Copertina
Autore Michael Crichton
CoautoreRichard Preston
Titolo Micro
EdizioneGarzanti, Milano, 2012, Narratori moderni , pag. 436, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-11-68683-5
OriginaleMicro [2011]
TraduttoreDoriana Camerlati
LettoreAngela Razzini, 2013
Classe fantascienza , narrativa statunitense
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Pagina 30

1.
DIVINITY AVENUE, CAMBRIDGE, MASSACHUSETTS
18 OTTOBRE, ORE 13



Nel laboratorio di biologia al secondo piano, Peter Jansen, ventitré anni, abbassò lentamente nella gabbia di vetro le pinze di metallo. Poi, con un colpo secco, immobilizzò il cobra afferrandolo dietro il cappuccio. Il serpente sibilò furioso mentre Jansen allungava la mano, lo teneva stretto dietro la testa e lo tirava su verso la fiala per la «mungitura». Strofinò la membrana della fiala con un tampone impregnato d'alcol, vi fece affondare i denti dell'animale e stette a guardare mentre il veleno giallognolo colava nel recipiente di vetro.

La dose raccolta era deludente: pochi millilitri. Gli sarebbe servita una mezza dozzina di cobra per poter estrarre sufficiente veleno per i suoi studi, ma nel laboratorio non c'era spazio per accoglierli. Esisteva un rettilario su ad Allston, ma gli animali tendevano ad ammalarsi e Peter voleva avere i suoi serpenti a portata di mano, così da poterne controllare lo stato di salute.

Il veleno veniva facilmente contaminato dai batteri: per questo aveva disinfettato la membrana con l'alcol e teneva la fiala posata su uno strato di ghiaccio. La ricerca di Peter verteva sulla bioattività di certi polipeptidi presenti nel veleno del cobra e il suo lavoro s'inseriva in un vasto progetto che comprendeva serpenti, rane e ragni, tutti animali che producono tossine neuroattive. La sua esperienza con i serpenti aveva fatto di lui uno «specialista dell'assorbimento e dell'azione del veleno» e non era raro che gli ospedali lo consultassero in merito a morsi di bestie esotiche. Ciò suscitava una certa invidia in altri dottorandi del laboratorio; lavorando in gruppo, erano estremamente competitivi e pronti a notare se qualcuno attirava l'attenzione del mondo esterno. Per cercare di intralciare Peter, i colleghi avevano pensato bene di lamentarsi che era troppo pericoloso tenere un cobra in laboratorio: non doveva assolutamente stare lì. Qualificavano la ricerca di Peter come «lavoro con serpi schifose».

Lui non ci badava. Aveva un carattere allegro ed equilibrato, perciò non prendeva troppo sul serio quelle punzecchiature. Proveniva da una famiglia di insegnanti. I suoi genitori erano rimasti uccisi nello schianto di un piccolo aereo sui monti della California settentrionale. Il padre era stato professore di geologia all'Università della California a Davis, mentre la madre aveva insegnato alla facoltà di medicina di San Francisco; il fratello maggiore era un fisico.

Peter aveva appena rimesso il cobra nella gabbia quando arrivò Rick Hutter. Rick aveva ventiquattro anni ed era un etnobotanico. Negli ultimi tempi aveva svolto ricerche sugli analgesici presenti nella corteccia di certi alberi della foresta pluviale. Come al solito indossava jeans scoloriti, una camicia di jeans e pesanti scarponi. Sfoggiava una barbetta ben curata e un cipiglio perenne. «Vedo che non indossi i guanti», osservò.

«No», replicò Peter, «ho acquisito una certa sicurezza...»

«Quando lavoravo sul campo, era obbligatorio portare i guanti», disse Rick. Non si lasciava mai sfuggire l'occasione di ricordare ai colleghi del laboratorio che lui aveva realmente svolto un lavoro sul campo. A sentirlo parlare, pareva avesse passato anni interi nei luoghi più sperduti e remoti dell'Amazzonia, quando invece aveva fatto ricerca per quattro mesi in un parco nazionale del Costa Rica. «Un portatore della nostra squadra, che non indossava i guanti, si è chinato per spostare una pietra e... Bam! Un terciopelo gli ha affondato i denti nella mano. Era un fer-de-lance lungo due metri. Hanno dovuto amputargli il braccio. È stato fortunato a sopravvivere.»

«Mmm», fece Peter, sperando che Rick levasse le tende. Lo trovava simpatico, ma quel ragazzo tendeva a fare la lezione a tutti.

Chi invece in laboratorio proprio non sopportava Rick Hutter era Karen King, una giovane alta con i capelli neri e le spalle angolose, che studiava il veleno dei ragni e le ragnatele. Dalla sua postazione al banco di lavoro Karen aveva captato la tiritera di Rick sul morso del serpente nella giungla e non aveva retto. «Rick», esclamò da sopra la spalla, «tu stavi in una pensione per turisti in Costa Rica, ricordi?»

«Palle. Eravamo accampati nella foresta pluviale...»

«Per ben due notti», lo interruppe Karen, «finché le zanzare non vi hanno rispedito alla pensione.»

Rick lanciò un'occhiataccia a Karen, mentre il suo viso si faceva di fuoco. Aprì la bocca per dire qualcosa ma non fiatò perché non aveva argomenti per replicare. Era la verità: le zanzare erano state un inferno. Lui aveva temuto che potessero trasmettergli la malaria o la febbre emorragica dengue, perciò era rientrato alla pensione.

Invece di discutere con Karen, Rick si rivolse a Peter: «Ehi, tra parentesi, pare che oggi venga qui tuo fratello. Non è quello che ha fatto i soldi con una startup?».

«Così mi ha detto.»

«Be', il denaro non è tutto. Per quel che mi riguarda, non lavorerei mai nel settore privato. È un deserto intellettuale. I cervelli migliori restano nelle università e così non hanno bisogno di prostituirsi.»

Peter non aveva intenzione di mettersi a discutere con Rick, che coltivava opinioni molto precise su ogni argomento. Intervenne però Erika Moll, l'entomologa arrivata recentemente da Monaco, dicendo: «Credo che il tuo sia un atteggiamento un po' rigido. A me non spiacerebbe affatto lavorare per una ditta privata».

Rick alzò le mani in aria. «Visto? Pronta a prostituirsi.»

Erika era andata a letto con diversi uomini del dipartimento di biologia e sembrava non le importasse che si risapesse. Mostrò al collega il dito medio alzato. «Va' a farti fottere.»

«Vedo che hai imparato a padroneggiare il nostro slang», disse Rick, «fra le altre cose.»

«Delle "altre cose" che ne sai tu?» sbottò Erika. Poi si rivolse a Peter. «Riprendendo il discorso, non ci vedo davvero niente di male in un impiego privato.»

«Ma di cosa si occupa esattamente l'azienda per cui lavora tuo fratello?» chiese una voce sommessa. Peter si voltò e vide Amar Singh, l'esperto di ormoni vegetali. Amar era conosciuto per la sua mentalità decisamente pratica. «Cioè, cos'è che fa per avere un tale prestigio? E si tratta di ricerca biologica? Tuo fratello però è un fisico, no? Come funziona?»

In quel momento Peter sentì Jenny Linn, che si trovava dall'altra parte del laboratorio, esclamare: «Wow, che roba!». Era alla finestra e guardava con tanto d'occhi verso la strada sottostante. Si udiva un rombo di potenti motori. Jenny disse: «Peter, guarda... è lui?».

Tutti si erano precipitati alle finestre.

Giù in strada Peter vide suo fratello, raggiante come un ragazzino, che li salutava con la mano. Stava accanto a una Ferrari decappottabile di un giallo brillante e cingeva con un braccio una bionda stupenda. Dietro di loro c'era una seconda Ferrari, nera e luccicante. Qualcuno disse: «Due Ferrari! C'è mezzo milione di dollari qui sotto». Il rombo dei motori echeggiò oltre i laboratori scientifici che fiancheggiavano Divinity Avenue.

Un uomo smontò dalla Ferrari nera. Aveva un fisico asciutto e gusti costosi in fatto di abbigliamento, anche se il look era decisamente casual.

«È Vin Drake», disse Karen guardando sbalordita dalla finestra.

«Come fai a saperlo?» le chiese Rick che le si era messo accanto.

«Come fai a non saperlo?» replicò Karen. «Vincent Drake è probabilmente il venture capitalist di maggior successo di tutta Boston.»

«Se devo dire la mia, è una vergogna», dichiarò Rick. «Queste auto avrebbero dovuto essere messe fuori legge anni fa.»

Ma nessuno lo ascoltava. Si stavano tutti dirigendo verso le scale per correre giù in strada.

«Cosa c'è di tanto interessante?» chiese Rick.

«Non hai sentito?» fece Amar superandolo con passo rapido. «Sono venuti qui per reclutare.»

«Reclutare? Reclutare chi?»

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«Non mi occupo di scienza per arricchirmi», le gridò dietro. «Diversamente da te, pare...» Si rese conto che lei non lo stava ad ascoltare. Di proposito.

In coda al gruppo, Danny non se la cavava molto bene. Chissà perché si era portato alle Hawaii la giacca di tweed e ce l'aveva addosso. Il sudore gli colava giù per il collo e gli inzuppava la camicia mentre sbandava da una parte all'altra del sentiero nei suoi mocassini infiocchettati. Si tamponava la faccia con un fazzoletto da taschino e fingeva di ignorare la sua miserevole condizione. «Signor Drake», disse, «se per caso ha familiarità con la teoria poststrutturalista... uh... potrebbe essere consapevole del fatto... uff... del fatto che al momento attuale non possiamo sapere niente di questa foresta... Perché, vede, noi creiamo significato, signor Drake, quando in realtà non c'è nessun significato nella natura...»

Drake non si lasciò sconcertare da Danny. «La mia idea della natura, signor Minot, è che per poterla usare non abbiamo bisogno di conoscerne il significato.»

«Sì, ma...» continuò Danny.

Nel frattempo Alyson Bender restò indietro di qualche passo e Peter si ritrovò a camminare accanto a Rick. Questi indicò Drake con un cenno del capo. «Tu ci credi a questo tizio? È Mister Biopirateria.»

«Ho sentito le sue osservazioni, signor Hutter», disse Drake voltando la testa di scatto, «e devo dire che sono completamente false. La biopirateria indica l'appropriazione delle piante indigene senza versare alcun compenso al paese di origine. Il concetto, per quanto attraente per il filantropo male informato, è irto di difficoltà pratiche. Prenda l'esempio del curaro, una sostanza preziosa di cui oggi si serve la medicina moderna. Sicuramente a qualcuno bisognerebbe riconoscere un diritto di compenso per questo utilizzo, non crede? Ma esistono dozzine di ricette per il curaro, messe a punto da molti gruppi tribali sparsi nel Centro e Sudamerica: un vasto territorio. Queste preparazioni si differenziano per la varietà degli ingredienti e dei tempi di cottura, che dipendono da cosa si vuole uccidere e dalle preferenze locali. Come si fa allora a risarcire i guaritori indigeni? Forse gli sciamani del Brasile svolgono un lavoro più valido degli sciamani di Panamà o della Colombia? Bisogna forse tener conto del fatto che gli alberi usati in Colombia sono migrati, o sono stati trapiantati, dalla nativa Panamà? E che mi dice della formula attuale? È importante o no l'aggiunta di Strychnos? E metterci un chiodo arrugginito? E non si potrebbe sostenere che sia di pubblico dominio? Un'azienda farmaceutica ha il diritto di sfruttare un farmaco per vent'anni, dopodiché quel farmaco diventa pubblico. C'è chi dice che Sir Walter Raleigh introdusse il curaro in Europa nel 1596; sicuramente era ben conosciuto nel Settecento. Negli anni 1880-1890 Burroughs Wellcome vendeva compresse di curaro per uso terapeutico. Quindi il curaro appartiene incontestabilmente al pubblico dominio. Dulcis in fundo, i chirurghi moderni non usano più il curaro estratto da piante indigene, ma quello sintetico. Comprende quanto la cosa sia complessa?»

«Tipica evasività aziendale», commentò Rick.

«Signor Hutter, sembra che lei si diverta a fare l'avvocato del diavolo contro i miei ragionamenti», ribatté Drake. «Ma non fa niente. Mi aiuta ad affinare i miei argomenti. La verità è che l'uso di composti naturali in medicina è una prassi comune. Le scoperte di ogni cultura sono preziose e tutte le culture attingono l'una dall'altra. A volte le scoperte vengono scambiate a pagamento, ma non sempre. Dovremmo ottenere una licenza per la staffa del cavallo dai mongoli che l'hanno inventata? Dovremmo pagare i cinesi per la produzione della seta? Dell'oppio? Dovremmo rintracciare i discendenti moderni degli agricoltori neolitici di diecimila anni fa che per primi hanno acclimatato colture alimentari nella Mezzaluna Fertile e pagarli? E che dire dei britanni medievali che appresero a fondere il ferro?»

«Proseguiamo», disse Erika. «Siamo d'accordo con lei anche se Rick non lo è.»

«Okay, il punto chiave è che parlare di biopirateria delle piante non ha alcun senso per quanto riguarda le Hawaii perché qui, a rigor di termini, non esistono piante indigene. Le Hawaii sono isole vulcaniche situate in mezzo al Pacifico ed emerse dall'oceano sotto forma di distese di lava bollente completamente spoglie. Qualsiasi cosa vi cresca oggi è stato portato qui da qualche altra parte: dagli uccelli, dal vento, dalle correnti oceaniche, dalle canoe dei guerrieri polinesiani. Niente è indigeno, sebbene alcune specie siano endemiche. La specificità della situazione è proprio la ragione per cui abbiamo insediato la nostra azienda nelle Hawaii.»

«Evadere la legge», borbottò Rick.

«Rispettare la legge», disse Drake. «Questo è il punto.»

Stavano arrivando in una zona con una vegetazione di foglie verdi ad altezza del petto.

«A quest'area abbiamo dato il nome di Sentiero dello Zenzero», spiegò Drake, «per le sue piante di zenzero a giglio bianco, di Hedychium flavescens – quello con i fiori gialli – e di zenzero kahili. Il kahili è quello con i lunghi steli rossi. La maggior parte degli alberi sopra di noi sono sandali, con i tipici fiori rosso scuro, ma ci sono anche dei Sapindus e la Thespesia populnea, con grandi foglie verde scuro.»

Gli studenti si guardavano intorno in tutte le direzioni.

«Presumo che abbiate familiarità con queste foglie lanceolate; in ogni caso si tratta di un oleandro ed è capace di uccidere un essere umano. Un uomo del posto è morto perché ha mangiato della carne grigliata su un fuoco alimentato con rami di oleandro. A volte i bambini ne mangiano i frutti e muoiono. E, già che ci siamo, quello laggiù alla vostra destra, con la chioma ampia, è un albero della stricnina, originario dell'India; tutte le sue parti sono fatali al consumo umano, ma più di tutto i semi. L'alto cespuglio con le foglie a forma di stella che gli sta accanto è il ricino, anch'esso altamente tossico. Presi a piccole dosi, però, i composti a base di ricino sono dotati di proprietà medicinali. Suppongo che ne sia al corrente, vero, signor Hutter?»

«Ovviamente», rispose Rick. «Gli estratti di ricino possono migliorare la funzione della memoria oltre a possedere proprietà antibiotiche.»

Drake svoltò a una biforcazione e seguì un sentiero che scendeva verso destra. «Ecco infine il Vicolo delle Bromeliacee», disse. «Un'ottantina di varietà di questa famiglia di piante che, come sapete, include l'ananas. Le bromeliacee attirano una grande varietà di insetti. Gli alberi intorno a noi sono soprattutto eucalipti e acacie, ma più avanti c'imbatteremo negli alberi più tipici della foresta pluviale: ohia e koa, come capirete dalle foglie ricurve che ingombrano il sentiero.»

«E perché ci viene mostrato tutto questo?» chiese Jenny.

Amar le fece eco. «Giusto. A me incuriosisce la tecnologia, signor Drake. Come fate a prelevare campioni da così tanti diversi organismi viventi? Specialmente tenuto conto del fatto che quasi tutti sono molto piccoli. Batteri, vermi, insetti e così via. Quanti biocampioni raccogliete e trattate all'ora? Al giorno?»

«Ogni giorno il nostro laboratorio invia un furgone in questa foresta pluviale», spiegò Drake, «per caricare pani di terra tagliati con precisione, o una selezione di piante, o qualsiasi altra cosa sia stata richiesta dai nostri ricercatori. Quindi può contare su una consegna quotidiana di materiali freschi e, in generale, sul rifornimento di qualsiasi cosa chieda.»

«Il furgone viene qui ogni giorno?» chiese Rick.

«Esatto, verso le due del pomeriggio; lo abbiamo mancato di poco.»

Jenny si accovacciò. «Cos'è questo?» domandò indicando il terreno. Sembrava una tenda, grande poco più del palmo della sua mano, che copriva una piccola scatola di cemento. «Ne ho vista un'altra simile un po' più indietro.»

«Ah, sì», disse Drake. «Eccellente osservazione, signorina Linn. L'area in cui ci troviamo è disseminata di queste piccole tende. Sono stazioni di rifornimento. Più tardi vi spiegherò di che si tratta. Anzi, credo sia giunto il momento che sappiate di cosa si occupa la Nanigen, quindi, se siete pronti, possiamo tornare indietro.»

Mentre si avviavano verso il parcheggio, incrociarono un piccolo stagno dalle acque marroncine ombreggiato da fronde di palme che pendevano sulla superficie e bordato di piccole bromeliacee. «Questo è lo stagno Pau Hana», spiegò Drake. «Pau Hana significa "il lavoro è finito".»

«Strano nome per uno stagno di anatre», osservò Danny. «Perché è di questo che si tratta. Prima ho visto qui tre o quattro gruppi di anatroccoli.»

«E ha visto cosa succede?» chiese Drake.

Danny scosse la testa. «È qualcosa che può farmi impressione?»

«Dipende. Guardate tra le fronde, circa un metro sopra l'acqua.»

Il gruppo si fermò e aguzzò la vista. Karen fu la prima a vederlo. «Un airone cenerino», sussurrò annuendo. Un uccello grigio pallido alto più di un metro, con la testa appuntita, gli occhi spenti e l'aria pigra. Era immobile e si fondeva perfettamente con le ombre delle fronde. «Può rimanere così per ore», aggiunse.

Stettero a guardare per diversi minuti, ed erano sul punto di andarsene quando una nidiata di anatroccoli prese a scivolare sull'acqua lungo il bordo dello stagno. Le bestiole si tenevano seminascoste fra le erbe, ma non servì a nulla.

Con un guizzo fulmineo, l'uccello lasciò la sua postazione, piombò fra le anatre e tornò al suo posto, questa volta con minuscole zampe di anatroccolo che gli sporgevano dal becco.

«Uh!» esclamò Danny.

«Oh, no!» gli fece eco Jenny.

L'airone gettò indietro la testa, guardando dritto verso l'alto, e con un solo rapido movimento inghiottì il resto dell'anatroccolo. Poi riabbassò il capo e tornò alla sua immobilità fra le ombre. Tutto si era svolto in pochi secondi. Era difficile credere che fosse realmente accaduto.

«È così che va il mondo», sentenziò Drake. «Noterete che l'arboreto non pullula di anatre: ecco qui spiegato il perché. Ah! Ecco le nostre auto che ci aspettano per riportarci alla civiltà.»

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Raggiunsero il tronco di un albero enorme che si levava torreggiante su tortuose radici a contrafforte. Mentre si facevano strada aggirando le radici, un odore acre si diffuse nell'aria. Avvertirono delle vibrazioni, ticchettii simili al rumore della pioggia battente. Peter, che era in testa al gruppo, si arrampicò su una radice e vide due bassi muri che si snodavano sul terreno. Erano fatti di pezzetti di terra tenuti insieme da un qualche tipo di sostanza secca e al loro interno si muoveva una colonna di formiche, che fluiva in entrambe le direzioni. I muretti fungevano da protezione di una vera e propria autostrada per formiche e, in un punto, andavano a formare una galleria.

Peter si accovacciò e fece cenno agli altri di fermarsi. Avanzarono con cautela, finché non si ritrovarono supini a osservare la colonna di formiche sotto di loro. Erano pericolose? Ognuna era lunga quasi quanto un loro avambraccio. "Non eccessivamente", pensò Peter e si sentì sollevato, perché si era aspettato qualcosa di gigantesco. Certo che erano davvero tante! A centinaia viaggiavano svelte per la loro strada, infilandosi nel piccolo tunnel che avevano costruito.

I corpi, irti di peli, erano di colore bruno-rossastro, mentre le teste erano nere come il carbone. Il loro odore si levava da quell'autostrada per formiche come i gas di scarico del traffico. Era aspro e acido ma allo stesso tempo vi si coglieva una fragranza delicata. «Questa puzza acre è acido formico. Si tratta di una difesa», spiegò Erika, mentre si inginocchiava e fissava le formiche con grande intensità.

«La fragranza dolce, invece, è un feromone», intervenne Jenny. «Probabilmente è il profumo della colonia. Le formiche lo utilizzano per riconoscersi a vicenda come membri dello stesso formicaio.»

«Sono tutte femmine», riprese Erika. «Tutte figlie della stessa regina.» Alcune formiche trasportavano insetti morti o pezzi di insetti smembrati. Tutte le portatrici di cibo percorrevano l'autostrada nella stessa direzione, ossia verso sinistra. «L'ingresso al nido è da quella parte. È il luogo dove stanno trasportando il cibo», aggiunse Erika indicando a sinistra.

«Sai di che specie si tratta?» chiese Peter.

Erika frugò nella mente alla ricerca del nome. «Mmm... Non esistono formiche native delle Hawaii. Tutte le formiche che popolano queste isole appartengono a specie invasive, giunte qui tramite l'uomo. Sono quasi sicura che si tratti di Pheidole megacephala.»

«Non hanno un nome comune?» chiese Rick. «Cosa vuoi, sono solo un etnobotanico ignorante.»

«Sono dette "formiche testagrossa". Originariamente sono state individuate sull'isola di Mauritius, nell'oceano Indiano, anche se ormai sono diffuse in tutto il mondo. Sono le formiche più comuni alle Hawaii.» La formica testagrossa si era rivelata essere uno degli insetti invasivi più distruttivi del pianeta, spiegò Erika. «Hanno provocato ingenti danni all'ecosistema di queste isole. Attaccano e uccidono gli insetti nativi hawaiani. Alcune specie di insetti isolani sono state spazzate via quasi completamente. Inoltre, sono anche in grado di uccidere i piccoli degli uccelli.»

«Non mi piace per niente», disse Karen, consapevole del fatto che le dimensioni di un nidiaceo erano maggiori di quelle di un microumano.

«Non mi sembra che le loro teste siano poi così grandi», osservò Danny.

«Queste sono le operaie. Sono le major ad avere grandi teste», spiegò Erika.

«Major?» chiese Danny nervoso. «Che cosa sono?»

«Le major sono soldati», continuò Erika. «La formica testagrossa presenta una divisione in due caste: le minor e le major. Le minor sono operaie, piccole e numerose. Le major sono i guerrieri, le guardie. Di taglia più grande e più rare.»

«E che aspetto hanno i soldati testagrossa?»

Erika si strinse nelle spalle. «Grandi teste.»

C'erano tantissime formiche, ognuna delle quali sembrava possedere una forza sovrumana. Una sola certamente non costituiva una minaccia, ma migliaia di loro... eccitate... affamate... Nonostante il pericolo, i giovani scienziati non potevano fare a meno di osservarle affascinati. Due formiche si fermarono e presero a battere ritmicamente le antenne una con l'altra. Poi una delle due cominciò ad agitare l'estremità posteriore, producendo una sorta di vibrazione. L'altra, compiacente, le vomitò una goccia di liquido nell'apparato boccale. Erika fornì la spiegazione di ciò che stava accadendo: «La prima ha chiesto del cibo alla compagna di nido. Ha dimenato la parte posteriore e ha emesso quei suoni striduli per comunicare che aveva fame. È la versione formichesca del guaito di un cane...».

«Non riesco a provare alcun piacere nel vedere una formica che vomita il pranzo nella bocca di un'altra. Andiamo via, per favore», la interruppe Danny.

L'autostrada delle formiche non era molto ampia. Avrebbero potuto facilmente superarla con un balzo, ma decisero di tenersi alla larga dalla colonna di insetti piuttosto che rischiare di finire nei guai. «L'ultima cosa che vogliamo è che una di loro si attacchi alla caviglia di qualcuno», disse Peter.

Jarel Kinsky si era fermato e stava fissando i rami del grande albero dalle radici a contrafforte che sovrastava le loro teste. «Conosco quest'albero», disse. «È un'albesia gigante. Sono quasi sicuro che dall'altra parte ci sia una stazione di rifornimento.» Si arrampicò su una radice, la percorse per un breve tratto e saltò giù. «Sì», confermò. «Non dovremmo esserne lontani,» Kinsky assunse il comando al posto di Peter e si diresse verso sinistra, attorno all'albesia, aprendosi un varco tra fronde di felci secche, assestando qua e là dei colpi con uno stelo d'erba a mo' di lancia e spingendo da parte foglie e piante.

Peter si mosse verso la retroguardia. Non gli era piaciuto l'aspetto delle formiche e voleva tenerle d'occhio durante lo spostamento del gruppo. Rick chiudeva la fila. Procedeva adagio portando lo zaino con dentro la bacca velenosa, lancia in pugno.

«Ehi, Rick, puoi prestarmi la tua lancia per un po'? Vado io per ultimo», disse Peter.

Rick annuì, gli porse la lancia e continuò a camminare.

Mentre sgombrava il terreno da una foglia, Kinsky diceva agli altri: «Se riusciremo a rientrare alla Nanigen, la priorità sarà trovare la console nascosta in modo da poter azionare il generatore, anche se il signor Drake non vuole...».

Si fermò di colpo. A una certa distanza, oltre le radici dell'albero, gli era apparsa la sommità di una tenda. «Una stazione! Una stazione!» urlò correndo in quella direzione.

Non si accorse dell'ingresso del formicaio.

Era ai piedi di una palma, una galleria artificiale costruita con grumi di fango incollati insieme. Kinsky passò correndo proprio davanti all'imboccatura, sorvegliata da decine di formiche-soldato. Due o tre volte più grandi rispetto alle operaie, le guardie avevano corpi color rosso opaco ricoperti da una rada peluria ispida; le loro teste, nere e notevolmente sovradimensionate, erano corazzate e dotate di mandibole finalizzate al combattimento. I loro occhi erano lucenti biglie nere.

Avvistarono Kinsky mentre correva verso la tenda.

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Nei rami più bassi dell'albero, rincantucciato sotto il sole, Danny si era addormentato. Aveva la bocca aperta e russava; era esausto dopo la notte più lunga e terrificante della sua vita. Non sentì il rumore sbatacchiante che si avvicinava e indugiava su di lui. Sospesa in volo come un elicottero, lei lo studiava con i suoi occhi inespressivi. Era una vespa.

L'insetto atterrò e avanzò con cautela. Gli tastò il braccio destro con le antenne, poi gli assestò dei colpetti sulla gola, sulle guance, assaporando la sua pelle. Così pallida, così morbida, la fece pensare a un bruco. Un ospite. Dall'addome le pendeva un lungo tubo all'estremità del quale c'era una sorta di punta da trapano.

La vespa prese Danny dolcemente fra le zampe anteriori, gli piantò nella spalla la punta da trapano e gliela affondò nella carne, iniettandogli l'anestetico. Poi affondò il pungiglione, spingendo il tubo in profondità e si mise ad ansimare producendo suoni che facevano pensare a una donna sul punto di partorire.

Danny sognava. Teneva fra le braccia una bellissima ragazza. Era nuda e ansimava di eccitazione. Si baciavano. Lui sentì la sua lingua penetrargli nella gola... alzò lo sguardo su di lei e vide che aveva occhi composti, sporgenti, in un viso di donna... lei lo stringeva a sé, non voleva lasciarlo andare... si svegliò di soprassalto...

«Ahhh!»

Stava fissando negli occhi una vespa gigante. L'insetto lo teneva stretto fra le zampe e aveva il pungiglione dentro la sua spalla. E lui non sentiva niente. Il braccio era diventato insensibile.

«No!» gridò, afferrando il pungiglione a due mani e tentando di estrarlo. La vespa lo tirò fuori comunque e mollò Danny, quindi volò via.

Lui rotolò sulla schiena, afferrandosi il braccio. «Ahhh! Ahi! Aiuto!» Il braccio gli pendeva dalla spalla inanimato, un peso morto privo di sensibilità, come se gli avessero iniettato una quantità industriale di novocaina. Danny notò un forellino sulla camicia e qualcosa di scuro e bagnato che si spandeva sul tessuto: sangue. Si stracciò la camicia sul petto e fissò sgomento il foro che aveva sulla spalla. Tondo e netto come il buco di una punta da trapano, stillava sangue. Non provava nessuna sensazione di dolore, niente.

Agguantò le cuffie radio. «Aiuto! Oddio! Aiutatemi!» gridò.

«Danny?» giunse la voce di Peter.

«Qualcosa mi ha punto... Oh, Dio mio!»

«Cos'è che ti ha punto?»

«Non lo sento più. È morto.»

«Cos'è che è morto?»

«Il braccio. Era così grossa...» piagnucolò sconvolto.

S'intromise la voce di Rick. «Cosa succede?» Chiamava dalla grotta di muschio situata più in basso, dove era rimasto assieme ad Amar.

«Danny è stato punto», disse Peter. «Danny, resta dove sei. Vengo giù ad aiutarti.»

«L'ho mandata via!»

«Bravo.»

Danny si tirò su, non voleva guardare la spalla. Il sangue gocciolava sulla camicia. Si tastò la fronte. Aveva la febbre? Stava cadendo in delirio? Cominciò a biascicare. «Nessun veleno... Sto bene... Nessun veleno. Nessun veleno, nessun veleno...»

Peter prese con sé il kit di pronto soccorso. La discesa fu facile e rapida: si calò giù una mano dopo l'altra, a volte aggrappandosi con un solo braccio. Trovò Danny raggomitolato in posizione fetale, il viso pallidissimo. Il suo braccio sinistro sembrava completamente inerte.

«Non lo sento più», frignò Danny.

Peter gli scostò la camicia ed esaminò la ferita sulla spalla. Era una piccola puntura. La pulì con un tampone di tintura di iodio, aspettandosi che Danny si sentisse pizzicare, ma l'altro non reagì.

Cercò i segni dell'avvelenamento. Gli guardò gli occhi, per verificare se c'era costrizione o dilatazione delle pupille. Sembrava tutto normale. Gli tastò il polso, controllò il respiro e se erano intervenuti cambiamenti nel colore della pelle. Cercò di capire se lo stato mentale di Danny era alterato. No, sembrava fosse solo molto spaventato. Gli esaminò il braccio. La pelle aveva un colore normale, ma l'arto era floscio. Lo pizzicò. «Hai sentito qualcosa?»

Danny scosse la testa.

«Nausea? Dolore?» chiese Peter.

«Nessun veleno... Nessun veleno...»

«Non credo che tu sia stato avvelenato.» Se nel pungiglione ci fosse stato del veleno, Danny si sarebbe sentito molto male, avrebbe provato un dolore intenso, sarebbe addirittura morto. Ma i suoi segni vitali rimanevano stabili. «Penso che tu abbia fatto scappare l'aggressore. Cos'era?»

«Un'ape o una vespa», biascicò Danny. «Non so dirlo.»

Le vespe erano molto più comuni delle api. Probabilmente nelle Hawaii ce n'erano migliaia di varietà diverse, molte delle quali non ancora identificate. Come si faceva a sapere quale aveva punto Danny? Se poi era stata una vespa. Peter scartò un cerotto e lo applicò sulla puntura. Poi si strappò la manica della camicia e ne ricavò una fascia per sostenere il braccio. Si chiedeva come fare per portare giù Danny.

«Te la senti di saltare?»

«No. Forse.»

«Non ci faremo male.» Poi Peter chiamò con la radio Karen ed Erika, che si trovavano ancora in cima all'albero. «Danny e io salteremo a terra. Voi potreste fare altrettanto.»

Karen ed Erika si sporsero da un ciuffo di foglie. Non riuscivano a vedere il terreno in basso. Karen lanciò un'occhiata a Erika, che annuì.

«Siamo pronte», disse Karen via radio, poi controllò che la cerbottana fosse saldamente legata alla schiena. «Uno, due, tre...» Erika saltò per prima, subito seguita da Karen.

Mentre si abbandonava nello spazio, Karen divaricò braccia e gambe come un paracadutista in caduta libera e si ritrovò a planare. «Wow!» gridò. Vedeva Erika sotto di sé e la sentiva urlare. Stavano planando, riuscivano a controllare il volo. Muovendo braccia e gambe, Karen cambiò direzione. Sentiva l'aria scorrerle sul corpo, densa e soffice, e sostenerla. Era come fare il bodysurf, con la sola differenza che invece dell'acqua c'era l'aria. Sbatté contro un ramo e capitombolò nello spazio, indenne. Allargò di nuovo le braccia e cavalcò il vento liquido, scendendo tra i rami. Sotto di sé, vide Erika virare in picchiata. Andava più veloce di lei.

Karen voleva rallentare. Ruotò il corpo a sinistra e a destra, catturando l'aria e usando braccia e gambe per diminuire la velocità. «Wow!» urlò. Stava andando verso il fogliame. Aveva perso di vista Erika... la sentiva gridare... Irruppe tra le foglie... e, dritto davanti a lei, c'era una ragnatela. E, intrappolata nella ragnatela, c'era Erika, che rimbalzava su e giù, agitando braccia e gambe nel tentativo di districarsi. Sul bordo della tela era appostato un ragno giallo pallido... Un ragno-violino, molto velenoso.

Mentre cadeva, Karen ruotò il corpo di lato: le informazioni che possedeva su quel ragno le erano affiorate rapide nella mente. Doveva assolutamente finire nella tela, era l'unico modo per salvare Erika. Non aveva paura, perché sapeva come fronteggiare un ragno del genere... Andò a sbattere contro l'orlo della tela e rimase lì, rimbalzando a mezz'aria.

Dal punto di vista di Karen, la ragnatela doveva essere larga l'equivalente di quindici-diciotto metri, molto più grande della rete di protezione di un circo. Diversamente da quella, questa era vischiosa. Infatti i suoi fili radiali erano cosparsi di goccioline di colla e i vestiti di Karen, che ne erano già impregnati, la tenevano appiccicata alla tela. Lontano da lei, Erika si dibatteva in preda a un panico cieco e gridava aiuto. Dal canto suo, il ragno sembrava esitare. Forse non riconosceva gli esseri umani come prede, congetturò Karen. Ma avrebbe attaccato, pensò, e presto. L'aggressione sarebbe stata fulminea.

«Sta' ferma!» gridò, a Erika, poi rotolò su sé stessa fino a trovarsi di fronte al ragno ed estrasse il machete. «Ah!» strillò. I suoi occhi esaminarono rapidi la superficie della tela. Cercava un filo di segnalazione – un filo collegato a una zampa del ragno, che attraversava i fili a raggiera fino al centro – e lo trovò. Si lanciò in avanti e lo recise. Il ragno usava il filo di segnalazione per rilevare la presenza della preda. Tagliarlo era come recidere un nervo. La cosa mise in allarme l'animale, che subito scappò per andarsi a rincantucciare sotto una foglia accartocciata: la sua tana.

«La maggior parte di questi tipi si spaventa facilmente», disse Karen a Erika. Tagliò un altro filo e le due donne caddero libere, mentre Karen diceva al ragno da sopra la spalla: «Scusa, tesoro».

Atterrarono insieme avvolte in un groviglio di seta appiccicosa. Erika era molto scossa. «Credevo di essere spacciata», disse.

«Non c'è niente di cui preoccuparsi, se conosci la struttura della ragnatela», le spiegò Karen mentre le toglieva di dosso i fili di seta.

«Ma io sono un'esperta di coleotteri, non di ragni», ribatté Erika.

Peter e Danny atterrarono poco lontano, schiantandosi contro le foglie. Infine apparve Rick, che calava giù Amar con l'aiuto della corda. Si riunirono ai piedi dell'ohia e Peter spiegò il cambiamento di programma. Sarebbero andati a Tantalus.

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