Autore Patricia Cornwell
Titolo Polvere
EdizioneMondadori, Milano, 2014, Omnibus , pag. 428, cop.ril.sov., dim. 14,5x22,5x4 cm , Isbn 978-88-04-63606-9
OriginaleDust [2013]
TraduttoreAnnamaria Biavasco, Valentina Guani
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe gialli












 

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Pagina 9

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    Cambridge, Massachusetts
    Mercoledì 19 dicembre, ore 4.02



Lo squillo del telefono profana il rumore incessante della pioggia che batte sul tetto come un rullo di tamburi. Mi tiro su a sedere sul letto e il cuore mi fa un balzo nel petto come uno scoiattolo spaventato quando lancio un'occhiata allo schermo illuminato per vedere chi sta chiamando.

«Cosa succede?» La mia voce non lascia trapelare emozioni mentre saluto Pete Marino. «A quest'ora, nulla di buono, immagino.»

Sock, il levriero abbandonato che ho accolto in casa nostra, mi viene vicino e gli accarezzo la testa per tranquillizzarlo. Accendo l'abat-jour, prendo un bloc-notes e una penna dal cassetto e intanto ascolto Marino che mi parla di un cadavere rinvenuto all'MIT, il Massachusetts Institute of Technology, a qualche chilometro da qui.

«Nel fango, in fondo a uno dei campi sportivi, il Briggs Field. È una donna. L'hanno trovata mezz'ora fa» dice. «Ora faccio un salto dove pensiamo che fosse quando è scomparsa e poi vado sul luogo del rinvenimento. Lo stanno mettendo in sicurezza in attesa che arrivi tu.» Mi parla con il suo vocione come se non fosse successo niente fra noi.

Stento a crederci.

«Non capisco perché hai chiamato me.» Non avrebbe dovuto, ma so per quale motivo l'ha fatto. «Teoricamente, non sono ancora rientrata in servizio. Sarei in malattia.» Glielo dico educatamente, con la voce calma e appena un po' roca. «Dovresti chiamare Luke o...»

«Ti conviene occupartene personalmente: fidati, Kay. Sarà un incubo, dal punto di vista mediatico. Come se non ti bastasse quello che è già successo.»

Allude al weekend che ho passato nel Connecticut, e che è finito su tutti i giornali. Non vedeva l'ora di parlarne, evidentemente. Ma io non intendo dargli corda. Mi ha chiamato perché può farlo. Mi sonderà e cercherà di estorcermi informazioni per mettere bene in chiaro che, dopo essere stato ai miei ordini per dieci anni, adesso i ruoli si sono invertiti. Adesso comanda lui, non io. È questo il mondo secondo Pete Marino.

«Per chi sarà un incubo dal punto di vista mediatico? Io non mi occupo di pubbliche relazioni.»

«Un cadavere nel campus dell'MIT è un incubo per tutti. Ho un brutto presentimento. Sarei venuto con te se me l'avessi chiesto. Non ci saresti dovuta andare da sola.» Sta di nuovo parlando del Connecticut, ma io faccio finta di niente. «Me l'avresti dovuto dire, sul serio.»

«Non lavori più per me. Ecco perché non te l'ho detto.» Non intendo aggiungere altro.

«Sarà stato terribile per te. Mi spiace.»

«È stato terribile non solo per me, ma per il mondo intero.» Ho un accesso di tosse e allungo la mano per prendere l'acqua. «L'avete identificata?» Mi sistemo i guanciali dietro la schiena. Sock mi appoggia il muso allungato sulla coscia.

«Potrebbe essere una studentessa di ventidue anni, Gail Shipton.»

«Studentessa dove?»

«All'MIT. Ingegneria informatica. Ne è stata denunciata la scomparsa intorno a mezzanotte. L'ultima volta che è stata vista era allo Psi Bar.»

Il locale preferito di mia nipote. Questo pensiero mi sconcerta. Lo Psi Bar è vicino all'MIT ed è frequentato da artisti, studenti di fisica e geni dell'informatica come Lucy. Lei e Janet, la sua compagna, ogni tanto mi ci portano per il brunch, la domenica.

«Lo conosco» mi limito a dire a Marino, l'uomo che mi ha abbandonato. A livello razionale so che è meglio così.

Peccato che i miei sentimenti la pensino diversamente.

«A quanto pare ieri pomeriggio Gail Shipton era lì con una sua amica. Questa ragazza dice che verso le cinque e mezzo Gail ha ricevuto una telefonata, è uscita dal bar perché dentro non si sentiva niente e non è più tornata. Non saresti dovuta andare da sola nel Connecticut. Avrei potuto accompagnarti io in macchina, se non altro» insiste Marino. Non mi chiede come vanno le cose al CFC, ora che lui se n'è andato per ricominciare daccapo.

Perché Marino si è licenziato dal Cambridge Forensic Center per tornare in polizia. Sembra contento della sua scelta. Non gliene frega niente di come l'ho presa io. Vuole solo sapere del Connecticut. Come tutti, peraltro. Ma io non ho rilasciato nemmeno un'intervista. Non ne voglio parlare. Mi irrita che Marino abbia sollevato il discorso. È stata un'esperienza orribile, a cui cerco di non pensare. E lui me l'ha fatta tornare in mente.

«E non l'ha trovato strano? Non si è preoccupata che la sua amica fosse uscita a telefonare e non si fosse più fatta vedere?» Ho inserito il pilota automatico: vado avanti con il lavoro cercando di non badare a Marino.

«So solo che, quando ha visto che Gail non rispondeva né al telefono né ai messaggi, ha pensato che le fosse successo qualcosa.» Ormai questa ragazza scomparsa, e forse morta, è "Gail" per Marino.

C'è un legame tra loro. Lui ha affondato gli artigli nel caso e non se lo lascerà scappare.

«A mezzanotte, non avendola più sentita, ha cominciato a cercarla» mi comunica. «Si chiama Haley Swanson.»

«E cosa sai di questa Haley Swanson? Che genere di "amica" era?»

«Era solo una chiamata interlocutoria.» Vuol dire che non sa quasi niente perché la denuncia di Haley Swanson lì per lì non è stata presa molto sul serio.

«Non ti pare strano che abbia cominciato a preoccuparsi solo a mezzanotte?» gli chiedo. «La sua amica sparisce alle cinque e mezzo e lei chiama la polizia sei o sette ore dopo?»

«Sai come sono gli studenti: sbevazzano, incontrano uno, vanno via con lui... Non ci fanno manco caso.»

«E Gail lo faceva d'abitudine?»

«Sono tutte domande che andranno fatte, se quello che temo risulterà fondato.»

«Sappiamo poco o niente, quindi.» Non avrei dovuto dirlo, ma ormai mi è sfuggito.

«Non mi sono dilungato molto con Haley Swanson» si giustifica Marino, sulla difensiva. «Ufficialmente le denunce di scomparsa vanno presentate di persona, non per telefono.»

«Come mai le hai parlato, allora?»

«In un primo tempo ha chiamato il 911 e le hanno detto che doveva venire da noi e riempire i moduli del caso. Perché è così che bisogna fare denuncia. Per telefono non si può.» Ha alzato la voce, tanto che ho dovuto abbassare il volume del telefono. «Poi ha richiamato e ha chiesto di me. Io le ho parlato due minuti, ma non l'ho presa tanto sul serio. Cioè, se fosse stata veramente preoccupata, si sarebbe precipitata qui a sporgere denuncia, no? Siamo aperti giorno e notte.»

Marino è tornato a lavorare in polizia da poche settimane soltanto: mi pare incredibile che una sconosciuta abbia chiesto di lui alla centrale di Cambridge. Mi vengono immediatamente dei sospetti su Haley Swanson, ma evito di dirglielo perché sarebbe inutile. Non mi starebbe neanche a sentire. Penserebbe che voglio insegnargli a fare il suo lavoro.

«Ti è sembrata agitata?» gli domando.

«Hanno tutti la voce agitata quando chiamano la polizia. Non vuol dire che ci sia davvero da preoccuparsi, però: novantanove su cento, gli studenti scomparsi non sono scomparsi per niente. Riceviamo parecchie chiamate del genere, da queste parti.»

«Sappiamo dove abita Gail Shipton?»

«In uno dei condomini eleganti vicino all'hotel Charles.» Mi dà l'indirizzo e io lo scrivo.

«Sono case di lusso.» Si tratta di palazzi molto belli, di mattoni, vicino alla Kennedy School of Government e al fiume Charles, non distanti dalla sede del CFC.

«Probabilmente pagano i genitori, come spesso accade qui nel regno dell'Ivy League.» Marino non prova molta simpatia per gli abitanti di Cambridge. Dice sempre che da queste parti se non sei un cervellone ti fanno la multa.

«Avete controllato che non sia a casa e semplicemente non risponda al telefono, vero?» Prendo appunti, adesso sono concentrata, distratta da una tragedia diversa, l'ultima in ordine di tempo.

Ma anche mentre sto lì sul letto a parlare al telefono, non riesco a dimenticare quello che è successo, quello che ho visto. I cadaveri, il sangue, i bossoli di ottone sparpagliati come monetine sui pavimenti di una scuola elementare di mattoni rossi. È come se avessi ancora davanti agli occhi quelle immagini, tanto sono vivide.

Ventisette autopsie, per lo più bambini. E, quando mi sono tolta il camice tutto macchiato di sangue e mi sono infilata sotto la doccia, ho deciso di smettere di pensarci.

Mi sono imposta di cambiare canale. Ho imparato molto tempo fa che è meglio vivere per compartimenti stagni, che devo smettere di pensare ai corpi straziati e martoriati appena finisco di sezionarli. Mi sono sforzata di lasciare quelle immagini lì dove le ho viste, nella scuola e nella sala settoria, fuori dei miei pensieri, ma non ci sono riuscita. Quando sono tornata a casa, sabato sera, avevo la febbre e dolori dappertutto, come se il male mi avesse contagiato. Le mie consuete difese avevano ceduto. Mi ero offerta io di dare una mano ai colleghi dell'Istituto di medicina legale del Connecticut e si sa che le buone azioni finiscono sempre per essere punite. Cerchi di fare la cosa giusta? Stai sicuro che la pagherai. Le forze oscure non apprezzano, lo stress ti farà ammalare.

«Dice di esserci andata per assicurarsi che Gail non fosse rientrata» mi risponde Marino. «Pare abbia chiesto al portinaio di controllare il suo appartamento e non c'era traccia di lei, sembrava non fosse più tornata a casa dopo il bar.»

Gli faccio notare che Haley Swanson deve essere ben conosciuta nel condominio di Gail Shipton, perché altrimenti non le avrebbero aperto la porta dell'appartamento e, mentre lo dico, mi cade l'occhio sulla pila esagerata di pacchi sul divano, che mi sono stati consegnati dalla FedEx e non ho ancora aperto. Rifletto che non mi fa bene restare sola troppi giorni di seguito, specie se non ho la forza di lavorare, cucinare e uscire, e mi spaventa isolarmi con i miei pensieri. Sento il bisogno di distrarmi e lo faccio nel modo sbagliato.

La fibbia a forma di teschio e il giubbotto di pelle vintage della Harley-Davidson sono per Marino, la colonia di Hermès e i braccialetti di Jeff Deegan per Lucy e per Janet; per mio marito Benton ho preso invece un orologio Breguet fuori commercio, di titanio con quadrante in fibra di carbonio. Compie gli anni domani, cinque giorni prima di Natale, ed è difficile fargli un regalo perché non ha bisogno di niente e ha già praticamente tutto.

Ci sono doni in abbondanza anche per mia madre e mia sorella, per la nostra domestica, Rosa, per il personale del CFC, per Sock, per il bulldog di Lucy e per il gatto del mio assistente. Non so cosa mi sia preso in questi giorni in cui sono stata a letto malata, ma ho comprato un sacco di cose su internet. Colpa della febbre. Sono sicura che mi prenderanno in giro tutti quanti: la sobria e assennata dottoressa Kay Scarpetta quest'anno si è data allo shopping sfrenato. Lucy non mi darà requie.

«Gail non risponde al cellulare, alle e-mail, agli SMS» continua Marino, mentre la pioggia batte sui vetri. «Niente post su Facebook, Twitter o altro. Ma, soprattutto, la descrizione corrisponde a quella della morta. Insomma, secondo me l'hanno rapita, l'hanno portata da qualche parte, l'hanno uccisa e poi hanno avvolto il corpo in un lenzuolo e l'hanno abbandonato lì. Non ti avrei disturbato, date le circostanze, ma ti conosco e...»

Sì, mi conosce, e non andrò né all'MIT né da nessun'altra parte. Manco dal CFC da cinque giorni e sono virtualmente in quarantena. Glielo comunico. Uso un tono brusco e seccato con il mio ex investigatore. Sì, ex, ribadisco dentro di me.

«Come stai adesso? Te l'avevo detto di non farlo, il vaccino antinfluenzale. Scommetto che è stato quello» dice.

«È un virus morto: non ti puoi ammalare.»

«Be', io le uniche due volte che l'ho fatto mi sono ammalato. Eccome. Sono stato male come un cane. La voce ti è migliorata, comunque.» Fa il premuroso perché ha bisogno di me.

«È tutto relativo: potrei stare meglio, ma potrei stare anche peggio.»

«Sei arrabbiata con me, vero? Be', tanto vale che ne parliamo.»

«Veramente mi riferivo al mio stato di salute.»

Non sono solo arrabbiata. Provo emozioni ben più complesse e stratificate. Marino non ha minimamente pensato a cosa la sua decisione di cambiare lavoro avrebbe comportato per me, che dirigo il Cambridge Forensic Center e l'Istituto di medicina legale del Massachusetts. Da dieci anni Marino era responsabile del reparto investigativo e posso solo immaginare le illazioni che faranno, o avranno già fatto, soprattutto in polizia, riguardo a questo improvviso divorzio.

Prevedo già come verrò trattata sulle scene del crimine, al CFC, in tribunale. Metteranno in dubbio la mia professionalità, cercheranno di capire cosa ho fatto di male. In realtà, io non c'entro assolutamente niente. La scelta di Marino di cambiare lavoro è stata dettata prevalentemente da una crisi di mezza età che lo affligge da che lo conosco. Se fossi indiscreta, potrei dire al mondo che Pete Marino soffre di problemi di identità e di bassa autostima da quando è nato in una zona malfamata del New Jersey, da un padre alcolizzato e violento e una madre debole e sottomessa.

Io sono una donna fuori della sua portata, forse il grande amore della sua vita, di sicuro la sua migliore amica. Per questo mi punisce. Lo fa in maniera inconscia, ovviamente. Non ne è consapevole quando mi telefona nel cuore della notte pur sapendo che ho l'influenza e che sono stata talmente male che a un certo punto ho creduto di morire e mi sono detta: "Ecco, è così che succede".

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