Copertina
Autore Giovanni Cristofolini
Titolo Il giardino di Darwin
SottotitoloL'evoluzione delle piante
EdizioneAllemandi, Torino, 2009 , pag. 240, bilingue, ill., cop.fle., dim. 17x24x2 cm , Isbn 978-88-422-1741-1
CuratoreGiovanni Cristofolini, Annalisa Managlia
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe scienze naturali , botanica , evoluzione
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  9 Presentazione
 11 Foreword
    PIER UGO CALZOLARI

 13 Darwin e l'evoluzione delle piante. Nota introduttiva
 15 Darwin and the Evolution of Plants. An Introductory Note
    GIOVANNI CRISTOFOLINI

 17 Tavole Plates

 33 La sistematica filogenetica delle piante: lo stato dell'arte
 43 Phylogenetic Systematics of the Plant Kingdom: The State of the Art
    JOACHIM W. KADEREIT

 49 I movimenti e lo sviluppo delle piante: Darwin fisiologo evoluzionista
 81 The Movements and Development of Plants: Darwin as Evolutionary Physiologist
    PAOLO PUPILLO

 98 Le risposte delle piante a luce e gravità
113 The Responses of Plants to Light and Gravity
    FRANCESCA SPARLA e PAOLO TROST

123 Gli studi darwiniani sulle piante insettivore
137 Darwin's Studies of Insectivorous Plants
    ANNALISA TASSONI

146 Polimorfismo fioraie e incompatibilità: gli studi darwiniani sull'eterostilia
158 Floral Polymorphism and Incompatibility: Darwin's Studies into Heterostyly
    MARTA GALLONI e LICIA PODDA

168 Variazioni su un tema darwiniano: il passaggio evolutivo verso l'eterostilia
186 Variations on a Darwinian Theme: Evolutionary Transitions to Heterostyly
    JOHN D. THOMPSON e JUAN ARROYO

201 Il contributo di Darwin alla comprensione dell'impollinazione nelle orchidee
211 Darwin's Contribution to the Understanding of Pollination in Orchids
    GIOVANNI CRISTOFOLINI

218 Biologia ed ecologia dell'impollinazione nelle orchidee: lo stato dell'arte
229 Biology and Ecology of Orchid Pollination: The State of the Art
    SALVATORE COZZOLINO e GIOVANNI SCOPECE


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

Darwín e l'evoluzione delle piante.

Nota introduttiva

GIOVANNI CRISTOFOLINI

Erbario dell'Università di Bologna


Charles Darwin, padre indiscusso della moderna sistematica evoluzionistica - ossia della classificazione delle piante basata sulla loro filogenesi - non scrisse alcun lavoro dedicato alla classificazione generale dei viventi. Questa apparente contraddizione si spiega con il fatto che Darwin fu sempre assolutamente alieno dal fare affermazioni che non fossero basate su osservazioni fattuali. Tutte le affermazioni che troviamo nei suoi scritti sono sostenute da osservazioni oppure esperimenti puntigliosamente analizzati e rigorosamente discussi.

La sistematica filogenetica moderna si basa (come è spiegato nel saggio di Joachim W. Kadereit in questo volume) su rigorose analisi molecolari. Viceversa, al tempo di Darwin non esistevano strumenti paragonabili a quelli forniti dall'attuale biologia molecolare: infatti tutti i sistemi di classificazione filogenetica dell'Ottocento e della prima metà del Novecento sono fondati sostanzialmente sull'intuizione e sull'illazione. Benché si tratti spesso di intuizioni molto acute, i sistemi di classificazione filogenetica del secolo passato non sono sottoponibili a controllo né a verifica. Darwin fu invece un rigoroso sperimentatore, alieno da speculazioni non sottoponibili a controlli sperimentali o a osservazioni concrete.

Lo studio della «grande evoluzione» (quella che in quattro miliardi di anni ha condotto, da poche cellule iniziali, alla immensa diversità attuale animale e vegetale) era precluso all'approccio sperimentale. Necessità spinse quindi Darwin a concentrare l'attenzione su quella che noi oggi chiamiamo «microevoluzione», cioè l'evoluzione che porta al differenziamento delle specie, formulando nel contempo l'ipotesi che la «grande evoluzione» altro non fosse che l'estensione della microevoluzione nei tempi lunghi.

Tutti gli scritti botanici che sono discussi in questo volume hanno in comune la ricerca della spiegazione causale della diversità alla luce della teoria evoluzionistica. La teoria darwiniana asserisce che all'interno di ogni specie si manifesta una continua competizione per sopravvivere, per accedere alle risorse e per riprodursi. Gli individui di ogni specie sono tutti diversi l'uno dall'altro fino dalla nascita, e questa diversità insorge in modo imprevedibile e casuale: di conseguenza, non tutti gli individui hanno la stessa capacità di sopravvivenza, di accesso alle risorse e di riproduzione. A ogni generazione nascono più individui di quanti possano sopravvivere. Pertanto, solo gli individui che hanno maggiori capacità sopravvivranno e si riprodurranno, trasmettendo alla progenie le loro caratteristiche. Questa capacità di sopravvivenza e riproduzione è detta «fitness». Con il passare delle generazioni, ci si deve attendere che in ogni specie si affermino quei caratteri che determinano una fitness più alta.

Dal ragionamento precedente si conclude che, se in una determinata specie si trova una determinata struttura del fiore, oppure delle foglie, o del fusto, bisogna supporre che tale struttura comporti un più elevato grado di adattamento (fitness), e che per questo sia stata favorita dalla selezione naturale nelle generazioni passate. Il grado di fitness è la chiave di lettura costantemente ricercata da Darwin per spiegare l'origine e la diversità delle piante rampicanti come delle insettivore, della fecondazione delle Orchidee come dei meccanismi che prevengono l'autofecondazione, ed è il filo conduttore di tutta l'opera.

Nella ricerca di elementi fattuali a sostegno delle sue vedute evolutive, la precisione e lo scrupolo di Darwin sono tali da poter essere di esempio a qualunque ricercatore, di allora come di oggi. Nessuna delle sue asserzioni è fondata su poche osservazioni - e meno che meno sulle sole osservazioni «comode» (quelle che corroborano l'ipotesi di partenza). Per fare solo qualche esempio, nello studio sulle Orchidee Darwin osservò direttamente più di cento specie, fra indigene della Gran Bretagna ed esotiche, compiendo osservazioni che si protraevano, in qualche caso, per giorni e per notti intere. Il suo rispetto per il dato osservato era assoluto: ad esempio, nel protocollo di lavoro sull'impollinazione nelle Primule troviamo registrati rigorosamente sia i casi che corroborano la sua ipotesi (che la fecondazione sia obbligatoriamente incrociata), sia i casi inattesi di autofecondazione, che contrastano con la medesima ipotesi.

Dalla massa imponente di dati raccolti, di osservazioni e di analisi, non si ricava soltanto un insieme di conclusioni scientifiche ancor oggi valide, ma si ricava, soprattutto, una lezione di rigore metodologico e di etica della ricerca.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 98

Le risposte delle piante a luce e gravità

FRANCESCA SPARLA E PAOLO TROST

Dipartimento di Biologia Evoluzionistica Sperimentale, Università di Bologna


Luce e piante sono due termini che spesso vanno a braccetto. La fotosintesi clorofilliana è uno dei rari termini di biologia vegetale il cui significato è noto a molti, e se anche dovesse risultare una parola nuova dal valore apparentemente oscuro, tutti sappiamo che le piante sono in grado di «nutrirsi» della luce, trasformando l'anidride carbonica (quella molecola negli ultimi anni finita sotto le luci della ribalta essendo corresponsabile del ben noto effetto serra) in zuccheri, zuccheri necessari tanto per il sostentamento dell'organismo vegetale che li ha prodotti quanto per il sostentamento di tutti i consumatori (uomo incluso) che non sono in grado di nutrirsi della luce.

Limitare il significato del binomio luce pianta al ruolo della luce nel solo processo fotosintetico sarebbe però un grave errore. Infatti le piante, oltre a utilizzare la luce come fonte energetica per la produzione di zuccheri, utilizzano anche la luce come fonte d'informazione del mondo esterno. In una sola parola si può affermare che le piante «vedono». Pur non disponendo di un apparato visivo nell'accezione più canonica del termine (vale a dire pur non disponendo di occhi) le piante sono, infatti, in grado di percepire la luce esterna e di rispondere adeguatamente all'informazione contenuta in questo stimolo ambientale.

Per le piante la luce è quindi come Giano, il Dio dalla doppia faccia. Infatti la luce, pur essendo una singola entità, presiede a una doppia funzione nelle piante: promuovere la fotosintesi e garantire il corretto sviluppo dell'organismo vegetale. Questi due processi fisiologici utilizzano luce grosso modo dello stesso colore ma, mentre la quantità di luce necessaria alle piante per produrre zuccheri è estremamente elevata, la quantità di luce necessaria per promuovere, ad esempio, il fototropismo (parola composta derivante dal greco photo, «luce», e tropos, «direzione») nelle piante è estremamente bassa, come dire che le piante hanno «occhi» più sensibili dell'uomo. I risultati derivanti da entrambi questi processi ci sono molto più famigliari che non i processi stessi: lo zucchero, l'olio e l'amido sono tutti prodotti dalla fotosintesi; mentre la tipica curvatura in direzione della luce che assume una pianta d'appartamento posta vicino a una finestra è il risultato del fototropismo (fig. 1). Nel primo caso, la luce è una fonte d'energia che viene assorbita dalla clorofilla, nel secondo la luce porta un'informazione (di tipo direzionale) che viene recepita da particolari fotorecettori (le fototropine).

È da sottolineare che la capacità degli organismi vegetali di crescere in direzione della luce è un'idea scientifica relativamente moderna. La totale passività e insensibilità delle piante nei confronti degli stimoli ambientali era, di fatto, adottata da Aristotele (384-322 a.C.) proprio come criterio di distinzione tra organismi animali e vegetali. Seguendo le idee di Aristotele, Teofrasto (371-287 a.C.) spiegava i movimenti delle piante verso la luce del sole come un effetto dovuto all'azione del sole sulla pianta, sole che sarebbe stato responsabile della rimozione di fluidi dalla parte illuminata della pianta. Questa semplice spiegazione del tropismo vegetale offerta da Teofrasto si protrasse per quasi tutto il XVII secolo. Bisognerà, infatti, aspettare sino alla seconda metà del Seicento prima che vengano svolti i primi esperimenti sul tropismo vegetale, condotti mediante approcci rudimentali ma inequivocabilmente più vicini alla scienza moderna. Sfortunatamente, però, i dati ottenuti da questi pionieri della ricerca contemporanea, Thomas Browne (1605-1682) e Robert Sharrock (1630-1684), furono mal interpretati e per quanto abbiano per la prima volta avanzato un ruolo attivo da parte dell'organismo vegetale nel rispondere agli stimoli ambientali (la curvatura della pianta in risposta a uno stimolo era dovuta alla crescita della pianta stessa e non all'avvizzimento passivo della porzione della pianta interessata dallo stimolo, come immaginava Teofrasto), gli autori equivocarono lo stimolo responsabile della curvatura della pianta attribuendolo alla scarsa qualità dell'aria e non alla luce. Sarà solo con Henri-Louis Duhamel (1700-1782) che la luce verrà per la prima volta riconosciuta come uno stimolo responsabile del tropismo vegetale e dopo il Romanticismo, dove una non ben definita «forza vitale» interna era considerata responsabile dei movimenti nelle piante, fu per la prima volta proposto da Henri Dutrochet (1776-1843) che il fototropismo vegetale rappresentasse la risposta attivamente messa in atto dalla pianta allo stimolo luminoso.

Abbiamo talmente tanta famigliarità con la vista che spesso ci dimentichiamo che l'uomo percepisce il mondo circostante grazie alla presenza di fotorecettori (definibili come quelle biomolecole responsabili della percezione della luce) presenti all'interno dei nostri organi visivi (gli occhi) in grado di rispondere solo ad alcune lunghezze d'onda della luce (la lunghezza d'onda è un parametro comunemente utilizzato per indicare il colore della luce). Infatti, la luce solare che colpisce la superficie terrestre non è luce monocromatica (cioè luce a una singola lunghezza d'onda) bensì luce a differenti lunghezze d'onda. Più precisamente lo spettro d'emissione solare (cioè l'insieme di tutte le lunghezze d'onda della luce emessa dal sole) contiene luce che va dai circa 200 nanometri ai circa 2.000 nanometri (nanometri = 10^-9 metri, una lunghezza molto piccola!) (fig. 2). Buona parte di questa luce (non tutta) raggiunge la superficie terrestre, e di tutte quelle lunghezze d'onda che ci colpiscono noi siamo in grado di percepire (vedere) solo quelle che ricadono nello spettro del visibile, cioè solo quella luce che va dai 400 ai 700 nanometri circa (fig. 2). Le piante si comportano allo stesso modo.

Come detto precedentemente, la percezione della luce è affidata ai fotorecettori che sono definibili come quelle biomolecole sensoriali in grado di convertire un segnale luminoso in un segnale biologico. Per fare questo, i fotorecettori devono essere in grado di: 1. percepire la luce di adeguata lunghezza d'onda; 2. convertire un segnale luminoso (di natura fisica) in un segnale cellulare (di natura biologica); 3. internalizzare l'informazione (la luce proviene dall'esterno, la risposta dell'organismo dall'interno); 4. fornire la corretta risposta fisiologica.

Gli organismi vegetali contengono differenti tipi di fotorecettori, ognuno dei quali è caratterizzato dalla capacità di rispondere a specifiche lunghezze d'onda. Indipendentemente dal tipo di luce a cui rispondono, tutti i fotorecettori condividono però un'architettura molecolare simile: sono, infatti, tutte molecole proteiche (le biomolecole per eccellenza) in grado di modificare la loro struttura in risposta alla luce. In generale le proteine non hanno questa proprietà, ma le proteine dei fotorecettori legano altre molecole più piccole e colorate (i cromofori) che, viceversa, vedono la luce e modificano la loro struttura se illuminate da luce di un preciso colore. Il cambiamento strutturale del cromoforo si ripercuote sulla struttura della proteina che lo lega, modificando di conseguenza l'intera architettura molecolare del fotorecettore.

I fotorecettori vegetali a oggi meglio caratterizzati sono noti come: fitocromi, criptocromi e fototropine. Questi differenti fotorecettori svolgono ruoli in parte sovrapposti nell'adattamento fisiologico che un organismo vegetale attiva in risposta alla percezione della luce. I fitocromi sono i fotorecettori responsabili della percezione della luce caratterizzata da lunghezze d'onda nel rosso e nel rosso lontano (600-800 nanometri), mentre i criptocromi e le fototropine rappresentano le due classi di fotorecettori responsabili della percezione della luce UV-A e blu (320-500 nanometri). I fitocromi insieme ai criptocromi sono primariamente coinvolti nella regolazione dei processi fotomorfogenetici (come, ad esempio, la germinazione e la «fuga dall'ombra»), mentre le fototropine sono coinvolte nella regolazione dipendente dalla luce di tutti quei processi che servono a ottimizzare l'efficienza fotosintetica delle piante e a promuoverne la crescita, tra cui il fototropismo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 201

Il contributo di Darwín alla comprensione dell'impollinazione nelle orchidee

GIOVANNI CRISTOFOLINI

Erbario dell'Università di Bologna


INTRODUZIONE: PERCHÉ DARWIN SI OCCUPÒ DI ORCHIDEE

Le famiglia delle orchidee, comprendente oltre duemila specie descritte fino a oggi, è una delle famiglie più diversificate di tutto il regno vegetale, ed è senza alcun dubbio quella in cui l'impollinazione avviene nei modi più diversi, specializzati, addirittura stupefacenti. Non è strano, quindi, che Darwin, nel suo sforzo di comprendere la diversità delle piante e le sue cause, ne fosse fortemente attratto, tanto da dedicare anni di osservazione al meccanismo riproduttivo di queste piante e da dedicare loro una poderosa monografia, uscita in due edizioni a distanza di quindici anni, la prima nel 1862, la seconda, profondamente riveduta, nel 1877. La monografia darwiniana ebbe molta risonanza e fu tradotta in diverse lingue: la prima edizione italiana, condotta sulla seconda edizione inglese, uscì nel 1883, per la cura di quel grande darwinista che fu Giovanni Canestrini. Le citazioni che seguono sono tutte tratte dalla seconda edizione inglese del 1877.

Il fascino delle orchidee su Darwin deriva dall'alta specializzazione del loro fiore e dalla conseguente specializzazione del rapporto pianta-insetto. Questo rapporto funzionale così stretto fra due organismi appartenenti a regni diversi implica il concetto di «coevoluzione». Darwin non usò né tale termine né altro equivalente, ma questo è il concetto intorno al quale ruota la sua ricerca. L'assunto darwiniano si può riassumere più o meno così: «Se due organismi hanno raggiunto un'interazione così stretta e specifica come l'orchidea e il suo impollinatore, è necessario dedurne che ambedue gli organismi abbiano realizzato in questo modo un vantaggio evolutivo (maggiore fitness )».

Il fiore delle orchidee (tav. XII) è peculiare in tutte le sue parti. Il perigonio è costituito da sei tepali disposti su due livelli (tecnicamente «verticilli») di tre tepali ciascuno. I tre tepali (uno superiore e due laterali) esterni sono usualmente poco differenziati, simili l'uno all'altro per forma, colore e dimensione; i tre interni invece comprendono due elementi superiori, più piccoli, che si avvicinano l'un l'altro a formare una sorta di cappuccio che racchiude la parte sessuata del fiore, e uno inferiore sviluppatissimo: quest'ultimo si estende verso il basso e l'avanti formando una specie di piattaforma, detta «labello», su cui si potrà poggiare l'insetto pronubo; il medesimo tepalo può inoltre svilupparsi dal lato posteriore a formare un'appendice cava, detta «sperone», nella quale le specie nettarifere secernono il nettare. Il labello e lo sperone svolgono la parte più importante nel complesso rapporto orchidea e animale impollinatore.

Non meno singolare è la struttura della parte sessuata (fig. 1) dove gli stami sono ridotti, nella stragrande maggioranza delle specie, a uno solo, il cui filamento è saldato in un unico corpo con lo stilo, a formare il ginostemio, di modo che l'unica antera è collocata poco sopra lo stigma, vicinissima a esso. Le due logge dell'antera contengono il polline riunito in due masse coerenti (pollinii) ciascuna recante verso il basso un'appendice (caudicula) che termina in un disco viscoso e adesivo (il viscidio). All'atto dell'impollinazione, i due pollinii sono asportati interamente, in virtù del viscidio che aderisce al corpo dell'impollinatore. L'ovario infine, grande e allungato, può contenere fino a un centinaio di migliaia di ovuli: così l'impollinazione, quando avviene, determina la fecondazione contemporanea di tutti gli ovuli di una pianta con tutto il polline di un'altra (fig. 1).

Il richiamo esercitato dall'orchidea sull'impollinatore è così modulato (si veda il saggio di Cozzolino in questo volume) che in molti casi vi è un rapporto biunivoco fra specie di orchidea e specie di insetto pronubo.

Pochi autori prima di Darwin si erano dedicati metodicamente allo studio della riproduzione nelle orchidee; fra questi si ricordano Sprengel alla fine del Settecento e Federico Delpino negli stessi anni della sperimentazione darwiniana. Ambedue furono studiati e ampiamente citati da Darwin. Ciò che rende unica la ricerca di quest'ultimo è l'ampiezza dell'indagine: il campionamento darwiniano (tabella 1) copre 107 specie diverse, di cui una trentina indigene della Gran Bretagna o dell'Europa, e le rimanenti coltivate in serra, ottenute da propaguli inviatigli da corrispondenti attivi nei Paesi tropicali. La sperimentazione non è mai episodica od occasionale: ogni specie è studiata con lo scopo di illuminare un particolare aspetto dell'evoluzione della famiglia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 203

LE LINEE GUIDA DELLA RICERCA DARWINIANA

L'omologia è la chiave di lettura della diversità

Il principale filo conduttore dello studio darwiniano è la ricerca di un modello fiorale di base, da cui si possano far derivare le forme delle singole specie, per via di divergenti specializzazioni. Parlando di «modello di base» Darwin, naturalmente, non allude a un modello ideale, ma a una struttura reale, concreta, propria del progenitore da cui tutte le orchidee sono derivate per progressiva divergenza e specializzazione. Qui egli introduce il concetto di «omologia», ancora oggi utilizzato negli studi sull'evoluzione. «Omologhe» sono dette quelle strutture che si trovano in specie diverse, ma che sono derivate da una medesima struttura di uno stesso progenitore: per esempio, gli arti anteriori dei mammiferi e le ali degli uccelli sono considerati omologhi, perché derivano dagli arti anteriori di un rettile progenitore di questi e di quelli.

| << |  <  |