Copertina
Autore Simon Critchley
Titolo Responsabilità illimitata
SottotitoloEtica dell'impegno, politica della resistenza
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, Melusine 83 , pag. 190, cop.fle., dim. 12x19x1,7 cm , Isbn 978-88-8353-658-8
OriginaleInfinitely Demanding. Ethics of Commitment, Politics of Resistance
EdizioneVerso, London, 2007
TraduttoreAndrea Mubi Brighenti
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe filosofia , politica
PrimaPagina


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Indice


  7 Introduzione
    La possibilità dell'impegno

 10 Nichilismo: attivo e passivo
 12 Deficit di motivazione
 15 La tesi

 21 Capitolo primo
    La richiesta di approvazione:
    una teoria dell'esperienza etica

 21 Esperienza etica
 27 La soggettività etica
 31 Ragioni giustificatrici e ragioni motrici
 34 Kant, ad esempio: il fatto della ragione
 35 L'auto-autentificazione della legge morale:
    alcuni kantiani contemporanei
 40 L'ortodossia dell'autonomia e la questione della fatticità

 49 Capitolo secondo
    Dividualismo: la costruzione del soggetto etico

 53 Alain Badiou: universalità situata
 61 Knud Ejler Løgstrup: la richiesta inadempibile
 68 Emmanuel Lévinas: il soggetto diviso
 76 Jacques Lacan: il segreto Cosale del prossimo

 83 Capitolo terzo
    Il problema della sublimazione

 84 Felicità?
 88 Il paradigma dell'eroe tragico
 93 Humour
 99 Abbiamo ancora molto da imparare sulla natura del Super-Io
101 Avere una coscienza

105 Capitolo quarto
    Metapolitica anarchica:
    soggettività politica e azione politica dopo Marx

112 La verità di Marx
114 Il capitalismo si capitalizza
118 Dislocazione
121 Essere privi di un nome:
    il problema della soggettività politica
124 La lotta bisogna cercarla
130 La politica come spazio interstiziale all'interno dello Stato
134 Vera democrazia
139 L'etica come metapolitica anarchica
144 Un nuovo linguaggio della disobbedienza civile
149 Dissenso e rabbia
153 Conclusione

159 Appendice
    Cripto-schmittianismo:
    la logica del politico nell'America di Bush


179 Nota

183 Bibliografia


 

 

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Pagina 7

Introduzione

La possibilità dell'impegno


La filosofia non comincia con un'esperienza di meraviglia, come sostiene la tradizione antica, ma piuttosto, io credo, con una sensazione indeterminata ma tangibile che qualcosa di desiderato non è stato raggiunto, che uno sforzo immaginativo è fallito. La filosofia comincia con la delusione e, anche se possiamo rintracciare dei precursori di questa concezione, ritengo che si tratti di un prodotto tipicamente moderno. Per darle un nome e una data, la si potrebbe far discendere dalla svolta copernicana della filosofia di Kant alla fine del diciottesimo secolo. Il grande sogno metafisico dell'anima che si muove senza attrito verso la conoscenza di sé, delle cose-in-sé e di Dio non è altro che, appunto, un sogno. La conoscenza assoluta, o un'ontologia immediata delle cose-in-sé, viene ora posta oltre le possibilità di creature finite e fallibili quali noi siamo. Gli esseri umani sono creature limitate, che un semplice miasma o un virus possono distruggere: la rivoluzione kantiana in filosofia è perciò una lezione di limitatezza. Come disse Pascal, siamo la canna più fragile in tutta la natura e questo ci spinge a fare, anche se con riluttanza, un'ammissione. La nostra cultura è percorsa da miti prometeici di superamento della condizione umana, vuoi attraverso l'immaginazione pura, vuoi attraverso l'intelligenza artificiale e le illusioni contemporanee circa la robotica, la donazione e la manipolazione genetica, o persino la criogenetica e la chirurgia estetica. Sembra proprio che abbiamo un'enorme difficoltà ad accettare la nostra limitatezza, la nostra finitezza, e questa incapacità è causa di molte tragedie.

Potremmo produrre un'intera tassonomia della delusione, ma le due forme che mi interessano anzitutto sono quella religiosa e quella politica: due forme di delusione non interamente separabili tra loro e che, anzi, si riversano costantemente l'una nell'altra. Vedremo come le categorie etiche e religiose siano a volte difficili da separare, cosicché nella mia discussione dell'etica dovrò spesso riferirmi alle tradizioni religiose. Nella delusione religiosa, è l'esperienza della fede in qualche divinità trascendente, o in uno o più equivalenti di questa divinità, a essere desiderata e a mancare. Nell'esperienza della delusione religiosa la filosofia è senza dio, ma si tratta di un ateismo con una memoria e un'impronta religiosa molto marcate.

L'esperienza della delusione religiosa genera una questione potenzialmente abissale: se le strutture teologiche legittimate e il sistema religioso di credenze su cui le persone tradizionalmente si basavano non sono più credibili; se, per ricorrere a un'espressione, Dio è morto, che ne è del significato della vita? È questa domanda che determina l'arrivo di quello che Nietzsche definì come il più scomodo degli ospiti: il nichilismo. Il nichilismo è il crollo dell'ordine del significato, per cui tutto ciò che avevamo immaginato come base divina e trascendente per la valutazione morale diviene insensato. Il nichilismo è questa constatazione della mancanza di significato, che comporta un senso di indifferenza, di mancanza di direzione o, al peggio, una disperazione che può occupare tutti gli ambiti della vita. Per alcuni si tratta dell'esperienza fondamentale della gioventù, come testimoniano le morti di molti eroi romantici da Keats e Shelley a Sid Vicious e Kurt Cobain (il loro numero continua a salire); per altri dura la vita intera. Il compito filosofico posto da Nietzsche e seguito da molti altri filosofi nella tradizione continentale è come rispondere al nichilismo o, meglio, come resistere al nichilismo. L'attività filosofica, con cui intendo il libero movimento del pensiero e della riflessione critica, si definisce dunque come resistenza militante al nichilismo. In altre parole, la filosofia è una meditazione sul fatto che la base del significato morale è divenuta insensata. I nostri valori svalutati richiedono quella che Nietzsche chiama una rivalutazione, o trasvalutazione. La difficoltà qui consiste nell'affrontare la questione della mancanza di significato senza incantarsi in nuove forme esotiche di significato di una delle diverse marche di elisir esistenziale d'importazione, del genere che Nietzsche chiamava "buddismo europeo" – e naturalmente in giro si trova anche molto "buddismo americano".

Questo libro si concentrerà tuttavia principalmente sulla seconda forma principale di delusione, la delusione politica. In questo caso, il senso di mancanza o del venire meno di qualcosa di importante deriva dal rendersi conto di vivere in un mondo profondamente ingiusto, attraversato dall'orrore della guerra; un mondo in cui, come dice Dostoevskij, il sangue viene spillato come champagne. Questa esperienza di delusione è oggi estremamente tangibile a causa dell'erosione delle strutture politiche consolidate e di una guerra infinita al terrorismo in cui i sentimenti delle popolazioni occidentali vengono controllati con una politica della paura e della minaccia di attacchi dall'esterno. Come cerco di mostrare nell'appendice, tale situazione è tutt'altro che nuova e potrebbe anzi essere considerata come definitoria della politica dall'antichità fino alla modernità. Il mio argomento è che se il presente è definito da uno stato di guerra, quest'esperienza di delusione politica solleva la questione della giustizia: come potrebbe affermarsi la giustizia in un mondo ingiusto? È questa domanda che genera il bisogno di un'etica o di ciò che altri potrebbero chiamare dei principi normativi che ci mettano in grado di fronteggiare la situazione. Il compito principale di questo libro è cercare di rispondere a tale bisogno attraverso una teoria dell'esperienza etica che ci conduca verso un'etica dell'impegno infinitamente esigente e verso una politica della resistenza (vedi figura 1).

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Pagina 12

Deficit di motivazione

Anche se opposti, il nichilismo attivo e quello passivo sono come due gemelli: fondamentalmente d'accordo a riguardo dell'insensatezza della realtà, o piuttosto della sua essenziale irrealtà, vi reagiscono, vuoi con il ritiro inerte, vuoi con la foga distruttiva. In questo libro voglio seguire un sentiero diverso. Mi sembra che dobbiamo cercare un modo per pensare attraverso e oltre la situazione in cui ci troviamo. Dobbiamo resistere rifiutando la tentazione del nichilismo e fronteggiando la dura realtà del mondo. Cosa ci insegna questa realtà? Ci mostra ingiustizia violenta dappertutto; ci propone disuguaglianze sociali ed economiche crescenti; ci rivela che tra quel che succede davanti ai nostri occhi e quel che succede altrove non c'è differenza; che le popolazioni del florido Occidente vengono governate alimentando la paura dello straniero, ora definito "terrorista", "immigrato", "rifugiato", "richiedente asilo"; che molti occidentali abbracciano concezioni reazionarie e xenofobe della propria supposta identità – un fenomeno che sta assumendo proporzioni inquietanti in Europa – e che, a causa di un'eccessiva dieta a base di corruzione, inganni e complicità, le democrazie liberali sono tutt'altro che in buona salute. Io direi che la situazione attuale ci parla di una profonda delusione politica.

È a questo riguardo che dobbiamo riconoscere la forza della posizione di al-Qaeda e della sua diagnosi del presente. In breve, le istituzioni della democrazia liberale secolarizzata non forniscono più sufficiente motivazione ai propri cittadini. Al contrario, le istituzioni politiche delle democrazie occidentali appaiono oggi stranamente demotivanti. Si parla sempre più di deficit democratico: la politica tradizionale basata sulla rappresentanza elettorale viene percepita come sempre più lontana dalla vita dei cittadini, con la conseguenza che la società civile si allontana dallo Stato, proprio nel momento in cui lo Stato cerca di estendere i crescenti poteri tecnologici di sorveglianza e controllo a tutte le aree della società civile. Penso si possa dire che c'è un deficit di motivazione al cuore della vita democratica, poiché i cittadini percepiscono le norme che regolano la società contemporanea come un vincolo esteriore che tuttavia non arriva a toccarli nel profondo. L'azione del governo rimane infatti esterna alla mentalità e alla soggettività dei cittadini. Se la democrazia liberale secolarizzata non motiva sufficientemente i soggetti, subentrano allora altri quadri motivazionali di riferimento che mettono in questione il progetto secolarizzato. Indipendentemente dal giudizio personale, occorre riconoscere che c'è qualcosa di profondamente motivante nell'ideologia islamica jihadista, tanto quanto nel suo opposto, che è il fondamentalismo cristiano. La fonte di questa motivazione è di tipo metafisico o teologico. Ciò che più è deprimente, tra i tanti aspetti deprimenti dell'attuale amministrazione americana, è proprio quella sorta di simmetria metafisica o teologica tra George W. Bush e Osama Bin Laden. In questo senso parlo di un nuovo periodo di guerre di religione.

La mia ipotesi è che un deficit di motivazione stia al cuore della democrazia liberale secolarizzata. Quel che unisce i nichilisti attivi e passivi è una critica metafisica o teologica della democrazia, vuoi nei termini del fondamentalismo jihadista o cristiano, vuoi nei termini di un escapismo di tipo buddista. È cruciale notare che questo deficit è anche di tipo morale, poiché indica una mancanza al centro della vita democratica che è intimamente connessa alla percepita inadeguatezza delle concezioni ufficiali della morale secolare. Seguendo quanto dice Jay Bernstein su questo punto, ci si potrebbe persino spingere ad affermare che la modernità stessa abbia avuto l'effetto di generare un deficit di motivazione morale che in ultimo sta minando la possibilità stessa di secolarizzazione dell'etica (Bernstein 2001; Poole 1991). Non sono sicuro di voler prendere posizione in difesa della secolarizzazione tout court, ma queste considerazioni mi offrono il destro per chiarire la premessa che sta dietro i primi capitoli di questo libro.

Dal mio punto di vista, ciò di cui abbiamo bisogno è una concezione dell'etica che in primo luogo sia in grado di riconoscere il deficit di motivazione che caratterizza le istituzioni della democrazia liberale, ma che non ci conduca ad abbracciare né il nichilismo passivo né quello attivo, anche se queste posizioni rappresentano delle forti tentazioni, in quanto la sensazione che il mondo sia irreparabilmente rovinato ci spinge puntualmente verso il ritiro o verso la distruzione.

Quel che ci manca, in questo periodo di grande delusione politica, è una concezione dell'etica che fornisca motivazione e forza sufficiente per affrontare la deriva del presente, un'etica in grado di rispondere e di resistere alla situazione in cui ci troviamo. Tale considerazione mi riporta alla questione iniziale: se vogliamo avere qualche possibilità nella costruzione di un'etica che sostenga i soggetti nell'azione politica, un'etica in grado di motivare, abbiamo anzitutto bisogno di una risposta alla domanda fondamentale della morale. Ed è ciò di cui vorrei occuparmi ora.

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Pagina 18

In questo modo, dal mio punto di vista, il soggetto etico viene definito da un impegno o da una fedeltà a una richiesta inesaudibile interiorizzata che lo divide. Ora, tale soggettività divisa, direi, è l'esperienza della coscienza, concetto che vorrei tornare a porre al centro dell'etica. Nonostante la tesi nietzscheana della coscienza che culmina nell'odio di sé, e nonostante la tesi freudiana della crudeltà del Super-Io, ciò che vorrei proporre è un'etica della scomodità, etica iperbolica fondata sull'interiorizzazione di una richiesta etica inadempibile. La coscienza non è, come dice Lutero, il lavoro di Dio nel cuore dell'uomo, ma piuttosto il lavoro di se stessi su se stessi. Il che ci può ricondurre all'opera del tardo Foucault. Tuttavia, non intendo il lavoro che il soggetto compie su se stesso nello stesso modo in cui lo intende Foucault, il quale pare sempre orientato alle pratiche di autocontrollo e a ciò che chiama la "cura del sé come pratica di libertà" (Foucault 1984c, pp. 273-294). Al contrario, dal mio punto di vista, l'esperienza della coscienza è quella di un sé essenzialmente diviso, di un sé umoristico originariamente non-autentico che non può mai raggiungere l'autarchia dell'autocontrollo.

La questione diviene allora (e questo è il tema dell'ultimo capitolo): qual è il legame tra coscienza e azione politica? Sviluppo questo tema attraverso una lettura di Marx, in particolare del giovane Marx e, ancor più in particolare, di ciò che, nella sua critica di Hegel, Marx chiama la "vera democrazia". Considero questa immagine come un invito a pensare il politico nel lavoro di Marx contro il riduzionismo economicistico poi enfatizzato da Engels e che divenne articolo di fede nel marxismo della Seconda Internazionale. Il mio uso di Marx non è né accademico né filologico, ma piuttosto diagnostico. Mi interessa il suo lavoro perché alcune delle sue analisi ci parlano precisamente di chi siamo, di dove siamo e di come potremmo trasformarci. Il capitolo si muove perciò intorno al problema dell'attualità dell'opera di Marx. Da una parte, difendo l'analisi di Marx del capitalismo e sostengo che le sue intuizioni sulla società e l'economia siano divenute ancor più plausibili di fronte a ciò che anodinamente chiamiamo globalizzazione. Dall'altra parte, però, critico l'idea che lo sviluppo del capitalismo conduca inevitabilmente a una semplificazione della struttura di classe nelle due polarità opposte della borghesia e del proletariato, per cui quest'ultimo diventerebbe il soggetto politico della prassi comunista rivoluzionaria. Se il proletariato non è più il soggetto rivoluzionario, si delinea una questione profonda circa la natura della soggettività politica. Al termine di una discussione sulla formazione di tale soggettività che si basa sul concetto di egemonia in Gramsci e sul recupero e l'elaborazione di tale concetto da parte di Ernesto Laclau, proseguo considerando quali siano le possibilità dell'organizzazione politica oggi. In particolare, prendo in considerazione il significato che possono assumere figure come l'associazione e la coalizione di fronte al dislocamento radicale posto in essere dal capitalismo globale.

Discuto la politica dell'identità indigena come un esempio lampante di invenzione di un nuovo soggetto politico, per prendere poi in esame la politica tatticista spettacolare dell'anarchismo contemporaneo, che, ritengo, ha dato vita a un nuovo linguaggio della disobbedienza civile.

Tornando alla tesi principale del libro, concludo sostenendo che al cuore di una politica radicale ci debba essere quello che chiamo un momento etico metapolitico, che fornisce la forza motivazionale o la propulsione all'azione politica. Se l'etica senza politica è vuota, la politica senza etica è cieca. In base alla mia lettura eterodossa di Lévinas, ritengo che questo momento metapolitico sia anarchico. In esso, l'etica si delinea come disturbo dello status quo politico. L'etica è una metapolitica anarchica, la continua messa in discussione dal basso di qualsiasi tentativo di imporre ordine dall'alto. La politica è perciò la creazione di una distanza interstiziale all'interno dello Stato che porta all'invenzione di nuove soggettività politiche. Di conseguenza, la politica non può essere confinata all'attività del governo che mantiene l'ordine, la pacificazione e la sicurezza finalizzata al consenso. Al contrario, la politica è la manifestazione del dissenso, lo sviluppo di una molteplicità anarchica che mette in questione l'autorità e la legittimità dello Stato. È solo in relazione a tale molteplicità che possiamo cominciare a ridare dignità al discorso ormai spaventosamente svalutato della democrazia.

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Pagina 102

A questo punto possiamo tornare alla teoria freudiana dello humour, e in particolare alla novità rappresentata dalla centralità del Super-Io nel fenomeno dello humour. L'essenza dell'umorismo, per Freud, è l'autoironia, che corrisponde alla capacità di guardarsi dall'esterno e trovarsi risibilmente inautentici. Si vede dunque che la scissione al cuore del soggetto etico non è una sorta di masochistica autoflagellazione, ma piuttosto l'esperienza di una relazione umoristica e sempre divisa con se stessi. Solo così si riesce a sopportare la radicalità di una richiesta etica imparando a ridere di se stessi. Ci si trova ridicoli, ma bisogna puntualizzare che non si ride del proprio Sé, quanto piuttosto ci si vede dall'esterno e si può così sorridere di sé. Tale è il risus purus di Beckett.

L'umorismo è perciò l'esperienza di una sostanziale mancanza di coincidenza tra l'Io e il Super-Io. Bisogna ricordare che l'umorismo è un esempio pregnante di ciò che si potrebbe chiamare l' eccentricità dell'essere umano in rapporto a se stesso. Forse il tratto più fondamentale di ciò che significa essere umani è proprio il fatto che non coincidiamo con noi stessi, il corpo materiale che io sono non è lo stesso che l'esperienza di pensiero che io ho. Vale a dire, c'è uno iato nella nostra esperienza tra l'essere e l'avere, tra l'essere ciò che si è e l'avere una relazione con quell'essere. In termini più semplici, l'essere umano ha un'attitudine riflessiva verso la propria esperienza e verso se stesso, e il motivo di ciò risiede nel fatto che gli esseri umani sono "eccentrici", poiché vivono tre i limiti posti per loro dalla natura, distanziandosi dalla propria esperienza immediata. Nel vivere fuori di se stessi, nell'attività riflessiva che questo comporta, l'essere umano raggiunge uno stato di rottura con il mondo naturale che lo circonda. L'antropologia filosofica di Helmuth Plessner si spinge persino oltre e dichiara che l'umano è questa rottura, questo iato tra l'essere e l'avere, tra il fisico e il psichico.

Comprendere le conseguenze della posizione eccentrica dell'essere umano è il problema fondamentale dell'antropologia filosofica, e questo è il motivo per il quale il riso ha una rilevanza centrale nei lavori di Plessner (1982).

Noi siamo creature irrequiete, curiose, spesso ansiose. Pascal ci chiamerebbe "miseri", in quanto per lui la condizione umana è data da "insicurezza, noia e ansietà". Tuttavia, la consapevolezza delta nostra miseria è anche, per Pascal, la condizione di partenza per riconoscere la nostra grandezza, una grandezza che deriva proprio da quella nostra miseria. Qui risiede il grande valore della comicità: se c'è un sole nero di melanconia al centro dell'universo comico, questo non implica affatto la depressione – al contrario, con l'antidepressivo rappresentato dallo humour possiamo ridere di noi stessi e provare non tristezza, bensì ciò che Freud chiama "liberazione e esaltazione", insomma una lucida consolazione.

Per concludere, vorrei tornare a una parola che ho superato un po' troppo in fretta nella mia discussione di Freud: coscienza. L'interiorizzazione della richiesta etica che sta alla base della scissione del soggetto in due parti, se stesso e una richiesta che non può mai essere soddisfatta, non è altro che un'esperienza di coscienza. Come ho già ricordato nell'introduzione, Lutero definisce la coscienza come il lavoro di Dio nel cuore dell'uomo. Avere una coscienza significa che Dio è dentro di noi, una presenza che continua a osservarci senza la mediazione di sciamani o di preti. Non c'è bisogno di essere seguaci di Feuerbach per voler sostituire l'idea di coscienza come il lavoro di Dio con quella di coscienza come il lavoro dell'essere umano su se stesso, persino se la richiesta che facciamo a noi stessi è quella di diventare simili a Dio, come abbiamo visto con Løgstrup. La coscienza non è il lavoro di Dio dentro di noi, ma il lavoro di noi stessi su noi stessi. Può trattarsi di un lavoro estremamente esigente. Nella mia teoria, la coscienza è il luogo della richiesta etica, una richiesta che è impossibile soddisfare o adempiere, una richiesta di cui si è responsabili all'infinito e che continua a dividerci. Ed è assolutamente vero, come affermava Nietzsche, che senza l'esperienza della sublimazione, la coscienza finirebbe per vivisezionare crudelmente il soggetto, facendolo a pezzi. Questo è il motivo per il quale abbiamo bisogno di una forma di sublimazione meno eroica ma forse più tragica, una forma di sublimazione che ho provato a descrivere nel corso di questo capitolo. La questione da porre ora è la seguente: qual è la relazione, se c'è, tra il modello di soggettività etica sin qui sviluppato e l'azione politica? Ancora più precisamente, qual è la relazione tra l'esperienza della coscienza e la politica?

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Pagina 105

Capitolo quarto

Metapolitica anarchica: soggettività politica e azione politica dopo Marx


L'elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza.

Antonio Gramsci


Ho iniziato questo libro sostenendo che la filosofia nasce da un'esperienza di delusione, di tipo religioso o politico. La massiccia delusione e lo smarrimento politico che caratterizzano il tempo presente possono essere avvertiti in molti modi; in ogni caso, essi sono la risposta a un'ingiustizia o a un torto, che a loro volta provocano il bisogno di un'etica. La speranza è che tale etica possa essere in grado di affrontare e superare l'ingiustizia presente. Queste considerazioni iniziali ci hanno portato all'argomento metaetico dell'esperienza etica e della soggettività etica delineati nel capitolo primo, basato sui concetti di approvazione e richiesta, dove abbiamo presentato il soggetto etico come il modo in cui il Sé si vincola a una concezione del bene. Questo argomento metaetico è stato illustrato attraverso l'esempio di Kant e del problema del fatto della ragione, che si ritrova anche nell'opera di alcuni neokantiani contemporanei. Abbiamo identificato una "ortodossia dell'autonomia" nella tradizione etica e abbiamo delineato la contropossibilità eterodossa di una visione alternativa, in cui l'etica è basata su ciò che io ho chiamato la "etero-affettività" dell'esigenza dell'altro. Abbiamo discusso estesamente tutto ciò nell'argomento, di stampo più normativo, del capitolo secondo, soprattutto attraverso Badiou, Løgstrup, Lévinas e Lacan. Ho tentato così di costruire un modello di soggettività etica basato sull'idea di fedeltà e impegno verso una richiesta etica unilaterale, radicale e inesauribile. Questa esigenza etero-affettiva divide la soggettività tra il Sé e una richiesta che non può essere soddisfatta, vale a dire che la richiesta di coloro la cui approvazione mi rende il soggetto etico che sono finisce per dividermi da me stesso. Nel capitolo terzo ho poi esaminato questo pensiero in relazione all'esperienza della coscienza e di un'immagine alternativa del Super-Io, in cui ci si guarda dall'esterno e ci si trova ridicoli — "beh, la settimana comincia bene". Sebbene l'obiettivo principale del capitolo precedente sia stato una critica della possibile obiezione che il mio modello di soggettività etica porti a una forma di masochismo autodistruttivo, ciò che, spero, è risultato chiaro nelle ultime pagine è il modo in cui un'etica dell'impegno infinitamente esigente possa essere sublimata in un'auto-scissione umoristica del soggetto etico. Tale etica esigente ci "dividua" da noi stessi umoristicamente e umanamente, mostrando l'eccentricità dell'essere umano: è nella nostra inautenticità senza fine, nel nostro fallimento e nella nostra mancanza di autodominio che risiede la nostra stessa dignità etica.

Ed eccoci così — tale l'obiettivo del presente capitolo — all'ultimo passo della nostra argomentazione: il passaggio dall'etica alla politica o, più precisamente, da un'etica dell'impegno infinitamente esigente a una politica della resistenza.

Abbiamo già notato un po' en passant nell' Introduzione di che natura possa essere tale politica della resistenza, parlando della delusione politica in relazione al deficit di motivazione presente nelle istituzioni della democrazia liberale, un deficit che è anche di tipo morale. Ciò di cui abbiamo bisogno, ritengo, è una concezione dell'etica che cominci con l'ammettere tale deficit, ma senza accettare le insidiose tentazioni implicite di nichilismo, sia esso attivo o passivo: passività buddistica, attivismo jihadistico o cristiano fondamentalista. Ho osservato però che tale deficit motivazionale ha avuto anche degli effetti positivi sulle democrazie liberali, in quanto l'insoddisfazione dei cittadini verso le tradizionali forme istituzionali ed elettorali della politica ha portato a un'esplosione di impegno non elettorale e di attivismo, come nel caso dei movimenti critici della globalizzazione neoliberale, dei gruppi per i diritti dei popoli indigeni, dell'attività delle organizzazioni non governative e di vari gruppi di attivisti interconnessi da loro, alcuni dei quali verranno esaminati più avanti. Gli effetti demotivanti delle democrazie liberali possono perciò condurre anche a forme di ri-motivazione politica. L'obiettivo generale di questo libro consiste nel fornire un orientamento etico che possa sostenere queste forme di ri-motivazione. Più in particolare, lo scopo di quest'ultimo capitolo è di avanzare una tesi descrittiva e normativa insieme su come tale tipo di politica possa essere recepita. Si tratta dunque sia di una descrizione di cosa sta accadendo nelle politiche attiviste contemporanee, sia di un suggerimento su come tale attivismo possa essere concepito per il futuro. L'energia etica per rimotivare la politica e la democrazia si può trovare proprio in questi gruppi antiautoritari, numerosi, dispersi e variamente disseminati, che provano ad articolare ciò che chiamerò più avanti, sulla scorta di Marx, la "vera democrazia".

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Pagina 153

Conclusione

Come si può realizzare una politica del tipo che ho descritto? Come si può metterla in pratica? Si potrebbe dire che la politica semplicemente accade, e che poiché tale politica non sta accadendo adesso significa che i tempi non sono favorevoli. Si potrebbe dire, con certi post-heideggeriani di sinistra, che è necessario sviluppare l'ethos del pensiero senza la distruttiva volontà di dominio, aspettando l'avvento di un potere salvifico e rivoluzionario che un giorno potrebbe arrivare. Si potrebbe anche dire, con certi post-benjaminiani di sinistra, che Auschwitz e i campi di sterminio sono il nomos di una modernità che è caratterizzata da un impiego mondiale dello stato di eccezione e della violenza mitica della legge, e che tutto quello che possiamo fare è attendere il minimo segnale dell'imprevedibile divina violenza della rivoluzione. O ancora si potrebbe dire, con certi post-althusseriani di sinistra, che la politica è ormai rara, persino sull'orlo della scomparsa, dato che il suo ultimo grande esempio è stato il 1968, e non ci resta che constatare di vivere in un'era de-politicizzata, post-democratica, contraddistinta da un nichilismo generalizzato. Infine, si potrebbe dire, con certi post-lacaniani di sinistra, che dobbiamo mantenere una duplice visione dialettica da parallassi prospettica, pur riconoscendo implicitamente che questa visione è poco più che l'espressione di un gigantesco vicolo cieco politico e filosofico. Ma si potrebbe anche non essere d'accordo con queste posizioni, si potrebbe dissentire in modo energico, attivo e vigoroso e prendere la seguente posizione: la politica non è sull'orlo dell'estinzione, non avviene in poche situazioni sparse, e crederlo risulta alla fine autodisfattista. La politica è tuttora esistente e ci sono tuttora tante politiche in atto. La massiccia dislocazione strutturale capitalista dei nostri tempi ci può spingere verso il pessimismo, o verso forme di nichilismo attivo o passivo come quelle ricordate all'inizio di questo libro, ma ci può spingere anche verso la militanza e l'ottimismo, può invitarci a mettere in campo le nostre migliori capacità di invenzione politica e di immaginazione, può invitarci, infine, all'impegno etico e alla resistenza politica.

Per non essere disfattisti, per non partecipare a ciò che potremmo chiamare l'"Eeyorismo" odierno, che è la specialità autodetrattiva degli intellettuali di sinistra, per essere propositivi e anche lievemente ottimisti, penso che dobbiamo riconoscere che tale concezione della politica richiede una spiegazione della forza di motivazione come irriducibilmente etica. A mio modo di vedere, l'etica è l'esperienza di una richiesta infinita al cuore della soggettività, una richiesta che mi decostruisce costringendomi a fare sempre di più, non in nome di una qualche autorità sovrana, ma nella condizione senza nome di un'esposizione senza potere, una vulnerabilità, una responsabilità che reagisce, una divisione del Sé umoristica. La politica non è solo la nuda pratica del potere, o un mero agonismo immorale, ma è una pratica etica guidata da una reazione a delle situazioni di ingiustizia e iniquità.

In questi tempi scuri, in questi tempi di guerra, in cui si cerca disperatamente di mantenere lo spettacolo dell' imperium, non possiamo più affidare il nostro destino economico alle contraddizioni interne, ormai quasi automatiche, delle leggi del movimento socio-economico, o a un attore sociale che dovrebbe emergere spontaneamente per operare la presa del potere dello Stato. L'economicismo marxista deve essere contestato con lo stesso vigore con cui va contestato il suo fratello maggiore, il neoliberismo, né è possibile farci guidare, in politica, da un qualche insieme di presupposti ontologici o metafisici, come la nozione heideggeriana della completezza metafisica della tecnologia, la nozione di essere-specie di Marx, la pretesa emancipazione della moltitudine, o altro ancora. Nessuna rivoluzione può nascere da leggi sistemiche o strutturali. Siamo soli, e quel che facciamo lo dobbiamo conquistare. La politica richiede invenzioni soggettive, immaginazione e resistenza, per non dire tenacia e astuzia. Nessuna ontologia o filosofia della storia escatologica può fare alcunché al nostro posto. Lavorando in una distanza interstiziale nello Stato, distanza che ho provato a descrivere come democratica, abbiamo bisogno di costruire delle soggettività politiche che non siano né arbitarie né relativistiche, ma che costituiscano delle articolazioni di una richiesta etica il cui scopo sia universale e la cui messa alla prova si trova nelle situazioni concrete. È un lavoro sporco, circostanziato, locale, pratico e poco eccitante; ma è tempo che lo si inizi.

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