Copertina
Autore Christine Coustau
CoautoreOlivier Hertel
Titolo La maledizione dell'onisco
Sottotitoloe altre storie di parassiti
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2010, , pag. X+164, cop.fle., dim. 14,8x23x1,5 cm , Isbn 978-88-02-08191-5
OriginaleLa Malédiction du cloporte et autres histoires de parasites [2008]
PrefazioneClaude Combes
TraduttorePaolo Bragagni
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe natura , evoluzione , biologia , zoologia
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Indice


VII Prefazione
    di Claude Combes

 XI Ringraziamenti

  3  Introduzione. Parassiti & Co

  9  1. Sotto il regno dell'invasore

        — La famiglia ospitante, 12
        — Lo slancio: un'alzata da campione, 15
        — La tattica mafiosa, 18

 23  2. Manipolare il nemico

        — Zanzare plagiate, 23
        — Sesso, menzogne e gigolo, 27
        — Il suicidio della formica, 28
        — Il Mycrophallus, grande manipolatore, 29
        — La danza dei tentacoli, 33
        — La pesca alla cozza, 34
        — Lo schiavo della seta, 35

 37  3. Le armi chimiche

        — I Botox party: il botulino ospite d'onore, 37
        — I guerriglieri del tetano, 41
        — Antrace, il chimico, 44
        — La puntura delle salmonelle, 46
        — La tattica della zecca, 50
        — La guerra biochimica contro gli insetti, 52
        — Funghi allucinogeni, 453

 55  4. Le armi biologiche

        — Il verme bellicoso, 55
        — Chi tra la vespa o il virus...?, 58

 63  5. Le armi di distruzione di massa

        — La peste nera, 63
        — Il terrore venuto dall'India, 69
        — Il duo assassino, 72
        — La minaccia terrorista, 75

 77  6. La corsa agli armamenti

        — Alice nel paese dei parassiti, 77
        — L'astuzia delle passiflore, 80
        — La guerra dei conigli, 82
        — Tra parassiti e parassitati, 84
        — La replica dei microbi, 86
        — Giocare d'anticipo, 90
        — L'esercito dei tredici cloni, 92
        — L'arma biotecnologica, 96

101  7. La guerra dei sessi

        — Sesso a piacimento, 101
        — La metamorfosi dell'onisco, 104
        — Per un mondo senza maschi, 107
        — Amori impossibili, 109
        — Gli incubi di Freud, 110
        — La vita sessuale delle cozze, 113

117  8. Guerra e pace

        — Le radici del bene, 117
        — Mille miliardi di microbi... oltre a me, 121
        — Caccia, natura e tradizioni, 125
        — La vespa «farmacista», 127
        — Al chiarore delle seppie, 128
        — Ventimila leghe sotto i mari, 130
        — L'amore di un fiore e di una farfalla, 133
        — Ménage a cinque, 134
        — Moscerini & Co, 136

139  9. L'unione sacra

        — La dittatura dei virus, 140
        — I batteri: combattenti nelle fila della resistenza, 144
        — Distribuzione di geni, 149
        — Nel regno delle chimere!, 152
        — Piante verdi represse, 155
        — La «macedonia biologica», 159

161     Conclusioni. Parasite paradise: l'ultima frontiera dei parassiti!


 

 

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Pagina XII

Prefazione


La biosfera è una strana cucina, nella quale quel che sembra semplice in realtà non lo è. Le informazioni culturali, come noto a tutti, circolano costantemente tra gli esseri umani grazie a tutte le forme, parlate o scritte, del linguaggio, che scatenano un vorticoso turbinio di interazioni.

Ma, a volte, siamo spinti a credere che niente di simile accada in relazione alle nostre informazioni genetiche, visto che ognuno di noi è stato dotato prima della nascita di un pacchetto di geni ritenuti intoccabili, almeno allo stato attuale delle conoscenze.

Eppure, non appena cambiamo scala, ci rendiamo conto che nulla ci autorizza a reputare che la costanza del fenomeno genetico debba permanere all'infinito. Anzi essa non è che un'illusione, perché le informazioni genetiche, al pari delle informazioni culturali, sono in continuo movimento e interagiscono fra loro. Semplicemente, il ritmo con cui si muovono e interagiscono è meno rapido e meno visibile.

Nel mondo dei «grandi», intendendo gli uomini, gli elefanti, ma anche i topi e i muschi del bosco, l'incontro è possibile soltanto nella sfera della sessualità. Come afferma Franηois Jacob, solo quando due elementi si incontrano nasce un terzo. Il frutto di quest'unione è un essere ben distinto rispetto ai suoi due genitori. A dire il vero, non è nemmeno mai del tutto se stesso, giacché possono intervenire dei mutamenti e l'espressione dei suoi geni si modifica nel corso della vita: ora le molecole imbavagliano i geni, ora le fluttuazioni dell'ambiente sollecitano l'espressione di questa o quella cascata di geni. Per questa ragione, nell'universo dei «grandi» non tutto è possibile: i cani non scambiano informazioni genetiche con i gatti, come pure gli elefanti con i topi, e, per quanto ne sappiamo, noi esseri umani non recuperiamo geni dall'insalata o dal pollo che mangiamo (come potremmo del resto, dal momento che assorbiamo il DNA che contengono, e dunque mangiare equivale a mettere fine brutalmente a un genoma).

Tuttavia...

Tuttavia, quando si mettono in scena i «piccoli» e le relazioni tra loro o con i «grandi», tutto cambia, perché le interazioni veleggiano verso lidi molto, molto più lontani. I «piccoli», sono in particolare i batteri e i virus, sempre pronti a scambiare frammenti di DNA per migliorare, fosse anche a breve termine, il loro valore alla «Borsa dei viventi», sempre pronti nell'aiutare i grandi a gustare le delizie del geneticamente modificato. Ecco allora questi strani DNA che costellano i nostri genomi, talvolta brutte copie, più o meno cancellati e in qualche caso schiavi riciclati per mansioni oscure, talaltra parassiti o saltuari partner, e talaltra ancora mortali e a volte occasionali salvatori.

In quest'opera Olivier Hertel e Christine Coustau ci offrono il meglio di quel che i biologi hanno scoperto nel corso degli ultimi anni sulla circolazione dell'informazione genetica, quando quest'ultima salta da un essere vivente all'altro o quando il DNA di supporto di questa informazione finisce anch'esso per trasferirsi. Gli autori ci introducono al mondo affascinante delle interazioni durevoli tra genomi, o più esplicitamente nella biosociologia della biodiversità.


Non appena si sono prodotte le speciazioni nel sottile manto di materia vivente che ricopriva il nostro pianeta tre miliardi ottocento milioni di anni or sono, delle specie sorelle hanno coesistito, presto raggiunte da specie di prime cugine e alla fine da specie cugine sempre più lontane e diverse le une dalle altre. Quel che più sorprende in questa biodiversità è che tutti si ignorano e tutti si conoscono. Tutti si ignorano perché, pur derivando da un antenato comune, le barriere riproduttive isolano le specie. Tutti si conoscono perché nulla impedisce i dialoghi molecolari in funzione degli incontri. Non si fa più l'amore insieme, ma se ne può discutere. Le vie di segnalazione non sono state privatizzate nel corso della dinamica evolutiva, di modo che il minuscolo toxoplasma può impartire ordini all'enorme mammifero, uomo compreso.

Tessere simili dialoghi non significa ispirarsi a una linea di condotta altruista. Al contrario, ognuno pensa a «coltivare il proprio orticello»:

– sono un virus e ho bisogno di te, cellula;

– sono una cellula e potresti aiutarmi, batterio;

– sono una fasciola epatica e non posso sopravvivere a meno di non asservirti, formica.


Meravigliosa unità della vita, che aveva intuito Geoffroy Saint-Hilaire. Stupefacente continuità del codice genetico in virtù del quale il batterio può trasformare un onisco maschio in un onisco femmina, perché l'informazione portata dai suoi geni può infiltrarsi nel piccolo crostaceo malgrado il loro antenato comune sia vissuto due miliardi di anni prima.

Meravigliosa inventiva della vita, che può rispondere alla stessa pressione delle condizioni ambientali attraverso una molteplicità di soluzioni e che può anche concedersi il lusso di costruire delle «cose» che non rispondono a niente. Favolosa diversità delle strategie d'infestazione dei patogeni e dei meccanismi di resistenza degli ospiti, ma che non svelerà mai perché la tossina del botulismo esiste e non serve, apparentemente, a nulla.


Leggendo le interazioni che ci presentano Christine Coustau e Olivier Hertel in stuzzicanti messinscene adattative, accarezziamo il sogno di vedere Lamarck e Darwin tra i lettori delle loro pagine.

Primo sogno. Scoprendo il comportamento di un verme trematode dalla forma fallica (Microphallus papillorobustus) che va ad annidarsi nel cervello dei gammari e modifica il loro comportamento «affinché» si facciano «pappare» dai gabbiani, Lamarck coglie l'intuizione della variazione. Ma sì, dice, se alcuni di questi parassiti non si insinuano nella testa del gammaro, moriranno verosimilmente senza progenie, mentre quelli che prendono dimora nel suo cervello hanno le maggiori possibilità di ritrovarsi nel tubo digerente dell'uccello, dove genereranno discendenti a loro immagine e somiglianza. Lamarck intuisce d'un tratto che il gabbiano, ingerendo i gammari impazziti, opera una selezione tra gli individui parassiti. Lo scienziato francese mette allora subito mano alla penna e lascia cadere sul foglio di carta un titolo sconvolgente: «Sull'origine della specie attraverso la selezione naturale».

Secondo sogno. Scoprendo il bacillo tubercolotico che impara a resistere ai più potenti antibiotici, esterrefatto di fronte all'agente della malaria che segnala alla zanzara dove si trova il bambino portatore sano e quindi infettante, confuso dal verme parassita Prosorhynchus che volge a suo profitto le riserve della cozza della quale ha indebitamente preso possesso, Darwin è come illuminato dall'intuizione che la vita dei parassiti illustri idealmente il meccanismo della selezione naturale. Ma sì, esclama, ecco i mille adattamenti eclatanti per ognuno dei quali posso avanzare una selezione evolutiva, quando invece finora mi sono limitato a dedicare due brevi paragrafetti al parassitismo! Allora Darwin impugna subito la penna, apre il manoscritto che ha intitolato «Sull'origine delle specie attraverso la selezione naturale» e lo riscrive soffermando l'attenzione per circa la metà del suo grande libro sugli organismi parassiti. Ma ristabiliamo la realtà: il grande libro di Lamarck, pubblicato nel 1809, si intitola Filosofia zoologica, ove egli sviluppa il concetto del trasformismo, secondo cui le specie mutano nel corso del tempo. Il grande libro di Darwin, dato alle stampe nel 1859, porta il titolo Sull'origine delle specie per mezzo della selezione naturale, in cui il celebre naturalista inglese espone il meccanismo della discendenza con modificazioni associato alla selezione naturale.

Olivier Hertel e Christine Coustau hanno catturato quanto di insolito emerge da un intero spicchio del «mondo vivente che vive nel mondo vivente» e che reca con sé tanto il bene quanto il male.

Quando richiudiamo il libro, rimaniamo senza fiato ed estasiati e pensiamo tra noi «è stato troppo corto».

Claude Combes

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Pagina 3

Introduzione

Parassiti & Co


Aprite gli occhi! Il mondo vivente non si riassume in una semplice vetrina di meraviglie quali i gorilla del Congo, le balene gobbe della foce del San Lorenzo, i panda giganti del Sichuan, le farfalle monarche del Messico, le tartarughe delle Galapagos, i baobab del Senegal o le foreste dell'Amazzonia per citarne alcune. Ne esiste un altro, altrettanto straordinario, quello della tenia dei nostri intestini, del virus dell'influenza aviaria, del bacillo della peste, della fasciola epatica o dell'ameba.

Benvenuti nel mondo dei parassiti, degli esseri in gran parte discreti, invisibili, microscopici, che vivono all'interno o all'esterno del corpo dei loro ospiti, alle loro spalle e spesso fino alla loro morte.

Tra questi due mondi, parassita e parassitato, si gioca una guerra infinita, di tutti gli istanti, su tutti i fronti: nel cervello di un insetto, nel sangue di un cane, nel fegato di un uomo, sulle branchie di un pesce, nelle antenne di una lumaca, nello stomaco di una pulce, nelle gonadi di un granchio, nel fusto di granturco. Perfino in spiaggia, tranquillamente adagiati sulla sabbia, convinti di crogiolarci al sole, lottiamo ferocemente contro una micosi! Il celebre biologo americano Peter W. Price puntualizza: «il parassitismo riguarda tutti gli esseri viventi, tanto gli ospiti come i parassiti». O per essere più precisi: nessun essere vivente sembra sfuggire alla morsa dei parassiti.

Questi agenti dell'ombra sono innumerevoli e diversificati. Tra loro si annoverano certamente i parassiti in senso stretto, interni, chiamati anche «endoparassiti» e che trascorrono la loro esistenza in seno a uno o più ospiti. Lo Schistosoma, agente della bilariosi, e il plasmodio, responsabile della malaria, sono due esempi emblematici. Altri sono detti «ectoparassiti», vivono sulla superficie esterna dei loro ospiti, come i crostacei del genere Anilocra, che restano tenacemente attaccati ai pesci marini, ovviamente zecche, pulci e pidocchi. Tutti conosciamo il batterio Staphylococcus aureus, il famigerato stafilococco dorato, o ancora l'HIV, il virus dell'AIDS. Si tratta chiaramente di parassiti che tutti tendono a chiamare comunemente «microbi», sebbene occorra specificare che non tutti i microbi sono dei parassiti. Per esempio, i parassitoidi, meno conosciuti dei primi, mettono a rischio l'idea ormai invalsa del parassitismo, perché essi sono in sostanza degli insetti che trascorrono solo una parte della loro esistenza in un ospite prima di ucciderlo. Infine, restano gli inclassificabili, tra i quali numerosi funghi, né piante, né animali, costretti a vivere a spese di organismi viventi. Il cuculo è anch'esso un inclassificabile poiché è un uccello, ben visibile, che vive all'aria aperta, ma non si scompone affatto al momento di affidare le sue uova alle cure di altre specie di uccelli perché ne allevino poi i piccoli. Gli specialisti sono soliti indicare il fenomeno con l'espressione parassitismo di cova. I batteri del genere Clostridium, batteri responsabili del tetano e del botulismo, sono altri due esempi di parassiti atipici in quanto si sviluppano liberamente nell'ambiente esterno come pure in un ospite, soprattutto nell'uomo.

Definire il parassitismo è dunque un compito assai delicato. Nessun criterio sembra del tutto soddisfacente, benché tutti noi, intuitivamente, comprendiamo ciò di cui si tratta. I parassiti vivono spesso, ma non sempre, all'interno o sopra il loro ospite: traggono vantaggio a scapito di una o più specie in successione, e agiscono in via temporanea o facoltativa. Esercitano un effetto nefasto sull'ospite quando, per esempio, dirottano e incanalano tutta la sua energia verso il loro sviluppo o la loro riproduzione. Talvolta, quest'effetto nocivo è «accidentale», non è che un effetto secondario, e in certi casi è perfino irrilevante. In alcune situazioni arriviamo anche a domandarci se è proprio il parassita che sfrutta l'ospite oppure è l'ospite che sfrutta il parassita. Entrambi non troverebbero un beneficio associandosi? In tal caso si parla allora di mutualismo, quando cioè i due partner stringono un rapporto di scambio reciproco per la loro esistenza. Ma tra parassitismo e mutualismo il confine è molto vago poiché tutti gli stadi intermedi sono ipoptizzabili. Claude Combes, parassitologo francese, lo fa notare molto giustamente nel suo libro L'art d'étre parasite (L'arte di essere parassita): «come è possibile intuire, la fantastica diversità del mondo vivente fa sì che, non appena si associano specie diverse (e non più individui della stessa specie), la distinzione tra parassitismo e mutualismo può diventare un rompicapo».

Ma al di là delle discussioni terminologiche, abbiamo preferito esplorare la complessità del mondo dei parassiti in senso lato. La questione non è tanto sapere chi essi sono e come si definiscono o a quale classe appartengono, ma come riescono ad avvantaggiarsi alla lunga di altri esseri viventi. Quali sono le loro armi? Quali sono le loro strategie? Come giungono a conquistare il territorio nemico? Attraverso quali giochi comportamentali arrivano, per compiere il loro ciclo, a propiziare incontri improbabili come quelli di una lumaca e di un uccello, o di una formica e di una pecora? Quali sono quelle tossine o particelle virali che essi stessi producono per indebolire o uccidere il nemico? Come possono, assecondando «le esigenze» del loro ciclo di vita, contaminare all'improvviso milioni di persone in pochi mesi?

Vedremo che i parassiti sono dei veri strateghi militari che non hanno nulla da invidiare al generale cinese Sun Tzu, l'autore de L'Arte della Guerra. Ma guai ad abbassare la guardia perché il mondo dei parassitati non si arrende senza battersi: un ospite non è un sassolino, un semplice substrato inerte e passivo, ma risponde colpo su colpo fino allo stremo, si difende e resiste. Anch'esso ha affinato le sue armi, le sue strategie, e le perfeziona di continuo. La guerra si trasforma allora in una vera corsa agli armamenti, perché i parassiti non si lasceranno surclassare o distanziare dai loro ospiti. Anch'essi devono sopravvivere. E sono pronti a tutto, compreso castrare o femminizzare le popolazioni ospiti laddove tali operazioni si rendano opportune!

Ma non possiamo parlare di guerra, senza parlare di pace, di alleanze, di cooperazioni, di accordi complessi: due organismi possono associarsi in maniera quasi inscindibile per dichiarare guerra a un terzo fino a quando altre coalizioni non scendano in campo e rovescino la situazione. A meno che non sia una prima specie che ne utilizza una seconda alle sue dipendenze per lottare contro una terza... Tutto è possibile. Interazioni di questo genere sono così strette che uno degli associati è totalmente e irrimediabilmente integrato a un altro organismo. Peggio ancora, potrebbe non esistere più come essere vivente una volta che da soli i suoi geni si saranno integrati nel genoma di un altro. Il che induce a interrogarsi seriamente sulla nozione di identità.

Questo libro è un susseguirsi di storie insolite e impressionanti, pescate nel multiforme panorama dell'universo vivente. Spaziando dalle lotte alle scaramucce, dai patti di non aggressione alle convivenze coatte fino agli accordi di non proliferazione o allo schiavismo, sveleremo alcuni segreti di questo mondo clandestino dei parassiti, sulle loro armi più temibili e più inaspettate.

Abbiamo scelto l'immagine della guerra perché sono veri scontri quelli che descriviamo. Ma questo tema è anche una comoda metafora per spiegare semplicemente questo scenario dove si affacciano ostilità, furberie, inganni o alleanze tra due mondi forzati a vivere insieme. Abbiamo dunque fatto alcune concessioni semantiche alla volgarizzazione a svantaggio del massimo rigore scientifico di un linguaggio omologato e precostituito. In concreto, il giornalista ha spesso battagliato con la ricercatrice perché accettasse le astuzie destinate ad agevolare la scorrevolezza del racconto. Quando diciamo, per esempio, che la femmina sacculina «pratica una tirannia sessuale», commettiamo in coscienza un delitto di antropocentrismo aggravato da finalismo. Le sacculine, piccoli crostacei marini parassiti castratori del granchio verde, sarebbero dunque mosse da intenzioni? Ovvio che no. Si tratta di un linguaggio comodo di cui talvolta abusiamo per chiarire apertamente le cose. La realtà è tutt'altra: è il risultato di una lunga evoluzione nel tempo in cui i processi più diversi sono stati a volte selezionati per il semplice fatto che hanno facilitato la riproduzione o la sopravvivenza delle specie in questione. Al momento in cui l'osserviamo, dopo migliaia di anni di evoluzione, lo sviluppo della sacculina femmina può solo accompagnarsi a una castrazione e a una femminizzazione del suo granchio ospite, seguite da un sequestro di maschi della sua stessa specie. Come dire che tutte le manifestazioni più stravaganti trovano nel parassitismo compiuta espressione!

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Pagina 9

Capitolo 1

Sotto il regno dell'invasore


Il dramma si consuma all'inizio del mese di giugno in un vasto canneto della placida palude di Wicken, a nord di Cambridge, in Inghilterra. L'ornitologo Nick B. Davies osserva attentamente le canne che ondeggiano al vento con movenze leggere. Lunghe frasi rauche e ticchettii sonori si levano dai fruscii di questa fitta vegetazione: senza dubbio si tratta di un cannareccione!

Questo cugino della capinera e di altri regoli, più piccolo di un passero, ha sospeso il suo nido sui fusti di canneti a fragmite, a un metro appena dall'acqua. Quel mattino, di nuovo, allo spuntar del giorno, la madre uccellino deponeva il suo quarto e ultimo uovo, verde pallido e maculato, come gli altri tre. Accoccolata ora comodamente sulla sua covata, non si perde neppure un secondo di quanto accade tutt'intorno. Una madre guardinga, pronta a scattare a ogni minimo rumore sospetto, primo fra tutti l'ombra fugace del predatore che potrebbe incombere sulle uova deposte. Senza sosta, si rialza e getta un'occhiata all'interno del nido per assicurarsi che tutto vada bene. Di tanto in tanto, rivolta col becco le sue preziose uova, per poi riguadagnare la posizione iniziale.

In lontananza, risuonano i richiami di un maschio. L'effetto è immediato. La femmina si agita, cinguetta, gira la testa a destra e a sinistra, esita. Alla fine, prende il volo per raggiungere il bellimbusto. Volteggia spensierata, e commette l'imperdonabile errore. Dimentica per alcuni istanti i suoi doveri di madre a guardia dei suoi piccoli, ma pagherà molto cari questi pochi attimi di distrazione. Il tempo di lasciare il nido ed ecco che un grosso uccello piomba all'improvviso sopra le uova. Una femmina, ma di tutt'altra specie, decisamente più robusta, si posa sul bordo del nido, affonda la testa all'interno e la rimuove tenendo nel becco una delle quattro uova. Poi si rigira e si accomoda col didietro sopra la covata. Il suo corpo si anima di pulsazioni regolari, fino a quando non uscirà il suo bell'uovo per cadere in mezzo agli altri. Missione compiuta. Se ne vola via con la stessa rapidità con cui è venuta, trattenendo col becco l'uovo trafugato al cannareccione. Qualche decina di metri più lontano, si posa su un ramo e d'un tratto ingurgita avidamente il suo bottino. Emette allora una specie di grido vittorioso, un lungo «glu glu» liquido, al quale risponde un maschio della sua specie con un potente «cu-cù».

In tutto, la scena non dura che dieci secondi. Tornata al nido, la povera madre cannareccione non nota nulla di strano, tutto sembra normale. Quattro uova, verde pallido e maculate, perfettamente identiche. Si rimette a covare, ignara che tutto ciò sarà del tutto inutile, avendo appena lasciato entrare il mostro e con esso anche il parassita. Sul momento sembrava trattarsi di un uovo inoffensivo, ma ben presto sarebbe diventato pulcino, re nudo, piccolo dittatore spietato che avrebbe asservito i suoi genitori adottivi e annientato tutta la covata. Sotto il suo regno, se doveva sopravvivere qualcuno, questo sarebbe stato lui. E così sarà.


«Non si scelgono i genitori, non si sceglie la famiglia» dice la canzone di Maxime Le Forestier, noto cantautore francese. Ed essere nato cuculo, non può che voler dire una cosa sola: essere il discendente di genitori indegni. La femmina non ha nulla in comune con la chioccia per il fatto che una volta compiuto il suo dovere riproduttivo per la sacrosanta «continuità della specie», una volta deposte le uova, è a posto con il mondo e con se stessa. E non si pretendano da essa altre fatiche rispetto a quanto fatto. Costruire un nido, educare i piccoli, insegnar loro a cantare e a volare, nutrirli e tutto quanto compete ai genitori modello, non è affar suo, come del resto dimostra la sua tendenza ad abbandonare la propria prole alle cure premurose di un'altra specie. Per il cuculo grigio (Cuculus canorus), per esempio, è spesso l'acrocefalo cannareccione a sobbarcarsi l'ingrato compito.


Il cuculo è un migratore, raggiunge l'Europa in primavera per accoppiarsi, poi deposita le sue uova nei nidi del cannareccione, le cui uova vengono deposte nello stesso periodo. Durante la stagione della deposizione, la femmina cuculo sorveglia con discrezione il nido avvistato. Può rimanere ore e ore a osservare la sua futura vittima in attesa che si presenti la buona occasione per lasciare il suo uovo: non appena il cannareccione si allontana, si precipita sul nido per commettere il misfatto. Al suo ritorno, il cannareccione riprende il suo posto senza notare l'intruso, che crescerà fino a quando non sarà diventato autonomo. Per quanto prodiga di affettuose attenzioni con i propri piccoli, la balia del cuculo non riceverà nulla in cambio per tutti i suoi sforzi. Nessun profitto. Anzi, peggio ancora, perderà tutta la sua nidiata. Già il primo uovo prelevato dal cuculo viene fagocitato in un bel boccone, mentre gli altri vengono bruscamente scaraventati fuori dal nido dall'uccellino parassita appena nato. E il triste destino di quelli che avrebbero avuto il tempo di schiudersi è comunque già segnato e solo di poco rinviato. Anche loro si faranno da lì a breve spingere fuori dal nido ben prima che possano spiccare il primo volo! Il cuculo è dunque un vero e temibile parassita, la cui particolarità, contrariamente all'idea comunemente diffusa, è quella di essere visibile e di non vivere all'interno del suo ospite o incollato a esso. Per gli ecologi si tratta di un parassita di cova (brood parasite). Una volta stabilitosi nel nido, ne prende il controllo totale e detta legge.

A prescindere dai cuculi e poche altre specie di uccelli, l'adozione tra specie diverse non è una pratica a larga diffusione nel mondo selvatico. Questo genere di pratiche tra le specie si esaurisce di norma in breve tempo. Non sono infrequenti, infatti, le immagini del tutto straordinarie di un leone che stringe tra le zampe, con tenerezza sospetta, una giovane zebra ben viva ma dallo sguardo pietrificato. Il supplizio «psicologico» del piccolo equino è durato un solo lungo attimo, durante il quale il leone non ha neppure sfiorato coi denti la sua vittima. Ma le sporadiche carezze delicate del felino non sono valse a salvare la zebra dal banchetto prelibato in cui comunque sarebbe prevedibilmente finita come piatto forte. In natura, la regola in materia di educazione è semplice: ci si prende cura dei propri piccoli oppure no, ma non si accudiscono i piccoli altrui. I cuculi, dal canto loro, si beffano di questa regola che eludono sapientemente. Meglio ancora, essi impongono la propria: «Amerai teneramente il mio uovo!». E l'uovo del cuculo ringrazia per le cure amorevoli prestate dagli ospiti, al quale essi riservano un trattamento privilegiato superiore alle loro stesse uova, anche perché, in linea generale, in un nido parassitato, nessun piccolo dell'ospite sopravvive. Le povere vittime non possono cambiare il loro destino in alcun modo. Non resta loro che farsi abbindolare da tutti gli imbrogli e i tiri mancini - sotto forma di adattamenti — che l'evoluzione ha giocato loro nel corso del tempo.

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Pagina 82

La guerra dei conigli

All'inizio, nel 1859, erano solo ventiquattro i conigli, o meglio dodici coppie, rinchiusi nelle gabbie e sbarcati nelle nuove terre australiane. Fu il colono britannico Thomas Austin a importarli dall'Inghilterra. Il tiro al coniglio, una vera passione, gli ricordava il suo paese. Liberò dunque le ventiquattro piccole bestiole a Barwon Park, la sua immensa proprietà, con l'idea che da lì a poco avrebbe trasformato i conigli in graziosi bersagli per vincere la noia delle lunghe giornate in fattoria. Dieci anni dopo i conigli si erano riprodotti: proprio come dei conigli. Si diffusero attraverso il paese, avanzando ogni anno di 100 chilometri. Gli Australiani si sforzavano di sopprimerne oltre due milioni all'anno, a colpi di fucile o di trappola, senza che però questo avesse la minima incidenza sul resto della popolazione. Per questi lagomorfi, l'Australia, è il paradiso in terra grazie agli inverni miti che favoriscono la riproduzione per tutto l'anno. Dissotterrano le sementi, brucano le colture e l'erba degli animali da allevamento e della fauna nativa. E soprattutto, senza predatori naturali, si moltiplicano senza controllo. Oltre al tiro al coniglio e alla caccia per mezzo di trappole sono stati compiuti tutti i tentativi per sbarazzarsene: la distruzione delle tane, il veleno, l'esplosivo, la fumigazione: invano! Perfino eliminando l'80% di una popolazione, il 20% restante impiegava al massimo un anno per ricostituire l'effettivo iniziale. Nel 1900, la popolazione dei conigli era stimata a un miliardo, ma varcherà la soglia dei 10 miliardi nel 1926.

Negli anni Venti, il ricercatore brasiliano Henrique de Beaurepaire Aragao propone allora di introdurre in Australia il virus della mixomatosi per estirpare il coniglio. Questo virus, originario del Sudamerica, cugino di quello del vaiolo, è mortale per i conigli europei. Ma gli Australiani, esasperati dagli effetti dannosi arrecati dalle precedenti introduzioni, preferiscono rifletterci a lungo prima di prendere la decisione di aprire la loro isola continente a un virus. Si avviano degli esperimenti in Europa fino alla Seconda guerra mondiale durante la quale la lotta contro i conigli viene un po' abbandonata. Nel 1946 la popolazione raggiunge tuttavia un picco massimo. Ma solo nel 1948 l'Australia attua i primi esperimenti coronati da risultati più o meno entusiasmanti. Tra il Natale e il Capodanno del 1950-1951, però, la mixomatosi fuoriesce da un sito sperimentale della Murray Valley, probabilmente attraverso le zanzare. La malattia esplode e causa un'incredibile epidemia. Nell'arco di appena tre anni, il 99,8% dei conigli muore. Solo alcuni conigli resistenti sono sopravvissuti e si riproducono come dei conigli pronti a riconquistare il territorio. Segue una nuova esplosione, accompagnata da un'ulteriore epidemia, che questa volta decima soltanto il 90% della popolazione. Non desta alcuna sorpresa il comportamento del rimanente 10% che è andato moltiplicandosi. Sopraggiunta la terza epidemia di mixomatosi, il tasso di mortalità raggiunge a stento una percentuale tra il 40 e il 60, ossia di due volte inferiore rispetto alla prima ondata.

Questo calo della mortalità è il risultato di due fenomeni: un aumento della resistenza dei conigli unito a una diminuzione della virulenza dei ceppi di virus. Dunque dei conigli sempre più robusti di fronte a dei virus sempre meno aggressivi. In linea generale, in questo genere di situazione, è difficile sapere se gli ospiti abbiano sviluppato una più elevata resistenza o i parassiti abbiano frenato la loro corsa. Ma nel caso della mixomatosi, alcuni esperimenti di laboratorio sono pervenuti a riprodurre queste evoluzioni congiunte di resistenza e di virulenza: alcuni virus, isolati anno dopo anno in ambiente naturale e inoculati a conigli di laboratorio, hanno mostrato una virulenza sempre più flebile col passare del tempo. In modo analogo, la resistenza dei conigli selvatici è stata studiata inoculando loro, anno dopo anno, un ceppo di virus coltivato in laboratorio. I risultati hanno evidenziato una soglia di resistenza maggiore.

Le variazioni della mortalità dei conigli australiani per la mixomatosi sono il solo caso formalmente dimostrato di coevoluzione di un patogeno e del suo ospite. Si tratta di uno degli esempi più fulgidi della biologia evolutiva giacché, per una volta, gli scienziati hanno potuto assistere quasi in diretta al fenomeno. Queste variazioni sono in parte l'effetto di una corsa agli armamenti, in particolare laddove il coniglio accresce la sua resistenza al virus. Ma intuitivamente, comprendiamo anche che il virus, se vuole moltiplicarsi, ha tutto l'interesse a gestire il suo ospite. Se stermina il 100% dei conigli, la sua esistenza è destinata a essere di breve durata, a meno di trovare un ospite sostitutivo. Sviluppando una minore virulenza, si riserva una piccola parte di conigli per le prossime epidemie. Naturalmente, il virus non agisce in via intenzionale, non è l'artefice di questa strategia di conservazione diabolica. Semmai è la selezione naturale a condurre il gioco. Uccidendo sistematicamente i conigli, i virus assassini avranno meno opportunità per diffondersi rispetto ai virus meno virulenti, i quali possono trasmettersi da un coniglio vivo a un altro. La morale della favola, come già detto, è dunque che un «buon» parassita è un buon gestore delle risorse.


Tra parassiti e parassitati

Nell'uomo, come in tutti i vertebrati – pesci, anfibi, uccelli, rettili e mammiferi – è il sistema immunitario a essere al centro della corsa agli armamenti. In parole semplici, potremmo dire che esso rappresenta un'autentica arma che opera sempre in due tappe e secondo la stessa strategia. In un primo tempo, quando per esempio un batterio patogeno passa all'attacco, il sistema immunitario invia alla riscossa diversi tipi di cellule – macrofagi, cellule dendritiche, granulociti, cellule NK ecc. – e diverse molecole solubili nel sangue – defensine, fattori di complemento ecc. Questo drappello d'urgenza può essere mobilitato rapidamente ed è sempre pronto a combattere qualunque tipo di patogeno. Esso è responsabile di quel che comunemente passa sotto il nome di risposta innata, innescata peraltro dall'ondata di febbre. Ma questa risposta non sempre interviene in maniera esaustiva. In tal caso un secondo sistema, chiamato risposta adattativa, si mette in moto. Attraverso alcune cellule particolari l'organismo infetto riconoscerà l'identità del patogeno contro il quale sta combattendo. Queste cellule sono dette «presentatrici di antigeni» perché hanno alla loro superficie frammenti di antigeni, ovvero delle molecole caratteristiche del patogeno. Altre cellule, i linfociti B, presenti in grandissimo numero, vanno a legarsi nello specifico a questi antigeni grazie a dei recettori presenti sulle loro membrane. Un linfocita tuttavia è provvisto sulla sua superficie di un solo tipo di recettore. Ciò suggerisce la presenza di un elevato numero di linfociti B, suscettibili di rispondere alla grande diversità degli antigeni che si possono presentare loro. Il legame tra il recettore e l'antigene scatena un intenso effetto moltiplicativo di linfociti B. Alcuni di essi si trasformeranno per creare dei plasmociti, nuove cellule specializzate nella secrezione di anticorpi, un'arma chimica diretta nella fattispecie contro gli antigeni del patogeno.

Questa strategia a due tempi si configura nella sua natura di scarso interesse. Se infatti uno stesso batterio si ripresentasse dieci anni più tardi, occorrerebbe ricominciare da zero fino alla produzione dei famosi anticorpi. Fortunatamente, il sistema immunitario dispone di una memoria delle aggressioni già subite, e dunque conserva nel suo arsenale le armi messe a punto per neutralizzare questo o quel microbo. L'abbiamo visto sopra, quando i linfociti B si moltiplicano, alcuni si trasformano in plasmociti, fabbriche di anticorpi. Ma altri diventano delle vere e proprie cellule di archivi in grado di preservare la memoria dei piani di costruzione di questi anticorpi. Queste cellule si moltiplicano e restano vigili: come degli agenti dormienti, si riattiveranno rapidamente per lanciare la produzione degli anticorpi fin dal momento in cui il patogeno riapparirà. Grazie a questa immunità acquisita, il sistema immunitario non ha bisogno di compiere nuovamente un lavoro gravoso che avrebbe già effettuato alcuni anni prima. E precisamente quel che accade in caso di infezione provocata dal virus del morbillo, in cui i bambini esposti una prima volta alla malattia sono protetti per tutta la vita, perché sviluppano degli anticorpi contro essa.

Questa memoria biologica permette dunque di ottenere un'immunità naturale. Ma aiutando poco a poco la natura, l'uomo è riuscito a servirsene per concepire i vaccini, fra cui, tra l'altro, quello del morbillo. L'obiettivo è di riprodurre il processo immunizzante senza sviluppare la malattia. Numerosi vaccini contengono quindi il microbo inattivato o morto come avviene nel caso dell'influenza. In altri, si manifesta in misura attenuata, ovvero il microbo è sempre vivo, ma ha perso il suo potere patogeno. Infine alcuni possono contenere solo alcuni «frammenti» dell'agente infettivo (nel caso del vaccino contro l'epatite B) o delle tossine inattive del patogeno (vaccino contro il tetano). Qualunque sia il metodo, l'arsenale delle difese si arricchisce per lottare contro eventuali future infezioni.


La replica dei microbi

Purtroppo, i microbi perseguono lo'stesso obiettivo di tutti gli esseri viventi, quello della sopravvivenza. Ricorrendo a numerosi espedienti per eludere le difese del sistema immunitario, constatiamo ancora una volta un effetto della corsa agli armamenti. All'evolversi dei corpi ospitanti corrisponde un analogo fenomeno da parte dei patogeni! E viceversa. Nei patogeni, questo adattamento si realizza logicamente sul loro punto debole, sui loro antigeni, ovvero la loro firma chimica, le molecole che tradiscono la loro presenza negli ospiti. Ogni microbo vivente e desideroso di restar tale sa cosa rischia se reinfetta un ospite già infettato da uno dei suoi antenati. I suoi antigeni saranno riconosciuti e subirà l'aggressione di una raffica di anticorpi che lo distruggerà o per lo meno lo renderà inoffensivo. Per sfuggire all'artiglieria pesante del sistema immunitario la soluzione migliore sembra dunque essere quella di modificare i suoi antigeni. Il sistema immunitario dovrà riazzerarsi per mettere a punto nuovi anticorpi efficaci contro questa nuova forma del patogeno. Una simile operazione potrebbe richiedere del tempo, un tempo prezioso durante il quale l'agente infettivo si moltiplica, supera le difese dell'organismo e contamina altri individui.

Numerosi parassiti sono divenuti specialisti della variazione antigenica per aggirare le difese dell'immunità acquisita. Utilizzano solitamente due tattiche differenti. La prima consiste nell'accumulare piccole mutazioni genetiche, ovvero delle modifiche che di anno in anno trasformano sufficientemente gli antigeni così da renderli irriconoscibili a un ospite già contaminato in passato. La seconda si configura come un cambiamento radicale degli antigeni. Da una generazione a un'altra, il patogeno si rende indistinguibile per le difese dell'ospite. Uno degli assi della variazione antigenica è il tradizionale virus dell'influenza. Questo utilizza due tattiche per trasformarsi, e per neutralizzarlo sono necessari degli anticorpi diretti contro due tipi di antigeni, all'occorrenza due proteine: l'emoagglutinina (detta H9) e la neuraminidasi (detta N). Da questi due nomi derivano i nomi popolari con cui sono noti questi virus, per esempio H5N1, composto dall'antigene H di tipo 5 e dall'antigene N di tipo 1. Esistono quindici antigeni di tipo H e nove di tipo N. Nell'uomo circolano in prevalenza virus di tipo H1, H2, H3 e N1, N2 e gli anticorpi devono agire contro l'antigene H o N oppure contro entrambi allo stesso tempo.

Quando si verifica una deriva antigenica, l'accumulo di mutazioni genetiche modifica le proteine, tra le quali eventualmente gli antigeni H o N. Il tasso di mutazione è circa mille volte più significativo nel virus dell'influenza rispetto alle cellule normali dei mammiferi. Il patogeno subisce allora numerosi ritocchi genetici che, dopo un certo tempo, fanno sì che gli antigeni non siano più riconoscibili dagli anticorpi prodotti in precedenza nell'ospite. E alla luce di questo fenomeno che è necessario concepire tutti gli anni nuovi vaccini contro l'influenza stagionale. Non si può mai essere immunizzati a lungo contro questo virus.

La situazione si complica in modo particolare quando il virus modifica bruscamente l'antigene. In questo caso non si tratta più dello stesso virus leggermente ritoccato, ma di una nuova catastrofe contro la quale l'uomo è del tutto impotente. Questa trasformazione funesta si compie molto spesso sotto i nostri occhi - o perlomeno sotto gli occhi di chi vive in campagna – in animali quali il maiale. L'innocuo animale ha la spiacevole abitudine di trasformarsi in un ricettacolo di virus di tutti i generi. Può in effetti ospitare i virus dell'influenza della sua propria specie, ma anche quelli dell'uomo e degli uccelli. Se malauguratamente una delle sue cellule viene infettata da due virus differenti, gli scambi di geni procedono speditamente, originando nuovi mutanti del tutto diversi dalle generazioni precedenti e in potenza assassini. Per esempio, se un maiale ospita un virus di influenza aviaria e un virus di influenza umana, i due agenti si scambieranno frammenti di geni per generare un nuovo virus ibrido. Questa nuova chimera sarà pericolosissima laddove presentasse antigeni di tipo aviario, quindi sconosciuti dal sistema immunitario umano, pur restando adattato all'uomo. Questi ibridi sono responsabili delle più gravi pandemie influenzali che in passato hanno provocato milioni di morti. Ripercorrendo brevemente la storia delle pandemie negli ultimi cento anni, l'umanità ne ha dovuto fronteggiare quattro di particolare entità. Tra il 1918 e il 1919, all'epoca in cui la Grande guerra si era appena conclusa, l'influenza spagnola fece la sua comparsa. Avrebbe ucciso 30 milioni di persone, quindi oltre il numero di quanti persero la vita durante la guerra, ma nell'arco di un solo anno. L'agente responsabile fu il virus H1N1 che colpì un quinto della popolazione mondiale con un tasso di mortalità del 2,5% (contro lo 0,1 % abitualmente riscontrato).

Nel 1957 sopraggiunse una nuova pandemia detta influenza asiatica, dovuta alla variante H2N2. In meno di un anno contaminò oltre un miliardo di persone ma per fortuna con un tasso di mortalità relativamente debole rispetto all'influenza spagnola, e questo grazie agli antibiotici, sconosciuti nel 1918. La terapia antibiotica permise di lottare contro le infezioni secondarie e dunque di limitare i danni. L'influenza asiatica costò tuttavia la vita a 4 milioni di persone.

Nel 1968 un suino infettato da un virus di influenza umana e un virus di influenza aviaria sarebbe stato all'origine della comparsa del virus H3N2, responsabile dell'influenza di Hong Kong e dei suoi 2 milioni di morti. Da allora, le influenze stagionali che affrontiamo ogni inverno sono riconducibili a virus discendenti da H3N2 di Hong Kong e contro il quale i nostri vaccini restano efficaci.

Infine, nel 1977 il virus H1N1 della pandemia del 1957 riapparve contemporaneamente in Russia e in Cina. Per numerosi esperti, questo ritorno inatteso di una variante considerata estinta non poteva definirsi naturale. Il virus sarebbe stato infatti liberato volontariamente durante la guerra fredda.

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Capitolo 7

La guerra dei sessi


Nel mondo dei parassitati, il sesso è una nozione del tutto relativa: un giorno maschio, l'indomani femmina. Se il confine dei generi appare così labile è perché i parassiti coltivano preferenze sessuali ed esigenze molto precise per il loro sviluppo e la loro trasmissione. Possono così trovare più interessante svilupparsi in una femmina e quindi quando si introducono indebitamente, «autoinvitandosi», in un maschio, piuttosto che cambiare ospite, lo «riconfigurano» in femmina o eventualmente lo castrano.


Sesso a piacimento

La coccinella, un inerme animaletto? A dispetto dell'apparente inoffensività, la verità sembrerebbe un'altra. Chiaramente il colore rubicondo e l'aspetto bonario inducono un atteggiamento di generale simpatia, ma nell'intimità della natura, la coccinella sa essere il più crudele dei killer, un cannibale vorace del tutto privo di principi cristiani. Gli entomologi hanno osservato la scena parecchie volte. In primavera, le larve di coccinella con due punti, Adalia bipunctata, appena schiuse, si avventano col ventre — vuoto — a terra per ingurgitare il resto della nidiata. Una carneficina nella quale i legami di sangue non contano nulla: peggio ancora, l'orda cannibale è composta da sole femmine, mentre le vittime, ancora nell'uovo, sono tutte maschi. Le sorelline dunque si abbuffano a spese dei loro stessi fratellini: ma non sono responsabili dei loro misfatti in quanto si trovano sotto influssi nefasti, prima possedute e poi parassitate.

Nel caso specifico, Belzebù si chiama Wolbachia, un batterio che vive solo all'interno delle cellule del suo organismo ospite, e al quale si ascrive la perdita delle coccinelle maschio. Uccidendo il sesso cosiddetto «forte», il batterio favorisce il corrispondente sesso «debole». Si tratta di un comportamento dettato però da ragioni chiare: il maschio di coccinella conduce a un vicolo cieco, è una bestia senza futuro. Questo perché il Wolbachia si trasmette solo dalla madre ai suoi piccoli, in questa trasmissione i maschi non sono coinvolti e dunque non servono a nulla. Sono ingombranti, poiché alla nascita le neonate sono in competizione con i maschi per procacciarsi il loro cibo favorito, cioè gli afidi. Per cui tanto vale sbarazzarsene e ciò a maggior ragione visto che, per i batteri Wolbachia, i maschi sono molto più utili morti che vivi. Una volta morti, uccisi nell'uovo dal batterio, non rappresentano più alcuna minaccia per le femmine che potranno cibarsi di afidi in completa solitudine. Ma da morti, i maschi costituiscono anche e soprattutto una quantità di cibo immediatamente disponibile, al punto che le femmine non debbono più braccare l'afide per mitigare rapidamente i primi morsi della fame e possono servirsi a piene mani dei fratelli a portata di mandibola.

Dopo lo schiudersi delle uova, le larve, se vogliono sopravvivere, hanno in realtà solo un breve lasso di tempo (dalle ventiquattro alle ventotto ore) per procurarsi del cibo. Il banchetto offerto dai fratellini trucidati costituisce una verà e propria razione di sopravvivenza. Le femmine guadagnano così uno o due giorni in più per scovare le loro prime vere prede. Le larve parassitate sopravvivono più facilmente rispetto a quelle non parassitate, una conseguenza in qualche modo insolita nel mondo dei parassiti. Questa dinamica risponde nel caso specifico a una logica precisa, poiché ciò che giova alla coccinella giova anche al suo parassita. Più alto sarà il numero di femmine parassitate, più alto sarà il numero di discendenti parassitati e quindi di nuove femmine ospitanti altri batteri, i quali favoriranno ulteriori coccinelle femmine, anch'esse parassitate, e via di seguito. Il funzionamento di questo sistema è legato, evidentemente, alla presenza di un numero sufficiente di màschi, di miracolati del sesso, in grado ancora di fecondare le femmine parassitate. I batteri Wolbachia non si impadroniscono quindi della totalità degli individui delle popolazioni in cui si sono introdotti.

Infine, nella relazione Wolbachia / coccinella emerge con particolare risalto il fatto che i batteri intrappolati in un maschio sembrano sacrificarsi per la sopravvivenza dei loro consimili che hanno avuto la possibilità di parassitare una coccinella femmina. Ne consegue che l'uccisione di quest'ospite inutile per la specie si accompagna a quella dei batteri stessi.

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La metamorfosi dell'onisco

I batteri Wolbachia praticano molte altre mistificazioni di natura sessuale. Nel malcapitato onisco dei nostri giardini (Armadillidium vulgare), anch'esso vittima del batterio, i maschi vengono sì risparmiati, ma per il semplice motivo che il loro aspetto dissimula la loro vera natura. Essi cambiano di sesso, per l'evidente ragione che i maschi non possono sempre trasmettere il parassita. Per contro, un maschio trasformato in femmina è all'altezza del compito. Questa riconversione sessuale si compie durante lo sviluppo embrionale in cui i veri maschi si trasformano in femmine autenticamente finte: geneticamente maschi, ma biologicamente femmine. Spieghiamoci meglio. Negli onischi, come nell'uomo, il sesso è determinato geneticamente dai cromosomi sessuali. Ma rispetto alla specie umana dove gli uomini portano i cromosomi XY e le donne la coppia XX, la situazione appare qui ribaltata: i maschi sono indicati con la sigla ZZ e le femmine ZW. Nel caso degli onischi, dunque, se degli individui maschi, quindi ZZ, sono infestati dai batteri Wolbachia, si trasformano in femmine apparenti, capaci di riprodursi come femmine. Ma queste «femmine», nella loro essenza, geneticamente parlando, restano maschi, conservando i loro cromosomi ZZ. Ne consegue che una popolazione di onischi infestati presenta tre tipi di individui: i veri maschi (ZZ), le vere femmine (ZW) e le femmine autenticamente finte, ovvero dei maschi travestiti (ZZ).

Thierry Rigaud, direttore di ricerca al Centro nazionale della ricerca scientifica di Digione, ha dimostrato in laboratorio che i batteri Wolbachia erano i veri responsabili di questa manipolazione. Eliminando il batterio dei maschi travestiti (dunque ZZ), la discendenza sarà composta da soli maschi: si tratta di una logica conclusione, visto che un maschio travestito va a riprodursi con i suoi cromosomi sessuali di maschio ZZ insieme a un vero maschio, anch'esso ZZ. Se ogni maschio trasmette alla propria discendenza uno dei suoi cromosomi, i piccoli che nasceranno non potranno che ricevere cromosomi Z. Saranno quindi tutti maschi ZZ proprio come i loro genitori. E poiché non sono infestati, conserveranno la loro identità maschile.

Si instaura un effetto perverso di questa manipolazione in cui le vere femmine tendono a scomparire, cadendo sotto il giogo delle ambiguità. In alcune popolazioni parassitate dai batteri Wolbachia si è registrata la completa scomparsa delle femmine. Ancora una volta la spiegazione è semplice, come illustra lo schema sottostante.

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Per un mondo senza maschi

Il mondo perfetto secondo i batteri Wolbachia è un mondo senza maschi nel segno di un femminismo radicale. O per essere più espliciti, un mondo senza sesso. Presso alcuni insetti come il tricogramma (Thricogramma brassicae), cugini delle api e delle vespe, il batterio impedisce i rapporti sessuali. Partenogenesi per tutti! In altri termini la riproduzione non necessita l'unione di due insetti. Ogni femmina della popolazione procrea senza aver mai conosciuto i piaceri dell'amore fisico. Questa partenogenesi indotta dai batteri Wolbachia è detta «telitoca» perché da essa nasceranno solo femmine. Si tratta di una considerazione logica in quanto il batterio è trasmissibile solo ed esclusivamente dalle femmine. In una popolazione di insetti infestati dai batteri Wolbachia, i maschi hanno ceduto spazio a nidiate di femmine clonate: il parassita riesce a produrre queste copie biologiche del suo ospite manipolando il suo sviluppo embrionale.

Apriamo ora una piccola parentesi sui cromosomi e sul sesso degli insetti. Normalmente, negli insetti come negli uomini, ogni individuo detiene nel nucleo di tutte le sue cellule due esemplari di ciascuno dei suoi cromosomi. Una metà proviene dagli spermatozoi del padre, l'altra dall'ovulo della madre. Nell'uomo, per esempio, vi sono 46 cromosomi, ovvero 23 coppie ognuna delle quali comprendente un esemplare della madre e una del padre. Queste coppie racchiudono in particolare i famosi abbinamenti di cromosomi XX per le donne e XY per gli uomini. Ma per alcune specie d'insetti che praticano la partenogenesi, tutto si complica. Il numero di esemplari di un cromosoma può subire variazioni e questo numero svolge un ruolo importante nella determinazione del sesso. Per esempio, se l'animale è provvisto di una copia di ciascuno dei suoi cromosomi – cioè con 2n cromosomi –, è una femmina. Diversamente, se possiede solo un esemplare di ciascuno – dunque n cromosomi –, è un maschio. O viceversa. Si parla allora di specie aplo-diploidi. Una specie si definisce aploide quando uno dei generi (maschio o femmina) presenta un unico assetto cromosomico, indicato dalla notazione n, mentre nell'altra specie, diploide, si caratterizza per un corredo cromosomico segnalato con 2n perché i cromosomi sono presenti in duplice copia. Quando i Wolbachia entrano in azione, le manipolazioni riprendono dunque il loro corso. Questi insetti aplo-diploidi saranno indotti a procreare solo femmine per conto del batterio. Normalmente, quando un ovulo non viene fecondato, non avviene nulla. Invece, se l'insetto si riproduce per partenogenesi, l'ovulo non fecondato si divide in nuove cellule per formare l'embrione. Nasce però un problema: se l'ovulo si divide in tale direzione, genererà embrioni provvisti di un solo esemplare dei loro cromosomi, quindi dei maschi. Questo sviluppo non asseconda le esigenze dei Wolbachia, ai quali servono delle femmine con 2n cromosomi per soddisfare le loro ambizioni espansionistiche. Imperterriti, i Wolbachia finiranno per ostacolare la prima divisione dell'ovulo in due nuove cellule per permetterne una sola, ma contenente i cromosomi in duplice copia. L'ovulo che era aploide si trasforma alla fine in diploide prima di proseguire il suo cammino scandito dalle sue normali divisioni. Darà origine allora a una femmina che potrà nuovamente trasmettere il batterio alla sua discendenza.

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La vita sessuale delle cozze

Il granchio verde non è la sola vittima dimenticata della tirannia sessuale dei parassiti. Chi si preoccupa dei problemi di coppia della cozza? Chi si domanda, una volta addentata una cozza, se è un maschio o una femmina? Chi ancora potrebbe immaginare che questa cozza è stata castrata? Simili questioni interessano i soli mitilicoltori e gli scienziati coraggiosi, che non temono di affrontare un argomento così delicato come quello della vita sessuale delle cozze.

Avventuriamoci allora lungo le coste atlantiche per una breve passeggiata in quello che è il paradiso della cozza d'allevamento. Nelle acque torbide, agitate dalle onde dell'oceano, le cozze fanno l'amore... come delle cozze stoiche. Le femmine liberano milioni di ovuli vergini. Senza serenate, né corteggiamenti superflui, i maschi approfittano della promiscuità per lasciare nugoli biancastri di sperma. Da questi amori a ridosso della spiaggia nasceranno miliardi di larve libere, in piene acque marine, che dovranno rapidamente trovare un sostegno per perpetuare il modo di vita stabilito dalla specie. Una larga parte di queste larve scomparirà, dispersa in mare o inghiottita da pesci amanti di plancton. Altre larve più fortunate si poseranno su un bello scoglio o sullo scafo di una barca attraccata in porto. Ma un buon numero troverà anche il modo di appigliarsi alle funi calate appositamente dai mitilicoltori. Dopo alcuni mesi, queste funi cariche di cozze in via di accrescimento saranno appese o arrotolate intorno alle reste, calze di rete di polipropilene, lungo le quali le cozze si svilupperanno per diversi mesi, fino alla raccolta. Così si svolge la vita della cozza d'allevamento.

Ma questo piccolo mondo all'apparenza così tranquillo è ininterrottamente turbato da un avvenimento misterioso. Le cozze non fanno più l'amore e all'improvviso tutta la catena riproduttiva si spezza. Senza riproduzione, niente più larve, e senza larve, niente più novellame appeso alle funi e dunque niente più cozze. In definitiva, niente sesso niente cozze d'allevamento.

Il problema non risiede nella mancanza di libido in ragione di una sessualità resa monotona dallo stoicismo del mollusco. Se le cozze non si riproducono è perché sono fisicamente impossibilitate. Sono state castrate dal Prosorhynchus squamatus, un verme parassita dalla forma piatta e microscopica, un vero flagello per gli allevatori che pagano a caro prezzo la sua presenza e sono obbligati a rifornirsi di novellame all'estero per garantire il ricambio delle loro reste da un anno all'altro. Inoltre, una cozza castrata è una cozza meno appetitosa: senza sperma e senza ovuli, perde tutta la sua attrazione. L'amante accorto apprezza le cozze il cui mantello, ovvero lo strato un po' molle che avvolge tutto l'animale, è ben carnoso e colorato (arancione per le femmine e giallo-crema per i maschi). Ed è proprio grazie al seme racchiuso all'interno del mantello che esse si presentano così carnose e colorate. Mano a mano che ci si avvicina al periodo della riproduzione, il numero di spermatozoi e di ovuli tende a salire, rendendo la cozza più allettante. Ma dopo l'attacco del Prosorhynchus castratore, il mantello diventa traslucido e si riduce progressivamente fino quasi a scomparire. Non resta più allora molto da mangiare.

Se per la cozza l'incontro con il parassita rappresenta una catastrofe biologica, dal punto di vista del parassita essa costituisce una mera tappa in una vita fitta di incontri di vario genere. Come accade praticamente per tutti gli altri vermi piatti, il Prosorhynchus squamatus compie un ciclo che si snoda attraverso il passaggio in tre ospiti diversi. Ha inizio allo stato di larva durante il quale infesta un bivalve (la cozza), per poi passare in un altro animaletto marino, un mollusco, un crostaceo perfino un piccolo pesce, dove si incista in attesa di trasferirsi nel suo ospite definitivo. Quest'ultima vittima è un pesce, che si contamina mangiando l'ospite precedente e i suoi parassiti incistati. Il verme penetra allora agevolmente nel tubo digerente e divenuto adulto potrà riprodursi. Le sue uova vengono evacuate nell'acqua insieme agli escrementi del pesce, e una volta in mare, ogni uovo si schiude e lascia sfuggire una minuscola larva cigliata, capace di nuotare, che va a mescolarsi al plancton. Il ciclo si avvia così alla sua conclusione. Nel caso in cui la larva del verme si trovi in prossimità di una cozza, non è improbabile che possa venire aspirata dal bivalve insieme al plancton che filtra per nutrirsi. Una cozza è in grado di filtrare quattro litri di acqua ogni ora e trattiene il plancton che viene più tardi assorbito. Il processo digestivo non coinvolge la larva del verme che, invece, si destreggia per passare attraverso la parete del tubo digerente e collocarsi successivamente nei tessuti della ghiandola digestiva.

Giunti a questo stadio il programma di castrazione può infine prendere il via. Ma prima di proseguire nella nostra spiegazione, per comprendere bene tutta l'arte parassitaria del Prosorhynchus, è necessario richiamare alla mente come si svolge la vita di una normale cozza non parassitata.

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Mille miliardi di microbi... oltre a me

In biologia, la specie tende a divenire una nozione molto relativa. Prendiamo l'esempio dell'uomo. Certo, si tratta di una specie bipede dal nome di sapiens, del genere Homo, della famiglia degli ominidi e dell'ordine dei primati. Questa specie è divisa in popolazioni tra le quali gli scambi genetici aumentano per effetto della riproduzione, coniugata alla mondializzazione. Sono popolazioni costituite da individui geneticamente differenti gli uni dagli altri, poiché, come è risaputo, siamo tutti unici, a eccezione dei gemelli omozigoti. In fondo l'uomo è questo, stando almeno a quel che si è portati a credere. Ma oltre a ciò, l'uomo è «abitato» da mille miliardi di microrganismi indispensabili, appartenenti a oltre cinquecento specie diverse e insediate nel suo solo intestino. Questa collezione di intrusi, chiamata «microbiota» dagli scienziati e flora intestinale dal resto dell'umanità, può rappresentare fino a 1,5 kg del nostro peso complessivo. Dunque, 1,5 kg della materia che le nostre gambe sostengono tutti i giorni non ci appartiene. E quasi si è colti da vertigini nell'apprendere che i geni di questo microbiota sono cento volte più numerose dell'insieme dei nostri geni umani. Noi uomini, la scimmia nuda, bestia pensante e morale, autoproclamata vertice dell'evoluzione, siamo in realtà composti da una sola piccolissima percentuale di geni definibili autenticamente umani.

Tanto vale dire che le nostre vite sarebbero diverse senza i nostri simbionti. Già Louis Pasteur, nel XIX secolo, suggeriva che non si sarebbe potuto vivere senza i microbi. In ultima analisi, siamo esseri umani tanto imperfetti quanto i funghi di cui abbiamo appena parlato. Come un tartufo smarrito in una natura senza alberi, anche l'uomo non riuscirebbe a cavarsela da solo. Ha bisogno di questo aiuto a domicilio fin dai primi giorni di vita. D'altro canto la flora intestinale si insedia dalla nascita, formando un vero ecosistema relativamente stabile, ma che varia lungo l'intestino e in funzione dell'acidità, del tasso di ossigeno, dell'età così come del regime alimentare. E questi microbi buoni possono anche dimostrarsi compagni estremamente utili, senza mai farci venir meno il loro aiuto e mantenendoci in vita.

Prendiamo il caso di uno di questi batteri, Bacteroides thetaiotaomicron, specialista del recupero di energia a partire da certi zuccheri come il galattosio o il mannosio. Senza di esso non sapremmo come comportarci con queste due molecole altamente presenti nella nostra alimentazione. E per evidenti ragioni, visto che non disponiamo dell'apparato chimico, cioè gli enzimi, che ci permetterebbero di decomporli e di assimilarli. Sappiamo, tuttavia, che questi Bacteroides possiedono quasi 300 geni che codificano per gli enzimi coinvolti nella degradazione degli zuccheri, tra cui il galattosio e il mannosio. Questi enzimi possono contare su svariate decine di «sensori ambientali» che permettono loro di «fiutare» i diversi tipi di zuccheri dislocati intorno a loro. Grazie a questi sensori, gli enzimi possono adattare il loro regime, sollecitando l'espressione dei geni degli enzimi in grado di decomporre gli zuccheri presenti. Questa plasticità enzimatica è significativa giacché permette al batterio di adeguarsi a cambiamenti importanti del suo ambiente. Per esempio, quando il batterio colonizza l'intestino del lattante, deve dapprima adattarsi al regime dell'allattamento, e poi modificare il proprio funzionamento al momento dello svezzamento, poiché gli zuccheri contenuti nel latte sono diversi da quelli di un regime alimentare normale.

I nostri simbionti entrano pertanto in gioco solo con gli zuccheri dei nostri pasti. Sanno anche decomporre grosse molecole di origine vegetale e agire sulla sintesi di ormoni di acidi grassi o di vitamine (B e K). E non è tutto. La flora intestinale influenza anche lo sviluppo del nostro sistema digestivo. Alcuni esperimenti condotti su topi «gnotobiotici», vale a dire sprovvisti dei loro microbi naturali, mostrano che quando l'intestino è sterile, la rete di capillari sanguigni che irrigano la mucosa intestinale è sottosviluppata. Popolando l'intestino con Bacteroides thetaiotaomicron, i batteri sopramenzionati, la rete di capillari si costituisce e ritrova una struttura normale in soli dieci giorni. Il meccanismo non è ancora ben noto, ma sembra che siano proprio i batteri a incentivare la formazione di questi nuovi vasi sanguigni. Essi emetterebbero infatti un segnale chimico, percepito da una famiglia particolare di cellule del tubo digerente, le cellule di Paneth. Lo sviluppo dei vasi sanguigni del tubo digerente, indotto dai batteri attraverso le cellule di Paneth, è un processo di importanza cruciale perché favorirà l'assorbimento dei nutrienti degradati nell'intestino. Gli elementi nutritivi, una volta nel sangue, possono dare nutrimento alle cellule del resto dell'organismo. Questo fenomeno, noto col nome di «angiogenesi» (l'insieme dei processi atti alla formazione di nuovi vasi sanguigni) si è stranamente instaurato tra due entità antagoniste. Le cellule di Paneth, infatti, hanno per vocazione essenziale quella di difendere l'organismo contro l'ingresso di patogeni attraverso il tubo digerente. Esse riversano in un flusso ininterrotto quantità di prodotti antimicrobici nel lumen dell'intestino tenue. Ora, i Bacteroides sono per l'appunto dei batteri, dei microbi che dovrebbero logicamente essere annientati dalle armi chimiche delle cellule di Paneth. Ma il pericolo è sventato perché ancora una volta l'ospite è sotto influenza. Il microbo può indurre la secrezione, attraverso le cellule di Paneth, di una proteina, che si rivela mortale per parecchie specie di batteri, tra cui la temuta Listeria, ma rimane quasi senza effetto per i microrganismi simbiotici del tubo digerente.

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