Copertina
Autore Stéphane Courtois
CoautoreNicolas Werth, Jean-Louis Panné, Andrzej Paczkowski, Karel Bartosek, Jean-Louis Margolin
Titolo Il libro nero del comunismo
SottotitoloCrimini, terrore, repressione
EdizioneMondadori, Milano, 2000 [1998], Oscar storia , pag. 770, dim. 160x230x42 mm , Isbn 978-88-04-47330-5
OriginaleLe livre noir du communisme
EdizioneRobert Laffont, Paris, 1997
TraduttoreLuisa Dalla Fontana, Tania Gargiulo, al.
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe storia contemporanea , politica , storia criminale , guerra-pace , paesi: Russia
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Indice


  3      I crimini del comunismo
         di Stéphane Courtois


         Parte prima
         UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO

         Violenze, repressioni, terrori
         nell'Unione Sovietica
         di Nicolas Werth

 37    I Paradossi e malintesi dell'Ottobre
 51   II Il «braccio armato della dittatura
         del proletariato»
 67  III Il Terrore rosso
 76   IV La «sporca guerra»
101    V Da Tambov alla grande carestia
122   VI Dalla tregua alla «grande svolta»
136  VII Collettivizzazione forzata e
         dekulakizzazione
147 VIII La grande carestia
157   IX «Elementi estranei alla società» e
         cicli di repressione
172    X Il Grande terrore (1936-1938)
189   XI L'impero dei campi
202  XII L'altra faccia della vittoria
218 XIII Apogeo e crisi del gulag
228  XIV L'ultimo complotto
235   XV L'uscita dallo stalinismo
246      In conclusione


         Parte seconda
         RIVOLUZIONE MONDIALE, GUERRA CIVILE
         E TERRORE

255    I Il Comintem in azione
         di Stéphane Courtois e
            Jean-Louis Panné

La rivoluzione in Europa, 255 - Comintem e
guerra civile, 258 - Dittatura,
criminalizzazione degli oppositori e
repressione all'interno del Comintern, 269 -
Il Grande terrore colpisce il Comintern, 278
- Il terrore all'interno dei partiti
comunisti, 282 - La caccia ai trotzkisti, 287
- Antifascisti e rivoluzionari stranieri
vittime del terrore nell'URSS, 292 - Guerra
civile e guerra di liberazione nazionale, 303

312   II L'ombra dell'NKVD in Spagna
         di Stéphane Courtois e
            Jean-Louis Panné

La linea generale dei comunisti, 313 -
«Consulenti» e agenti, 315 - «Dopo le
calunnie... le pallottole alla nuca», 317 -
Il maggio 1937 e l'eliminazione del Poum, 318
- L'NKVD all'opera, 322 - Un «processo di
Mosca» a Barcellona, 324 - Nelle Brigate
internazionali, 325 - L'esilio e la morte
nella «patria dei proletari», 327

330  III Comunismo e terrorismo
         di Rémi Kauffer


         Parte terza
         L'ALTRA EUROPA VITTIMA DEL COMUNISMO
         di Andrzej Paczkowski e
            Karel Bartosek

339    I Polonia, la «nazione nemica»
         di Andrzej Paczkowski

Le repressioni sovietiche contro i polacchi,
339 - Polonia 1944-1989: il sistema
repressivo, 350

268   II Europa centrale e sudorientale
         di Karel Bartosek

Terrore «d'importazione»?, 368 - I processi
politici contro gli alleati non comunisti,
372 - La distruzione della società civile,
380 - Il popolino e il sistema dei campi di
concentramento, 386 - I processi ai dirigenti
comunisti, 395 - Dal post-terrore al
postcomunismo, 409 - Una gestione complessa
del passato, 422


         Parte quarta
         COMUNISMI D'ASIA: FRA «RIEDUCAZIONE»
         E MASSACRO

433    I Cina: una lunga marcia nella notte
         di Jean-Louis Margolin

Una tradizione di violenza?, 435 - Una
rivoluzione inseparabile dal terrore
(1927-1946), 439 - Riforma agraria e purghe
urbane (1946-1957), 445 - La più grande
carestia della storia (1959-1961), 455 - Un
«gulag» dissimulato: il laogai, 467 - La
Rivoluzione culturale: un totalitarismo
anarchico (1966-1976), 481 - L'era Deng: lo
sgretolarsi del terrore dopo il 1976, 505 -
Tibet: genocidio sul tetto del mondo?, 508

513   II Corea del Nord, Vietnam, Laos:
         il seme del drago
         di Jean-Louis Margolin e
            Pierre Rigoulot

Crimini, terrore e segreto nella Corea del
Nord, 513 - Vietnam: le impasse di un
comunismo in guerra, 530

541  III Cambogia: nel paese del crimine
         sconcertante
         di Jean-Louis Margolin

La spirale dell'orrore, 544 - Variazioni su
un martirologio, 551 - La morte quotidiana al
tempo di Pol Pot, 560 - Le ragioni della
follia, 577 ~ Un genocidio?, 594

596      Conclusione


         Parte quinta
         IL TERZO MONDO

605    I L'America latina alla prova
         di Pascal Fontaine

Cuba: l'interminabile totalitarismo tropicale
, 605 - Nicaragua: il fallimento di un
progetto totalitario, 621 - Perù: la «lunga
marcia» sanguinosa del Sendero luminoso, 631

638   II Afrocomunismi: Etiopia, Angola,
         Mozambico
         di Yves Santamaria

Un comunismo dai riflessi africani, 638 -
L'impero rosso: l'Etiopia, 642 - Violenze
lusofone: Angola e Mozambico, 649 - La
Repubblica popolare d'Angola, 650 -
Mozambico, 654

659  III Il comunismo in Afghanistan
         di Sylvain Boulouque

L?Afghanistan e l'URRS dal 1917 al 1973, 660
- I comunisti afgani, 662 - Il colpo di Stato
di Mohammad Daud, 663 - Il colpo di Stato
dell'aprile 1978 o «rivoluzione di Saur», 663
- L'intervento sovietico, 666 - La vastità
della repressione, 669


679      PERCHÉ?
         di Stéphane Courtois

707      Note

757      Indice dei nomi

 

 

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Pagina 3

I CRIMINI DEL COMUNISMO
di Stéphane Courtois


      La vita ha perso contro la morte,
      ma la memoria vince
      nella lotta contro il nulla.
      TZVETAN TODOROV, Les abus de la mémoire
Si è potuto scrivere che «la storia è la scienza dell'infelicità degli uomini», e la violenza del Novecento sembra confermare questa formula in modo eloquente. Certo, nei secoli precedenti pochi popoli e pochi paesi sono stati risparmiati dalla violenza di massa. Le principali potenze europee sono state implicate nella tratta dei neri; la Repubblica francese ha messo in atto una colonizzazione che, nonostante alcuni apporti positivi, è stata caratterizzata sino alla fine da episodi raccapriccianti. Negli Stati Uniti persiste una cultura della violenza che affonda le proprie radici in due crimini principali: la schiavitù dei neri e lo sterminio degli indiani.

Rimane, comunque, il fatto che, sotto questo aspetto, il nostro secolo sembra avere superato i precedenti. Guardandolo retrospettivamente, non ci si può esimere da una conclusione sconcertante: il Novecento è stato il secolo delle grandi catastrofi umane. Due guerre mondiali e il nazismo, senza dimenticare le tragedie più circoscritte dell'Armenia, del Biafra, del Ruanda e di tanti altri paesi. L'impero ottomano ha proceduto, infatti, al genocidio degli armeni e la Germania a quello degli ebrei e degli zingari. L'Italia di Mussolini ha massacrato gli etiopi. I cechi ammettono a fatica che la loro condotta nei confronti dei tedeschi dei Sudeti, nel 1945-1946, non è stata delle più irreprensibili. E la stessa piccola Svizzera deve fare i conti con il proprio passato di depositaria dell'oro rubato dai nazisti agli ebrei sterminati, anche se il grado di atrocità di tale comportamento non è assolutamente paragonabile a quello del genocidio.

Il comunismo si inserisce nel medesimo lasso di tempo storico fitto di tragedie e ne costituisce, anzi, uno dei momenti più intensi e significativi. Il comunismo, fenomeno fondamentale di questo Novecento, il secolo breve che incomincia nel 1914 e si conclude a Mosca nel 1991, si trova proprio al centro dello scenario storico. Un comunismo che preesisteva al fascismo e al nazismo e che è sopravvissuto a essi, toccando i quattro grandi continenti.

Che cosa intendiamo esattamente con il termine «comunismo»? È necessario stabilire subito una distinzione fra la dottrina e la pratica. Come filosofia politica, il comunismo esiste da secoli, se non da millenni. Non è stato forse Platone, nella Repubblica, a esporre per primo l'idea di una città ideale in cui gli uomini non fossero corrotti dal denaro e dal potere e in cui comandassero la saggezza, la ragione e la giustizia? Un pensatore e statista del rango di Tommaso Moro, cancelliere d'Inghilterra nel 1529, autore della famosa Utopia e morto per mano del boia di Enrico VIII, non è stato forse un altro precursore di quest'idea di città ideale? L'approccio utopico sembra perfettamente legittimo come strumento critico della società: esso partecipa del dibattito ideologico, ossigeno delle democrazie. Ma il comunismo di cui trattiamo in questa sede non si colloca nel mondo delle idee. È un comunismo reale, che è esistito in una determinata epoca, in determinati paesi, incarnato da leader famosi: Lenin, Stalin, Mao, Ho Chi Minh, Castro ecc. e, più vicino alla storia nazionale francese, Maurice Thorez, Jacques Duclos, Georges Marchais.

Il comunismo reale, in qualunque misura sia stato influenzato nella sua pratica dalla dottrina comunista anteriore al 1917 - problema su cui ritorneremo -, ha comunque messo in atto una repressione sistematica, al punto da eleggere, nei momenti di parossismo, il terrore a sistema di governo. L'ideologia è, dunque, innocente? I nostalgici e coloro che ragionano con una mentalità scolastica potranno sempre sostenere che questo comunismo reale non aveva niente a che vedere con il comunismo ideale. E sarebbe evidentemente assurdo imputare a teorie elaborate prima di Cristo, durante il Rinascimento o ancora nell'Ottocento, eventi prodottisi nel XX secolo. Ma, come osservò Ignazio Silone, le rivoluzioni come gli alberi si riconoscono dai loro frutti. Non a caso i socialdemocratici russi, meglio noti come «bolscevichi», nel novembre del 1917 hanno deciso di chiamarsi «comunisti». Non a caso, ancora, hanno eretto ai piedi del Cremlino un monumento in onore di coloro che consideravano i loro precursori: Moro e Campanella.

Al di là dei crimini individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo.

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Abbiamo, quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una particolare pratica: l'esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno o incidente automobilistico); l'annientamento per fame (carestie indotte e/o non soccorse); la deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Più complicato è il caso dei periodi detti di «guerra civile»: non sempre, infatti, è facile distinguere ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro della popolazione civile.

Possiamo, tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre, che, pur essendo ancora largamente approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare un'idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravità:

- URSS, 20 milioni di morti,

- Cina, 65 milioni di morti,

- Vietnam, 1 milione di morti,

- Corea del Nord, 2 milioni di morti,

- Cambogia, 2 milioni di morti,

- Europa dell'Est, 1 milione di morti,

- America Latina, 150.000 morti,

- Africa, 1 milione 700.000 morti,

- Afghanistan, 1 milione 500.000 morti,

- movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.

Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.

Questo approccio elementare non pretende di esaurire il problema, che merita, invece, un approfondimento qualitativo, basato su una definizione di crimine precisa e fondata su criteri obiettivi e giuridici. La questione del crimine di Stato è stata affrontata per la prima volta da un punto di vista giuridico nel 1945, dal tribunale di Norimberga istituito dagli Alleati proprio per i crimini nazisti. La natura di questi ultimi è stata definita nell'articolo 6 dello statuto del tribunale, che indica tre crimini fondamentali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità. Ora, un esame dell'insieme dei crimini commessi durante il regime leninista-stalinista, quindi nel mondo comunista in generale, porta a riconoscervi ciascuna di queste tre categorie.

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In questo caso, il genocidio «di classe» si confonde con il genocidio «di razza»: la morte per stenti del bambino di un kulak ucraino deliberatamente ridotto alla fame dal regime stalinista «vale» la morte per stenti di un bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime nazista. Questa constatazione non rimette affatto in discussione la singolarità di Auschwitz: la mobilitazione delle risorse tecniche più moderne e l'attuazione di un vero e proprio processo industriale (la costruzione di una «fabbrica di sterminio»), l'uso dei gas e dei forni crematori, ma sottolinea una particolarità di molti regimi comunisti: l'uso sistematico dell'arma della fame. Il regime tende a controllare completamente le riserve alimentari e, con un sistema di razionamento talvolta molto sofisticato, le ridistribuisce in funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può provocare immani carestie. Facciamo notare che, dopo il 1918, soltanto i paesi comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di migliaia, se non di milioni, di uomini. Ancora nell'ultimo decennio due dei paesi dell'Africa che si rifacevano al marxismo-leninismo, l'Etiopia e il Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie.

È possibile fare un primo bilancio globale di questi crimini:

- fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;

- carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;

- deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;

- assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;

- eliminazione di quasi 690.000 persone durante la Grande purga del 1937-1938;

- deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;

- sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;

- deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;

- deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;

- deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943;

- deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;

- deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;

- deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;

- lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 ecc.

La lista dei crimini del leninismo e dello stalinismo, spesso riprodotti in modo quasi identico dai regimi di Mao Zedong, Kim Il Sung e Pol Pot, potrebbe essere estesa all'infinito.

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L'analisi di questa realtà fondamentale del fenomeno comunista al potere - dittatura e terrore - non è facile. Jean Ellenstein ha definito il fenomeno stalinista un misto di tirannide greca e di dispotismo orientale. La formula è seducente, ma non rende il carattere moderno di quest'esperienza e la sua portata totalitaria, diversa dalle precedenti forme storiche di dittatura. Un rapido esame comparativo permetterà di comprenderne meglio la natura.

Si potrebbe incominciare ricordando la tradizione russa dell'oppressione. I bolscevichi combattevano il regime terrorista dello zar, che però impallidisce di fronte agli orrori del Bolscevismo al potere. I prigionieri politici dello zar avevano diritto a un vero e proprio sistema giudiziario, dove la difesa poteva esprimersi al pari, se non meglio, dell'accusa, prendendo a testimone l'opinione pubblica nazionale, inesistente nel regime comunista, e soprattutto quella internazionale. I prigionieri e i condannati godevano di un regolamento carcerario, e le condizioni di reclusione e persino di deportazione erano relativamente leggere. I deportati potevano partire con la famiglia, leggere e scrivere ciò che desideravano, andare a caccia e a pesca e incontrarsi liberamente con i compagni di sventura. Lenin e Stalin l'avevano sperimentato di persona. Perfino le Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, che tanto colpirono l'opinione pubblica al momento della pubblicazione, sembrano ben poca cosa in confronto agli orrori del comunismo. Nella Russia degli anni che vanno dal 1880 al 1914 ci furono indubbiamente sommosse e insurrezioni duramente represse da un sistema politico arcaico. Ma dal 1825 al 1917 le persone condannate a morte in Russia per le loro idee o la loro azione politica sono state 6360, di cui ne sono state giustiziate 3932 - 191 dal 1825 al 1905 e 3741 dal 1906 al 1910 -, cifra che nel marzo 1918, dopo soli quattro mesi di esercizio del potere, i bolscevichi avevano già superato. Fra il bilancio della repressione zarista e quello del terrore comunista non c'è, quindi, confronto.

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Prima della guerra vigevano misure di segregazione razziale di carattere generale contro gli ebrei, ma la loro persecuzione toccò il culmine durante la Notte dei cristalli, che vide parecchie centinaia di morti e 35.000 internamenti nei campi di concentramento. Ma soltanto con la guerra, e soprattutto con l'attacco all'URSS, si scatenò il terrore nazista, di cui forniamo un sommario bilancio: 15 milioni di civili uccisi nei paesi occupati; 5 milioni 100.000 ebrei; 3 milioni 300.000 prigionieri di guerra sovietici; 1 milione 100.000 deportati morti nei campi di concentramento; parecchie centinaia di migliaia di zingari. A queste vittime vanno aggiunti 8 milioni di persone utilizzate per i lavori forzati e 1 milione 600.000 persone detenute nei campi di concentramento non decedute.

Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzi tutto perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali. Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la radicalità del crimine.

Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone, contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo. Questa semplice constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore.

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Pagina 17

Ogni volta si colpiscono non tanto degli individui, quanto dei gruppi. Il terrore ha lo scopo di sterminare un gruppo individuato come nemico che, se è vero che costituisce soltanto una porzione della società, viene comunque colpito in quanto tale da una logica genócida. I meccanismi di segregazione e di esclusione del totalitarismo di classe presentano, quindi, una straordinaria somiglianza con quelli del totalitarismo di razza. La futura società nazista doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se i criteri di esclusione non furono gli stessi. È, quindi, un errore sostenere che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali. I misfatti lenìnisti, stalinisti, maoisti e l'esperienza cambogiana pongono, quindi, all'umanità, oltre che ai giuristi e agli storici, un nuovo quesito: come definire il crimine che consiste nello sterminio, per ragioni politico-ideologiche, non più di individui o di gruppi limitati di oppositori, ma di massicce porzioni della società? Bisogna limitarsi, come fanno i giuristi cechi, a definire i crimini commessi durante il regime comunista semplicemente «crimini comunisti»? O bisogna inventare una nuova denominazione? Alcuni autori anglosassoni la pensano in questo modo e hanno coniato il termine «politicidio».

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Pagina 21

All'ignoranza, voluta o meno, della dimensione criminale del comunismo si è aggiunta, come sempre, l'indifferenza dei contemporanei per i loro fratelli. Non che l'uomo abbia il cuore arido. Anzi, in molte situazioni limite sfodera risorse insospettate di solidarietà, amicizia, affetto e persino amore. Ma, come sottolinea Tzvetan Todorov, «la memoria dei nostri lutti ci impedisce di cogliere la sofferenza altrui». E, alla fine delle due guerre mondiali, quale popolo europeo o asiatico non era occupato a curarsi le ferite di innumerevoli lutti? Le difficoltà stesse incontrate in Francia nell'affrontare la storia degli anni bui sono sufficientemente eloquenti. La storia, o piuttosto la non storia, dell'occupazione continua, infatti, a tormentare la coscienza francese. Lo stesso accade, anche se in misura minore, per la storia del periodo nazista in Germania, fascista in Italia, franchista in Spagna, per la guerra civile in Grecia ecc. In questo secolo di ferro e fuoco sono stati tutti troppo presi dalle proprie disgrazie per compatire quelle altrui.

L'occultamento della dimensione criminale del comunismo rimanda, tuttavia, a tre ragioni più specifiche. La prima riguarda l'attaccamento all'idea stessa di rivoluzione. Il superamento dell'idea di rivoluzione quale era stata concepita nel XIX e nel XX secolo è ancora lungi dall'essere concluso. I suoi simboli - bandiera rossa, Internazionale, pugno chiuso - risorgono ogni volta che compare un movimento sociale di una certa portata. Che Guevara ritorna di moda. Diversi gruppi apertamente rivoluzionari continuano a essere attivi e a operare nella piena legalità, trattando con disprezzo la minima riflessione critica sui crimini dei loro predecessori e non esitando a riesumare i vecchi discorsi giustificatori di Lenin, Trockij o Mao. Tale passione rivoluzionaria non è stata solo degli altri. Diversi autori di questo libro hanno, infatti, creduto alla propaganda comunista, un tempo.

La seconda ragione riguarda la partecipazione dei sovietici alla vittoria sul nazismo, che ha permesso ai comunisti di mascherare dietro un ardente patriottismo i loro fini ultimi, che miravano alla presa del potere. Dal giugno 1941 i comunisti di tutti i paesi occupati sono entrati in una resistenza attiva, e spesso armata, all'occupante nazista e italiano. Come i combattenti di altre fedi, hanno pagato il prezzo della repressione con migliaia di uomini fucilati, massacrati, deportati. E si sono serviti di questi martiri per rendere sacra la causa comunista e impedire qualsiasi critica nei suoi confronti. Inoltre, durante la Resistenza molti non comunisti hanno stretto legami di solidarietà, lotta, parentela con comunisti, il che ha impedito a molti occhi di aprirsi. In Francia l'atteggiamento dei gaullisti è stato spesso dettato da questa memoria comune e incoraggiato dalla politica del generale De Caulle, che usava l'Unione Sovietica come contrappeso agli Stati Uniti.

La partecipazione dei comunisti alla guerra e alla vittoria sul nazismo ha fatto definitivamente trionfare la nozione di antifascismo come riprova della verità a sinistra e, naturalmente, i comunisti si sono posti come i migliori rappresentanti e i migliori paladini dell'antifascismo. Quest'ultimo è diventato per il comunismo un'etichetta definitiva, in nome della quale è stato facile mettere a tacere i dissenzienti. François Furet ha scritto su questo punto cruciale pagine illuminanti. Dato che il nazismo sconfitto era stato bollato dagli Alleati come il Male assoluto, il comunismo è passato quasi automaticamente nel campo del Bene. Ciò risultò evidente durante il processo di Norimberga, in cui i sovietici figuravano fra i pubblici ministeri. Gli episodi imbarazzanti dal punto di vista dei valori democratici, come i patti germano-sovietici del 1939 o il massacro di Katyn', vennero quindi prontamente insabbiati. La vittoria sul nazismo fu considerata la prova della superiorità del sistema comunista. E soprattutto, nell'Europa liberata dagli angloamericani, ebbe l'effetto di suscitare un senso di gratitudine nei confronti dell'Armata rossa (di cui non si era dovuta subire l'occupazione) e un senso di colpa di fronte ai sacrifici sopportati dai popoli dell'Unione Sovietica, sentimenti che la propaganda comunista sfruttò debitamente a proprio favore.

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La prima grande svolta nel riconoscimento ufficiale dei crimini comunisti risale al 24 febbraio 1956. Quella sera Nikita Hruscëv, primo segretario, sale sulla tribuna del XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, il PCUS. É una seduta a porte chiuse, a cui assistono soltanto i delegati. In un silenzio assoluto, essi ascoltano attoniti il primo segretario del Partito distruggere sistematicamente l'immagine del «piccolo padre dei popoli», del «geniale Stalin», che per trent'anni era stato l'eroe del comunismo mondiale. Questo rapporto, noto in seguito come il «rapporto segreto», costituisce uno dei cambiamenti di rotta fondamentali del comunismo contemporaneo. Per la prima volta un dirigente comunista di altissimo rango ammetteva ufficialmente, benché a uso esclusivo dei comunisti, che il regime che era salito al potere nel 1917 aveva conosciuto una «deriva» criminale.

[...]

In alcuni degli uomini che avevano preso parte attiva ai crimini perpetrati durante il regime di Stalin e che, perlopiù, dovevano la promozione all'eliminazione dei loro predecessori, si faceva strada un certo rimorso; un rimorso sicuramente indotto, interessato, un rimorso da politico, ma in ogni caso un rimorso. Bisognava pure che qualcuno fermasse il massacro; Hruscëv ebbe questo coraggio, anche se, nel 1956, non esitò a mandare i carri armati sovietici a Budapest.

Nel 1961, durante il XXII Congresso del PCUS, Hruscëv ricordò non soltanto le vittime comuniste, ma tutte le vittime di Stalin e propose persino di erigere un monumento in loro memoria. Probabilmente aveva superato il limite invisibile al di là del quale si rimetteva in discussione il principio stesso del regime: il monopolio del potere assoluto riservato al Partito comunista. Il monumento non vide mai la luce. Nel 1962 il primo segretario autorizzò la pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic, di Aleksandr Solzenicyn. Il 24 ottobre 1964 venne brutalmente destituito da tutte le sue funzioni ma nemmeno lui fu liquidato e morì nell'anonimato nel 1971.

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In questa prospettiva, quale può essere il nostro apporto scientifico? Il nostro intervento risponde in primo luogo a un dovere di storia. Per lo storico nessun tema è tabù e le implicazioni e pressioni di qualunque tipo - politiche, ideologiche, personali - non devono impedirgli di seguire la strada della conoscenza, dell'esumazione e dell'interpretazione dei fatti, soprattutto quando questi ultimi siano stati a lungo e volontariamente sepolti nel segreto degli archivi e delle coscienze. Ora, questa storia del terrore comunista costituisce una delle componenti principali di una storia europea che voglia esaurire completamente la grande questione del totalitarismo. Quest'ultimo ha conosciuto una versione hitleriana ma anche una versione leninista e stalinista, e non si può più accettare una storia incompleta, che ignori il versante comunista. Così come non si può più assumere la posizione di ripiegamento che consiste nel ridurre la storia del comunismo unicamente alla dimensione nazionale, sociale e culturale. Tanto più che questa partecipazione al fenomeno totalitario non si è limitata all'Europa e all'episodio sovietico, ma ha toccato anche la Cina maoista, la Corea del Nord e la Cambogia di Pol Pot. Ogni comunismo nazionale è stato tenuto legato con una sorta di cordone ombelicale alla matrice russa e sovietica, pur contribuendo a diffondere il movimento a livello mondiale. La storia che abbiamo di fronte è quella di un fenomeno che si è sviluppato in tutto il mondo e che riguarda tutta l'umanità.

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Il lettore non si accontenti dei pochi documenti iconografici qui riuniti. Dedichi il tempo necessario a prendere coscienza, pagina dopo pagina, del calvario subito da milioni di uomini. Compia l'indispensabile sforzo mentale per rappresentarsi ciò che fu quest'immensa tragedia che continuerà a segnare la storia mondiale per i decenni a venire. Gli si porrà, allora, il quesito fondamentale: perché? perché Lenin, Trockij, Stalin e gli altri hanno ritenuto necessario sterminare tutti coloro che definivano nemici? perché si sono creduti autorizzati a infrangere il codice non scritto che regola la vita dell'umanità: «Non uccidere»? Tenteremo di rispondere a questa domanda alla fine del libro.

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Parte prima
UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO
Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica
di Nicolas Werth


I
PARADOSSI E MALINTESI DELL'OTTOBRE


«Con la caduta del comunismo non esiste più la necessità di dimostrare il carattere "storicamente ineluttabile" della Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre. Il 1917 può finalmente diventare un "normale" oggetto storico. Purtroppo né gli storici né, soprattutto, la nostra società sono disposti a rinunciare al mito fondatore dell'anno zero, dell'anno che pare aver segnato il principio di ogni cosa: la fortuna o la disgrazia del popolo russo.»

Il commento che precede, di uno storico russo contemporaneo, è espressione di una costante: a ottant'anni dall'evento, prosegue la «battaglia per raccontare» il 1917.

Per una prima scuola storica, che potrebbe essere definita «liberale», la Rivoluzione d'Ottobre è stata nient'altro che un colpo di Stato imposto con la violenza a una società passiva, il risultato di un'abile congiura ordita da un pugno di fanatici, disciplinati e cinici, privi di qualsiasi radicamento reale nel paese. Oggi la vulgata liberale è stata fatta propria dalla quasi totalità degli storici russi, come pure dalle élite colte e dai dirigenti della Russia postcomunista. La rivoluzione dell'ottobre 1917, privata così di ogni spessore sociale e storico, viene riletta come un incidente che ha distolto la Russia prerivoluzionaria dal suo cammino naturale: una Russia ricca, laboriosa e ben avviata verso la democrazia. La rottura simbolica con la «mostruosa parentesi sovietica» (proclamata a gran voce, nonostante la continuità che perdura tra i vertici dirigenti, tutti usciti dalla nomenklatura comunista) offre un vantaggio notevolissimo, quello di liberare la società russa dal peso della colpa, da un pentimento che ha tanto pesato negli anni della perestrojka, segnati dalla dolorosa riscoperta dello stalinismo. Se il colpo di Stato bolscevico del 1917 è stato un incidente e nient'altro, il popolo russo in fondo può essere considerato una vittima innocente.

In contrasto con questa interpretazione, la storiografia sovietica ha tentato di dimostrare che l'Ottobre 1917 fu lo sbocco logico, prevedibile, inevitabile, di un cammino di liberazione intrapreso dalle «masse» coscienti di aderire al Bolscevismo. Nelle sue diverse reincarnazioni, questa corrente storiografica ha amalgamato la «battaglia per raccontare» il 1917 alla questione della legittimità del regime sovietico. Se la Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre è stata il compimento del senso della Storia, evento portatore di un messaggio di emancipazione rivolto al mondo intero, allora il sistema politico, le istituzioni, lo Stato che ne erano scaturiti rimanevano legittimi, nonostante e contro tutti gli errori che lo stalinismo avesse potuto commettere. Il crollo del regime sovietico ha avuto come naturale conseguenza la completa delegittimazione della Rivoluzione d'Ottobre e la scomparsa della vulgata marxisteggiante, la quale, per citare una celebre formula bolscevica, è stata rigettata «nelle pattumiere della Storia». Nondimeno, come la memoria della paura, la memoria di questa vulgata rimane viva, in Occidente quanto e forse più che nell'ex URSS.

Una terza corrente storiografica, che respinge tanto la vulgata liberale quanto quella marxisteggiante, ha cercato di «deideologizzare» la storia della Rivoluzione russa, di comprendere, secondo quanto ha scritto Marc Ferro, come «l'insurrezione dell'Ottobre 1917 abbia potuto essere un movimento di massa al quale tuttavia partecipò soltanto un piccolo numero di persone». Molti storici che rifiutano lo schema semplicista della storiografia liberale oggi dominante, fra i numerosi quesiti che sorgono a proposito del 1917 annoverano alcuni problemi cruciali. Quale ruolo hanno avuto la militarizzazione dell'economia e la brutalizzazione dei rapporti sociali seguite all'ingresso dell'impero russo nella prima guerra mondiale? È emersa una violenza sociale specifica, destinata a seminare quella violenza politica che si è poi rivolta contro la società? Una rivoluzione che era popolare e di popolo, profondamente antiautoritaria e antistatale, come ha potuto portare al potere il gruppo politico più dittatoriale e statalista? Quale nesso si può stabilire tra la radicalizzazione, innegabile, avvenuta nella società russa durante il 1917 e il Bolscevismo?

Con il distacco assicurato dal passare del tempo e grazie ai numerosi studi di una storiografia conflittuale, e quindi ricca di stimoli intellettuali, nella rivoluzione dell'ottobre 1917 ci sembrano momentaneamente convergere due movimenti: l'ascesa al potere politico, dovuta a una minuziosa preparazione insurrezionale, di un partito che si distingue da tutti gli altri attori della rivoluzione nel modo più radicale, per la prassi, l'organizzazione e l'ideologia; e una vasta rivoluzione sociale, multiforme e autonoma. Quest'ultima si manifesta con aspetti molto diversi: in primo luogo un immenso ceto ribelle di contadini poveri, un vasto movimento di fondo radicato in una lunga storia, segnata non solo dall'odio nei confronti del proprietario terriero, ma anche dalla profonda diffidenza contadina verso la città, verso il mondo esterno, verso ogni forma di ingerenza dello Stato.

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IN CONCLUSIONE


Con questa sintesi non ho preteso di rivelare cose nuove sull'esercizio della violenza di Stato nell'URSS e sulle forme di repressione applicate dal regime sovietico nel periodo corrispondente alla prima metà della sua esistenza. Gli storici hanno già da tempo studiato queste peculiarità, senza attendere l'apertura egli archivi per ricostruire le sequenze principali degli eventi e la portata del terrore. D'altra parte l'accesso alle fonti permette di tracciare un primo bilancio dal punto di vista della cronologia, dell'aspetto quantitativo, delle forme in cui il fenomeno si è manifestato. Questo schema iniziale costituisce la prima tappa nel tentativo di stilare un inventario delle questioni relative alle pratiche di violenza, al loro verificarsi e al loro significato nei diversi contesti.

[...]

Partendo da questi studi ho tentato di ricostruire lo svolgimento di questi cicli di violenza, che dal 1917 in poi sono al centro della storia sociale dell'URSS, in gran parte ancora da scrivere. Mentre ho ripreso una trama in larga misura esplorata dai «pionieri», che hanno ricreato ex nihilo le tragiche inquadrature di questa storia, ho fatto una cernita delle fonti che a mio parere meglio esemplificavano le varie forme di violenza e di repressione, le pratiche e i gruppi sottoposti a persecuzione, le discontinuità e le contraddizioni: l'estrema violenza delle parole di Lenin verso gli oppositori menscevichi, che sarebbero stati da «fucilare tutti», ma che nei fatti sono stati il più delle volte incarcerati; la ferocia delle squadre di requisizione, che alla fine del 1922 continuavano a terrorizzare le campagne, mentre il governo centrale aveva già decretato da oltre un anno l'instaurazione della NEP; la contraddittoria alternanza di fasi per cui negli anni Trenta si avevano prima spettacolari arresti in massa e poi scarcerazioni inserite in una campagna di «sfollamento delle prigioni». L'intenzione sottostante la molteplicità dei casi considerati era quella di presentare un inventario delle forme di violenza e di repressione in grado di allargare il campo degli interrogativi riguardanti i meccanismi, l'estensione e il senso del terrore di massa.

[...]

Per cogliere le svariate problematiche contenute in questo studio occorre in primo luogo ricordare i diversi cicli di violenza e di repressione.

Il primo, dalla fine del 1917 alla fine del 1922, si apre con la conquista del potere, che secondo Lenin deve necessariamente passare attraverso una guerra civile. Dopo una brevissima fase di strumentalizzazione delle violenze spontanee espresse dalla società, che avevano operato come forze dissolutrici del «vecchio ordine», dalla primavera del 1918 si assiste a un'offensiva deliberata contro il ceto contadino, destinata per molti decenni a servire da modello per le pratiche del terrore (al di là degli scontri militari fra Rossi e Bianchi) e a condizionare l'impopolarità assunta dal potere politico. Ciò che colpisce, nonostante i rischi connessi con la precarietà del potere, è il rifiuto di ogni genere di negoziato, la fuga in avanti di fronte agli ostacoli, ben esemplificata dalle azioni repressive intraprese contro «l'alleato naturale» dei bolscevichi, il ceto operaio, tanto che sotto questo riguardo la rivolta di Kronstadt è soltanto un punto di arrivo. Questo primo ciclo non termina né con la sconfitta dei Bianchi, né con l'introduzione della NEP, ma prosegue nel processo dinamico alimentato da una base educata alla violenza, e si esaurisce soltanto con la carestia del 1922, in cui sono annientate le ultime resistenze dei contadini.

Che significato si può dare al breve intervallo fra due cicli di violenze, gli anni 1923-1927? Numerosi elementi fanno pensare alla progressiva emersione da una cultura di guerra civile. Si assiste a un forte calo negli effettivi della polizia politica, a una tregua con i contadini, al primo delinearsi di una regolamentazione giuridica. Tuttavia, non solo la polizia politica non scompare, ma conserva le sue funzioni di controllo, di sorveglianza e di schedatura. Già il semplice fatto che questo periodo di tregua sia tanto breve basta a far capire come in fondo esso sia significativo solo fino a un certo punto.

Mentre il primo ciclo di repressione appare iscritto in un contesto di scontri diretti e generalizzati, il secondo si apre con un'offensiva scatenata contro i contadini dal gruppo degli staliniani, nell'ambito della lotta politica per la conquista del potere assoluto. Da entrambe le parti la ripresa della violenza estrema è sentita come un nuovo inizio: il potere politico ricorre alle pratiche già sperimentate alcuni anni prima. I meccanismi connessi all'imbarbarimento dei rapporti sociali avvenuto durante il primo ciclo avviano una nuova dinamica del terrore, ma anche di regressione, che perdura nei successivi venticinque anni.

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Il costante ricorso alle pratiche di violenza estrema, adottate come una forma di gestione politica della società, appare manifesto da questa breve sintesi dei primi trentacinque anni di storia dell'Unione Sovietica.

Forse a questo punto occorre riaprire la classica questione della continuità fra il primo ciclo «leninista» e il secondo ciclo «stalinista», dovendo intendersi il primo come prefigurazione del secondo. Il contesto storico delle due situazioni non permette di istituire un confronto. Il «Terrore rosso» dell'autunno del 1918 ha origine in un ambito di scontri generalizzati e il carattere estremo delle azioni repressive intraprese si spiega in parte con l'eccezionale violenza del momento. Invece la ripresa della guerra contro i contadini, che costituisce il fondamento del secondo ciclo di violenze, avviene in un paese pacificato, ponendo la questione di un'offensiva durevole scatenata contro la stragrande maggioranza della società. A parte l'irriducibile differenza di contesto fra i due eventi considerati, l'esercizio del terrore come strumento basilare al servizio del progetto politico leninista viene enunciato ancor prima che si scateni la guerra civile e assunto come programma di azione, anche se considerato, per la verità, transitorio. Da questo punto di vista, la breve tregua della NEP e i complessi dibattiti fra i dirigenti bolscevichi circa le possibili vie verso lo sviluppo continuano a porre la questione di una possibile normalizzazione e del superamento delle forme repressive come unico modo per risolvere le tensioni sociali ed economiche. In realtà, in questi brevi anni il mondo rurale vive appartato e il rapporto fra il potere e la società è caratterizzato in larga misura dalla reciproca ignoranza.

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Pagina 252

Tornando alla questione del gulag, l'interesse e gli obiettivi di quel che ha costituito il sistema sono molto più complessi e difficili da distinguere a mano a mano che la ricerca progredisce. Nella visione di un ordine stalinista di cui il gulag sarebbe il lato oscuro ma compiuto, i documenti oggi disponibili suggeriscono piuttosto le numerose contraddizioni che percorrono l'universo concentrazionario: gli incessanti arrivi di gruppi soggetti a repressione sembrano spesso contribuire a disorganizzare il sistema produttivo anziché a migliorarne l'efficacia; nonostante una classificazione molto elaborata dello status delle persone oggetto di repressione, i confini tra i rispettivi mondi sembrano labili, anzi inesistenti. Infine, resta tutta da chiarire la questione della reale convenienza economica di tale sistema di sfruttamento.

Nel riconoscere queste contraddizioni, improvvisazioni, automatismi, si sono formulate svariate ipotesi rispetto alle ragioni che hanno indotto il vertice del Partito a riattivare periodicamente le dinamiche di repressione di massa, e alle logiche indotte dal circuito stesso della violenza e del terrore.

Nel tentativo di individuare i moventi che hanno scatenato il grande ciclo repressivo staliniano, gli storici hanno sottolineato un elemento di improvvisazione e di fuga in avanti nella gestione della «grande svolta» della modernizzazione. Questa dinamica di rottura si trasforma improvvisamente in un'offensiva di tale estensione che il potere può illudersi di controllarla soltanto radicalizzando sempre più le pratiche del terrore. Da quel momento in poi ci troviamo presi da un ingranaggio di estrema violenza che con i suoi meccanismi ed effetti a catena, e le sue dimensioni incalcolabili, sfugge in larga parte ai contemporanei e tuttora resta oscuro agli storici. Lo stesso processo di repressione, unica risposta ai conflitti e agli ostacoli incontratì, genera a sua volta movimenti incontrollati che alimentano la spirale di violenza.

Il fenomeno centrale del terrore nella storia politica e sociale dell'Unione Sovietica pone oggi questioni sempre pìù complesse. Le ricerche attuali smontano almeno in parte le tesi che hanno a lungo prevalso nell'ambito della sovietologia. Pur senza avere la presunzione di voler dare una spiegazione globale e definitiva dì questo fenomeno così difficile da comprendere per la sua immensa portata, esse si orientano piuttosto verso l'analisi dei meccanismi e delle dinamiche della vìolenza.

In questa prospettìva permangono numerose zone d'ombra. La più importante riguarda i comportamenti sociali che entrano in gioco nell'esercizio della violenza. Sul punto meno indagato nel lavoro di ricostruzione (chi erano gli esecutori?) bisognerà interrogare continuamente la società nel suo insieme, vittima ma anche parte attiva di ciò che è avvenuto.

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EUROPA CENTRALE E SUDORIENTALE
di Karel Bartosek


Terrore «d'importazione»?

Nell'area centroeuropea il Terrore dev'essere pensato in relazione con la guerra, che ne fu l'espressione più significativa nella prima metà del XX secolo. Il secondo conflitto mondiale, che del resto è iniziato proprio su questo territorio, è andato largamente al di là della concezione del generale Ludendorff della «guerra totale». La «democratizzazione della morte» (Miguel Abensour) ha coinvolto decine di milioni di persone, lo sterminio si è confuso con l'idea di guerra. La barbarie nazista ha colpito la popolazione civile, in particolare con il genocidio degli ebrei. Le cifre sono eloquenti: in Polonia, le perdite militari ammontano a 320.000 persone e quelle civili a 5 milioni e 500.000; in Ungheria tali perdite sono rispettivamente di 140.000 e 300.000 persone; in Cecoslovacchia le perdite civili costituiscono l'80-90 per cento di quelle totali...

Ma il Grande terrore della guerra non è finito il giorno della disfatta tedesca. Le popolazioni, in un primo tempo, hanno vissuto varie epurazioni nazionali, che in questa regione hanno assunto un carattere specifico con l'arrivo dell'Armata rossa, il «pugno armato» del regime comunista. Commissari politici e servizi speciali di quest'esercito - lo Smers e l'NKVD - si sono impegnati a fondo nell'epurazione. In particolare negli Stati che avevano inviato truppe sul fronte contro l'Unione Sovietica - Ungheria, Romania, Slovacchia -, centinaia di migliaia di persone furono deportate, questa volta verso il gulag sovietico (il loro numero esatto dev'essere ancora stabilito con precisione).

Secondo i nuovi studi ungheresi e russi, apparsi in seguito all'apertura degli archivi e piuttosto prudenti per quanto riguarda le cifre esatte, sarebbero state deportate centinaia di migliaia di persone, soldati e civili, fra cui ragazzini di 13 anni e anziani di 80. Circa 40.000 di loro provenivano dall'Ucraina subcarpatica, appartenente alla Cecoslovacchia, occupata dall'Ungheria dopo gli accordi di Monaco nel 1938 e annessa di fatto all'Unione Sovietica nel 1944. In Ungheria, che all'epoca contava circa 9 milioni di abitanti, sarebbero state deportate più di 600.000 persone, mentre le statistiche sovietiche ne menzionano soltanto 526.604. La cifra è stata stabilita dopo l'arrivo ai campi e non tiene, quindi, conto dei decessi avvenuti nei campi di passaggio in Romania (Brasso-Brasov, Temesvar-Timisoara, Maramossziget-Maramures), in Moldavia (Foscani), in Bessarabia (Balty) e in Calizia (Sambor), per i quali è transitato il 75 per cento dei deportati. Fra costoro si trovavano anche diversi ebrei, arruolati nei battaglioni di lavoro dell'esercito ungherese. Due terzi dei prigionieri, sono stati rinchiusi nei campi di lavoro, un terzo (civili) nei campi di concentramento, in cui la mortalità, soprattutto per epidemie, è stata due volte superiore. Secondo le stime attuali, circa 200.000 di questi deportati d'Ungheria - che comprendevano anche persone appartenenti alla minoranza tedesca, russi arrivati dopo il 1920, francesi e polacchi stabilitisi in territorio ungherese - non sarebbero mai più tornati.

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Il popolino e il sistema dei campi di concentramento

La storia delle dittature è complessa e quella delle dittature comuniste non fa eccezione alla regola. La loro nascita nell'Europa centrale e sudorientale è stata caratterizzata da un sostegno popolare talvolta di massa, fenomeno legato alle speranze suscitate dall'eliminazione della dittatura nazista nonché all'arte, indubbia nei dirigenti comunisti, di coltivare l'illusione o il fanatismo, dei quali - come sempre e ovunque - sono stati preda innanzitutto i giovani. Per esempio, il blocco della sinistra creato in Ungheria su iniziativa dei comunisti in minoranza alle elezioni fu capace di organizzare a Budapest, nel marzo 1946, un'enorme manifestazione con circa 400.000 partecipanti.

Il nascente regime ha dapprima garantito la promozione sociale di centinaia di migliaia di persone delle classi meno agiate. In Cecoslovacchia, paese industrializzato in cui la categoria operaia rappresenta circa il 60 per cento della popolazione nei paesi cechi e il 50 per cento in Slovacchia, 200.000-250.000 operai presero i posti delle persone colpite dalle purghe o andarono a rinforzare gli apparati; la stragrande maggioranza di loro apparteneva al Partito comunista cecoslovacco. Subito dopo la guerra milioni di piccoli contadini o di operai agricoli nei paesi dell'Europa centrale e sudorientale hanno beneficiato delle riforme agrarie e della divisione delle grandi proprietà fondiarie (comprese quelle della Chiesa cattolica), mentre i piccoli commercianti e gli artigiani hanno tratto vantaggio dalla confisca dei beni dei tedeschi espulsi.

Ma la felicità degli uni fondata sull'infelicità degli altri si rivelò spesso effimera. La dottrina bolscevica esigeva, infatti, che la proprietà privata fosse eliminata e che i proprietari ne fossero separati per sempre. Nel contesto della guerra fredda tale dottrina si ispirò, inoltre, alla teoria che raccomandava l'«intensificazione della lotta di classe» e la «lotta offensiva delle classi». Fin dal 1945 i nuovi regimi procedettero alla nazionalizzazione (statalizzazione) delle grandi imprese, un'operazione spesso legittimata dalla necessaria espropriazione dei beni dei «tedeschi, traditori e collaborazionisti». Una volta assicurato il monopolio del potere, fu il turno dei piccoli proprietari, dei commercianti e degli artigiani. I proprietari di piccoli laboratori o di modeste botteglie che non avevano mai sfruttato nessuno, se non se stessi o i propri familiari, avevano le loro buone ragioni per non essere contenti. E così pure i piccoli contadini, esposti dal 1949-1950 alla collettivizzazione forzata delle loro terre su pressione dei dirigenti sovietici. E così pure gli operai, soprattutto nei Centri industriali, colpiti dai vari provvedimenti che ne abbassarono il tenore di vita o ne cancellarono le conquiste sociali del passato.

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Lo stesso vale per gli altri paesi, benché talvolta le prime vittime della repressione siano stati i contadini. L'afflusso del popolino nel mondo carcerario era probabilmente legato all'instaurazione del sistema dei campi di concentramento, il fenomeno forse più caratteristico della barbarie dei regimi comunisti. Le prigioni non bastavano più a contenere la massa di detenuti e il potere, anche in questo campo, riprese l'esperienza dell'Unione Sovietica, creando l'arcipelago dei campi.

Bolscevismo e nazismo hanno incontestabilmente arricchito la storia della repressione nel XX secolo con la costruzione, in tempo di pace, del sistema dei campi. Fino all'apparizione del gulag (cui spetta la priorità) e del lager, nella storia i campi erano «uno dei mezzi della repressione e della segregazione in tempo di guerra», come ha fatto presente Annette Wieviórka nella sua introduzione al dossier sui campi della rivista «Vingtième Siècle», nel 1997. Durante la seconda guerra mondiale, nell'Europa continentale si è instaurato il sistema dei campi di concentramento; e il campo, il lager o il gulag figuravano sulla cartina dell'Europa dagli Urali ai Pirenei. Ma la sua storia non si è conclusa con la disfatta della Germania e dei suoi alleati.

Sono stati i regimi fascisti o autoritari, alleati della Germania, a introdurre il campo nei loro rispettivi paesi. In Bulgaria il governo conservatore aveva allestito un campo di prigionia sull'isolotto di Sant'Anastasia, nel Mar Nero, al largo di Burgas, poi i campi di Conda Voda e di Belo Pole, dove furono internati gli oppositori politici. In Slovacchia i populisti al potere, fra il 1941 e il 1944, istituirono quindici penitenziari di lavoro vicino ai cantieri in cui scarseggiava la manodopera, dove mandarono elementi asociali, generalmente zingari Rom. In Romania la dittatura del maresciallo Antonescu creò diversi campi per i detenuti politici, come quello di Tirgu-Jiu e altri ancora, che servivano alla repressione razziale, nella regione fra il Dnestr e il Bug.

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Pagina 679

PERCHÉ?
di Stéphane Courtois


          Gli occhi azzurri della Rivoluzione
          brillano di crudeltà necessaria.
          LOUIS ARAGON, Le Front rouge
Al di là del fanatismo, delle passioni di parte e delle amnesie volontarie, questo libro ha cercato di tracciare un quadro d'insieme dei crimini commessi nel mondo comunista, dall'omicidio individuale alle stragi di massa. All'interno di una riflessione generale sul fenomeno comunista nel XX secolo, non si tratta che di una tappa in un momento cruciale: il crollo nel 1991 a Mosca del cuore del sistema e l'accesso a una ricca documentazione finora tenuta rigorosamente nascosta. Tuttavia, l'aver stabilito, com'era indispensabile, i dati di fatto più documentati e meglio fondati non può soddisfare la nostra curiosità intellettuale né la nostra coscienza. Rimane aperto il problema fondamentale: «perché?». Perché il comunismo moderno, apparso nel 1917, si è quasi immediatamente elevato a dittatura sanguinaria e poi a regime criminale? I suoi obiettivi potevano essere raggiunti solo con l'esercizio dell'estrema violenza? Come spiegare che il crimine sia stato concepito e praticato dal potere comunista come un provvedimento normale, ordinario, quasi banale, e che ciò sia durato decenni?

La Russia sovietica è stato il primo paese a regime comunista. Essa ha costituito il fulcro e il motore di un sistema comunista mondiale che, dopo essersi costruito a poco a poco, dopo il 1945 ha conosciuto un'estensione formidabile. L'URSS leninista e stalinista è stata la matrice del comunismo moderno. Il fatto che, da subito, tale matrice abbia acquisito una dimensione criminale è tanto più sorprendente in quanto di segno opposto rispetto all'evoluzione del movimento socialista.

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Pagina 686

Alla svolta del XX secolo l'economia russa era entrata in una fase di robusta crescita e la società sviluppava di giorno in giorno la propria autonomia. D'un tratto le costrizioni eccezionali della guerra, tanto sugli uomini quanto sulla produzione e le strutture, misero a nudo i limiti di un regime politico il cui capo mancava dell'energia e della chiaroveggenza necessarie a sistemare le cose. La rivoluzione del febbraio 1917 fu la risposta a una situazione catastrofica e si orientò verso una forma «classica»: una rivoluzione «borghese» e democratica con elezione di un'assemblea costituente, seguita da una rivoluzione sociale, operaia e contadina. Con il colpo di Stato bolscevico del 7 novembre 1917 tutto venne rimesso in causa e la rivoluzione entrò in un'era di violenza generalizzata. Resta aperta una questione: perché in Europa solo la Russia subi un simile cataclisma?

Se la guerra mondiale e la tradizionale violenza russa permettono di capire meglio il contesto in cui i bolscevichi giunsero al potere, esse non spiegano però l'atteggiamento estremamente brutale da loro assunto fin dall'inizio e in singolare contrasto con la rivoluzione inaugurata nel febbraio 1917, il cui esordio aveva avuto un carattere largamente pacifico e democratico. L'uomo che impose questa violenza, così come impose al suo partito la presa del potere, fu Lenin.

Lenin instaurò una dittatura che si rivelò ben presto terrorista e sanguinaria. La violenza rivoluzionaria non apparve più allora come una violenza reattiva, una difesa nei confronti delle forze zariste scomparse da mesi, ma come una violenza attiva, che risvegliò la vecchia cultura russa della brutalità e della crudeltà, e attizzò la violenza latente della rivoluzione sociale. Sebbene il Terrore rosso sia stato inaugurato «ufficialmente» il 2 settembre 1918, è esistito un «terrore prima del terrore». Fin dal novembre 1917, infatti, Lenin ha deliberatamente organizzato il terrore, ancorché in assenza di ogni aperta opposizione degli altri partiti e delle diverse componenti della società. Il 4 gennaio 1918 Lenin diede ordine di disperdere la Costituente eletta a suffragio universale - per la prima volta nella storia russa - e di sparare sui partigiani di quest'ultima che protestavano nelle strade.

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Pagina 701

Ora, nel comunismo esiste un'eugenetica sociopolitica, un darwinismo sociale. Come scrive Dominique Colas: «Arrogandosi la facoltà di conoscere l'evoluzione delle specie sociali, Lenin decide quali sono quelle che devono scomparire perché condannate dalla storia». A partire dal momento in cui si decreta, grazie alla scienza ideologica e storico-politica del marxismo-leninismo, che la borghesia rappresenta una tappa superata dell'evoluzione dell'umanità, se ne giustifica l'eliminazione in quanto classe e, di li a poco, l'eliminazione degli individui che la compongono o che si suppone vi appartengano.

Riferendosi al nazismo, Marcel Colin parla di «classificazioni, segregazioni, esclusioni, criteri puramente biologici che veicolano l'ideologia criminale. Pensiamo ai presupposti scientistici (eredità, ibridazione, purezza della razza) e anche all'apporto fantasmatico, millenaristico o planetario, molto marcati storicamente e insuperabili». Questi presupposti scientistici applicati alla storia e alla società - il proletariato come detentore del senso della Storia ecc. - rientrano effettivamente nel campo di una fantasmagoria millenaristica e planetaria e sono onnipresenti nell'esperienza comunista. Sono loro che stabiliscono un'ideologia criminogena determinando, secondo criteri puramente ideologici, una segregazione arbitraria (borghesia/proletariato) e alcune classificazioni (piccoloborghesi, altoborghesi, contadini ricchi, contadini medi, contadini poveri ecc.). Fissando questa segregazione e queste classificazioni - come se fossero definitivamente stabilite e come se gli individui non potessero passare da una categoria all'altra - il marxismo-leninismo instaura il primato della categoria e dell'astrazione sul reale e sull'umano; ogni individuo o gruppo è visto come archetipo di una sociologia schematica e incorporea. Ciò rende il crimine più facile: il delatore, l'inquirente, il carnefice dell'NKVD non denuncia, non persegue, non uccide un uomo, ma elimina un'astrazione dannosa al genere umano.

La dottrina è diventata un'ideologia criminogena per il semplice fatto di negare un dato fondamentale, l'unità di ciò che Robert Antelme chiama «la specie umana» o ciò che il preambolo della Dichiarazione dei diritti umani del 1948 denomina «la famiglia umana». Forse le radici del marxismo-leninismo affondano meno in Marx che in un darwinismo degenerato applicato alla questione sociale e che finisce per ripetere gli stessi errori della questione razziale? Una cosa è certa. Il crimine contro l'umanità è il prodotto di un'ideologia che riduce l'uomo e l'umanità a una condizione non universale ma particolare: biologico-razziale o storico-sociale. Anche qui, grazie alla propaganda, i comunisti sono riusciti a far credere che il loro progetto avesse un carattere universale, che riguardasse tutta l'umanità. Spesso si è anche cercato di istituire una distinzione radicale tra nazismo e comunismo basandosi sul fatto che il progetto nazista era particolare - strettamente nazionalista e razzista -, mentre il progetto leninista sarebbe stato universalista. Nulla di più falso. Nella teoria e nella pratica Lenin e i suoi successori hanno chiaramente escluso dall'umanità il capitalista, il borghese, il controrivoluzionario ecc. Riprendendo le parole tipiche del discorso sociologico o politico ne hanno fatto dei nemici assoluti. E, come diceva Kautsky nel 1918, si tratta di parole «elastiche» che autorizzano a escludere dalla specie umana chi si vuole, quando lo si vuole e come lo si vuole, e che conducono direttamente al crimine contro l'umanità.

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