Copertina
Autore Laurence Cossé
Titolo La libreria del buon romanzo
EdizioneEdizioni eo, Roma, 2011, Tascabili , pag. 406, cop.fle., dim. 12,8x20x3 cm , Isbn 978-88-6632-065-4
OriginaleAu bon roman
EdizioneGallimard, Paris, 2009
TraduttoreAlberto Bracci Testasecca
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa francese , libri
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Il meno che si possa dire è che la scomparsa di Paul Néon passò inosservata non solo nel cantone di Biot, dove sembrava che si fosse sistemato, ma addirittura a Crêts, striminzito paesino di cui occupava la casa più lontana.

Paul rovinò su uno spesso tappeto di foglie marce a valle del sentiero forestale su cui presumibilmente barcollava già da un po' (dieci giorni dopo, il giovane Jules Reveriaz trovò la sua sciarpa sul bordo del viottolo, a quindici metri dal punto in cui era caduto). Due o tre rami secchi si spezzarono sotto il suo peso. Tornato il silenzio, ci fu una vibrazione di un istante. Le foglie nere, assestandosi, emisero un sibilo di quelli che i ragni d'acqua sono i soli a sentire quando per esempio un gatto, immobile e con il collo teso sulla riva di uno stagno, dopo aver scrutato per vari minuti l'oscurità si corica sul muschio. Erano le dieci di sera. Una falce di luna, velata di foschia, illuminava la notte quel poco che bastava a distinguere il sentiero.

È probabile che Paul abbia lasciato la bottiglia solo quando il rilassamento muscolare conseguente alla perdita dei sensi gli fece aprire le dita. Fu Suzon, sei giorni dopo, a ritrovare la bottiglia quadrata, e vuota, a un metro dall'impronta del lungo e pesante corpo del cinquantenne. Suzon, che era andata lì proprio per cercare quel genere di indizi, e che avrebbe dato qualunque cosa per non trovarne. Se in quella notte di luna fioca Paul abbia perso i sensi al momento della caduta o se una volta a terra sia rimasto qualche secondo con gli occhi aperti, se abbia gridato o detto qualcosa o se già non ebbe più la forza di muovere le labbra, nessuno se ne accorse. Quanto meno a Crêts, perché in seguito venne fuori che almeno due individui erano stati testimoni della scena. Testimoni fino a un certo punto...


L'idea di Paul per la mattina dopo – o meglio, per quel che restava della mattina all'ora in cui di solito emergeva – sarebbe stata di leggere, nell'ordine, le due versioni di Mina di Vanghel. Ma chi ne era al corrente? Van ricostruì quei giorni in un secondo tempo. Paul era sicuro di aver già letto Mina di Vanghel, Stendhal era un autore di cui credeva di conoscere l'opera completa, tuttavia quell'autunno, sfogliando il secondo volume di una vecchia edizione dei Romanzi e racconti, era capitato su Il rosa e il verde e aveva scoperto che, benché posteriore di sette anni, quell'inizio di romanzo ugualmente incompiuto era una specie di introduzione a Mina. Così, per quel mattino dell'8 novembre, aveva in programma di leggere Il rosa e il verde e poi di rileggere Mina di Vanghel.

Programma per modo di dire, visto che Paul Néon era privo di programmi quanto di orari, mancava di regole di vita come di igiene alimentare. Che nessuno mi metta in bocca ciò che non ho scritto: non ho mica detto "beato lui".

È possibile che nel pomeriggio, al pianterreno di quella specie di chalet in cui viveva, sia risuonato un insistente squillo di telefono. E forse un altro un'ora o due dopo, altrettanto inascoltato. Ma chi avrebbe potuto sentirli?

Di quando in quando si vedeva una giovane donna, molto spesso la stessa, salire fino allo chalet con una piccola utilitaria, quasi sempre la Twingo color ciliegia, qualche volta una Fiat nera, più raramente una Nissan grigio-azzurra.

Quasi sempre la Twingo non esageriamo. Il padrone dell'Alpette avrebbe detto: un paio di volte in tre mesi. Tutti i mesi, l'avrebbe corretto la signora Huon dell'Étoile des Alpes, e sempre di sabato. La signora Antonioz avrebbe confermato: l'auto rossa il sabato, le altre macchine in settimana. Bella roba.

Secondo me sono sue allieve, era l'ipotesi della signora Huon. Studentesse, precisava la signora Antonioz, che prima di andare in pensione e ritirarsi a Crêts era stata documentalista al liceo di Albertville e credeva di sapere che il signor Néon insegnasse all'università di Chambéry. Certo, durante la settimana, aggiungeva.

Ma se la signorina del sabato veniva su il sabato, significava che durante la settimana lavorava. E se lavorava durante la settimana, non era una studentessa.

In realtà, l'unica certezza che avevano a Crêts riguardo a Néon era che tutti i mercoledì, quali che fossero il tempo e la condizione delle strade, Paul tirava fuori il suo macinino dalla rimessa dietro lo chalet, lasciava il paese alle dieci e tornava solo a notte inoltrata.

All'università funziona così, diceva la signora Huon, i professori lavorano un giorno a settimana. Un giorno! commentava la signora Antonioz, per andare da qui a Chambéry ci vogliono due ore buone, se ci mettiamo l'ora per il pranzo resta a stento una mezza giornata.

Da quanto detto, sarebbe lecito pensare che il paese non perdeva d'occhio Néon. Eppure a Crêts né l'oste, né le signore, né qualcun altro si era accorto che la mattina di mercoledì 9 Paul non aveva tirato fuori la macchina né imboccato come al solito la strada della valle e neanche dormito nel proprio letto la notte tra martedì e mercoledì, come del resto la notte prima. In questo caso non si può parlare di vera curiosità. Negli spopolati paesi alpini così come nelle periferie del 93° dipartimento, ognuno vive ormai per conto suo. Forse l'indiscrezione comunale, e il controllo sociale che ne è l'altra faccia, sembravano duri da sopportare. Ciò non toglie che un tempo, se la mattina un tizio non si alzava, prima di mezzogiorno lo sapevano nelle dieci case più prossime, e per quanto fosse celibe, brizzolato, di poche parole, asociale e nativo di chissà dove, c'era una vicina che andava a bussargli alla porta e diceva una frase del tipo: qualcosa non va, signor Néon? Oh-ho! Tutto bene?

Nulla di tutto ciò accadde a Crêts mercoledì 9 novembre. Nessuno si accorse che Paul era venuto meno alla sua unica abitudine. Il meteo aveva annunciato rovesci. Di fatto c'era un'aria tiepida, la neve non sarebbe arrivata tanto presto. E neanche la pioggia, checché ne dicano, stimava dal canto suo Alfred, dell'Alpette, scrutando un cielo che era grigio e basta. Il padrone della trattoria si compiaceva di confrontare le previsioni del tempo del Dauphiné con la realtà hic et nunc. Oggigiorno il meteo, disse a Parmentier padre che tenne educatamente per sé il fatto di sapere a memoria il seguito, non sbaglia più su come sarà, sbaglia sul quando. Se dicono che piove, pioverà. Ma quando? Oggi pomeriggio, stanotte, domani? Dopodomani? Non sanno più di quanto sapessero i vecchi di una volta, che si affidavano alle proprie giunture. Direi anzi che ne sanno parecchio di meno.

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Le altre liste arrivarono nel corso di aprile. Ivan e Francesca incontrarono i sei elettori uno dopo l'altro. A Parigi videro Larry de Winter e Gilles Evohé, che Van aveva conosciuto a febbraio, e Marie Noir, mentre Paul Néant, Armel Le Gall e Ida Messmer preferirono farsi raggiungere in provincia.

Larry de Winter era alto, magro e aggraziato, poteva sembrare un ballerino in là con gli anni. Era stato diplomatico e conosceva la letteratura del mondo intero, con una predilezione per i paesi meno conosciuti.

«Forse vincerò il premio per la lista più inconsueta» disse. «Vi prego di scusarmi in anticipo per la difficoltà che incontrerete a procurarvi certi titoli indonesiani o nigeriani. Devo però dire, e sono il primo a stupirmene, che ho messo in lista molti più autori francesi di quanto pensassi all'inizio, e non per partito preso, credetemi. La verità è che ci sono giovani scrittori francesi veramente dotati».

Aveva chiesto a Van e Francesca di andarlo a trovare a casa sua, in rue de Beaune. Tutto era come lui, nel piccolo appartamento sotto i tetti. A prima vista classico, ma in verità insolito, mi avrebbero detto in seguito: mobili anni Cinquanta, libri con rilegature art déco, enigmatiche curiosità, e un ritratto in stile inglese di un gentiluomo in piedi nel parco che gli somigliava come una goccia d'acqua.

Vedendo che Van aveva fatto l'accostamento, aprì le mani come a significare che non possedeva niente.

«Questi pochi ricordi mi vengono da mia madre. Aveva un ottimo gusto e soldi di famiglia: i suoi erano banchieri. Fu deportata nel '43. Io avevo nove anni, e già da due ero in collegio in Svizzera».

Parlava come scriveva, un linguaggio prezioso nel senso in cui il termine viene impiegato nell'alta oreficeria: rigore estremo nella scelta dei materiali, colore, sfavillio, gioco di forme e accostamenti, alta precisione del taglio, orrore dell'ostentazione. Van e Francesca l'avrebbero ascoltato per ore. Fece un accenno alla scarsa tiratura delle sue opere, dovuta al fatto che l'editore si aspettava vendite ancora più scarse.

«Siamo superiori, no?» dichiarò Francesca con ardore.

Winter fece un sorriso molto bello.

«Denaro e successo non mi hanno mai fatto sognare. Non ci penso. È l'eleganza che cerco. Nel significato più ampio della parola, l'eleganza intellettuale, morale, fisica, l'eleganza nel rapporto con il prossimo... Avevo sedici anni quando alla radio ho sentito citare un detto del pittore Simone Martini che mi ha segnato per la vita. Diceva di avere come obiettivo la "perfetta eleganza". O era il conduttore a dire che Martini puntava alla "perfetta eleganza"? Fatto sta che quelle due parole mi hanno toccato l'anima. Esprimevano esattamente quello a cui aspiravo senza riuscire a dargli un nome. Anch'io volevo puntare alla perfetta eleganza, nella vita e naturalmente, se possibile, nell'opera. Con un simile progetto, dire che l'obiettivo successo e l'obiettivo denaro sono relativi è dir poco: cadono subito nel novero delle cose da sfuggire».

Riempì di nuovo i bicchieri di un vecchio whisky dorato.

«Quanto al capitolo avidità» continuò, «è in corso una specie di degrado dei costumi letterari. C'è la possibilità che il vostro progetto, se non altro per la luce che irradierà sul palcoscenico della letteratura, mostri quanto questa deriva sia ridicola. Mi riferisco alla tendenza che hanno oggi gli autori a vivere in competizione, tanto da arrivare a scrivere, mi dicono, con l'intento di stroncare i rivali. I premi letterari hanno una grande responsabilità in questo. Scrivere per vincere sugli altri: che misera ambizione. L'ordine della creazione culturale ha questo di bello e di particolare, che offre spazio a chiunque. E fanno di tutto per limitarlo! Quello dei libri è diventato un mercato coperto in cui pochi best seller occupano tutto lo spazio. O meglio, l'hanno reso così gli editori industrializzati, i giornalisti pecoroni, i grossisti della cultura. Ah, come preferisco il mondo amatoriale... non ho detto il vecchio mondo, e neanche il piccolo mondo».

Aveva consegnato la propria lista in un piccolo raccoglitore cartonato chiuso da un nastro.

«Lo pseudonimo?» sollevò un sopracciglio. «Ho dimenticato di pensarci. Sceglietelo voi. Quello che volete a parte Summer, che mi ha perseguitato per tutti gli anni di scuola».

«Balanchine?» suggerì Ivan.

«Preferirei l'opposto, un nome che faccia pensare a Breznev o a Francis Blanche. Ecco: Magot. Chiamatemi Le Magot. Fa molto Intelligence Service, mi ricorderà gli anni passati a quai d'Orsay».


Gilles Evohé girava in bicicletta. Con ogni tempo grazie al mio scafandro, disse dopo aver messo piede a terra davanti a Francesca, seduta sulla panchina in riva al canale Saint-Martin che lo scrittore aveva proposto come luogo di appuntamento. Mentre parlava si toglieva di dosso una specie di tuta verde bronzo.

«Toh» si bloccò, «non ero riuscito a trovare uno pseudonimo, ma questo mi dà un'idea: Scaphandrier».

«Benissimo» dissero insieme Ivan e Francesca.

«Anzi no, Scaph» si corresse Evohé. «Scaph e basta. Suona meglio».

«Con il ph o con la f?» chiese Francesca.

«Buona idea la f. Vada per Scaf».

Piccolo, scuro, nervoso: fisicamente faceva pensare a Michel Rocard. Quanto ai suoi romanzi e alle sue novelle, ricordavano Alexandre Vialatte. Evohé era il suo vero nome. Aveva lavorato quarant'anni al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica come ricercatore matematico. Specializzato nelle varietà non differenziabili, disse. Una cosa molto divertente. Non che abbia scoperto granché, aggiunse forzando un po' l'allegria.

L'idea del Buon Romanzo lo entusiasmava. Telefonino? Ne ho uno, sì, perché? Veramente? Pensavo che avrei fatto un salto in libreria, se avessi avuto qualcosa da dire. In bicicletta tutto diventa vicino. No? Non è una buona idea?

Van e Francesca camminarono più di un'ora al suo fianco lungo il canale Saint-Martin, da République a square Stalingrad e ritorno. Si congedarono conquistati dalla sua vitalità e pieni di speranza. Francesca non capì perché all'improvviso Ivan si fosse girato e avesse cominciato a correre dietro a Scaf che si allontanava in bicicletta. Lo vide tornare tenendo in mano un sacchetto di plastica gialla e rossa su cui da lontano si leggeva il nome di un supermercato. La lista, spiegò. Aveva dimenticato di darcela.


Marie Noir era una donna schietta e mite rimasta visibilmente fedele al modo di vestirsi dei suoi vent'anni, calcolò Ivan riconoscendo il poncho di alpaca tessuto a mano, i sandali in cuoio grezzo lucidati dagli anni, la sacca a tracolla di cotone indiano e la treccia sulla schiena ormai sale e pepe. Riconosceva quel look con emozione e un senso di complicità. Sapeva che Francesca e Marie Noir erano entrambe un'autorità in arte precolombiana, e si stupì vedendole con gli occhi lucidi che parlavano di marmellate del commercio equo e delle stupende verdure che ci si potevano procurare attraverso i gruppi di acquisto solidale. Il fatto è che i romanzi di Marie Noir, se anche raggiungevano il puro splendore, erano neri come la pietra, erano di un cinismo che niente stemperava, neanche la figura dell'angelo bambino il cui avatar, immancabilmente sacrificato, passava in silenzio alla fine di ogni sua storia.

«Uno pseudonimo? Quinoa» disse.

«Carino» buttò là Francesca chiedendosi se si trattasse di una varietà di coltello preistorico o di uno strumento musicale funerario.

«Soprattutto buona e sana» disse Marie, «e non più difficile da preparare di un piatto di riso. Uno dei miei libri preferiti è un piccolo capolavoro degli anni Sessanta intitolato Mille risi, mille ricette di riso. Mille per modo di dire. Ti insegna che ci sono risi di tutte le forme e di tutti i colori, e un'infinità di modi di prepararlo. In un romanzo bengalese che adoro, La nuit sur le rivage, l'autore dedica dodici pagine a descrivere la preparazione del riso che viene tradizionalmente servito ai matrimoni: un passaggio indimenticabile».

Era chiaro che quella donna non attribuiva ai piaceri alcuna gerarchia. Forse neanche li distingueva. Le regole del gioco imposte ai membri del comitato sembravano divertirla: la clandestinità, il segreto, la non identificabilità delle liste.

«E le novità?» domandò. «I libri che usciranno negli anni a venire? Chi li seleziona?».

Van la mise al corrente della linea che avevano deciso di adottare, ovvero la completa indifferenza al fatto che un romanzo fosse appena uscito o meno.

«Le novità le lasciamo agli altri librai» spiegò. «Il che, se non altro, dovrebbe far sì che la concorrenza non ci guardi con ostilità. In seconda battuta prenderemo ovviamente i romanzi che secondo noi meritano. Forse glielo avevo già detto, è previsto che i nostri grandi elettori facciano ogni anno un'aggiunta alla selezione iniziale. Quando arriveranno le aggiunte, integreremo la libreria con le novità o le quasi novità».

Marie Noir non era d'accordo.

«Immaginiamo che un libro meraviglioso esca in autunno e passi inosservato. Succede ogni anno: uno, due o magari tre romanzi notevoli che colano a picco in silenzio e vanno a posarsi sul fondo. Certo, potete far finta di niente e accontentarvi di andarli a recuperare nella sabbia diciotto mesi dopo, ma sarebbe molto meglio, sia per il libro che per l'autore, e anche per il lettore, che voi li offriste quando escono».

«È una cernita che va fatta in fretta. Chi se ne potrebbe occupare?».

«Voi due. Selezionare è compito dei librai. Oserei dire, rifacendomi alla vostra intuizione, che è il fulcro del lavoro del libraio. Poi, se proprio ci tenete, potete sempre farvi convalidare le scelte dal comitato».

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Nel giro di tre settimane la libreria aveva trovato il suo pubblico. Dal primo all'ultimo giorno di autunno non si svuotò mai.

Articoli incoraggianti erano apparsi sui giornali fin dai primi di settembre, ma l'apertura di una libreria non è poi la notizia del secolo e, per quanto bella e azzardata fosse l'impresa, veniva descritta più in termini economici che lirici.

Il fattore decisivo, che non avevano previsto gli esperti di Doultremont né l'agenzia di pubblicità e neppure le frizzanti addette stampa, fu l'eco che l'evento ebbe su internet. A partire dal lunedì dell'inaugurazione, e senza mai interrompere la sua corsa, la notizia rimbalzò fulminea di blog in sito e di chat in forum, presentando Al Buon Romanzo in termini così appassionati da lasciare sulla loro scia un'insopprimibile voglia di andare ad assaggiare di persona. Una meraviglia, Da scoprire di corsa, Il segreto che non si vede l'ora di divulgare: i ditirambi, nella loro forma, somigliavano alle critiche letterarie, avevano lo stesso modo di mettere insieme i cliché più triti. Di base giravano tutti intorno allo stesso concetto del "finalmente": Finalmente una libreria dove si trovano solo romanzi stupendi, Finalmente una vera selezione, Finalmente un posto dove andare con la certezza di non rimanere delusi.

A quel punto la stampa, si era a metà settembre, considerò quell'entusiasmo a macchia d'olio un evento di attualità. Le radio mandarono i loro servizi seguite a ruota dalle televisioni, ultime arrivate, le quali diffusero immagini che non mostravano niente e frasi di Ivan, amputate dell'inizio, della fine e delle sfumature, anch'esse prive di significato.

L'impatto dovette tuttavia essere positivo. Le vendite continuavano ad aumentare. La pubblicità di supporto prevista da Francesca si rivelò inutile. Oscar era un virtuoso della rete, e in capo a un mese si era fatto carico delle vendite e degli ordini online. Diventò un campione del riassortimento, registrando con tale velocità e precisione il flusso di entrata e di uscita, instaurando una tale complicità con i corrieri, ingranaggio essenziale del circuito e ben coscienti di esserlo, e sfruttando con tale metodo lo spazio di rue Dupuytren che raramente si trovavano a corto di un titolo.

Durante quelle prime settimane Ivan riconobbe tra i clienti quattro membri parigini del comitato venuti in incognito a vedere cosa aveva prodotto la loro collaborazione e a cosa somigliava l'odore del successo, che non conoscevano. Van, che per natura era affabile e cordiale, il giorno in cui alla cassa si trovò di fronte Larry de Winter fece uno sforzo per non sorridergli: a rischio di farsi notare proprio per questo, pensò poi. Ma non poté frenare uno scoppio di risa quando l'anziano gentiluomo gli scoccò un occhiolino da dilettante, talmente marcato che la testa e il tronco gli si piegarono in avanti come spinti all'improvviso da dietro.

Molti compratori si mostravano assidui. Oscar e Van ne individuarono alcuni che venivano più volte alla settimana. Le carte fedeltà ispirate da Anis vennero realizzate, anche se di fatto i buoni clienti sembravano considerarle accessori e non sapevano mai dove le avevano messe. Van ebbe l'idea di aprire dei conti, come si faceva una volta nelle drogherie. L'iniziativa ebbe successo. Lasciare un conto implicava presentarsi, scambiarsi i nomi. Si cominciò a sentire: "Signor Georg". Mi chiami Ivan, diceva Van. Oscar venne subito battezzato "Signor Oscar", data la difficoltà di memorizzare il suo cognome malgascio. Oscar e basta, diceva lui gentilmente, tanto che qualche volta si sentì chiamare "Signor Ebasta".

Certi clienti si ostinavano a non dare il proprio nome. Erano scrittori celebri o cronisti letterari che la quasi totalità dei presenti in libreria riconosceva al momento stesso in cui entravano per averli visti in fotografia o in televisione. Bertrand Poirot-Delpech, per esempio, veniva un giorno sì e uno no a fine pomeriggio, riconoscibile dal suo modo di cercare di passare inosservato. Una volta si imbatté in Bernard Frank e tutti e due, convintissimi di non essere stati riconosciuti da nessuno, risero gomito a gomito un quarto d'ora abbondante chini su Lady Margot di Evelyn Waugh.

Presto furono i clienti a suggerire titoli mancanti, spesso mossi dalla delusione di non trovarli in libreria: non vedo Au pays du matin calme, eppure è un romanzo magnifico. Vuole che glielo ordini? domandavano Oscar o Van. Ma la maggior parte delle volte chi proponeva un nuovo titolo non voleva comprarlo, lo aveva già, voleva solo segnalare quella che a lui sembrava un'anomalia.

Una cosa è acquistare un libro per un cliente, un'altra averlo in permanenza negli scaffali. La questione si poneva quando qualcuno non trovava un determinato romanzo e lo ordinava, pur non consigliando espressamente di aggiungerlo. Van e Francesca decisero di trasmettere agli otto membri del comitato tutti i titoli che la gente si diceva stupita di non trovare al Buon Romanzo. La decisione spettava a loro. Bastava che un solo elettore fosse d'accordo perché l'aggiunta diventasse effettiva, mentre se tutti gli otto erano contrari, il romanzo non sarebbe andato a integrare l'offerta permanente della libreria.

Tra coloro che davano suggerimenti c'era una particolare categoria di individui anch'essi facilmente riconoscibili, sebbene non lasciassero mai il proprio nome: gli autori. Venivano identificati già dalle prime parole che pronunciavano, perché il loro tono di voce non era neutro, era vendicativo, dolente, disilluso, in una parola ferito. Non enunciavano normalmente i titoli che consigliavano, e non a caso, visto che avevano impiegato più tempo a scegliere e rimuginare il proprio titolo che non a dare un nome ai figli. Gli autori non acquistavano mai. I loro suggerimenti venivano trasmessi al pari degli altri. Su questo, Francesca e Van avevano avuto qualche incertezza, ma potevano fare diversamente al punto in cui erano?

Altri interventi erano più diretti. Arrivavano telefonate degli editori, talvolta scarsamente diplomatiche: vi sembra giusto non avere neanche un libro di Troyat? La risposta era sempre la stessa: ci mandi due righe, un'e-mail, trasmetteremo la richiesta al comitato.

Anche su internet abbondavano i suggerimenti. Ogni sera Van passava due ore a leggere i messaggi del giorno. A chi proponeva un titolo mandava una risposta-tipo in cui erano spiegate le regole del gioco, la consultazione dei grandi elettori che avevano ciascuno il potere di far inserire un titolo ma nessuno, singolarmente, il peso di impedirlo. (Esiste una parola che significa il contrario di "veto?" domandò un internauta. "Benestare", immaginò un altro)

Alcune osservazioni o proposte meritavano di essere dibattute. Van prese l'abitudine di scrivere ogni giorno una nota in cui dava spazio a un'idea, metteva in evidenza un punto di vista, divulgava un'informazione. Quel comunicato quotidiano finì per costituire un bollettino d'informazione che, per non aver ricevuto un nome abbastanza in fretta, fu subito chiamato da tutti il Bollettino.


La distanza di Doultremont aumentava quanto più la realtà smentiva le sue previsioni. Durante quelle prime settimane di attività del Buon Romanzo, Francesca lo vide appena. Non una volta le chiese della libreria. Non una volta ci mise piede; almeno, così sembrò a Francesca, che sarebbe stata ben lieta di sbagliarsi. È probabile che sia passato senza farsi vedere, disse a Ivan, e lui non ebbe il coraggio di contraddirla. Sicuramente, rispose, sarei sorpreso che avesse resistito alla tentazione di fare un salto, deve aver notato che lascio spesso la libreria a Oscar per andare a lavorare di sopra.

Quell'autunno, tuttavia, ci voleva ben altro che il disinteresse del marito per destabilizzare Francesca. Aveva da fare. Ogni giorno si presentavano questioni nuove che non potevano essere lasciate in sospeso. Inoltre c'era da pensare ai mesi a venire. Francesca visse quell'autunno come una svolta nella sua vita. L'attrattiva del nuovo non era più ostacolata dal pensiero ossessivo del proprio lutto, Violette non la tirava più all'indietro.


I clienti avevano un comportamento da soci. Un giorno che chiacchierava con uno dei più fedeli, un habitué che faceva il disegnatore per un quotidiano e aveva preso l'abitudine, terminata la giornata lavorativa e consegnato il disegno al giornale, di piazzarsi al Buon Romanzo verso le due e non muoversi fino a sera, Ivan gli confessò che la parola "cliente" non gli sembrava il termine giusto per designare sostenitori tipo appunto lui, al che Roselin Folco (il cui nome e cognome indicavano genitori provenzali) osservò che sarebbe stato più appropriato parlare di amici. Gli Amici del Buon Romanzo, disse lentamente Ivan. No, lo corresse Folco, gli Amici del Romanzo.

Il nome diventò l'insegna del forum che riuniva sulla rete i partigiani della libreria a ogni ora del giorno e della notte, ovviamente molto più la notte che il giorno.

Un'altra cliente appassionata, una bruna di professione enologa che aveva scoperto Al Buon Romanzo in occasione di un Salone del Vino a Parigi, al suo secondo passaggio in libreria domandò, visto che abitava in un paesino sulle colline di Jurannon, se potevano spedirle ogni mese tre romanzi. A vostra scelta, disse, se li ho già letti li rileggerò o li regalerò.

Inaugurava, così facendo, una formula d'abbonamento che avrebbe avuto un successo enorme in tutto il mondo francofono, ivi compresa Parigi, e che, come fece notare un amabile signore di cui molto più tardi si venne a sapere che era professore al Collège de France, riprendeva da vicino una vecchia pratica dell'editoria risalente al tempo in cui la maggior parte degli editori erano anche librai. Oscar affinò la formula ideando abbonamenti à la carte. Iscrivendosi agli Abbonamenti al Romanzo, uno poteva ricevere il numero di romanzi che voleva alla frequenza che desiderava, e chiedere per una durata di sua scelta – un mese, sei mesi, un anno – che venisse privilegiato un autore piuttosto che un secolo o un paese, o al contrario che fossero mischiati generi e provenienza.

Già da novembre fu chiaro che gli Amici del Romanzo potevano scatenare un'infatuazione per titoli dimenticati da tempo, esaurire in otto giorni la rimanenza dell'editore e, nella settimana dopo, fare la fortuna dei cyber-librai prima che l'editore decidesse di ristampare e che i giornali finissero per rilevare la riscoperta di un'Eudora Welty o di un Patrick White.

Alla fine dell'anno gli editori avevano capito. Inchiodarono uno stagista sei ore al giorno davanti al computer con l'obbligo di non uscire mai dal pianeta Al Buon Romanzo (sito, bollettino e forum), di registrare i minimi segnali di curiosità per un titolo o per un autore e comunicarli il giorno stesso.

Poco a poco, e senza rendersene conto, Van era diventato conosciutissimo. C'è da dire che in televisione faceva la sua bella figura. Abituato a trascurare il proprio aspetto, a vestirsi come capitava, a non pettinarsi, e rifiutando categoricamente di farsi truccare prima di andare in trasmissione, aveva sullo schermo una naturalezza perfetta e una sicurezza di sé maggiore che in città. Si esprimeva con semplicità, precisione, umorismo, parlava dei libri con tanto ardore che, nei giorni successivi, quelli che aveva citato si vendevano come il pane. Incarnava alla perfezione il progetto del Buon Romanzo di invitare tutti al tavolo della miglior letteratura, della più piacevole. Gli spettatori erano incantati dalla sua aria da somaro ispirato, da uccellatore, da amico delle fate, e lo reclamavano. I conduttori dei programmi facevano a gara per invitarlo, Van accettava solo se era per parlare di letteratura, rifiutava di affrontare altri argomenti, e in quei tre mesi, senza essersela cercata, diventò la star imprevista della televisione, l'uomo che trasformava le trasmissioni culturali ín trasmissioni di grande audience.


Ci fu un solo problema, infimo ma irritante, riguardo il quale corre l'obbligo di riconoscere che non c'è una vera soluzione. Molti deplorarono che il nome Al Buon Romanzo suscitasse lo stesso imbarazzo del titolo Alla ricerca del tempo perduto e analogamente suscitasse ostracismo e ingiurie. Parlando, e certe volte anche scrivendo, veniva detto: ho scoperto il tal libro al Buon Romanzo, così come si dice: ho ripreso in mano la Ricerca, facendo saltare l'Al con la stessa mancanza di scrupoli con cui si inghiotte l'Alla. L'inconveniente faceva adombrare i puristi. Soluzioni? domandava Ivan. Loro alza- vano le spalle con un grugnito.

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Giovedì 17 febbraio, dopo aver pranzato molto tardi e in piedi al Comptoir, un caffè sull'incrocio dell'Odéon che ogni volta gli faceva tornare in mente una frase di Jean Echenoz sul fatto paradossale che in quell'angolo di Parigi molto ventoso, piuttosto brutto e discretamente inquinato i caffè e le loro terrazze siano sempre pieni (frase che non aveva il tempo di cercare per citarla letteralmente; purtroppo, visto che in materia letteraria la maniera conta più dell'idea), e prima di tornare al Buon Romanzo, Ivan comprò Le Ponte all'edicola sormontata dal bronzeo braccio teso di Danton vicino alla stazione della metropolitana. Erano secoli che non leggeva più i quotidiani ogni giorno. Li comprava una volta alla settimana, a seconda del numero, il giorno in cui pubblicavano il supplemento letterario, mentre dei settimanali scorreva le pagine della sezione Libri su internet, cosa che lo portava a sobbalzare sulla sedia, brontolare e infine staccarsi dal computer rinsaldato nella convinzione, tutto sommato felice, che il Buon Romanzo fosse un'ottima iniziativa. Per dovere si era abbonato a Livres Hebdo, e per coscienza professionale lo leggeva. In realtà conosceva una sola pubblicazione le cui pagine di letteratura fossero impeccabili: la bella rivista trimestrale 303 della regione della Loira.

Camminando verso la libreria separò dal fardello cartaceo che gli aveva dato l'edicolante le poche pagine dell'inserto letterario, evidentemente concepite all'uopo visto che non solo erano staccabili, ma già staccate, e come sempre abbandonò il resto su una panchina.

Prima di arrivare all'angolo di rue Dupuytren si bloccò, in piedi, con il giornale aperto sotto al naso. In seconda pagina, un titolo su quattro colonne gli aveva di colpo fatto dimenticare il luogo, l'ora e, tanto per essere esaustivi senza dilungarci troppo, tutto ciò che non aveva a che fare con il Buon Romanzo: "I commissari del valore letterario". Giunto in fondo alla prima colonna aveva capito: si era scatenata l'artiglieria pesante.

L'articolo era firmato da Jean-Brice Abiha, professore incaricato di sociologia politica all'università di Paris IV. "A settembre è stata aperta a Parigi una libreria dotata di grandi mezzi il cui progetto, dichiarato senza vergogna, è vendere solo grandi romanzi". Ivan leggeva a tutta velocità. "La pubblicità che ha accompagnato il lancio è stata esplicita [...]. Nessuno ha ritenuto che valesse la pena preoccuparsi. Eppure si tratta di un'impresa decisamente totalitaria. Alcuni individui, che tengono accuratamente nascosta la propria identità, si arrogano il diritto di decidere per gli altri, peggio, di decidere per tutti quali siano i grandi romanzi e scartare i libri, molto più numerosi, che non sono di loro gradimento [...]. Cosa vuol dire buon romanzo? Chi sono questi kapò che hanno la faccia tosta di apporre o meno sui libri il loro marchio di qualità? Da che pulpito parlano? Con quale diritto?".

L'articolo terminava: "Sappiamo a cosa portano le liste. Il gradino successivo è l'epurazione. Non siamo lontani dal rogo dei libri proscritti".

Van alzò la testa e ritrovò il viale, i cinema, il sole velato di grigio-bianco e il proprio polso, che gli parve accelerato. "Da che pulpito parlano?". Gli sembrava di risentire i Saint-Just in jeans dei comitati d'azione degli anni Settanta, appollaiati sulle cassette, la violenza che mettevano nello screditare tutto quello che era diverso da loro, la fraseologia sfottente, la malafede fatta metodo. Troppo. È troppo, si disse. Talmente troppo che lascia il tempo che trova.

Piegò il supplemento e rilassò mentalmente il viso prima di varcare la porta del Buon Romanzo. Una volta entrato, ritrovando l'atmosfera silenziosa e vibrante delle ore di affluenza, ebbe per un attimo la sensazione di svegliarsi da un incubo. Invece no, l'attacco era lì sotto il suo braccio, nero su bianco in quello che passava per il quotidiano più serio di Francia. Era semmai la libreria ideale ad appartenere al sogno.

Decise di aspettare un paio d'ore e riflettere sulla migliore contromossa da fare, prima di avvertire Francesca. Sedette alla cassa davanti a uno dei monitor e cercò in rete quel che si diceva di Jean-Brice Abiha. Non trovò niente. Tra i docenti di Paris IV non figurava neanche il suo nome.

Entrò Folco, il caricaturista, con Le Ponte in mano. Andò subito da Van: ha visto? Van gli toccò il braccio: lasciamoli dire, c'è sempre gente a cui la vista di una rosa appena sbocciata fa venire voglia di ridurla in pezzettini.

Cinque minuti dopo chiamò Francesca. Disse che aveva qualcosa da fargli vedere. In quel momento si trovava alla fermata del 63, davanti all'Ecole de Médecine.

Ivan non era sicuro che si trattasse dell'articolo su Le Ponte. Francesca non leggeva mai i giornali appena uscivano. Nei confronti della stampa era allo stesso tempo più e meno distaccata di lui. Riceveva una dozzina di pubblicazioni, L'Idée, Le Ponte, Esprit, Le Débat, La Nouvelle Revue Franpise, Les Inrockuptibles, La Matricule des Anges, Critique, Art Presse, Cahiers du cinéma, Alternatives économiques, che leggeva in ritardo e parzialmente, ma sfogliava dalla a alla zeta. Quando le veniva voglia, dedicava anche due o tre ore di fila a smaltire i giornali che si erano accumulati, travasandoli, dopo un rapido esame, dalla grande cesta in cui erano accatastati al canestro della legna che stava fisso accanto al caminetto del suo studio in rue de Condé.

Van la trovò effettivamente alla fermata del 63, seduta sulla panchina sotto la tettoia. Francesca si alzò e gli andò incontro.

«Ha visto?» disse a sua volta.

«Sì» rispose Van. «Dovevamo aspettarcelo. Il buon vecchio gauchismo è sempre in forma. Tutto quel che non gli aggrada viene tacciato di fascismo. Ma lei, piuttosto? Non capita spesso che legga Le Ponte del giorno».

«Me l'hanno messo sotto il naso».

«Sotto il naso?».

«Non ha visto?» ripeté Francesca.

Prese Van e lo trascinò fino alla stazione dell'Odéon. Sulle facciate degli edifici, tra una vetrina e l'altra, alle spalle del chiosco dei giornali, sui muretti di cemento che fiancheggiavano la scala mobile della metropolitana, sul pannello municipale con la mappa del quartiere erano incollate trenta o quaranta copie dell'articolo ad altezza d'uomo.

«Vengo da Saint-Germain» disse Francesca. «Ce ne sono ovunque di fronte alla chiesa. Adoro i tazebao. Mi sembrava che quello fosse appena stato attaccato, e sono subito andata a leggerlo.

«Quando li ho visti anche qui alla metropolitana, ho fatto un salto in place de l'Odéon. Stessa cosa. Sono attaccati tutto intorno al teatro». Si strinse nelle spalle e continuò: «L'idea che qualcuno abbia comprato cento copie di Le Ponte appena uscito, se le sia messe in macchina e nel giro di un'ora le abbia incollate tutto intorno alla libreria fa venire i brividi. Qualcuno che sapeva già dell'articolo».

«Secondo me non è andata così» replicò Van. «Mi figuro semmai dieci ragazzotti a cui vengono consegnati una decina di articoli a testa già ritagliati, ognuno con una zona di competenza e l'ordine di sbrigarsi».

«Che differenza c'è?».

«Che non abbiamo a che fare con un unico individuo bilioso, magari lo stesso autore dell'articolo, ma con un commando. È un'azione organizzata».

«Crede che ci stiano osservando anche ora? Che si stiano divertendo a vedere le nostre facce?».

«È possibile. Meglio non rimanere qui fuori».

«Chiamo Tourterelli».

«Il patron di Le Ponte? Non lo faccia. Significherebbe dare troppa importanza a un articolo ingiusto. Speriamo piuttosto che tanti amici del Buon Romanzo rispondano a questo Abiha attraverso il giornale».

«Noi rispondiamo?».

«Direi di sì, una lettera aperta. Ci attaccano e ci difendiamo. Vuole che butti giù una risposta?».

«Sì, grazie. Io avrei problemi a controllarmi. Senta, Van, non ce la faccio a reggere l'idea che ci stiano guardando, me la squaglio. Mi chiami lei».

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Il testo di Francesca, con la sua firma, comparve su Le Ponte otto giorni dopo. Il giornale si dava arie di equidistanza. Probabilmente avevano ritenuto più saggio pubblicare la replica di Francesca che non leggere le sue parole su un'altra testata.

"L'anno scorso io e Ivan Georg abbiamo aperto una libreria a Parigi che abbiamo chiamato Al Buon Romanzo perché fosse chiara la sua ragion d'essere.

"Il progetto è stato capito. Rispondeva evidentemente a un'attesa, vista l'immediatezza del successo.

"A chi può fare ombra questa libreria? Chi è che ce l'ha con noi al punto di volerci distruggere? Da quattro mesi siamo oggetto di attacchi violenti sulla stampa e su internet.

"Per denigrarci è stato chiamato in causa il nostro preteso esclusivismo, il nostro partito preso in favore della qualità letteraria, considerato reazionario, il legame sospetto che esisterebbe tra la libreria e il grande capitale e, da ultimo, noi stessi e le nostre vite private, mia e di Ivan Georg.

"Ciò significa aver preso un grosso abbaglio sui nostri intenti e su quello che Al Buon Romanzo è.

"Da quando esiste la letteratura, sofferenza, gioia, orrore, grazia e tutto ciò che di grande c'è nell'uomo ha prodotto grandi romanzi. Questi libri d'eccezione sono spesso sottovalutati, rischiano continuamente di essere dimenticati e, oggi che il numero delle pubblicazioni è enorme, la potenza del marketing e il cinismo del commercio si adoperano affinché non vengano distinti dai milioni di libri anodini, per non dire inutili.

"Eppure questi romanzi magistrali sono benefici. Affascinano. Aiutano a vivere. Istruiscono. Abbiamo sentito l'esigenza di difenderli e di promuoverli a tutti costi, perché è un'illusione pensare che possano farcela da soli. Non abbiamo altre ambizioni.

"Vogliamo dei libri necessari, libri che si possano leggere all'indomani di un funerale quando per il troppo pianto non ci sono più lacrime, quando non ci si regge più in piedi, inceneriti dal dolore; libri che siano come parenti stretti dopo aver messo a posto la camera del figlio morto, dopo aver ricopiato i suoi diari per averli sempre con sé, dopo aver respirato mille volte i suoi vestiti nell'armadio, quando non c'è altro da fare; libri per le notti in cui, malgrado lo sfinimento, non si riesce a dormire e si desidera solo liberarsi delle visioni ossessive; libri che abbiano un peso e che non vengano abbandonati quando non facciamo che sentire il poliziotto sussurrare: non rivedrà sua figlia viva, quando non ne possiamo più di vederci alla folle ricerca del piccolo Jean per tutta la casa e poi nel giardino, quando quindici volte per notte lo rivediamo a pancia sotto nei trenta centimetri d'acqua della piccola vasca; libri che si possano portare all'amica il cui figlio si è impiccato in camera due mesi fa che sembrano un'ora fa, al fratello che la malattia ha reso irriconoscibile.

"Ogni giorno Adrien si taglia le vene, Maria si sbronza, Anand è travolto da un camion, una dodicenne cecena o turkmena o fur viene violentata. Ogni giorno una Veronica asciuga gli occhi di un condannato, una vecchia tiene la mano di un moribondo orrendamente sfigurato, un uomo raccoglie un bambino inebetito in mezzo ai cadaveri.

"Noi non sappiamo che farcene dei libri insignificanti, dei libri vuoti, dei libri fatti per piacere.

"Noi non vogliamo libri raffazzonati, scritti in fretta e furia, si sbrighi, me lo finisca per luglio, a settembre facciamo un lancio come si deve e ne vendiamo centomila copie di sicuro.

"Vogliamo libri scritti per noi che dubitiamo di tutto, che piangiamo per un niente, che sobbalziamo per ogni minimo rumore alle spalle.

"Vogliamo libri che al loro autore siano costati molto, libri in cui si siano depositati i suoi anni di lavoro, il suo mal di schiena, i suoi punti morti, qualche volta il suo panico all'idea di perdersi, íl suo scoraggiamento, il suo coraggio, la sua angoscia, la sua tenacia, il rischio che si è assunto di sbagliare.

"Vogliamo libri splendidi che ci tuffino nello splendore del reale e lì ci tengano avvinti; libri che ci provino come l'amore sia all'opera nel mondo accanto al male e totalmente contro di lui, anche se talvolta non si capisce, e che lo sia sempre, tanto quanto il dolore lacererà sempre i nostri cuori. Vogliamo buoni romanzi.

"Vogliamo libri che non ignorino niente della tragedia umana, niente delle meraviglie quotidiane, libri che ci facciano tornare l'aria nei polmoni.

"E se anche ne uscisse uno ogni dieci anni, se anche dovessero passare dieci anni perché venga pubblicato un altro Vies minuscules, a noi basterebbe. Non vogliamo altro".

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