elettrotecnica, estetica, falegnameria, meccanica, giardinaggio, cucina e catering, carpenteria. La manutenzione degli spazi interni ed esterni è svolta interamente dalle detenute, che cucinano, lavorano nella biblioteca, nell'infermeria e nel centro estetico, pubblicano una loro rivista e studiano per ottenere il diploma sostenendo l'esame da privatiste. Al GPFW tutte si devono guadagnare da vivere e hanno molte opportunità per migliorarsi, a parte le detenute del reparto di massima sicurezza, il cosiddetto "Blocco B", dove Kathleen Lawler è rinchiusa da due settimane. Per questo ha smesso di mandarmi e-mail.

Lascio il furgone nel posteggio riservato ai visitatori e controllo l'iPhone per vedere se mi sono arrivati messaggi e se ho telefonate urgenti da fare. Spero di trovare un SMS di Benton. C'è: "Caldo torrido. Previsto temporale in serata. Sta' attenta. Tienimi aggiornato. Ti amo". Mio marito è un uomo pratico e pragmatico e mi manda sempre le previsioni del tempo e altre informazioni utili, per dimostrarmi che mi pensa. "Anch'io ti amo, tutto bene, ti chiamo dopo" rispondo. Vedo alcuni uomini in giacca e cravatta che escono dalla direzione scortati da una guardia. Sembrano avvocati, ma forse sono funzionari del penitenziario. Aspetto che se ne vadano a bordo di una macchina priva di contrassegni e mi chiedo chi possano essere. Infilo il cellulare nella borsa e la nascondo sotto il sedile: ho deciso di portarmi appresso soltanto le chiavi e la patente, oltre alla busta bianca.

L'afa mi colpisce come uno schiaffo. Il sole è cocente, ma a sudest il cielo è coperto e l'aria profuma di lavanda e di Clethra alnifolia. Percorro un sentiero asfaltato fra arbusti e aiuole fiorite, seguita da occhi invisibili che mi spiano da dietro le finestrelle sottili delle costruzioni tutto intorno. Le detenute non hanno niente da fare, a parte scrutare il mondo di cui non possono più far parte e raccogliere informazioni, più attente e più astute degli agenti della CIA. Mi sento osservata e ho la sensazione che stiano tutte cercando di capire a chi appartenga quel furgone bianco con la targa del South Carolina e chi sia la signora con la camicetta a righine bianche e blu dentro i calzoni beige, i mocassini panama e la cintura di corda. Non indosso il mio solito tailleur né i vestiti che metto per i sopralluoghi sulla scena del crimine. Non ho gioielli, a parte l'orologio di titanio con il cinturino di gomma nera e la vera. Penso sia difficile indovinare il mio stato sociale o economico dal mio aspetto. Peccato per il furgone bianco, che cozza con l'idea che avrei voluto dare di me.

Era mia intenzione passare per una signora di mezz'età, bionda e casual, che non fa niente di importante o di interessante nella vita. Purtroppo quel furgone malridotto, bianco con i finestrini scuri, mi fa passare per una che lavora in un'impresa edile o di trasporto merci. Mi sento osservata e mi chiedo se le detenute non immaginino invece che trasporti un prigioniero, vivo o morto. Non le incontrerò, ma di qualcuna di loro so il nome, perché se ne è parlato sui giornali o in TV o a qualche convegno a cui ho partecipato. Evito di guardarmi in giro e di lasciar trapelare il mio disagio nel sentirmi osservata, ma mi domando dietro quale finestra si nasconda Kathleen Lawler.

Chissà come sarà emozionata! Probabilmente non pensa ad altro da giorni. Per quelli come lei, io rappresento l'ultimo legame che resta con la persona che hanno perduto o ucciso, una sorta di surrogato dei loro morti.

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