Copertina
Autore Marinella Correggia
CoautoreGiuseppe De Marzo, Marica Di Pierri, Laura Greco, Lucie Greyl
Titolo Conflitti ambientali
SottotitoloBiodiversità e democrazia della terra
EdizioneAmbiente, Milano, 2011, , pag. 256, cop.fle., dim. 15,2x23x1,8 cm , Isbn 978-88-96238-88-2
PrefazioneJoan Martinez Alier
LettoreCorrado Leonardo, 2011
Classe ecologia , beni comuni , globalizzazione , economia politica , natura , energia
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Indice


PREFAZIONE                                               7

di Joan Martinez Alier


INTRODUZIONE:
I NUOVI CONFLITTI AMBIENTALI COME FENOMENO GLOBALE            9

di Marica Di Pierri


1.  LA BIODIVERSITÀ NELLA SCIENZA E NELLE LEGGI              19

LA VITA COME VERA RICCHEZZA                                  19
LA TUTELA GIURIDICA DELLA BIODIVERSITÀ                       29
CONSERVARE LA BIODIVERSITÀ                                   44


2.  LA BIODIVERSITÀ MINACCIATA                               51

MINACCE:TUTTE DI MATRICE UMANA, ANZI ECONOMICA               52


3.  I GRANDI CONFLITTI AMBIENTALI                            75

AMERICA LATINA                                               76
Agrobusiness vs sovranità alimentare in Argentina:
storia della Monsanto                                        76
Ecuador, Perù, Brasile: le vie dell'Iirsa                    84
Sfruttamento idroelettrico in Patagonia:
il progetto Hidroaysén                                       92

ASIA E MEDIO ORIENTE                                        100
La "Shrimp Region" in Bangladesh                            100
La diga Ilisu sul fiume Tigri in Kurdistan                  105
Singur, terra o automobili                                  111

AFRICA                                                      118
Miniere di coltan nel Kivu, Congo                           118
L'industria forestale nel Sud-Est del Camerun               124

TUTTA LA FILIERA DAL GIACIMENTO AL LINGOTTO                 130
La ragazza senza gioielli                                   130
A che serve tutto quest'oro?                                132
Miniere, minatori, mercurio e fine delle civiltà            135
Restituire l'oro con gli interessi?                         144


4.  I PROFUGHI AMBIENTALI:
    PERDITA DI BIODIVERSITÀ E NUOVI FLUSSI MIGRATORI        147

IL FENOMENO EMERGENTE DEI PROFUGHI AMBIENTALI               148
LE PRINCIPALI CAUSE DELLE MIGRAZIONI PER RAGIONI AMBIENTALI 153
CONCLUSIONI                                                 162


5.  CONFLITTI AMBIENTALI E LORO COMPOSIZIONE:
    RISPOSTE, PROPOSTE E ALTERNATIVE                        163

SAPERI LOCALI IN DIFESA DELLA BIODIVERSITÀ                  166
PROCESSI DAL BASSO E DIFESA DEI BENI COMUNI                 178
DEBITO ECOLOGICO, GIUSTIZIA CLIMATICA E GOVERNANCE          186
STRUMENTI DI COMPOSIZIONE DEL CONFLITTO                     194


6.  DALLA BIOCRISI ALLA BIOTICA                             221

LA NOSTRA TERRA VISTA DALL'ALTO                             221
LA RELAZIONE TRA SALVAGUARDIA DELLA BIODIVERSITÀ E
MODELLI DI SVILUPPO                                         225
UN MANIFESTO DEI SAPERI E DELLE CONOSCENZE                  227
I DIRITTI DELLA NATURA COME UN NUOVO PARADIGMA
DI CIVILIZZAZIONE                                           230


NOTE                                                        239
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA                                   247
RINGRAZIAMENTI                                              253
SCHEDA.CDCA                                                 255

 

 

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PREFAZIONE

di Joan Martinez Alier


Quali sono le cause dei conflitti ambientali? A rischio di un certo riduzionismo materialista, credo si possa dire che la causa ultima sia l'aumento del metabolismo sociale, cioè dei flussi ogni volta maggiori di energia e di materiali immessi nell'economia, che influiscono su una maggiore produzione di residui. Dal punto di vista quantitativo, in economie basate sui combustibili fossili, il residuo più consistente in termini di tonnellate, a parte l'acqua contaminata, è l'anidride carbonica. Che produce l'aumento dell'effetto serra.

Eccolo, dunque, il primo grande conflitto. A chi spetta il diritto di proprietà sugli oceani e sull'atmosfera che permetta il deposito delle ingenti quantità di anidride carbonica che produciamo in eccesso? Non dovremmo avere tutti, come esseri umani, diritti simili?.

Esistono conflitti nati in relazione alla produzione di rifiuti (come in Campania), conflitti per l'estrazione di risorse naturali (petrolio, gas naturale, carbone, rame, oro, bauxite, agrocombustibili, cellulosa, pesca ecc.) e per il loro trasporto.

Spesso, i paesi ricchi rinunciano al prelievo locale di materia prima perché gli risulta più conveniente l'attività estrattiva nel Sud del mondo. Da ciò nascono tremendi conflitti che solo a volte trovano spazio sulla stampa e sulla televisione dei paesi più sviluppati. Per esempio, il conflitto dei Dongria Kondh nell'Orissa indiano contro la miniera di bauxite dell'impresa Vedanta, di Londra, è un conflitto famoso che si aggiunge a tanti altri che i media ignorano. Tra i quali, ad esempio, il processo giudiziale iniziato in Olanda contro la Shell per i suoi crimini nel Delta del Niger.

Dalla resistenza possono nascere alternative. Un esempio che ci arriva dall'America Latina è la proposta Yasuní Itt. Consiste nel lasciare sottoterra il petrolio dei blocchi chiamati Ishpingo, Tambocoha, Tiputini che si trovano alla frontiera dell'Ecuador con il Perù, nel Parco nazionale dello Yasuní. Nel sottosuolo dell'Itt ci sono circa 850 milioni di barili di petrolio, una quantità equivalente a dieci giorni di consumo mondiale. Sembra poco, ma dieci giorni senza petrolio stremerebbero il mondo "sviluppato", spingendolo a riflettere. L'Ecuador propone di lasciare questo petrolio nel sottosuolo, preservando la biodiversità ineguagliabile di questa zona e rispettando i diritti dei popoli indigeni locali. Inoltre, lasciando il greggio sottoterra, si eviterebbe l'emissione in atmosfera di 410 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Un'iniziativa che viene dal Sud e che occorre sostenere.

A Nagoya, nella 10a Conferenza delle parti della Convenzione sulla diversità biologica, tenutasi nell'ottobre 2010, si è riconosciuto che l'obiettivo di frenare la perdita di biodiversità nel mondo entro il 2010 è fallito. Così come è fallito quello di frenare l'aumento della concentrazione di CO2 nell'atmosfera. Il mondo va verso un disastro.

Uno degli elementi più importanti per costruire un'economia più sostenibile è l'impulso che viene dai movimenti dell'ecologismo popolare del Sud, e a volte anche del Nord del mondo. In tal senso, un ruolo di primo piano è ricoperto dalle alternative che provengono da questo ecologismo degli indigeni e dei poveri, che si trovano ad affrontare sempre più spesso imprese transnazionali o nazionali in contesto di conflitto ambientale. Ne tratta questo libro, nato dall'esperienza e dalla solidarietà.

Joan Martinez Alier

Economista, tra i fondatori dell'International Society of Ecological Economics - Docente dell'Università autonoma di Barcellona

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INTRODUZIONE: I NUOVI CONFLITTI AMBIENTALI COME FENOMENO GLOBALE

di Manica Di Pierri


Negli ultimi decenni i conflitti ambientali, per la crescente diffusione e l'entità delle implicazioni prodotte, sono divenuti fenomeno di estremo interesse in ambito politico, scientifico, universitario e - non da ultimo – sociale. Tuttavia essi rimangono un tema piuttosto ignorato dalla letteratura scientifica del nostro paese.

La prima ragione della crescente attenzione mondiale che i conflitti ambientali hanno stimolato negli ultimi anni va ricercata nel fatto che essi rappresentano una realtà rilevante non soltanto a livello locale ma anche e ancor prima a livello globale: sono la manifestazione localizzata e sintomatica degli effetti che il modello di sviluppo economico attuale produce in termini ambientali e sociali. In altre parole: pur avendo a che vedere con una dimensione locale, testimoniano una tendenza diffusa a livello mondiale e hanno quindi una portata che trascende l'ambito territoriale. Un'altra ragione, che approfondiremo più avanti, ha a che vedere con le modalità in cui tali fenomeni stimolano nelle comunità coinvolte o in generale nella società civile forme nuove e dirette di partecipazione: spesso l'opposizione sociale che viene a crearsi attorno alla causa del conflitto elabora e sperimenta strumenti di democrazia dal basso e articola processi organizzativi non privi di elementi di novità.

Negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva sensibilizzazione dell'opinione pubblica nei confronti delle tematiche ambientali. Disastri di proporzioni enormi, rimasti impressi nella memoria collettiva come Bhopal o Chernobyl, hanno avuto un duplice effetto, incrociando i residui timori di catastrofi alla nascente coscienza del progressivo sorgere di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo. La recente catastrofe ambientale che dal 20 aprile 2010 ha funestato il Golfo del Messico con l'affondamento della piattaforma offshore della British Petroleum ha mostrato ancor più agli occhi del mondo come l'attività umana sia capace di causare calamità di dimensioni ogni volta maggiori, che vanno oltre l'immaginabile. Insieme alla crescita delle organizzazioni ambientaliste è aumentata la volontà di partecipare ai processi decisionali che riguardano la gestione della cosa pubblica da parte della società civile, organizzata in comitati, comunità, associazioni ecc.

Per capire meglio questi due aspetti, è necessario fare ora una premessa su cosa si intenda per conflitto ambientale e su quali siano gli elementi che lo configurano.

Le definizioni date dalla letteratura di settore sono molteplici. Le prime risalgono agli anni Novanta. Uno dei primi studi realizzati sul tema, svolto presso la Toronto University e coordinato da Thomas Homer-Dixon, mette in luce i legami esistenti tra scarsità delle risorse e insorgenza dei conflitti ambientali. Lo studio prende in esame regioni del mondo in situazioni di conflitto armato, come Gaza, Haiti, Pakistan, Ruanda e Sudafrica, sovrapponendo la conflittualità sociale a situazioni pregresse di violenza e in tal modo distorcendo lo studio sull'indagine – non del tutto calzante nella pubblicazione in questione – relativa all'esistenza di legami diretti e dimostrabili tra conflitto e questione ambientale scatenante. Una prima definizione più vicina al nostro campo di indagine è fornita da Günther Baechler e Kurt R. Spillman: "I conflitti ambientali si manifestano come conflitti politici, sociali, economici, etnici, religiosi e territoriali, o conflitti sulle risorse o interessi nazionali. Sono tradizionalmente conflitti indotti dal degrado ambientale. Sono caratterizzati da sovrasfruttamento di risorse, raggiungimento delle capacità limite dell'ambiente e riduzione degli spazi di riproduzione della vita".

Alcune ricostruzioni rintracciano tra le caratteristiche della tensione ambientale propria dei nuovi conflitti un'inedita "dimensione pianificatoria". Al posto della dimensione catastrofica, nella quale la tensione ambientale è derivata da un atto improvviso e, appunto, catastrofico, e accanto alla dimensione ecologica, nella quale le modifiche dell'assetto ambientale costituiscono minacce per l'equilibrio del pianeta, Angelo Turco e Pierpaolo Faggi (accademici che hanno dedicato molti anni allo studio dei conflitti ambientali) aggiungono la dimensione pianificatoria, definendola come "l'irruzione esplicita dello spazio naturale nelle politiche attraverso cui si cerca di governare l'assetto e l'evoluzione del territorio". In altre parole, l'incontestabile aumento della conflittualità ambientale al quale si assiste negli ultimi decenni sarebbe dovuto in gran parte proprio alla crescente e pervasiva occupazione di spazio bioriproduttivo – terre, aria, acque, biosfera, germoplasma, biodiversità – da parte di attori economici pubblici e privati. Secondo questa ricostruzione, alle tre dimensioni sopra citate c'è da aggiungere ancora quella "vicinale", basata sulle relazioni di vicinanza all'interno delle quali la conflittualità ambientale si sviluppa portando a una territorializzazione del conflitto.

Nonostante la crescita progressiva della conflittualità ambientale e la maggiore attenzione riservata a questi temi in campo scientifico e sociale, non esiste tuttora una teoria univoca sui conflitti ambientali che ne definisca concettualmente le caratteristiche e ne tracci i limiti. Ci si è chiesti; se fosse possibile parlare di "conflitto totale" riferendosi al conflitto ambientale, visto che in tale tipo di conflitto coesistono elementi ambientali, economici, geografico/territoriali, sociali, culturali ecc. Un ulteriore tentativo di marcare il campo concettuale definisce i conflitti ambientali come lotte tra soggetti e gruppi sociali, con interessi e capacità differenti che devono soddisfare i propri bisogni accedendo all'ambiente naturale. Tuttavia, a nostro avviso tale definizione pecca di eccessiva genericità. È pertanto necessario chiarire ulteriormente i termini per definire il campo di ricerca di questo lavoro.

Nella pratica, un conflitto ambientale si manifesta quando progetti di opere pubbliche o private (energetiche, infrastrutturali, produttive, di smaltimento) oppure politiche nazionali o sovranazionali con rilevanti impatti ambientali incontrano – o meglio si scontrano con – l'opposizione della società civile: residenti, associazioni, comitati ecc.

Nel nostro caso, precisando ulteriormente il quadro di riferimento, quando parliamo di conflitti ambientali intendiamo tutte quelle situazioni che vedono la concorrenza di due elementi:

• riduzione qualitativa e/o quantitativa delle risorse naturali o beni comuni presenti su un dato territorio (terre coltivabili, acqua, biodiversità, flora o fauna, minerali o altre materie prime di carattere finito);

• presenza di opposizione/resistenza da parte della società civile (comunità coinvolte, organizzazioni sociali o ambientaliste, comitati locali, gruppi di stakeholders) che si organizzano e si mobilitano in difesa dei propri diritti o del proprio territorio.


Gli esempi che si possono citare sono molteplici: basti pensare ai grandi progetti di estrazione petrolifera nelle regioni amazzoniche, che incontrano da sempre la strenua resistenza delle popolazioni originarie, insediate nei luoghi da millenni, o ai tanti mega progetti per la costruzione di infrastrutture viarie o energetiche (come nel caso di ferrovie, ponti, dighe e centrali idroelettriche o termoelettriche), che comportano in seno alle comunità coinvolte espropriazioni, inondazione di vaste superfici, inquinamento del suolo e delle acque ecc. O ancora poli industriali, progetti di estrazione mineraria, politiche pubbliche che privatizzano beni comuni o servizi di base: tutte cause che possono scatenare fenomeni di conflittualità e resistenza sociale.

Per definire tale situazione è emerso negli ultimi anni l'acronimo Lulu, cioè Locally Unwanted Land Uses, ovvero "Usi dei luoghi non desiderati dai residenti". Un tentativo riduzionista ha provato a ricondurre i processi di rivendicazione e opposizione territoriale alla cosiddetta sindrome Nimby: Not in my Back Yard, cioè "Non nel mio giardino". Spesso tuttavia, tali movimenti di opposizione sviluppano e articolano impianti teorici che vanno ben oltre l'impatto territoriale del progetto contestato, trasformando il Nimby in Niaby, Not in Anyone's Back Yard, vale a dire "In nessun giardino", oppure in Nope, Nowhere on Planet Earth, "Da nessuna parte sulla Terra". In altre parole, operando un tentativo di semplificazione, tali movimenti organizzati finiscono non con il contestare semplicemente la costruzione di un inceneritore o di una base militare sul proprio territorio, quanto la stessa politica di gestione dei rifiuti o le politiche di guerra in quanto tali, ovunque siano presenti e, dato questo fondamentale, ovunque producano le loro conseguenze.

Per fare solo qualche esempio legato alla realtà del nostro paese, è possibile citare tra i progetti alla base dell'insorgenza di conflitti ambientali: il progetto di costruzione del Treno alta velocità (Tav) in Val di Susa, la mala gestione dello smaltimento dei rifiuti in Campania, il progetto di conversione a carbone della centrale elettrica di Civitavecchia (Rm), l'individuazione di siti per lo stoccaggio o il trattamento di rifiuti urbani o industriali come nel caso di Chiaiano (Na) o di rifiuti "speciali" come a Scanzano Jonico (Mt).

Dal punto di vista teorico, provando a ricondurre le cause dei conflitti ambientali a tre macro categorie, potremmo distinguerli in tre tipologie a seconda della causa scatenante.

Al primo tipo di conflitto ambientale sono ascrivibili quei conflitti causati da scelte politiche o amministrative relative a progetti infrastrutturali o produttivi o di smaltimento di rifiuti contro la volontà della popolazione residente o senza previo consenso. Rientrano in questa categoria miniere, industrie, progetti estrattivi, progetti per la costruzione di elettrodotti, gasdotti, oleodotti, reti viarie, centrali per la produzione di energia elettrica, inceneritori, siti di stoccaggio di rifiuti ecc. Emblematico il caso dell'estrazione petrolifera nel Delta del fiume Niger, iniziata oltre mezzo secolo fa e che ha convertito la regione in un enorme campo estrattivo, compromettendo le condizioni di riproduzione della vita per gli oltre due milioni di persone residenti.

Alla seconda categoria sono riconducibili i conflitti scatenati da processi di "non decision making", ovvero di mancato intervento pubblico in situazioni dove, al contrario, sarebbe necessario. Fanno parte di questa tipologia i casi di mancanza di politiche di salvaguardia ambientale, di mancato o tardivo intervento in caso di disastri ambientali o calamità naturali, di mancato esercizio delle attività di controllo e monitoraggio ambientale e sociale di competenza dei poteri pubblici, la mancata bonifica di zone contaminate. Si pensi a quanto è accaduto in seguito al sisma che ha colpito l'Abruzzo nell'aprile del 2009: la gestione del post terremoto e le condizioni di precarietà in cui continuano a vivere molte delle persone terremotate hanno indotto la popolazione a organizzarsi in comitati per chiedere trasparenza e partecipazione nelle decisioni relative alla ricostruzione.

La terza categoria di conflitti riguarda i casi in cui la causa è riconducibile a scelte politiche nazionali, a politiche commerciali, monetarie e finanziarie raccomandate o imposte da organismi sovranazionali come l'Organizzazione mondiale del commercio, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l'Unione europea ecc. Ne sono un esempio le politiche di sicurezza o di lotta al narcotraffico come il Plan Colombia, le politiche di investimenti infrastrutturali come l'Iirsa in America del Sud o di aggiustamento strutturale come quelle imposte negli anni Novanta ai paesi latinoamericani dal Fondo monetario, i prestiti vincolati al rispetto di politiche economiche che comportano tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse ecc., o infine i trattati commerciali bilaterali o multilaterali che comportano una riduzione di sovranità per alcuni paesi a danno delle economie interne, specialmente nei settori artigianali o agricoli.

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2. LA BIODIVERSITÀ MINACCIATA

di Marinella Correggia


Il 20 aprile, Giornata della Terra, del 2010, Anno internazionale della biodiversità, mentre in Bolivia era in corso la Conferenza dei popoli sul cambiamento climatico e per la Madre Terra, e mentre un vulcano islandese dal lungo nome cercava di dar voce al grido della Natura senza fare vittime umane, esplodeva la piattaforma petrolifera marina Deep Water Horizon e la fuoriuscita in mare di migliaia di milioni di litri uccideva la vita nel Golfo del Messico. In quell'area, peraltro, la biodiversità era già decimata da modelli produttivi insostenibili: i fertilizzanti agricoli provenienti dal Mississippi avevano creato una zona morta di 10.000 chilometri quadrati; il resto lo avevano commesso i naufragi di petroliere e centinaia di incendi di piattaforme petrolifere.

Dopo il disastro Deep Water – una Chernobyl statunitense – la storica organizzazione ambientalista Sierra Club ha centrato il punto: chiedendo di ripensare al costo effettivo del petrolio che, a mettere nel conto il mare di pece e le guerre, dovrebbe essere prezzato a decine di migliaia di dollari al barile. L'inciviltà delle estrazioni di idrocarburi diventerebbe non competitiva se il prezzo dei prodotti fossili e derivati rispecchiasse i disastri umani e ambientali, in mare come nelle foreste. Anzi ovunque, visto che utilizzare idrocarburi equivale, matematicamente, ad attentare al clima.


MINACCE: TUTTE DI MATRICE UMANA, ANZI ECONOMICA

La biodiversità è tenera e forte come un balestruccio (Delichon urbica). Con rondine, rondone e topino appartiene alla famiglia degli "uccelli dalle lunghe ali". Se ne vedono sempre meno sui fili della luce e le nuove costruzioni li sfrattano anche dai portici sotto i quali nidificavano. Peccato, perché "ho osservato che ove questi uccelli fanno il loro nido e figliano, l'aria intorno è più dolce e più leggera" (William Shakespeare, Macbeth). Il balestruccio ha una bellissima iridescenza blu sul dorso, ma la vedono solo gli osservatori appassionati. Da adulto pesa poche decine di grammi ed è lungo al massimo 15 centimetri, comprese coda e ali. Lo può uccidere l'ingestione di un insetto avvelenato dai pesticidi. Eppure riesce a percorrere nei cieli lo stagionale tragitto Europa-Africa, andata e ritorno. Un cucciolo di balestruccio non ancora in grado di volare e caduto a terra dal nido è alla mercé di qualunque rapace, e potrebbe essere schiacciato con la semplice pressione di un dito di bambino, eppure è in grado di resistere a fame e sete sotto il sole molto a lungo.

L' Ectopistes migratorius è un altro simbolo. Multicolore colomba migratrice che si nutriva di frutti e semi spontanei, si estinse definitivamente agli inizi del XX secolo. Vittima della riduzione degli habitat selvatici ma anche di una caccia totale, le sue carni erano date in pasto ai maiali allevati. Nelle piume di quella migratrice, simbolo di pace e antesignana delle moderne estinzioni di specie, possiamo percorrere a volo d'uccello il paradiso chiamato biodiversità, varietà della vita, e l'inferno della sua sparizione, a ritmi accelerati negli ultimi decenni.

A immaginarci nelle piume di una colomba estinta o di un balestruccio a rischio, voleremmo su aree di biodiversità raggruppabili in sei insiemi: biodiversità forestale, delle zone umide e subumide, delle acque interne, delle isole, marina e costiera, montana, agricola. E vedremmo, missili puntati, molte minacce antropiche, fra le quali non è agevole fare una classifica in ordine di importanza, tanto sono intrecciate in spirali di causa-conseguenza-causa e relativi effetti domino. Basti pensare ai cambiamenti climatici che distruggono le foreste, il cui taglio è a sua volta responsabile per un quinto dell'aumento della temperatura terrestre.

Il programma di lavoro della Convenzione Onu per la biodiversità indica le seguenti cause dirette di perdita di biodiversità: invasione di specie estranee, cambiamenti climatici, inquinamento, stravolgimento degli habitat fino alla distruzione, ipersfruttamento. Insieme a queste cause dirette opera una serie di cause indirette che interagiscono e vanno dai fattori demografici a quelli economici, sociopolitici, culturali, religiosi, scientifici e tecnologici. Essi influenzano le attività umane in modi che poi impattano direttamente sulla biodiversità.

E i fattori demografici? C'è chi, non con tutti i torti, insiste: "Per proteggere la ricca diversità della vita occorre stabilizzare la popolazione a otto miliardi entro il 2030; poiché diventa sempre più difficile aumentare la produttività dei suoli, un aumento continuo della popolazione obbligherebbe a radere al suolo le foreste tropicali in Amazzonia, nel bacino del Congo, in Indonesia". Si ritiene che la popolazione umana nel suo complesso abbia trasformato, degradato o distrutto circa la metà delle foreste del mondo, scrigno di biodiversità, con la conseguente perdita di ecosistemi e specie. Ora, è vero che la specie umana si comporta spesso con Madre Natura come uno sciame di cavallette con i raccolti saheliani: la azzera. Ma certo i popoli e gli umani non hanno identiche responsabilità. Le impronte ecologiche individuali e nazionali sono diversissime. Gli individui del Nord globale (comprendente anche le classi medie e abbienti del Sud del mondo) sono molto più ecopesanti delle persone del Sud globale (quindi le tantissime, in ogni dove, il cui reddito – e possibilità di consumo dunque – è inferiore a 7.000 dollari l'anno, secondo la proposta di giustizia climatica detta "Greenhouse Development Rights" elaborata da Ecoequity con il sostegno fra gli altri della Heinrich Böll Foundation). E la riconversione dei modelli di produzione e consumo può alleggerire di molto l'impronta media globale. Si pensi a quanto spazio naturale verrebbe lasciato libero con un altro modello alimentare e di trasporti. Quindi le varie forme di biodiversità sono minacciate dal modello che permea le teste degli umani; ben più che dal numero di queste teste in sé. Per proteggerla, stabiliscono gli obiettivi Onu fissati nel 2002, occorre proteggere gli ecosistemi e le specie, preservare la diversità genetica, promuovere l'uso sostenibile e i saperi tradizionali.

Non a caso, nei conflitti ambientali, gruppi di popolazioni e individui si schierano in difesa o contro la perdita della biodiversità. I "difensori" sono un mondo composito. Si può trattare di popolazioni indigene o dei salvatori di semi europei, di nazioni impoverite e illuminate o di organizzazioni non governative espressione delle classi medie, del Sud o del Nord del mondo. Anche gli "assalitori" sono assortiti. Si può trattare della multinazionale petrolifera o del pescatore di frodo, del governo complice o dell'impresa agroalimentare, dell'allevatore di gamberetti o del coltivatore di soia per uso mangimistico, del minatore illegale o della compagnia aurifera, del raccoglitore commerciale o del consumatore di prodotti, utilizzatore finale spesso ignaro o indifferente anche se è alle sue esigenze vere o presunte che si indirizza ufficialmente tutto il modello economico.

Il Living Planet Report 2008 del Wwf evidenzia come i nemici della varietà di specie e degli ecosistemi naturali caratterizzino quasi ogni bioma (zone di vegetazione) e regione del mondo. I fattori originari, indiretti di queste minacce sono riconducibili alla domanda umana di cibo, acqua, energia, materie prime e materiali. Le minacce antropogeniche alla biodiversità alla fine dipendono dal consumo di risorse naturali per processi produttivi che riguardano l'alimentazione, l'energia, i materiali o le attività costruttive e infrastrutturali fino allo sversamento di rifiuti. Soffermandoci sulla perdita o alterazione degli habitat, essa è dovuta alla loro conversione "ad altro". L'habitat è convertito in colture, pascoli, impianti di itticoltura, uso urbano o industriale. I sistemi fluviali sono danneggiati e alterati dall'irrigazione, dalle centrali idroelettriche, dall'imbrigliamento del loro corso e dall'inquinamento. Gli ecosistemi marini sono degradati dall'acidificazione oceanica, dalla pesca a strascico, dalle costruzioni, dalle attività estrattive e dall'inquinamento, spesso legato alle stesse attività estrattive e di trasporto idrocarburi. Il sovrasfruttamento delle popolazioni selvatiche vegetali e animali dipende dal loro prelievo per usi alimentari, medici o materiali.

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5. CONFLITTI AMBIENTALI E LORO COMPOSIZIONE: RISPOSTE, PROPOSTE E ALTERNATIVE

di Laura Greco


Secondo la definizione che abbiamo voluto dare all'inizio del libro e che abbiamo accolto come definizione di "conflitto ambientale", un conflitto è definito tale laddove vi sia un'opposizione e/o resistenza da parte delle comunità che risiedono nei territori investiti da progetti che modificano l'assetto tradizionale di usufrutto dei servizi ambientali. Tali progetti estrattivi, industriali, di privatizzazione, infrastrutturali portano non solo un modello di gestione dei territori spesso non sostenibile, ma introducono una visione sociale, culturale e filosofica che si impone sui saperi e sulle pratiche locali con una chiara volontà di omologare processi economici e sociali al modello di produzione e consumo dominante.

Poiché viviamo in un pianeta incapace di sostenere il livello di consumi che gli stili di vita odierni ci impongono, la logica conseguenza dei tentativi di espansione di tale modello si tramutano in processi di esclusione e marginalizzazione necessari per garantire il mantenimento dello status quo almeno per una parte minoritaria della popolazione mondiale. La sindrome da gigantismo delle attuali teorie economiche ci descrive bene le contraddizioni e le criticità derivanti dall'annullamento del micro, del piccolo, del locale, del diverso, del non omologato. I conflitti divengono dunque rivelatori di dinamiche sociali di esclusione all'accesso alle risorse che si ripetono quasi uguali a se stesse in ogni luogo del pianeta.

Gli elementi di replicabilità delle dinamiche, le numerose storie con tratti estremamente simili seppure a grandissime distanze geografiche, le analisi e le narrazioni identiche sugli impatti derivanti dai conflitti ambientali hanno consentito di costruire una rappresentazione comune e dunque di iniziare a prevedere con una certa sicurezza gli effetti di tali eventi. L'organizzazione delle reti di attori che subiscono gli impatti negativi dei conflitti ambientali, che si sono articolate a livello globale, ha permesso di rafforzare la capacità di previsione e di condividere le informazioni sulle dinamiche e sulle conseguenze di determinate pratiche di utilizzo dei territori, fatto che ha consentito alle comunità colpite di sfruttare il conflitto come opportunità per pensare alle alternative e alle proposte da, mettere in campo per una gestione equa, pulita e sostenibile delle proprie terre e delle risorse naturali.

La chiara consapevolezza di molte comunità organizzate che hanno sperimentato processi di democrazia partecipata all'interno del conflitto è quella di non dover più credere al racconto dell'adattamento, della compensazione e della riparazione, e iniziare invece a valorizzare sistemi altri di gestione dei servizi ambientali per opporre al gigante la forza di tante proposte che dal piccolo divengano l'alternativa possibile su scala globale. Le parole chiave di questi processi sono comunità, partecipazione, democratizzazione dei saperi, autogoverno, auto-organizzazione, auto-gestione ma anche interdipendenza, mutuo soccorso, reciprocità e cooperazione. La comunità locale si fa globale, per confrontarsi con la governance mondiale e mettere in campo strumenti capaci di rispondere alla crisi del sistema che sta portando alla più grave emergenza ambientale a cui l'umanità abbia mai assistito.

La forza delle proposte che vengono da organizzazioni sociali, comunità locali e movimenti dei Sud e dei Nord del mondo, sta nell'aver individuato e interiorizzato il più grande errore di valutazione portato avanti dal modello economico attuale. Credere che la natura sia infinita, che l'umanità possa attingere senza limiti alle risorse ambientali e che possa fondare la propria idea di civiltà e benessere sulla crescita illimitata e sull'espansione delle frontiere del mercato.

In molti casi il conflitto ha permesso alle comunità di assumere un ruolo attivo e protagonico, grazie al quale le popolazioni locali hanno iniziato a esprimere la consapevolezza della insostituibilità dei valori sociali, culturali, religiosi e politici legati alla gestione del territorio e alla conservazione del loro habitat naturale.

È così che assieme alla difesa del territorio, della biodiversità in essa contenuta e dello spazio bioriproduttivo di un gruppo sociale, assume sempre più importanza la difesa e valorizzazione del patrimonio culturale, sociale ed etnico la cui conservazione diviene garanzia di sopravvivenza e di gestione sostenibile degli ecosistemi.

Nello scenario delle proposte, delle risposte e delle alternative messe in campo dai movimenti contadini, indigeni, o dalle comunità di cittadini colpite da un progetto economico indesiderato, scaturiscono tratti comuni che trovano una declinazione naturale nella necessità di costruire strumenti reali di partecipazione.

Quello che emerge ovunque è la ricerca di democrazia, in forme diverse ma che superino tutte le antiche barriere della rappresentanza e della delega. Democrazia diretta, partecipata, comunitaria, interculturale, comunque sempre estensioni di esperienze locali che mirano alla costruzione di modelli anti-egemonici globali attraverso le articolazioni delle esperienze locali.

Secondo i sociologi Leonardo Avritzer e Boaventura de Sousa Santos: "Negli ultimi anni tali articolazioni hanno dato credibilità e rafforzato le pratiche locali per il semplice fatto di trasformarle in nodi di reti e movimenti più ampi e con maggior capacità di trasformazione. Per altro verso, tali articolazioni rendono possibile un apprendistato reciproco e continuo che è requisito essenziale per il successo delle pratiche democratiche ispirate dalla possibilità di una democrazia ad alta intensità". Organizzazioni come Via Campesina sono l'esempio di un movimento anti-egemonico transnazionale che ha messo al centro delle sue battaglie la difesa della vita e della sovranità alimentare, dell'agrodiversità e dunque della biodiversità nel pianeta. Via Campesina trova le sue declinazioni nelle lotte locali legate alla gestione della terra, alla difesa delle organizzazioni di contadini, alla lotta contro gli Ogm, alle alternative contro le monocolture.

Di seguito riportiamo, divisi in tre paragrafi, alcuni degli esempi di gestione sostenibile e di processi di costruzione di alternative reali alle pratiche economiche che l'attuale modello di sviluppo ha affermato ovunque, portando il pianeta a una crisi ambientale che ogni giorno riduce in maniera drammatica la diversità biologica e gli spazi bioriproduttivi umani e animali. Nell'ultimo paragrafo proveremo a descrivere le forme di composizione del conflitto partendo dalla consapevolezza che nel mondo si è delineata negli ultimi decenni una vera e propria "geografia della speranza" fatta di realtà che interagendo tra di loro mettono in campo risposte concrete per promuovere la pace tra i popoli nel rispetto delle forme di vita della Terra e che hanno saputo intrecciare l'asse della giustizia sociale con quello, della giustizia ambientale.

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SAPERI LOCALI IN DIFESA DELLA BIODIVERSITÀ'


ECONOMIA DELLA MANGROVIA IN ECUADOR

I sistemi arborei di mangrovie sono raramente compresi nell'immaginario comune relativo ai boschi tropicali, eppure si trovano esclusivamente nelle regioni tropicali e subtropicali del pianeta, dove coprono una superficie totale di circa 150.000 chilometri quadrati, per la maggior parte in Asia. Le mangrovie si adattano a condizioni in cui sono rare le specie arboree in grado di sopravvivere: sorgono prevalentemente in zone inondate e ricche di acqua salata, dunque nelle zone costiere oceaniche e nei delta dei fiumi che sfociano negli oceani. Come già accennato nei capitoli precedenti, le mangrovie sono un sistema insostituibile e unico che ospita un'incredibile biodiversità ed è uno dei più produttivi ecosistemi al mondo. La loro presenza protegge le coste dall'erosione e dalle maree, previene la salinizzazione del suolo e dà rifugio a una parte consistente della biodiversità costiera. Inoltre fornisce una molteplicità di risorse alle comunità locali.

La minaccia più grave a questo importante sistema è attualmente, com'è noto, l'industria dei gamberetti. I progetti di sfruttamento intensivo delle aree tropicali e subtropicali implicano la conversione di milioni di ettari in vasche destinate all'allevamento di crostacei. Sono spesso irreversibili i danni di questa acquacoltura: altissimi livelli di contaminazione distruggono le possibilità di rigenerazione del sistema e rendono le aree non più utilizzabili dalle comunità locali. Si stima che in Vietnam tra il 1983 e il 1987 un totale di 102.000 ettari di mangrovie siano stati convertiti in piscine di gamberetti; in Honduras tra il 1986 e il 1994 sono stati distrutti 12.000 ettari e in Ecuador almeno 180.000. Questi progetti sono quasi sempre stati sostenuti da politiche economiche nazionali e internazionali, grazie all'appoggio della Banca Mondiale, e della Banca asiatica per lo sviluppo. Gli economisti che hanno stimolato questo tipo di riconversione industriale delle zone tropicali e subtropicali non hanno considerato l'apporto e i vantaggi derivanti dalla valorizzazione dei servizi ambientali del sistema delle mangrovie, alcuni dei quali, come la protezione delle coste dagli uragani e il mantenimento della biodiversità sono anche funzioni vitali per la sopravvivenza di intere comunità e culture locali e nazionali.

La produzione intensiva di gamberetti è altamente remunerativa per le grandi imprese nel breve periodo. Per le comunità locali è invece una condanna a morte. Partendo da questo conflitto, molte comunità hanno formulato idee e progetti per tornare a sanare situazioni che sembravano essere irreparabili, proponendo modelli alternativi alla gestione del territorio.

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INDIA: LA CIVILTÀ DELLE FORESTE

La popolazione indiana nella sua storia ha sempre vissuto un'identificazione simbolica con la foresta, e ancor più con l' Aranya Sanskriti, la Civiltà della foresta, definendola la più alta forma di evoluzione culturale e fonte di rigenerazione materiale e intellettuale. Secondo il poeta indiano e premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore: "La cultura scaturita dalla foresta è stata influenzata dai diversi processi di rinnovamento della vita, processi che sono sempre in atto nella foresta e variano da specie a specie, da stagione a stagione per aspetto, suono e odore. Il principio unificante della vita nella diversità, del pluralismo democratico è diventato quindi il principio della civiltà indiana".

Le popolazioni tribali indiane hanno dunque applicato nella loro storia il principio unificante della vita nella diversità, del pluralismo e della coesistenza. È solo attraverso le pratiche culturali che sottendono tali principi di convivenza che molte comunità indiane sono riuscite nell'intento di preservare la biodiversità delle foreste proteggendole dalle logiche di sfruttamento che si contrappongono a quelle di complementarietà e reciprocità uomo-natura tipiche delle realtà tribali.

Secondo Vandana Shiva , "le popolazioni tribali, poco più dell'8% della popolazione dell'India, vengono allontanate dalle loro abitazioni nella foresta per far posto a dighe, miniere e autostrade. Le leggi coloniali indiane sulla tutela delle foreste e della fauna selvatica si fondavano su pregiudizi occidentali secondo i quali la specie umana e le specie non umane non possono coesistere, i parchi debbono essere disabitati e dove ci sono insediamenti umani non deve esserci biodiversità. Siamo in presenza della dottrina giuridica della Terra Nullius che è stato uno dei pilastri della colonizzazione".

Alcuni esempi concreti in India hanno dimostrato come la conservazione delle foreste e i criteri di multifunzionalità e complementarietà nella valorizzazione delle pratiche delle comunità tribali siano state le soluzioni per mettere in atto processi democratici e di protezione effettiva delle ricchezze naturali del paese. Solo le politiche sinergiche messe in opera dalle autorità forestali con le comunità native hanno dato dei risultati positivi, dimostrando la necessità che cittadini e governo collaborino nel tenere in vita il patrimonio forestale e le popolazioni locali.

Sempre secondo Vandana Shiva, se le popolazioni tribali e le foreste sono diventate più povere non è perché la biodiversità e la vita nelle foreste non generano ricchezza, ma perché quella ricchezza è stata espropriata da forze esterne. Nel suo The Agricultural Testament, Sir Alberi Howard scrive: "Quanto sta accadendo oggi nei piccoli campi dell'India e della Cina ha avuto luogo molti secoli fa. Le pratiche agricole dell'Oriente hanno superato la provà suprema, sono permanenti quasi come quelle della foresta, della prateria o dell'oceano primordiali. Le comunità indigene dispongono delle conoscenze di cui l'umanità ha bisogno per effettuare la transizione verso un sistema di vita sostenibile su un pianeta estremamente fragile in tempi estremamente fragili".

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6. DALLA BIOCRISI ALLA BIOTICA

di Giuseppe De Marzo


LA NOSTRA TERRA VISTA DALL'ALTO

Guardare la fotografia satellitare della Terra vista dall'alto di notte è un esercizio di grande interesse e attualità non solo per gli amanti dei corpi celesti o dell'arte fotografica. Questa immagine induce immediatamente a una serie di considerazioni, dalle quali scaturiscono riflessioni sul livello delle nostre relazioni e della sostenibilità dell'attuale modello di sviluppo. L'immagine notturna mostra un pianeta dove una grande parte vive in modo naturale i ritmi dettati dalla rotazione terrestre mimetizzandosi con l'oscurità; un'altra parte, invece, con l'emissione costante di luce sembra voler sfidare la ciclicità del giorno e della notte. La parte costantemente illuminata, dove questa ciclicità scompare, offre un'immagine fedele dell'uso di energia dei paesi cosiddetti sviluppati e industrializzati del Nord del mondo, ai quali vanno ad aggiungersi le grandi megalopoli dell'Asia meridionale. Questa parte della Terra consuma una quantità enormemente maggiore di energia rispetto al resto dei paesi del globo, indispensabile per sostenere i ritmi della crescita industriale e i livelli di consumo indotto che ne derivano.

Da questo quadro emergono altre domande: cosa succederebbe se le parti che di notte sono, per così dire, "in ombra" nel nostro pianeta si illuminassero alla stessa maniera dei paesi del Nord? Potremmo sostenere un mondo completamente illuminato notte e giorno? Quali effetti avrebbe questo impatto sui cicli e la diversità biologica e culturale? E quale sarebbe l'effetto sulla biosfera di una tale portata di inquinamento luminoso? Tutte queste domande portano, da qualsiasi punto di vista le si voglia sviluppare, a un'analoga risposta: l'ipotesi di vivere tutti con lo stesso standard di consumo di energia dei paesi più illuminati è improponibile. Se ciò si verificasse vivremmo situazioni catastrofiche da ogni punto di vista. Sarebbe un ritmo completamente insostenibile di utilizzo per le risorse del pianeta e per i suoi carichi di assorbimento, biosfera compresa. In ogni modo la foto dal satellite, se unita a un'analisi approfondita delle crisi in cui l'umanità tutta è immersa, può offrire degli spunti di riflessione su un altro elemento, per certi versi ancor più interessante: e cioè, su come si rapportano la governance globale e il modello di sviluppo dominante con la vita e con la Terra stessa. Che tipo di filosofia alimenta il modello attuale di controllo, produzione, consumo, gestione e utilizzo delle risorse terrestri? E in che misura i modelli attuali e le loro relazioni, sono legati alle crisi di oggi?

Approfondendo in questa direzione la nostra analisi, arriviamo a individuare nella "filosofia meccanicistica" il perno su cui costruisce il suo modello di sviluppo la teoria economica dominante. La nascita di questa filosofia sottende il superamento dei concetti di autoregolazione, autorganizzazione, autorigenerazione attraverso i,quali la nostra casa comune Terra nutre e sostiene la vita.

Un passaggio concettuale, dunque, da Terra vista come "Madre", capace di proteggere e nutrire attraverso la correlazione, l'interdipendenza e l'evoluzione dei suoi sistemi viventi, a quello di una Terra intesa come materia inerte e disponibile a manipolazione senza che questo alteri la complessità dei cicli biologici. Un salto necessario a sostenere le ragioni di un modello economico che si regge sullo sfruttamento delle risorse e dei servizi ambientali in maniera totalmente (o quasi) gratuita per continuare a realizzare il proprio plusvalore, teorizzando così la possibilità di una crescita economica infinita a fronte di un pianeta con risorse e beni finiti.

La necessità di unificare e omologare la relazione con la vita e con la Terra in generale scaturisce dunque dalla costruzione di una filosofia meccanicistica che fa del "riduzionismo" il proprio strumento. Questa considerazione ci aiuta a comprendere quale filosofia alimenti oggi le teorie di produzione e consumo e il perché esse si basino sui principi di "sostituzione" e "compensazione": e cioè l'idea che tutto possa essere, come per una macchina, sostituito e compensato. Levo un pezzo e ne metto un altro e se non è quello giusto compenso altrove.

Questa è la maniera con la quale il modello capitalista calcola le proprie "esternalità", e cioè quegli impatti che non riesce a evitare o internalizzare nella propria funzione di accumulazione e riproduzione. Costruire per esempio un inceneritore, una discarica, un mega progetto, una base militare possono significare un aumento della crescita economica e allo stesso tempo produrre impatti sociali e ambientali estremamente negativi; così come un accordo commerciale non equo o la costruzione di centrali idroelettriche sul corso di fiumi utilizzati da economie comunitarie portano impatti tutt'altro che positivi sulla vita di persone, animali ed ecosistemi, provocando migrazioni forzate e perdita di biodiversità; lo stesso si può dire per le attività agricole come quelle legate all'agro-business o all'allevamento intensivo, che insieme a un'apparente crescita economica richiederanno il sacrificio delle economie e dei saperi locali insieme ai tagli e al disboscamento necessario per favorire i pascoli. Sono esempi di come scelte dettate esclusivamente dall'esigenza della crescita economica producano impatti ambientali e sociali negativi, verso i quali il metodo applicato rimane sempre lo stesso: sostituire e compensare l'esternalità perché quello che conta maggiormente è la crescita, vista e intesa come un fine di per sé e non un mezzo per raggiungere dei risultati.

Appare invece abbastanza comprensibile al senso comune che una vita estinta, un ecosistema danneggiato, un cimitero profanato, delle specie viventi distrutte, le culture e le economie locali espulse dai propri territori non possano essere compensate o sostituite attraverso il denaro o con altre "merci". Siamo nell'ambito dell'incommensurabilità di un bene o di un valore. Su questo versante l'economista Max Neef ha abbondantemente smentito la teoria capitalista dimostrando come i bisogni essenziali degli esseri umani non siano né gerarchizzabili, né sostituibili, né compensabili.

Ma quello che è più interessante per il nostro ragionamento è provare a capire quali siano i passaggi che hanno reso "accettabile" una teoria che oggi risulta errata da tutti i punti di vista. Evidentemente i principi di sostituzione e compensazione propri della teoria economica dominante per essere sostentati su un piano culturale hanno avuto bisogno di una filosofia egemone capace di "oggettivare" la vita, renderla esterna a noi per poterla plasmare e ripensare a piacimento. Solo così è stato possibile sostenere l'illimitatezza della crescita economica. Si dà per scontato che l'Amazzonia, un fiume, un popolo, un territorio, una lingua, una specie, la libertà di movimento, o persino l'acqua, possano essere sostituiti o compensati con una quantità in più di altri beni o attraverso il pagamento in denaro che compensa o sostituisce quanto perso.

Questo schema filosofico ci dice come il fine ultimo a cui tutto si deve piegare in questo paradigma civilizzatorio sia, appunto, la crescita economica. Dunque ritorniamo al concetto di Terra "inerte" secondo cui non esiste una correlazione, una connessione e una interdipendenza tra tutti i sistemi viventi. Dentro questa relazione "oggettivata" della vita è possibile intervenire meccanicamente e compensare o sostituire la perdita.

Quest'idea è stata ormai archiviata dalla stessa scienza che ha compreso come vi sia una profonda relazione tra tutti i viventi e che i processi di adattamento e cambiamento ai quali siamo soggetti non possono essere studiati né compresi dentro questa prospettiva. I sistemi naturali e ogni sistema vivente non sono equiparabili a macchine, così come la conoscenza del tutto non la si ottiene con la conoscenza delle sue singole parti, proprio perché la relazione tra le parti non è stabile e non è rigida, come invece teorizza l'approccio meccanicista.

La foto della Terra di notte e la perpetua macchia luminosa ci indicano alcune verità: la prima, che i livelli di utilizzo delle risorse e dello spazio della biosfera da parte del Nord del mondo sono insostenibili; la seconda, che questo modello di sviluppo è fondato su una teoria economica sbagliata che si regge su un'idea di illimitatezza delle risorse della Terra che non esiste nella realtà; la terza, che la relazione tra Nord e Sud del mondo si fonda su una profonda ingiustizia ambientale e sociale; la quarta, che le crisi economica, finanziaria, ambientale, energetica, migratoria, alimentare sono le conseguenze di un modello di sviluppo fondato su una filosofia meccanicista che ha innalzato il "riduzionismo" a ideologia, minando le possibilità di sopravvivenza degli umani su questo pianeta.

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