Copertina
Autore Manlio Cortelazzo
CoautoreB. Castiglioni, U. Sauro, E. Zerbinati, S. Bortolami, G. Gullino, F. Gambino, A. Daniele, P. Benincà, G. Bruno, L. Morbiato, G. Baldissin Molli, A. Lovato
Titolo Manuale di Cultura veneta
SottotitoloGeografia, storia, lingua e arte
EdizioneMarsilio, Venezia, 2004, , pag. 278, cop.fle., dim. 170x238x20 mm , Isbn 978-88-317-8475-7
CuratoreManlio Cortelazzo
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe storia sociale , geografia , storia letteraria
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Indice

VII Ermanno Serrajotto

    MANUALE DI CULTURA VENETA

  3 Il Veneto: ambienti e paesaggi
    di Benedetta Castiglioni e Ugo Sauro

 17 Protostoria e storia romana
    di Enrico Zerbinati

 31 Storia medievale
    di Sante Bortolami

 47 L'età moderna (1492-1814)
    di Giuseppe Gullino

 61 La prima letteratura (secoli XIII-XV)
    di Francesca Gambino

 81 Letteratura in dialetto
    di Manlio Cortelazzo

 95 La linea veneta della letteratura italiana
    (dal Cinquecento alla caduta della Serenissima)
    di Antonio Daniele

113 Il veneto medievale
    di Paola Benincà

125 I dialetti dal Cinquecento al Settecento
    di Manlio Cortelazzo

139 Il veneto moderno
    di Paola Benincà

151 Il Veneto
    di Giuseppe Bruno

175 Tre tappe nel ciclo della vita
    di Luciano Morbiato

187 Il ciclo dell'anno
    di Luciano Morbiato

201 Letteratura orale
    di Luciano Morbiato

215 Architettura
    di Giovanna Baldissin Molli

225 Scultura
    di Giovanna Baldissin Molli

235 Pittura
    di Giovanna Baldissin Molli

249 Arti applicate
    di Giovanna Baldissin Molli

259 Musica e musicisti
    di Antonio Lovato

 

 

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Pagina 175

LUCIANO MORBIATO
TRE TAPPE NEL CICLO DELLA VITA



        Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici motivi
        di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli
        per lunghi spazi di tempi.
        GIAMBATTISTA VICO, Scienza Nuova

        Tradizione non è nulla di ciò che uno possa imparare,
        non è un filo che uno possa riprendere a suo piacimento;
        come non è possibile scegliersi a piacimento i propri
        antenati. Chi non ha una tradizione e vorrebbe averla è
        come un innamorato infelice.
        LUDWIG WITTGENSTEIN



TRA MODERNO E POSTMODERNO,
TRA LOCALE E GLOBALE:
LA TRADIZIONE NEL VENETO


L'inchiesta sulle culture locali promossa dal Regno Italico nel 1811, attraverso la circolare del conte Scopoli, responsabile della Pubblica istruzione, e diffusa nei ventiquattro Dipartimenti in cui era suddiviso il territorio lombardo-veneto-friulano-emiliano-marchigiano, segna anche per il Veneto l'inizio dell'interesse per le tradizioni popolari, ancora empiricamente distribuite tra «pratiche, costumanze ed anche pregiudizi e superstizioni». Assieme a quella sui costumi (intesi come abbigliamento) e a una terza sull'abitazione contadina ideale, l'inchiesta mirava alla conoscenza della vita «nelle campagne» in quanto attraversate dai fiumi che davano, in prevalenza, il loro nome ai dipartimenti. A differenza della più dettagliata inchiesta promossa nella Francia napoleonica dall'Académie Celtique nel 1808, della quale non si conoscono tuttavia i risultati, quella di Scopoli, pur nel trambusto dell'epoca, trovò più o meno solerti e sintetiche risposte di insegnanti, funzionari e parroci, anche se esse rimasero per circa centocinquant'anni in archivi prima di essere conosciute. Esse costituiscono una preziosa fonte di conoscenze dirette e, soprattutto, un punto di osservazione privilegiato dal quale traguardare, diacronicamente, la cultura popolare veneta, rappresentata dai Dipartimenti dell'Adige, del Bacchiglione, del Tagliamento e dell'Adriatico, essenzialmente i territori veronese, vicentino, trevigiano e veneziano.

La sfida delle pagine che seguono sta tutta nel tentativo di ripercorrere lo spazio-tempo di due secoli alla ricerca di alcune costanti della cultura popolare veneta (pur nella convinzione che i confini regionali sono spesso superati e dissolti in una più vasta koinè padana), delle loro eclissi o delle loro trasformazioni, a contatto con i cambiamenti che hanno interessato la regione, soprattutto a partire dalla metà del secolo scorso. Le risultanze dell'inchiesta Scopoli saranno confrontate e integrate con le ricerche, preziose anche se parziali, che fiorirono a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento e proseguirono nel successivo, con alterne fortune e diversi criteri ideologici, dall'entusiasmo tardo-romantico per il popolo all'esaltazione della subalternità contestatrice di massa, al recupero nostalgico e alla reinvenzione che contraddistinguono gli ultimi anni.

L'interesse centrato sulle campagne è una costante che ha contribuito a identificare le tradizioni popolari con la civiltà contadina, come se il complesso di credenze e pratiche della popolazione urbana, dagli artigiani ai commercianti stabili o ambulanti, non fosse parte di un'unica cultura, e come il crescente inurbamento non costituisse da secoli un fattore di uniformità fra i diversi ceti popolari. La vera novità è piuttosto segnalata dalla recente urbanizzazione delle campagne (un fenomeno che supera la dimensione veneta per concretarsi ormai in una "megalopoli padana") e dall'adozione di comuni standard culturali e di comportamento, dall'abitazione al consumo, che dissolvono la differenziazione e lo storico contrasto città-campagna in favore di un'omologazione nella cultura globale: si potrebbe azzardare una formula riassuntiva nel cambiamento del paesaggio rurale, anche del Veneto, dalla corte contadina alla corte commerciale.

Fissato l'ambito spaziale e temporale, basterà richiamare che cosa si intende per tradizione partendo dalla definizione sostanzialmente concorde che ne danno due strumenti lessicali, uno storico e generale, l'altro recente e specialistico. «Memoria di fatti e cose antiche, tramandata da racconti di vecchi a giovani, d'età in età. Onde si dice Avere o Sapere per tradizione» la tradizione essenzialmente orale, che passa da una generazione all'altra, è privilegiata da Tommaseo nel suo Dizionario della lingua italiana (1859-74), mentre il Dizionario di antropologia di Fabietti e Remotti (1997) amplia, oltre l'oralità, le forme che la tradizione assume: «Una regola, una norma sociale, una consuetudine, un modo di vita (come pure una credenza, un insieme di conoscenze) se ereditate e trasmesse rientrano nel dominio della tradizione», ma in entrambi gli strumenti di consultazione risulta fondamentale il rapporto tra passato e presente, il collegamento che permette al passato di continuare a vivere e la legittimazione del presente in forza del passato, anche se può avvenire che si possa ricostruire, rielaborare o inventare un passato a partire dal presente. Secondo gli antropologi, è quest'ultima la funzione principale del mito, che si tratti delle genealogie degli antenati per le tribù samoane, dei popoli e degli eroi fondatori nel nazionalismo o del recente diffuso recupero d un medioevo da parata.

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LUCIANO MORBIATO
IL CICLO DELL'ANNO



L'INIZIO DELL'ANNO E IL PANEVIN


La Bonamàn del primo de l'ano era l'unica strenna riconosciuta dal superiore al socialmente inferiore e dal maggiore al minore d'età nella Repubblica veneta, tanto che perfino il rustego Simon se ne ricorda nella commedia di Goldoni, anche per ribadire quanto siano cambiati i tempi: «E mi? sunava la boneman, e qualche soldeto, che ghe bruscava; e ho fato cento ducati [...] gh'ho gusto de poder dir: tolé; questi me li ho guadagnai da putelo» (I rusteghi, a. II, sc. V). Ancora negli anni cinquanta del Novecento, il primo giorno dell'anno i bambini uscivano infagottati di mattina presto e battevano la contrada ad augurare Bon prinsipio de ano e bona fine passando da una casetta di operai a una fattoria, infilando la mancia che ricevevano nel sacchetto di tela cucito dalla mamma e appeso al collo, salvo completare l'adagio, in caso di rifiuto della massaia: Che te móra 'l galo e anca le gaìne!

Anche nel passaggio da una levata mattutina alla veglia notturna prolungata, il veglione di san Silvestro, si può misurare il cambiamento che ha interessato il Veneto, mentre il passaggio materiale dal vecchio al nuovo anno è sottolineato dai falò pirotecnici e dalla rottura dei piatti vecchi, quelle crepe che si usavano invece finché non erano sbriciolate.

Ma non tutto il vecchio, il tradizionale è stato lanciato dalla finestra o abbandonato: il fuoco comunitario della vigilia dell'Epifania, prima manifestazione dell'anno nuovo, non è scomparso di fronte ai fuochi artificiali, anzi la varietà delle denominazioni e la moltiplicazione delle esecuzioni, la diversità delle origini e la complessità dei significati ne fanno, tutte insieme, un indicatore della tenuta e della ripresa delle tradizioni nel Veneto. Cominciamo da un breve excursus tra le varianti del nome e le località interessate al fenomeno, che si estendono ben oltre le province di Treviso e Venezia dove è chiamato Panevin (ma casèra a San Stino di Livenza, mentre in Friuli, si parla di pignarûl), fino alle Valli Grandi Veronesi e al Polesine, dove si accendono bruneli — brugneli — burieli — brujei — buriolà — bruia — pìrola.

Attorno al fondamentale elemento del fuoco, distruttore e creatore, altre componenti si saldano, spostando più o meno sensibilmente il significato del rituale: il falò elimina ciò che non serve, il calore aiuta la terra a liberarsi dal freddo che la imprigiona in quei giorni e la stessa funzione adempiono i partecipanti pestando i piedi in cerchio. Senza dimenticare che saltare attraverso la fiamma declinante era una prova di coraggio che i giovani affrontavano, forse in ricordo di lontani giudizi di Dio o di ancor più lontani sacrifici umani.

Accanto al risveglio della vegetazione assopita si affida al fuoco la divinazione per l'anno che inizia e il pronostico dei raccolti che verranno: è quest'ultima funzione che giustifica il nome di Panevin che sembra trionfare sugli altri, poiché si tratta del binomio alimentare di base, ma anche delle stesse specie sensibili attraverso le quali è resa possibile la transustanziazione nel più importante rito cristiano, la messa, nella quale il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo.

La topologia magica del levante e del ponente, della pianura e dei monti, al cui centro stanno le lingue di fuoco e le faville indirizzate dal vento verso l'una o gli altri, è intercambiabile e gli stessi segni sono leggibili in maniera opposta: «Pan e vin / La pinza sotto il camin: / Faive a ponente / Panoce gnente, / Faive a levante / Panoce tante»; «Fuive verso sera / poenta pien caliera; / fuive verso matina / poenta molesina; / fuive a meodì / poenta tre olte al dì; / fun a bassa / poenta pien cassa»; «Fùmo verso la montagna, no sarà 'na gran cucagna» e «Quando el fùmo el va a marina, tanto vin, tanta farina» (Pomponio). Non sarà forse perché la funzione primitiva del falò era quella del sacrificio, del rito di propiziazione, e non della magia divinatoria? Le stesse ceneri, reliquie del falò, possono essere segni da interpretare, per conoscere l'anno che viene e i suoi frutti, in questa che è la "dodicesima notte", e l'ultima, dell'ingorgo folklorico del solstizio d'inverno, ma sono soprattutto un amuleto che portafortuna, da conservare oppure da spargere sul terreno.


L'INVERNO E IL CARNEVALE


Tra gennaio e febbraio molti erano gli appuntamenti che il calendario scandiva, a cominciare dalle celebrazioni canoniche di sant'Antonio Abate (17 gennaio), protettore delle stalle per via di quel porco promosso dalla religiosità popolare da sintesi delle tentazioni carnali dei Padri nel deserto a rappresentante degli animali domestici, che nei "santini" affollano la parte bassa della scena. Chi ha una stalla procura il sale benedetto dal prete in questo giorno e lo fa mangiare agli animali. Anche il fogaron, che si accende in alcuni paesi del Trevigiano, ricorda il fuoco che l'eremita dalla barba bianca trafugò dall'inferno per donarlo, novello Prometeo, agli uomini. E sempre per il suo rapporto con il fuoco lo si invocava contro una dolorosa infezione erpetica, detta appunto fogo de sant'Antonio.

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Pagina 201

LUCIANO MORBIATO
LETTERATURA ORALE



1. IL FILÒ DELLE MERAVIGLIE


«Oggi la gente non fa più filò: il filò è scomparso» scrive nel 1982 Dino Coltro, che tante appassionate pagine ha dedicato alla veglia di stalla, questa forma della convivialità e della cultura popolare veneta. Benché il filò sia scomparso solo da poco, definizione, descrizione e analisi non risultano agevoli, a causa della natura spontanea, non codificata, della veglia, comune a tutte le espressioni della cultura popolare (cfr., oltre a Coltro, Bernardi 1992): il filò, dal latino filatum, è il tempo serale-notturno sottratto al sonno e perciò di veglia, in cui le donne filano insieme (lana, canapa o lino); il toscano vegghia e il francese veillée mettono l'accento sul tempo, il castigliano filandón e il veneto filò (così come il lombardo filòs e il friulano fila) sull'occupazione.

Un romanziere lombardo-friulano di metà Ottocento, Ippolito Nievo (nato e laureato a Padova) ne fissa con precisione, affetto e creatività le caratteristiche, a partire dalla figura del narratore, in almeno tre dei racconti che avrebbero dovuto formare il Novelliere campagnuolo: nel Milione del bifolco la cornice della stalla entra nella narrazione, tanto che il narratore è continuamente interrotto, stimolato e infastidito dalle ascoltatrici mentre racconta un episodio della sua vita; nell' Avvocatino le «donne della veglia» sollecitano ancora Carlone a «contar la fola» promessa; infine nella Viola di San Bastiano il tempo del racconto entra nella storia, una «leggenda posata e santa, come la conveniva alla vigilia di Natale».

Il contafole Carlone offre un saggio dei diversi generi del racconto di veglia, indirettamente confermando che il filò è stato, non un'istituzione rigida, ma un contenitore nel quale trovavano posto, assieme alle storie – di cui le fiabe erano solo una parte – le conversazioni, le preghiere e le letture, edificanti come le vite dei santi o sovversive come i fogli socialisti. Non proprio accademia contadina, non solo succursale della sacrestia, la veglia è stata per lungo tempo soprattutto una forma di aggregazione sociale e di integrazione tra le diverse classi d'età, dai vecchi ai bambini; essa ha racchiuso a lungo in un tepore protettivo i suoi partecipanti mentre lavoravano e ascoltavano storie meravigliose o truculente, narrate nella lingua materna che non si insegna, quel «vecio parlar» che nel 1976 Zanzotto ha unito inscindibilmente nel tramonto al filò: «L'ora se slanguoris inte 'l zhendre del scaldin, / l'è l'ora de des'ciorse, de assar al calduzh, al coàt»; perciò il saluto, rinnovato alla fine del poemetto, è in realtà un addio: «'Note, 'note; 'l filò l'è finì».

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