Autore Pierangelo Dacrema
Titolo Marx & Keynes
SottotitoloUn romanzo economico
EdizioneJaca Book, Milano, 2014 , pag. 238, cop.fle., dim. 15x23x1,5 cm , Isbn 978-88-16-41240-8
LettoreLuca Vita, 2015
Classe economia politica , biografie , economia , storia economica , economia politica












 

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Indice


  1    VITE PERPENDICOLARI                    7

  2    ALL'OMBRA DEL PONTE                   47

  3    RIVOLUZIONI E LACRIME                 89

  4    LA CAPITALE E IL CAPITALE            125

  5    LE PAROLE CHE VENGONO DAL MARE       161

  6    BANGOR                               197

       MAPPA SPAZIO-TEMPORALE               236


 

 

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Pagina 9

«Vedo che ti sei tagliato la barba».

«Sì, mi sentivo troppo riconoscibile. Temevo di dover dare troppe spiegazioni, o che qualcuno si mettesse a ridere».

Evitò di chiedere al suo interlocutore come mai un'analoga prudenza non gli avesse suggerito di tagliarsi i baffi. Chi gli stava di fronte, infatti, conservava l'aria abbastanza anonima da commesso viaggiatore di lusso che l'aveva sempre contraddistinto, per la verità un po' troppo elegante, e con uno sguardo un po' troppo intelligente, per essere soltanto un venditore. Del resto anche lui, pur privo della sua mitica barba, continuava a dare l'idea di un professore di liceo arcigno ma buono, benché con l'occhio un po' troppo vispo e penetrante per essere soltanto un insegnante.

Seduti a un tavolo all'aperto di un bar parigino, a chiunque sarebbero sembrati due signori di mezza età non diversi da tanti altri, una coppia di amici per niente fuori dal comune. Spirava la brezza tiepida di una giornata di tarda primavera, il sole era dolce e carezzevole. Quello con i baffi – alto, magro e dall'aspetto un po' esangue – sorseggiava pigramente un tè, mentre l'altro – tarchiato e dalla carnagione scura – fumava il suo sigaro con evidente soddisfazione.

Stavano in silenzio e guardavano con un certo interesse il via vai del marciapiede. E da nessun punto di vista, al di là della gradevolezza della luce e dell'atmosfera, vi era nel contesto complessivo o nei dettagli alcunché di eccezionale da notare. Eppure, un quadro di così apparente normalità celava qualcosa di assolutamente straordinario, un fatto davvero inusitato. Neanche íl più curioso e perspicace degli osservatori, infatti, avrebbe potuto immaginare la verità. Soprattutto, nessuno avrebbe mai potuto credere che si trattava di Karl Heinrich Marx e John Maynard Keynes.


In realtà, i primi ad ammettere che era a dir poco sorprendente íl fatto di trovarsi lì, l'uno di fronte all'altro, e in carne e ossa, avrebbero dovuto essere proprio loro due.

Marx, nato nel 1818, era morto nel 1883, l'anno in cui Keynes era nato. Spentosi nel 1946, neanche Keynes, come Marx, era riuscito a compiere sessantacinque anni. Un particolare non trascurabile era poi costituito dal fatto che il loro incontro avesse luogo nel ventunesimo secolo. Se anche fossero stati così distratti da non cogliere che tutto quanto li circondava faceva parte di un'epoca molto diversa dalla loro, a rendere la cosa certa e inequivocabile sarebbe bastata un'occhiata al gigantesco pannello elettronico che occupava quasi tutta la facciata di un teatro appena al di là della strada: la data che vi lampeggiava era quella del 10 maggio 2015.

Ebbene, la consapevolezza di tutto questo non sembrava scuoterli. Se ne stavano seduti in tutta tranquillità, pensosi ma non turbati, almeno all'apparenza, come se non vi fosse nulla di cui stupirsi, nessuna spiegazione da dare al mistero spazio-temporale cui si doveva la presenza, in quel luogo e in quel momento, di due uomini che non si erano mai conosciuti, che tutte le leggi della fisica avrebbero impedito che si conoscessero e si trovassero lì, alla distanza di meno di un metro l'uno dall'altro.

A esser sinceri, mentre era evidente come Keynes potesse sapere e conoscere tutto o quasi di Marx — le sue vicissitudini, le sue opere, la sua influenza storica sul comportamento dei governi e delle masse —, Marx aveva avuto un momento di più che comprensibile sconcerto quando si era accorto di sapere di Keynes, un uomo vissuto dopo di lui, quasi quanto ne sapeva di Jenny, la sua adorata consorte, e addirittura di Engels, l'amico fraterno, l'uomo che era rimasto sempre al suo fianco e che lo aveva accudito come neppure una mamma sarebbe stata in grado di fare. E come mai tutta quella conoscenza, sulla cui reciprocità sarebbe stato pronto a scommettere, non diminuiva la sua voglia di comunicare, capire, approfondire?

Ma, dopo un attimo, anche Marx aveva già smesso di porsi interrogativi più o meno angoscianti, e si era fatto soccorrere dalla sua proverbiale razionalità. Non a caso, anche se non gli aveva mai fatto piacere, era capitato più di una volta che si complimentassero con lui dicendogli che aveva una «testa da ingegnere».

«Chiaro», aveva pensato. «Il destino cui si deve questo incontro dev'essere una forza più forte di qualsiasi altra. Questa stessa forma di volontà superiore deve aver deciso di facilitare le cose facendo in modo che, da questa particolarissima occasione, si traesse la massima utilità possibile. Ecco perché, su John Maynard Keynes, mi è dato di sapere così tanto, e ancor di più occorrerà che io sappia. Θ sempre questo, non c'è dubbio, il motivo per cui mi trovo qui a conoscere tutto quanto è accaduto dopo la mia morte, dagli avvenimenti più cruciali a quelli più irrilevanti, dalle guerre che hanno sconvolto il mondo fino alle opinioni di nessun conto che frullano oggigiorno in capo a certi individui piccoli, ignoranti e arroganti che amano definirsi economisti. Θ incredibile! Ma a ben pensarci è ancor più stupefacente che tutto questo non riesca a stupirmi più di tanto e che, anzi, mi venga da considerarlo quasi ovvio. Evidentemente aveva ragione Hegel: il reale è razionale. Ma come si fa a far quadrare la prima con la seconda parte della nota asserzione, ovvero il fatto che il razionale è reale? C'è qualcosa che mi sfugge. Ma, faute de mieux, bisogna accontentarsi di questa spiegazione, cioè, in pratica, di nessuna spiegazione».

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Pagina 14

Primogenito devoto di una coppia di accademici di Cambridge — prodotto di una storia di successo di stampo prettamente vittoriano ma anche risultato culturale di un'epoca in declino —, Keynes era stato un conservatore portato a credere nelle capacità di governo di una classe dirigente benevola, che aveva anche il dovere di rappresentare un'aristocrazia intellettuale.

Figlio di un ebreo tedesco benestante, insofferente a qualunque tradizione familiare, e mosso da autentico spirito di ribellione verso l'ordine costituito, Marx non aveva mai creduto né nei governi né nelle nazioni, e assommava in sé i requisiti del perfetto rivoluzionario.

Brillante studente a Eton e al King's College di Cambridge prima, accademico e uomo di Stato poi, Keynes aveva elaborato le proprie teorie grazie a conoscenze maturate in ambienti istituzionali come l'università e il ministero del Tesoro britannico. La sua era stata una vita agiata anche in virtù di un patrimonio costantemente accresciuto dalle sue fortunate speculazioni borsistiche.

Studente dotato ma poco propenso alla frequentazione delle aule universitarie, Marx aveva preferito il giornalismo all'accademia, e costruito la sua visione del mondo sulla base di una solida preparazione economico-filosofica acquisita da autodidatta. Quasi sempre oberato dai debiti, aveva trascorso la vita inseguito dai creditori, dai quali era riuscito a liberarsi grazie all'aiuto di Friedrich Engels molto più che ai modesti guadagni procuratigli dai libri e dagli articoli.

Convinto che il capitalismo fosse uno strumento potente ma delicato, Keynes aveva lavorato per proteggerlo dai suoi difetti e dalle sue stesse degenerazioni. Aveva anche difeso il diritto di diseredati e disoccupati di percepire un reddito e godere così di una parte dei benefici prodotti dal sistema. Ma, più o meno istintivamente, l'aveva fatto per salvaguardare gli interessi e i privilegi della borghesia, la classe a cui sentiva di appartenere.

Convinto che il capitalismo avesse dato luogo a rapporti sociali e a metodi di produzione disumani, Marx si era scagliato contro la borghesia capitalistica e aveva predicato la dittatura del proletariato, la classe dei lavoratori cui non apparteneva ma nella quale aveva riconosciuto una generazione di nuovi schiavi da affrancare.

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Pagina 29

Il silenzio e lo sguardo attento di Marx furono un chiaro invito per Keynes a proseguire.

«Nel 1921 pubblicai Le conseguenze economiche della pace, un saggio abbastanza articolato sugli errori imperdonabili commessi dagli Alleati nell'immediato dopoguerra. Il libro ebbe un grande successo e mi diede una fama mondiale. Ma non è certo questo il punto».

Fece una pausa e, con il sorriso sulle labbra, aggiunse: «Converrai che la situazione del tutto particolare in cui tu e io ci troviamo porta ad avere con la gloria, in qualunque accezione, un rapporto simile a quello che una signorina in età da marito intrattiene con una bambola che aveva amato perdutamente da bambina».

Marx annuì: «Credo che tu abbia ragione. Anch'io sento ormai di abitare per lo più nella dimensione del ricordo, e ho tutte le percezioni tipiche di questa condizione. Anche la mia è una posizione di distacco, di lontananza, quella ideale per ammettere, senza falsi pudori, che la fama è stato il mio giocattolo preferito per buona parte della mia vita».

«Il motivo per cui desidero parlartene è che considero questo lavoro il mio più prezioso contributo alla storia e alla scienza dell'economia. Pochi hanno capito che si tratta di un libro ben più importante della mia celebrata General Theory. Ero abbastanza documentato, sensibile e sinceramente indignato per riuscire a fare ciò che un vero economista, quando è al suo meglio, è utile che faccia e dovrebbe sentirsi tenuto a fare. Ho formulato previsioni che non esiterei a definire corrette, centrate. Ho intuito quello che sarebbe accaduto sulla base di un'analisi realistica e accurata di quanto stava accadendo. E ho dovuto riconoscere – ciò di cui so che sei sempre stato convinto –, che la forza dei fatti economici predetermina le forme del diritto, della politica e della società. Ho visto una Germania costretta a leccarsi le ferite, messa in un angolo a covare il proprio rancore e a preparare un'atroce, assurda, vendetta. Ho visto un'Europa in preda a un male oscuro, colpita da una furia cieca. Ho assistito allo spettacolo angosciante di un mondo risucchiato in un vortice di violenza inaudita, immaginato i volti allibiti di politici inetti e incerti sul da farsi. Tutto ciò si è avverato, purtroppo. E con la tragedia del popolo ebraico il quadro è diventato infernale. E come se qualcuno mi avesse dato la possibilità di guardare il diavolo in faccia mentre stava decidendo di mettere a ferro e fuoco il mondo».

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Pagina 37

«Θ vero, mi sono illuso. Illudermi è stato l'errore che ho commesso più di frequente nella mia vita. Eppure non c'era ombra di ipocrisia nelle parole con cui ho celebrato il capitalismo come fenomeno temporaneo ed eccezionale, magnifico messaggero di rivoluzione partorito dalla borghesia. Della quale non ho esitato a segnalare la capacità di produrre cambiamenti clamorosi, alcuni dei quali assolutamente positivi. Fui io a osservare che, laddove era andata al potere, la borghesia aveva distrutto gli idilliaci presupposti della vita feudale e patriarcale, aveva svincolato gli uomini da antichi retaggi e, tra uomo e uomo, aveva lasciato il solo interesse, il nudo e asettico pagamento in contanti. Dissi che alla borghesia andava riconosciuto il merito di aver fatto della dignità personale un mero valore di scambio, di aver messo sul piedistallo la libertà di commercio, senza freni e senza scrupoli. Allo sfruttamento ingentilito da giustificazioni religiose o politiche, la borghesia aveva avuto il coraggio di sostituire la regola dello sfruttamento aperto, spudorato, senza veli. E, come nessun altro fenomeno precedente, aveva fatto comprendere ciò di cui era capace l'uomo, più di quanto avessero mostrato le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani o le cattedrali gotiche».

«Ciò nonostante, era evidente come tu volessi morta questa classe, annientata da un processo che insistevi a descrivere come naturale, spazzata via da una rivoluzione che consideravi ineludibile più che necessaria».

A questo punto Keynes tacque. Ma dopo qualche minuto, in assenza di una replica di Marx, giudicò che fosse il caso di riprendere.

«Per quanto mi riguarda, ho creduto quant'altri mai nella forza della riflessione e della persuasione, anche se la mia capacità di influenzare e convincere l'opinione pubblica non è mai stata pari a quella di formulare previsioni fosche. Non ho mai avuto un'anima da rivoluzionario. Per temperamento, ho confidato piuttosto nella possibilità di migliorare la tecnica del capitalismo attraverso l'azione pubblica. Cosa che non mi era parsa incompatibile con il carattere essenziale del fenomeno capitalistico (che, in estrema sintesi, è solo amore per i soldi e voglia di farne sempre di più). Ai conservatori certe mie idee sono sempre apparse estremistiche, temerarie. Io credo invece di aver voluto affrontare, nel modo più pratico possibile, ciò che Burke aveva considerato uno dei problemi più delicati per un legislatore, vale a dire la definizione dei compiti che lo Stato deve attribuirsi e opportunamente affidare alla saggezza pubblica, dopo aver distinto quei compiti che presumibilmente vengono svolti meglio dal singolo. Insomma, ho avvertito la necessità di cogliere e interpretare la differenza tra produzioni e servizi che sono tecnicamente sociali, e attività che si presentano tipicamente e tecnicamente individuali. Tutto qui».

«Ti seguo fino a un certo punto, Maynard. Sei stato tu a mettere in discussione i fondamenti del laissez faire, a contestare i suoi principi così intoccabili e inossidabili da sembrare quasi metafisici. Tu stesso hai detto che non esiste un diritto inalienabile degli individui di affermare una libertà naturale nel loro modo di agire; che non esiste un contratto naturale tale da rendere perpetua e illimitata la facoltà individuale di avere, possedere e acquisire, né alcuna forma di governo dall'alto che assicuri la perfetta conciliabilità dell'interesse privato con quello pubblico. E sempre tu hai precisato che, se da un lato non esiste una norma di ordine superiore tale da guidare l'interesse particolare verso la promozione di quello generale, dall'altro, anche gli individui orientati a perseguire esclusivamente loro fini personali sono spesso troppo deboli o ignoranti per riuscire a farlo».

«Θ vero, e proprio per questo ho pensato a un ruolo attivo dello Stato, e ancor più al riconoscimento di organismi semiautonomi capaci di muoversi all'interno della macchina statale per promuovere esclusivamente il bene pubblico. Ero un uomo concreto, mi riferivo a istituzioni ben precise. Pensavo alle università, alla Banca d'Inghilterra, all' authority del porto di Londra e, perché no, anche alle compagnie ferroviarie. Un fenomeno che ha preso piede fin dall'inizio del ventesimo secolo è stato poi quello della tendenza della grande impresa a socializzarsi. Esiste una dimensione dell'organismo imprenditoriale superata la quale i proprietari del capitale, cioè gli azionisti, sono spesso del tutto dissociati dalla direzione dell'impresa. Il risultato è che l'obiettivo della massimizzazione del profitto perde un poco della sua priorità, si attenua la pulsione alla massimizzazione del guadagno e aumenta l'attenzione per la cura dell'immagine e la soddisfazione del cliente, anche per evitare le critiche che, in qualunque momento, possono essere mosse dall'uomo della strada, e quindi dalle masse».

«Ma non ti sarà certo sfuggito un fenomeno che ha preso piede verso la fine del ventesimo secolo e che ha continuato ad accentuarsi all'inizio del ventunesimo: sempre più ricchi, sempre più poveri, sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri, e anche nei Paesi che crescono di più, come la Cina. La tendenza è diffusa a livello planetario, nonostante molta indignazione di facciata e qualche piccolo sforzo concreto per tagliare le unghie alle espressioni più selvagge e individualistiche del capitalismo».

«Temo che su questo punto non ti si possa dar torto. Incertezza e ignoranza continuano a gravare sulle condizioni economiche del mondo. Le grandi sperequazioni nella distribuzione della ricchezza — quelle alle quali mi sono sempre opposto, se non altro perché rappresentano un pericolo grave per il capitalismo e non certo un segno della sua vitalità — si rendono possibili come e più di prima per il fatto che alcuni individui continuano a godere di posizioni o di abilità particolari. La specialità di queste loro condizioni trae vantaggio, appunto, dall'incertezza e dall'ignoranza, oltre che da politiche sbagliate. Credo, infatti, che la disoccupazione dilagante venga alimentata anche dagli errori della politica economica. Il risultato è assurdo più che inaccettabile: in un'epoca che, sul piano tecnologico, può tutto o quasi tutto, c'è molta gente che sta male, anzi malissimo».

«Saprai certamente che la parola 'disoccupazione' è apparsa per la prima volta, relativamente tardi, sull' Oxford Dictionary, per l'esattezza nel 1888. Ed è stato certo un tuo merito aver dimostrato una speciale sensibilità per il fenomeno, di cui hai sottolineato la drammaticità, e anche la totale intollerabilità sul piano sociale. Ora, come giudichi, sotto questo aspetto, lo stato attuale delle cose?». Era fin troppo evidente che Marx conosceva alla perfezione la risposta.

«Un fallimento», disse Keynes senza alcuna esitazione.

«Lo immaginavo. E adesso vorrai scusarmi se sottolineo una circostanza che potrebbe essere poco elegante da parte mia farti notare. Non eri stato tu a prevedere, con un'attitudine alla previsione riconosciuta da tutti come la più spiccata delle tue qualità, che entro i primi decenni del ventunesimo secolo — praticamente oggi — il problema economico dell'umanità sarebbe stato definitivamente risolto, anche in virtù delle tue ricette di politica economica?».

Negli occhi di Keynes brillarono, per una frazione di secondo, un lampo di risentimento e un sopito desiderio di vendetta.

«Sì, è così, anche se non è piacevole essere chiamati ad ammetterlo. Θ vero, è stato un errore».

«Se è per questo, anche tu hai trascorso più di metà della tua vita in trepida attesa di una dittatura del proletariato di cui tuttora, ovunque, non v'è traccia».

«Touché», ammise Marx a sua volta. «Anch'io so di aver sbagliato, se non altro nei tempi. E comunque, credimi, non ho alcuna intenzione di ferirti, che ne dici del momento — secondo la tua profezia più o meno ora, in questi tempi, al più tardi nei prossimi anni — in cui gli uomini avrebbero finalmente trovato il coraggio di assegnare alla moneta e alle motivazioni di possederla il suo 'vero' vile valore? Θ puntuale, preciso, il mio ricordo di quando hai detto che l'amore per il possesso del denaro, distinto dalla necessità di possederlo come mezzo, avrebbe dovuto essere riconosciuto come 'passione morbosa, un po' ripugnante', sentimento paragonabile a una devianza mentale o criminale da consegnare alle cure di uno specialista. E non mi pare proprio di poter dire che finora sia successo qualcosa di simile!».

«Caro Moro, d'accordo. Nessuno ci impedisce di continuare a punzecchiarci, con il rischio che tu potresti cominciare a irritarti, e forse anch'io. Per guastare l'atmosfera, basterebbe recuperare anche solo un'ombra della suscettibilità che è stata una costante delle nostre vite. Vuoi che sia abbastanza cattivo da ricordarti la tua fantastica previsione del crollo del capitalismo in forza di tassi di profitto decrescenti provocati dall'utilizzo sempre più intenso delle macchine? L'innovazione tecnologica, l'avevi intuito, sarebbe stata incessante, inarrestabile, una forza che avrebbe funzionato a scapito del ricorso al lavoro manuale, vera fonte del profitto capitalistico generato dallo sfruttamento e dall'indebita appropriazione del 'plusvalore' da parte dei padroni. E allora? Θ, sì o no, il capitalismo ancora vivo e capace di dettare le sue regole? Detto di passaggio, colgo l'occasione per confessarti che la ragione di questa autodistruzione del sistema non mi è mai parsa chiara, neanche all'interno dello schema più o meno condivisibile dei tuoi ragionamenti».

«Va bene, stendiamo pure un velo pietoso, se è ciò che preferisci», disse Marx, più divertito che infastidito. «Ma non credo che un minimo di franchezza possa disturbare lo stato di grazia in cui abbiamo la fortuna di trovarci. Anzi. Pensi davvero che la realtà, per quanto cruda, basti a rompere il nostro incantesimo? Sarà poco confortante, ma mi sembra più utile riconoscere apertamente che abbiamo commesso degli errori. Per quel che mi concerne, arrossisco ogni volta che penso al pomposo parallelo escogitato dal Generale nel momento in cui la mia bara veniva calata nella fossa del cimitero di Highgate. Figurati! Forse lo sai, si era azzardato a dire che, così come Darwin aveva messo a fuoco la legge dello sviluppo della natura organica, io avevo scoperto la legge dello sviluppo nella storia umana. Per essere sinceri, io non ci ho mai creduto, anche se mi avrebbe fatto piacere che fosse vero. Quanto a te, hai avuto il tuo momento di gloria. Tuttavia – e sai quanto ti stimo –, faresti bene a tener presente che ormai il mondo non è più keynesiano da almeno una quarantina d'anni. Occorre guardare le cose così come stanno, approfittare del punto di vista privilegiato che, in modo tanto generoso, ci offre la nostra condizione irripetibile, e provare a vederci, né più né meno, per quel che siamo: una coppia di falliti. Dobbiamo rendercene conto. Quale maggiore assurdità di tributare onori a me o a te, che ci siamo sbagliati su tutto, o quasi tutto, quasi sempre fuori strada e sempre pronti a difendere posizioni indifendibili?».

Keynes, colto di sorpresa, fulminò Marx con gli occhi come se l'avesse sentito bestemmiare in chiesa. Ma poi, di fatto, riuscì soltanto a mormorare: «Adesso non esageriamo». E bastò questo perché scoppiassero entrambi in una risata.

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Pagina 60

Dopo il 1860, l'obiettivo più importante di Marx sarebbe diventato la distruzione dell'economia politica classica. Ma già nel 1844 egli aveva notato come il salario fosse il frutto della lotta fra capitalista e lavoratore. Il lavoratore era diventato solo merce alla ricerca di un acquirente, nulla più di un qualunque fattore produttivo. Nel caso di un declino della ricchezza del sistema economico, per una qualsiasi causa, egli sarebbe stato schiacciato dalla circostanza che il capitalista avrebbe potuto vivere senza di lui molto più a lungo che viceversa. Merce — merce, nonostante tutto, speciale —, il lavoro non poteva essere accumulato dal lavoratore, mentre il datore di lavoro poteva accumulare quello altrui, incrementando così il proprio capitale.

Occorreva rifondare l'economia, sbarazzarsi di un'economia politica che prendeva atto dell'esistenza della proprietà privata senza il bisogno di darne alcuna spiegazione, quasi che si trattasse di una condizione primordiale, naturale e indefettibile. A seguito della rivoluzione industriale, i magnati delle industrie avevano preso il posto dei proprietari feudali: l'aristocrazia del denaro si era sostituita all'aristocrazia terriera. E per denaro i lavoratori si vendevano.

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Pagina 80

Keynes assunse l'atteggiamento di chi intende affrontare il problema in modo pratico, rapido, asettico e il più possibile indolore.

«Bene», disse, «cominciamo. Punto numero uno: come è possibile che una banca degna di questo nome presti denaro, sia pure per l'acquisto di una casa, seppur protetta da una garanzia reale, a un soggetto che reputa quasi sicuramente incapace di restituirglielo? Θ possibile, e questa è l'unica risposta (per come ragiona una banca), solo se la banca è certa di riuscire a liberarsi del prestito cedendolo a condizioni vantaggiose sul mercato per mettersi in grado di ripetere, subito dopo, un'operazione dello stesso tipo. La verità è che milioni di persone economicamente ai margini — individui indigenti, percettori di un reddito del tutto insufficiente a finanziare la restituzione di un prestito cospicuo — sono finiti in una trappola, attirati dall'esca appetitosa rappresentata dall'opportunità di conquistare la proprietà di un'abitazione. Insomma, il punto di partenza è che nell'erogazione di questi mutui alcuni, anzi molti, hanno visto un business colossale».

«Perdonami, Maynard, ma fin qui non mi racconti nulla di nuovo», disse Marx. «Θ tipica del capitalismo la strumentalizzazione di ogni individuo. Io l'avrò detto per primo, ma ormai lo sanno tutti che nei rapporti di produzione capitalistici le persone diventano merce, oggetti, punti di passaggio obbligato per il perseguimento dello scopo ossessivo del profitto. Una persona non vale per quello che è, ma per il denaro che può procurarti, non è più un essere umano con il corredo dei propri sentimenti, ma solo un trampolino per il raggiungimento di un obiettivo. Ti ricordi di Sraffa? Il tutto si riduce a una produzione di merci , motivo per il quale anche gli uomini diventano merce, anello di una catena di trasformazione il cui prodotto finale è il denaro».

Keynes apparve lievemente contrariato.

«Karl, fossi in te non la butterei in filosofia, almeno in questo caso. Io sto parlando di tecniche, di artigianato, di abuso o pessimo utilizzo di procedure artigianali, errori macroscopici compiuti dal capitalismo contro sé stesso più che ai danni di chiunque altro. Quindi procediamo. Punto numero due: come si poteva sperare che il tutto andasse a buon fine, che il bubbone non esplodesse? Certo, questi prestiti di dubbia qualità venivano elaborati, macinati, impacchettati e spacchettati, imbellettati, inscatolati e cartolarizzati, cioè trasformati in una valanga di titoli destinati a Wall Street, l'indirizzo che assicurava una veloce e redditizia negoziazione di questo materiale. Tutti i partecipanti alla catena di montaggio potevano contare su una fetta della torta: agenti immobiliari, banche, promotori finanziari, assicuratori, mediatori e venditori di ogni livello. La parte del leone la facevano le grandi istituzioni finanziarie di Wall Street, e subito dopo di loro le agenzie di rating, prodighe di patenti di vendibilità di questa fiumana di prodotti, pronte ad appropriarsi dei residui del lauto banchetto. Ripropongo la domanda: come si poteva sperare di evitare una deflagrazione finale se si era consapevoli che i prenditori iniziali dei fondi, persone ai margini, quasi tutti disoccupati o sottoccupati, non sarebbero stati in grado di ripagare i mutui? La speranza che i conti continuassero a quadrare poggiava soltanto sull'ipotesi di un progressivo, incessante e indefinito aumento dei prezzi delle abitazioni, tale da consentire ai mutuatari di rinegoziare nuovi e sempre maggiori prestiti. E ciò, si intende, con lo scopo specifico di non risultare insolventi su quelli negoziati in precedenza».

La finanza del ventunesimo secolo appariva a Marx come un oggetto impenetrabile, indecifrabile, una scatola nera con il non piccolo difetto di non rivelare alcunché di quanto accaduto, anche a incidente avvenuto. Ciò nonostante, anche per non fare la figura dello sprovveduto, provò a dire la sua.

«Mi pare di capire che tu stia parlando di una specie di follia collettiva. Cosa poteva giustificare un comportamento simile da parte di istituti bancari, e altri intermediari finanziari, tutti presumibilmente guidati da gente che conosceva abbastanza bene il proprio mestiere? Voglio dire: cosa ha potuto alimentare questa macchina se non una fame di guadagno che neppure la prospettiva di un disastro imminente è riuscita a tenere a freno?».

«Caro Karl, non farmi ridere, la fame di guadagno puoi darla per scontata. Lo sai meglio di me, l' auri sacra fames è sempre stata il motore del capitalismo. Piuttosto, fa riflettere ciò che hai aggiunto a proposito della ragionevolezza che è venuta a mancare in chi si trovava nella posizione di poter prevedere un disastro. E di doverlo temere. Il che ci porta immediatamente alla questione numero tre: cosa ha obnubilato a tal punto la mente di chi avrebbe dovuto capire? L'interrogativo è rilevante, anche perché tutto lascia immaginare che sarebbe stato sufficiente non aver perso il cervello fino all'ultimo atomo per capire che era il caso di avere paura. Parlo della paura che ti salva la vita in montagna, quella che ti impedisce di fare il passo falso. Ora, proprio per questo, credo che per neutralizzare, o anche solo offuscare, un senso di autoconservazione così basilare occorra una forza formidabile. Considera bene questi eventi: già nel 2007 Bear Stearns era capitolata, comprata da Morgan Chase per una cifra risibile; nel settembre del 2008 salta la Lehman Brothers, protagonista del più grande fallimento di tutti i tempi; nel frattempo, Merril Lynch viene acquisita da Bank of America, e gli altri due colossi, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si affrettano a promuovere una modifica dello statuto che, per salvarsi, le abiliti al ricorso al credito d'ultima istanza della Fed, la banca centrale statunitense. Il risultato è che le cinque più grandi banche d'investimento del mondo — le creature finanziarie più sofisticate e preziose della piazza di New York, regine della finanza mondiale, maestre nell'arte del trattamento, dell'elaborazione e della riproduzione della moneta in tutte le sue forme — vengono spazzate via in un attimo, almeno nella loro versione più originale e potente. In un momento, la crisi della fiducia si estende a tutto il pianeta, con conseguenze che tutti, a distanza di anni, stanno ancora pagando».

«Non sarò l'uomo (né l'economista) più adatto a dirlo, ma anche questo era ampiamente prevedibile», disse Marx. «La crisi finanziaria è diventata crisi dell'economia reale, con il suo inevitabile strascico di malessere, incertezza, disoccupazione e recessione. Potrà sembrare ingenuo da parte mia, eppure faccio ancora fatica ad accettare l'idea che un fenomeno puramente numerico — qualcosa che accade in una realtà virtuale come quella della moneta, delle sue cifre e del loro totale scombussolamento in un momento critico — possa avere ripercussioni così gravi nella dimensione, totalmente diversa e assai più viva, della nostra realtà, quella dei fatti e degli oggetti di cui è intessuta l'economia della vita quotidiana. L'unica, banale, deduzione possibile è che la mente umana sia a tal punto popolata di numeri e posseduta dall'aritmetica del denaro da far sì che qualunque sconvolgimento in quest'ambito ne produca uno uguale nei gesti compiuti dagli uomini. Nella sua drammaticità, è un esito sorprendente, quasi prodigioso. Deve trattarsi di un colpo che il cervello – traumatizzato, strapazzato, come strizzato da una scossa elettrica – scarica su tutto il corpo con l'effetto subitaneo di scoordinarne i movimenti o di inibirli fino a paralizzarli. Ma, a proposito di onde psichiche o di altri flussi immateriali che presiedono al dosaggio dell'energia corporea, non hai ancora spiegato di quale natura sia, e in quale modo sarebbe intervenuta, quella forza così sconvolgente e travolgente da indurre sia il mondo finanziario che le autorità deputate a controllarlo ad abbandonare le regole di una normale prudenza».

Di nuovo, parve che Keynes non avesse voglia di parlarne. Ma dopo un po' vinse la sua resistenza.

«Non è facile da spiegare. Sicuramente è entrata in gioco l'avidità, ma da sola non sarebbe bastata. Occorreva un'altra e più potente distrazione, una sensazione diffusa e condivisa che ha comportato conseguenze simili a quelle che può avere una convinzione radicata, per quanto inconsapevole. Alludo all'idea, serpeggiante un po' ovunque, che con il denaro si potesse fare tutto, comprare ogni cosa, obiettivi individuali, sociali e politici, fatti e oggetti, anime, benessere, sviluppo e occupazione. Si pensava – e temo che questo errore venga commesso tuttora – che il denaro fosse un dio in grado di autoriprodursi, di produrre denaro da sé stesso, di generare valore da ogni cosa e dal nulla, senza l'intervento del lavoro. Lo si pensava capace di creare, appunto, come Dio».

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Marx si era improvvisamente rabbuiato e Keynes, più che pago delle esplicite ammissioni del suo interlocutore, giudicò onorevole e opportuno intervenire ora in suo soccorso.

«Siamo qui per capire ciò che non avevamo capito, per comprendere quando e dove abbiamo sbagliato, non per farci carico di colpe che non abbiamo e che neppure i nostri detrattori avrebbero il coraggio di attribuirci. Non trascurare il fatto che il tuo documento è stato interprete e megafono del disagio di un intero continente. La rivoluzione scoppiò davvero pochi giorni dopo la pubblicazione del Manifesto, solo che venne prontamente sedata. E chiunque abbia letto ciò che hai scritto non ha potuto fare a meno di prendere atto della tua straordinaria, ineguagliabile capacità profetica. Mi riferisco al modo in cui, nel Manifesto, hai saputo parlare di uno sfruttamento del mercato mondiale da parte della borghesia, alla precisione con cui ne hai previsto gli effetti in termini di cosmopolitismo delle produzioni e dei consumi. Tu per primo hai segnalato la differenza tra bisogni vecchi, per soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, e bisogni nuovi, sorti dalla disponibilità di prodotti provenienti da paesi lontani con climi totalmente diversi. Il che spiega, per esempio, come qui a Londra si possano mangiare uva e papaie tutto l'anno. Avevi parlato di una borghesia capace di creare un mondo a propria immagine e somiglianza. Non a caso nei quartieri più centrali di Pechino, capitale di uno Stato comunista, almeno formalmente, campeggiano ora le insegne di McDonald's, Pizza Hut, Hδagen-Dazs, di Armani, Valentino e Díor, della Ferrari o della Lamborghini, della Chase Manhattan Bank o della Citybank, tutti marchi di imprese diventate simboli del capitalismo nei rispettivi settori, multinazionali nate e cresciute nel cuore di un'economia occidentale che le ha lanciate, simili a eserciti, alla conquista di un mercato mondiale. A un fenomeno simile si è assistito anche nell'ambito dei beni di consumo meno materiali, quelli messi a disposizione da cinema, editoria, televisione, mondo dell'informazione. E non a caso tu avevi parlato di 'prodotti spirituali', caratteristici dei singoli Paesi, destinati a diventare patrimonio planetario, prodotti in grado di penetrare anche 'le nazioni più barbare' e, con il supporto di comunicazioni in rapido sviluppo, di modificare il corso naturale della loro storia e della loro civiltà. Fosti sempre tu a prevedere e illustrare come il ritmo crescente del cambiamento tecnologico avrebbe imposto una sorta di rivoluzione permanente connotata da processi di obsolescenza sempre più veloci, mutamenti che non avrebbero risparmiato nessun oggetto o contesto. In un magnifico passaggio del Manifesto, infatti, spiegasti come la borghesia non sarebbe potuta esistere senza rivoluzionare di continuo i mezzi di produzione, i rapporti di produzione e, di conseguenza, anche l'insieme dei rapporti sociali. L'epoca borghese, dicesti, si distingueva da tutte le precedenti per questa sua fame di innovazione, per 'l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali', per essere percorsa e qualificata in ogni momento dall'incertezza e dal movimento. Un moto e un fremito che avrebbero sgretolato condizioni di vita vecchie e stabili, consumato credenze e opinioni consolidate, scardinato ordini sociali fino a poco prima considerati immodificabili».

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«Del tuo ragionamento non mi lascia perplesso la radicalità quanto l'ipotesi principale su cui si regge. Sei così sicuro che la proprietà privata, oltre a essere socialmente pericolosa, oltre a diventare lo strumento per la sottomissione di una maggioranza a una minoranza, sia socialmente inutile? Ti senti davvero in possesso di tutti gli elementi per affermare che i difetti della proprietà — in termini di distorsione e di reale o potenziale dequalificazione dei rapporti sociali di cui si può considerare responsabile — non siano più che compensati dai benefici pur sempre sociali che ne derivano? La proprietà è responsabilità, attenzione, cura e manutenzione di un oggetto più o meno complesso. A volte è anche un rapporto d'amore. La proprietà implica un lavoro, destinato alla conservazione degli oggetti posseduti, di cui la collettività intera smetterebbe di godere se non ne esistesse la fonte e lo stimolo, cioè la proprietà stessa. Del proprietario vedi solo la posizione privilegiata di colui che domina la cosa? Cerca di vederne anche l'aspetto di prigioniero, per quanto volontario, della cosa. Della proprietà vedi solo i vantaggi? Vedine anche gli oneri. Sei convinto che la condizione di proprietario si addica a chiunque, e che chiunque desidererebbe possedere il più possibile? Io, per esempio, non sono mosso da questo desiderio, e chissà quanti altri condividono la mia posizione al riguardo. Non trascurare il lato delle attitudini, delle preferenze personali, delle sensibilità individuali».

Quest'ultimo argomento ebbe subito una certa presa su Marx, che in effetti non era mai stato spinto a cercarsi un'occupazione stabile, neanche nei più prolungati e drammatici periodi di indigenza. Aveva sempre considerato la libertà d'azione e di pensiero, largamente praticata anche nella sua attività intellettuale, un valore aggiunto immenso e insostituibile del suo stile di vita.

«L'aspetto delle inclinazioni personali mi trova abbastanza sensibile», ammise. «Io, per esempio, non avrei mai potuto dirigere un'azienda. Penso a quanto debba essere costato anche al mio amico Generale la circostanza di doversi occupare della sua. Il fatto di essere stato figlio di un imprenditore gli ha dato delle opportunità che non avrebbe avuto, un'agiatezza che non ha mai mostrato di sgradire, oltre che la possibilità di derubare sistematicamente il suo vecchio per aiutare me e finanziare le nostre attività sediziose. Ma per il resto non credo proprio che lui abbia potuto considerarla la sua strada».

«Θ una strana dialettica quella che nasce tra il possessore, il soggetto che possiede e ciò che è posseduto, l'oggetto del possesso», disse Keynes con l'aria di chi stava ricordando qualcosa di preciso. «A volte, il rapporto fra artefice e strumento, e anche quello fra padrone e schiavo, si stravolge, si inverte. Per esempio, io venni duramente criticato per aver osservato che, nonostante la mole dei nostri aiuti finanziari, il Canada si sarebbe sentito libero di accodarsi agli Stati Uniti non appena avesse giudicato la cosa di suo interesse. Ma i fatti mi hanno dato ragione. C'era una specie di ricatto esercitato dai dominions, ciò che rendeva spesso il Regno Unito parte debole nella relazione tra madrepatria e colonie. Per questo ero contrario al fatto che, con tutti i nostri problemi interni, prestassimo al Canada miliardi di sterline a tassi di favore. Niente è come sembra. E poi...», Keynes esitò per un attimo, «me ne rendo conto, il passaggio del mio ragionamento potrebbe sembrarti ardito, o completamente fuori luogo, ma cosa ne pensi di questa recente catena di suicidi di imprenditori, piccoli proprietari, persone per bene che non hanno retto la vergogna di non riuscire a pagare i loro dipendenti o di trovarsi costretti a licenziarli? Siamo nel ventunesimo secolo. Non mi sarei aspettato che le persone arrivassero a tanto per ragioni puramente economiche».

Marx rivolse a Keynes uno sguardo intenso. «No, Maynard. Se ho capito quel che intendi, lasciami dire che è tutta un'altra storia. Questi poveri diavoli non rappresentano certo il capitalismo che abbiamo conosciuto, il fenomeno di cui abbiamo parlato tu e io. Si tratta di imprenditori, gente che ha rischiato in proprio, che ha cercato di passare dall'altra parte, non di rado più operosi dei loro stessi operai e sconfitti da un mercato che ci si ostina a chiamare così, ma che non ha niente a che vedere con l'ideale a cui la parola si ispira. Se credi che i casi di questi disgraziati possano raccontarci che è cambiato qualcosa, ti sbagli. Anzi, provano il contrario. Il grande capitale continua a dettare legge e i grandi imprenditori la fanno sempre franca. C'è stato un periodo in cui anch'io mi sono illuso a proposito della forza salvifica della concorrenza, della sua capacità di porre un argine allo strapotere dei capitalisti. Ma poi ho capito che quella della competizione è solo un'idea, un inganno, la parvenza di un concetto buono, sano, dato in pasto al popolo al solo scopo di nascondere la brutalità del gioco, distogliere l'attenzione dalle sue reali dinamiche. 'Vinca il migliore' è un motto sportivo, un principio difficile da scalfire, smentire o ripudiare, l'auspicio che si formula all'inizio di ogni gara che dovrebbe essere corretta e leale. Chi mai potrebbe sostenere che non deve vincere il migliore? Θ così che si acquieta e si blandisce il nuovo proletariato. Resta il fatto che i costi della competizione fasulla tra grandi imprese li subiscono le masse dei lavoratori, tutti coloro che da un momento all'altro rischiano di perdere í loro magri stipendi o i loro ancor più miseri salari. E anche quelli che decidono di togliersi di mezzo quando si rendono conto che con la spada che hanno in pugno non potranno mai vincere una guerra contro i carri armati».

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Fu Keynes a interrompere il silenzio.

«Credimi, Moro, è occorso molto tempo prima che potessi esprimermi in questi termini, ma ora non esito a dichiararmi pronto, più che pronto, ad affrontare con te una discussione a tutto campo sul tuo Capitale. Mi piacerebbe farti capire con quale grado di approfondimento ne sono entrato in possesso. Mi sento preparato su ogni sua parte, inclusi i passaggi più impegnativi».

«No, Maynard, non ora. Non dispiacertene, ma mi sembra che il momento sia più propizio per un'analisi della tua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta. Se sei d'accordo, potremmo ripercorrerne insieme i passi salienti. Intanto mettiamo a fuoco il periodo. Stiamo parlando del 1936, poco più di mezzo secolo dopo la tua nascita. E dopo la mia morte».

Keynes accolse l'invito di buon grado e cominciò a parlare.

«Dieci anni prima c'era stato il funerale di Marshall. Non so neanch'io per quale motivo te lo stia dicendo, forse perché, per quanto stesse nella logica delle cose, l'ho vissuta come una perdita grave ma anche come l'inizio di un nuovo percorso scientifico. La morte di Lytton Strachey, nel 1932, seguita subito dopo dal suicidio di Carrington, fu un duro colpo per me. E quando, nel 1933, morì anche Karl Melchior, venne a mancare un pezzo importante della mia vita, oltre che buona parte del mio interesse per la Germania, o perlomeno della voglia di ritornarci. Ciò nonostante, come ti dicevo, ricordo gli anni che precedettero la pubblicazione della Teoria come un periodo di esaltazione e di attività febbrile. Avevo la sensazione di poter cambiare il destino del mondo. Nella mia mente fiorivano idee in continuazione, e ti assicuro che mi sembravano l'una più sconvolgente dell'altra. Un giorno saltava fuori il concetto di trappola della liquidità, il giorno dopo nasceva quello di moltiplicatore degli investimenti, un altro ancora mi stupivo di come potesse essermi sfuggito fino a quel momento che a un aumento del reddito corrisponde un incremento meno che proporzionale del consumo e più che proporzionale del risparmio».

«Questa è stata davvero una bella intuizione», osservò Marx in modo genuino, ma anche con la voglia di gratificare il suo interlocutore. «Θ un fatto ricco di implicazioni politiche. Se, come mi sembra credibile, un aumento del reddito si traduce in un aumento del risparmio superiore a quello dei consumi, se ne deduce che redditi troppo elevati e troppo diseguali non favoriscono una crescita dei consumi e sono quindi d'ostacolo a un incremento della domanda globale, dell'occupazione e dello sviluppo. Il che rende auspicabile, dal punto di vista sociale, qualunque spinta verso l'egualitarismo, poiché a redditi più uguali, o meno diversi, si associa appunto una maggiore propensione al consumo, che è di per sé sinonimo di maggiore benessere collettivo. Insomma, non esiterei a definirla un'idea di sinistra».

«Sì», ammise Keynes, un po' riluttante, «anche se all'epoca ero portato a considerarne più la valenza puramente economica che quella politica. Per me era importante far comprendere come il risparmio lavorasse silenziosamente contro lo sviluppo, data l'assenza di una legge che assicura l'uguaglianza fra risparmi e investimenti. Per me era chiaro come l'occupazione, così come un suo possibile e sempre benvenuto incremento, dipendesse dalla somma di consumi e investimenti, e che il suo andamento, in presenza di una propensione al consumo stabile, fosse condizionato solo dall'andamento degli investimenti. Non esisteva, come sostenevano i classici, un salario reale che avrebbe promosso in modo automatico un equilibrio tra domanda e offerta di lavoro al livello della piena occupazione. In sostanza, era del tutto possibile che si formasse un equilibrio di sottoccupazione e che la manodopera al lavoro opponesse resistenze insormontabili ad aggiustamenti verso il basso dei salari reali tali da favorire la formazione di equilibri meno penalizzanti per tutta la massa dei lavoratori. Il problema centrale, quindi, rimaneva quello di stimolare il volume d'investimenti adatto a promuovere la piena occupazione».

«Ho capito alla perfezione la crucialità della fase dell'investimento e del suo possibile effetto a valanga», disse Marx con un briciolo di orgoglio. E volle dar prova di aver davvero capito. «Se qualcuno investe 100, qualcun altro incassa 100, e se chi ha incassato non spende nulla, non si trae più alcun beneficio dall'investimento. Ma se chi ha incassato spende 90, destinando al risparmio solo 10, qualcun altro avrà un reddito di 90 che, nell'ipotesi di una pari propensione al risparmio, verrà speso nella misura di 81, e così via, fino a formare un reddito complessivo di 1000, che è il risultato di 100, l'investimento iniziale, diviso per 1/10, che è l'incidenza del risparmio, cioè il reddito non consumato. Tanto più è piccola la parte di reddito risparmiata quanto più è grande l'effetto generato dall'investimento. Vale lo stesso per il funzionamento del moltiplicatore dei depositi bancari, dove al posto della propensione al risparmio troviamo il coefficiente di riserva obbligatoria, vale a dire la percentuale dei depositi che le banche devono depositare sotto forma di base monetaria presso la banca centrale. In teoria, da un investimento di 100, con l'ipotesi di una propensione al risparmio pari a zero da parte di ogni consumatore che si trova a fungere da punto di passaggio della moneta, si sprigiona un reddito infinito. Di fatto, hai riconosciuto agli investimenti la stessa capacità espansiva del reddito attribuibile ai consumi. I conti tornano, anche sul piano concettuale».

Marx fece una pausa destinata a ufficializzare ciò che si accingeva a dire. «Il tuo ragionamento ha fatto emergere un dato fondamentale. Nonostante la loro definizione, gli investimenti non sono altro che consumi, solo a più lento decorso nel tempo. Mangio e digerisco facilmente un panino al prosciutto che mi serve per placare la fame, somministrare al mio corpo l'energia che gli occorre, soddisfare comunque un bisogno immediato. Mi servirà invece per un periodo più lungo un impianto per la produzione di acciaio o per la fabbricazione di automobili. Tanto il panino quanto l'impianto, tuttavia, identicamente si consumano, benché in tempi diversi, per dar luogo a forme di utilità di cui gli uomini sono sempre e comunque i destinatari finali. Tutta l'economia è consumo, investimento, produzione e consumo di energia, produzione di merci a mezzo di merci, consumo di merci a mezzo di merci, con gli uomini che danno senso a ogni singolo atto di produzione e di consumo».

«Complimenti! Vedo che non hai bisogno di istruzioni per l'uso», esclamò Keynes soddisfatto. Ma c'era un'ombra di rincrescimento nelle parole che aggiunse subito dopo.

«Lo schema del mio ragionamento, tutto sommato, è molto più banale di quanto si possa pensare. Nulla a che vedere, purtroppo, con l'ampiezza e la profondità delle tue prospettive, e con la tua attitudine a collocare il fatto economico — la produzione, la lotta di classe, l'evoluzione dei sistemi produttivi e sociali — sul grande palcoscenico della Storia». Era evidente come Keynes a volte fosse afflitto da una specie di complesso di inferiorità nei confronti di Marx. Il che non gli negava il piacere di conversare con lui.

«Comunque, per riprendere il discorso — e te lo dico anche perché è presumibile che tu non ti sia soffermato su certi tecnicismi —, dal mio punto di vista diventava fondamentale l'introduzione nello schema di un tasso di rendimento prospettico del capitale investito, una variabile concepita come soglia al di sotto della quale non ci sarebbe stato più alcuno stimolo all'investimento. Ciò che dava corpo al concetto di efficienza marginale del capitale, intesa come rendimento — rendimento previsto per l'impiego di una qualunque somma di denaro — destinato a diminuire in maniera piuttosto meccanica di pari passo con l'aumento dell'investimento; e ciò per una ragione non troppo dissimile da quella per cui l'acquisto del trentesimo paio di scarpe è meno appagante, anche sul piano psicologico, di quello dei ventinove precedenti. Una volta che l'efficienza marginale del capitale fosse caduta al di sotto del tasso d'interesse, diventava cruciale il ruolo della politica monetaria come strumento di governo dell'economia. Un aumento dell'offerta di moneta, infatti, avrebbe potuto provocare una diminuzione del tasso d'interesse idonea a rilanciare l'investimento, la domanda globale e l'occupazione. Da qui l'enorme efficacia della politica monetaria, almeno sul piano potenziale».

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«Sì, credo proprio di poter rispondere in modo affermativo. La struttura del valore è sempre stata il lavoro, e il cuore pulsante del capitalismo è sempre stato la sua straordinaria capacità di ridurre il lavoro a vile merce. Tu, che sei un interprete molto attento del Capitale, ricorderai senz'altro le mosse di quel capitalista che, intellettualmente poco dotato ma con le tasche gonfie di denaro, si aggira sul mercato alla ricerca di una merce tanto preziosa da possedere un valore d'uso contraddistinto dalla singolare qualità d'essere fonte di valore, vero e proprio strumento per la creazione di valore. Possibile? Se lo chiede lui stesso, l'incredulo eppur speranzoso cacciatore di risorse miracolose. Può esistere davvero una merce che più ci si affanna a consumare più trasuda valore? Certo, incredibile ma vero. Il nostro poco illuminato ma fortunato capitalista la troverà nel lavoro, nella forza lavoro, una materia che si presta a diventare un efficientissimo moltiplicatore del valore: una materia che si può comprare a un prezzo di gran lunga inferiore a quanto vale».

«In effetti, il meccanismo non ha nulla da invidiare al mio moltiplicatore degli investimenti, ed è anzi estremamente più semplice».

«Θ così, ed è questa semplicità il segreto del suo funzionamento e dei suoi strepitosi risultati. Il modo di procedere del capitalismo è lineare, rapido, diretto, connaturato a un sistema che reputa normale vendere e comprare qualsiasi cosa. Θ un contesto che trova nel denaro il suo equivalente generale e lo trasforma in un movente universale. Del capitalismo non mi interessavano solo le ingiustizie, i soldi sottratti all'operaio, il suo sudore e il suo dolore. Mi incuriosivano anche gli aspetti più grotteschi, il cumulo di contraddizioni di cui si alimentava e non poteva fare a meno per sopravvivere e prosperare, i contorcimenti della logica da cui traeva la sua paradossale giustificazione, la miseria e il sudiciume di cui era responsabile, scorie naturali, dati inosservati o accettati come normali sottoprodotti. Del sistema mi colpiva anche la finta o reale cecità intellettuale, e più di tutto un'ipocrisia di fondo che si prestava quanto mai a essere trattata con ironia. Da qui tante mie divagazioni, espressioni stravaganti, paradossi, sillogismi, fughe metafisiche ed elecubrazioni; come la mia piccola apologia della professione delinquenziale, un divertissement che ti sarà sicuramente capitato di leggere».

«Non mi pare. Sbaglio a dedurne che non facesse parte del Capitale?».

«Non sbagli affatto. Ma è poco più che una corbelleria. Non sono abbastanza presuntuoso da immaginare che tu abbia la voglia di ascoltarne un riassunto».

«E invece sbagli. Raccontami».

«D'accordo», disse Marx tutto contento, dopo aver ordinato il suo sesto Martini.

«Lo spunto è stato il pregiudizio di cui è oggetto colui che delinque nella società dei consumi. Θ chiaro che un filosofo produca idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore libri, e così via. Il delinquente produce delitti, ma anche molto altro di cui la comunità dovrebbe essergli grata. Il delinquente fa nascere il docente di diritto penale nonché i manuali, i volumi in cui egli raccoglie il prezioso risultato dei propri studi che poi vende come un prodotto sul mercato. Al delinquente si deve l'istituzione della polizia e della giustizia criminale, nonché la proliferazione di sbirri, giudici, boia, giurati, soggetti che svolgono attività particolari e a cui fanno capo altrettante categorie della divisione sociale del lavoro dalla quale dipendono lo sviluppo di svariate facoltà dello spirito umano e la creazione di nuovi bisogni, così come l'ideazione di nuovi modi di soddisfarli. Anche la tortura ha stimolato la fabbricazione di invenzioni meccaniche talmente ingegnose da impegnare la mente e le energie di una pletora di onesti artigiani. Il delinquente genera un'impressione — comica e tragica, a seconda dei casi — e rende così un servizio alla morale e al moto dei sentimenti del pubblico. Egli non produce solo codici e documentazione giurisdizionale ma anche arte, letteratura, romanzi, commedie e tragedie, come dimostrano I masnadieri di Schiller, l' Edipo di Sofocle e il Riccardo III di Shakespeare. E non finisce qui. Sono tante le attività che traggono linfa dall'esistenza del delinquente. Ci sarebbero serrature tanto ben fatte se non esistessero i ladri? E senza lo stimolante contributo dei falsari le banconote si presenterebbero così sofisticate da costituire un esempio preclaro di perfezione in termini di finezza del disegno nonché di morbidezza e pastosità dei colori? Ci troviamo finora nel campo del delitto privato, circoscritto a un ambito locale, quello dei rapporti interpersonali. Ma sarebbe mai sorto un mercato mondiale in mancanza di delitti di portata nazionale e internazionale? C'è anche da chiedersi se, senza l'apporto di crimini colossali, le nazioni sarebbero nate. E, riflettendoci, nemmeno può stupire che l'albero del peccato originale sia lo stesso da cui è nato il frutto della conoscenza».

«Il tono è lieve, ma l'argomento evoca temi inesauribili, di profondità abissale e grandi interrogativi. Può esistere il bene senza il male? Che cos'è il male? Il bene sarebbe limitato se non ci fosse il male?».

«Per la verità, io volevo solo richiamare l'attenzione sulla follia di un sistema ossessionato dalla necessità di produrre ricchezza materiale, in continuazione e in ogni sua forma, condannato a trattare ogni singolo istante della vita — ogni episodio del bene o del male — come un'occasione per fabbricare oggetti o eventi da trasformare in denaro, e tutto ciò in un circuito che non distingue le cose dagli esseri umani, che mette merci e individui sullo stesso piano e che traduce perfino il delitto in un momento di profitto».

«Sì, ma dovrai riconoscere che da tutto questo è nato anche qualcosa di buono, di utile e apprezzabile».

«Certo! E non c'è dubbio che ora mi sia più facile ammetterlo».

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«Innazitutto non riconosco più le ragioni per cui ho demonizzato a tal punto il capitale. Il mostro che fagocita tutto?! Il Leviatano che succhia il sangue e l'anima dei lavoratori? Il portento che li riduce a fantocci impotenti e inanimati, soggiogati al suo dispotico volere? No, non lo considero più vero, sconfesso quest'analisi, del tutto inidonea a portarci al cuore del problema». Marx sospirò dolorosamente, e poi riprese. «Il capitale è fatto dagli uomini, dalla loro intelligenza, dalla loro fantasia, dalle loro fatiche, dalle loro risorse fisiche e morali. Il capitale è il risultato del lavoro, e come tale è prezioso, edificante, utile per i benefici materiali e immateriali che offre indistintamente a uomini e donne di tutte le razze ed età, vecchi e bambini, contemporanei e posteri. Il capitale è ciò che gli uomini hanno fatto, è quanto di buono ci circonda e ci aiuta ad abitare il pianeta, a renderlo ospitale, a dominare una natura spesso ostile. No, non ho più paura del capitale, non ci vedo nulla di male. Riconosco inoltre come anche un grande capitalista possa essere al contempo un autentico lavoratore, poiché il capitale ha mille sfaccettature, e non è facile da amministrare. Perciò è bene che chi ne è il detentore lo possa stabilmente possedere, lo tratti con amore, ne tragga il giusto frutto e ne salvaguardi il valore, personale e sociale, come solo un vero proprietario sa fare. Non importa dunque che il proprietario sia pubblico o privato per essere adatto ed efficace; purché esista un proprietario, lo si conosca, sia onesto, attento e svolga in modo adeguato il proprio compito. Un mondo migliore del nostro — un mondo senza classi, dove non ci sia spazio per sfruttatori e sfruttati, dominatori e dominati — non ha certo bisogno che venga meno la diversità di funzioni, attitudini e abitudini. Anzi. Sei stato tu che mi hai fatto riflettere. Perché mai si dovrebbe negare a qualcuno la possibilità e il diritto di diventare «ricco» — senza che ciò voglia dire rubare, insolentire o prevaricare — se questo è il suo sogno o anche solo l'unico obiettivo per cui vuole lottare? Lo stesso vale per chi, al contrario, preferisse la via dell'austerità, della frugalità o addirittura della povertà, purché ci si trovi nel campo delle scelte consapevoli e non in quello delle imposizioni, delle costrizioni, degli esiti ineluttabili e irreversibili o ancora peggio in quello dei comportamenti vessatori e disdicevoli. Si invoca il libero mercato? Ben venga, ma allora che sia vero, ampio, completo, esteso alle opinioni e alle merci, a tutto e a tutti, fatti, uomini e oggetti. Bando alla disoccupazione e all'indigenza involontarie, ma anche all'opulenza 'incosciente', quella originata da mode e modelli di vita artificiali, imposti con veri e propri sotterfugi, meta di un desiderio fasullo e sottilmente indotto. La libertà è preziosa, lo sanno tutti, va conquistata senza posa. Io che l'ho amata e praticata posso dirlo, so bene quanto costa. Il mondo attuale dispone di risorse tecniche tali da soddisfare i bisogni di tutti. Tuttavia non si attinge a questo potenziale enorme: non lo si fa, colpevolmente, non lo si vuole sfruttare. Se non si è liberi dal bisogno, non si è liberi neppure di desiderare. Qualcuno ha forse premeditato, deciso e imposto questa situazione di privazione, di negazione assurda più che inutile? Non lo so, non credo. Certo molti la preferiscono, o vi si acquietano, perché stupidamente credono che sia funzionale alla difesa dei loro privilegi». E dopo un minuto di silenzio: «Ti dirò di più. Non ho alcuna intenzione di lasciarmi, per così dire, intimidire da questa mia ritrattazione. Non la considero affatto uno smacco, bensì un mio personale progresso».

Marx aveva parlato con una passione non meno vibrante e travolgente di quella che lo aveva animato in passato, nel corso della sua vita. Ma Keynes era frastornato, forse anche un po' deluso. Il discorso che aveva appena ascoltato gli era parso confuso, poco nitido. Gli era ormai chiaro in modo definitivo, questo sì, che non si trovava di fronte allo stesso uomo che aveva ideato il Manifesto del Partito comunista e inneggiato alla dittatura del proletariato. Ma ciò non lo aveva sorpreso più di tanto: aveva già colto i sintomi di una certa evoluzione nel modo di ragionare del suo amico. Non aveva invece capito dove Marx volesse andare a parare. E se per caso, come era lecito supporre, il Moro aveva conservato, nonostante tutto, la sua anima inguaribilmente rivoluzionaria, che tipo di rivoluzione aveva in testa? Soprattutto, non si era curato di spiegare dove stesse l' errore, il loro errore, quello che aveva così ufficialmente annunciato e denunciato. Marx non era più tornato su questo tema e tantomeno aveva accennato a possibili vie d'uscita.

Ma il Moro non aveva finito. «Ciò premesso», disse, «ti confermo che c'è stato davvero un momento in cui mi sono trovato a un passo dalla meta. Tenevo il topo per la coda (non dico il toro che è un animale tanto grande ed energico da disturbare l'esempio) e me lo sono lasciato scappare. Già nel secondo capitolo del Capitale, per lo più dedicato allo scambio, avevo in mano tutti i pezzi del problema. E anche gli strumenti per risolverlo. Ma non mi sono accorto dell' errore che, insinuatosi nel mio discorso, si era abilmente travestito da soluzione: il denaro. Logica conclusione di ogni scambio e mezzo naturale per la sua definizione, il denaro mi parve da un punto di vista scientifico l'oggettivazione storica, necessaria e relativamente innocua del valore». Ci fu una pausa, giusto il tempo per mettere a fuoco un ricordo.

«Per la verità», riprese Marx, «io, il denaro, non l'ho mai considerato un oggetto così puro e incontaminato. Tant'è che ho parlato in modo esplicito dello spirito faustiano del mercante, di chi vede l'inizio nell'azione e non nel verbo, nel risultato e non in ciò che lo precede. Di chi ha un occhio così cinico da vedere nella merce non il suo valore d'uso, che le brilla dentro, ma solo il denaro, il suo valore di scambio, ciò per cui brilla fuori con lo scintillio dei soldi. Del resto, non è casuale che io abbia imputato ai mercanti d'essersi consegnati, cuore e cervello, alla Bestia, quella dell'Apocalisse. Ma poi, distrazione davvero imperdonabile, non mi sono fermato a riflettere, per cercare di capirne le conseguenze. Sono rimasto in superficie, mi sono accontentato della possibilità di risolvere l'enigma del denaro riconducendolo allo stesso feticcio della merce, all'illusione connaturata alla sua estrema e suprema attitudine a essere scambiata. E così, incurante della sua pericolosa unicità, ho sorvolato sul vero significato dell'oggetto, nonché sull'inquietante autonomia del suo potere. Θ il denaro il difetto del sistema, è questo il mio verdetto. Mi sono scagliato contro il capitale, e ho sbagliato obiettivo: è stato questo il mio errore. Giudica tu qual è stato il tuo (di cui, comunque, l'avrai capito, mi sono già fatto un'idea precisa)».

Keynes non aveva avuto il tempo per elaborare le implicazioni, intuitivamente gravi, delle parole che Marx aveva appena pronunciato. Ma il poco che era riuscito a cogliere bastava a fargli ghiacciare il sangue nelle vene. Se a Marx doveva essere costato molto ammettere di aver sbagliato bersaglio, a lui sarebbe costato di più, molto di più, riconoscere di aver fatto del bersaglio sbagliato il suo cavallo di battaglia.

Il denaro, la moneta, l'interesse scientifico di tutta una vita, la sua totale, costante fiducia in un oggetto che veniva messo pesantemente sotto accusa, senza possibili vie di fuga. E la sua colpa era grande, oggettiva al punto da dover escludere che il suo interlocutore avesse voluto enfatizzarla per il solo gusto di ferirlo: era l'errore di non aver capito ciò che nascondeva lo strumento da lui studiato con tanta attenzione e dedizione. Per di più, doveva ammetterlo, era lui stesso a considerare improbabile che vi fosse stato un errore nell'individuazione dell'errore. No, non ci si poteva sbagliare. Il Moro aveva parlato terribilmente sul serio. E, dato non trascurabile, alcune sue parole, pronunciate con la massima gravità e avvolte in un'aura di verità indiscutibile, erano state per Keynes come un lampo nel cervello.

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Tuttavia – e anche di questo erano consapevoli –, si trovavano a fronteggiare difficoltà considerevoli. Innanzitutto, un inconveniente non secondario era costituito proprio dal cosiddetto errore. Sul denaro infatti, o meglio sulla moneta – la più importante delle manifestazioni storiche del denaro, la più perfezionata e formalizzata delle sue espressioni –, era basato il funzionamento di tutto il sistema economico mondiale. Proverbialmente razionali, Marx e Keynes sapevano che l' errore avrebbe dovuto essere eliminato, che qualunque problema commesso nel corso della sua risoluzione si sarebbe presentato irrisolvibile fino al momento della rimozione del medesimo. Ma come sarebbe potuta avvenire tale rimozione? Più d'uno si sarebbe dichiarato quasi matematicamente sicuro che, per un vecchio rivoluzionario come Marx, l'unica mossa concepibile nella fattispecie potesse essere quella dell' abolizione. E forse, sul piano concettuale, per prefigurare un esito del genere, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di avere la rivoluzione nelle vene.

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Non sarebbe stato troppo presto per un whisky. Un magnifico bancone d'epoca — lo avevano intravisto dalla strada — li indusse a entrare in un pub che aveva tutta l'aria di un locale storico. Ordinarono due Connemara 12 anni.

«Credo che si debba partire dai costi», disse Marx dopo qualche minuto. «Uno dei motivi per cui non sono stato abbastanza severo nel mio giudizio sulla moneta e tutto il suo apparato è che, anche a causa del secolo in cui ho vissuto, non ho intuito quelli che sarebbero stati gli sviluppi del fenomeno. Che mi sembrano a dir poco sconcertanti».

«Certo», annuì Keynes. «Θ nella natura della moneta crescere, perfezionarsi, articolarsi e infiltrarsi nella quotidianità di tutti. Anche le banche — istituti che condizionano ogni dettaglio dell'esistenza di uomini e aziende, ossia moltitudini di persone fisiche e soggetti giuridici dai quali dipendono miliardi di esseri umani — non sono altro che una manifestazione della moneta. Un modo in cui la moneta entra in azione, agisce e guida passo dopo passo i fatti economici, per innovarsi, penetrare nuovi spazi, invadere ogni momento della vita individuale e collettiva, diventando sempre più capillare ed efficiente».

«Hai ragione. Non mi era ancora capitato di pensare alle banche e alla loro attività come pura espressione d'innovazione finanziaria rispetto alla moneta, l'invenzione originaria, di cui sono clamoroso ammennicolo molto più che strumento deputato di custodia. Le banche sono la moneta, suoi bracci operativi, suoi tentacoli in grado di rigenerarsi, moltiplicarsi e moltiplicarla, e al tempo stesso capaci di accarezzarla, accudirla, leccarle le ferite e rimetterla in forza quando è debole. Bel fenomeno, le banche! Da quanto ho capito, si tratta sempre più spesso di organizzazioni terribilmente complesse che tendono a diventare gigantesche. Tutte queste istituzioni pesano sulle spalle della società: formalmente sono al nostro servizio, in sostanza servono la moneta, la sua manutenzione, e perpetuano il dominio. In breve, sono un costo enorme per la collettività. Ma della moneta sei tu l'esperto. Mi raccomando, correggimi se sbaglio».

«Non sbagli affatto. I costi del sistema sono ingenti. Il denaro esige molti sacrifici, tutti destinati alla sua sopravvivenza e al suo benessere. Ma le banche e gli altri organismi finanziari non sono che la punta dell'iceberg».

«Che cosa intendi dire?».

«La linfa del denaro è il numero, suo unico alimento e punto d'appoggio nel mondo. Ciò è ancor più vero ora, in un'epoca in cui la moneta è ormai svincolata da oro, argento e da qualsiasi altro metallo. Anche il suo supporto cartaceo è diventato sempre più irrilevante, ragione per cui la vera armatura della moneta è il numero. E a occuparsi di numeri, soltanto di numeri, non sono solo banchieri e finanzieri, agenti di cambio e società d'intermediazione mobiliare, compagnie assicurative, intermediari finanziari, cassieri e scassinatori. Θ una comunità ben più vasta, quella degli addetti alla cura del numero, estesa a ogni Paese, ogni settore e ogni luogo di lavoro. Si tratta di tutti i contabili del pianeta, coloro la cui unica professione e mansione giornaliera è la contabilità, l'addizione e la sottrazione, l'attenzione maniacale per tutto ciò che riguarda la separazione e la distinzione di ciò che è mio da ciò che è tuo, l'imputazione di numeri a conti, la spartizione e l'assegnazione di somme certificate dal processo contabile».

«Ora ho capito. Mi stai dicendo che gli sforzi concentrati esclusivamente sulla realtà inanimata dei numeri, ossia la somma delle attenzioni che si traducono nella manutenzione della moneta, sono molto superiori a quelli che appaiono a una prima, superficiale, analisi. E se è vero, come sembra, che noi viviamo di gesti – di oggetti fabbricati, di eventi progettati e realizzati, di sensazioni avvertite e suscitate da corpi alla ricerca del proprio e altrui benessere, della soddisfazione dei propri e altrui bisogni e desideri –, allora i contabili si trovano esclusi dalla produzione di qualsiasi cosa possa essere considerata utile agli esseri umani, direttamente o indirettamente. Ti ricordi della definizione del denaro che ho dato nel Capitale?».

«Sì, una definizione quanto mai felice, ricca di allusioni e suggestioni filosofiche e scientifiche. Ne hai parlato come di merce esclusa, un bene a cui è stato assegnato il compito specifico di rendersi cristallizzazione del valore di tutti gli altri beni. E che paga, naturalmente, questa sua peculiarità con l'oggettiva impossibilità di essere concretamente utile in qualunque occasione della vita. Con il denaro non si può fare nulla se non comprare qualcosa che si desidera, o di cui si ha bisogno, tutto ciò che è frutto, appunto, dei nostri gesti. La moneta è un oggetto, un oggetto sociale, ma è pur sempre denaro, che è solo un concetto. Tutto il lavoro dedicato alla sua salvaguardia non produce alcunché di concreto. Se ne deve dedurre che tutti coloro che si occupano di denaro e dei numeri che lo rappresentano non fanno in sostanza nulla e sono anch'essi, come la merce di cui si occupano, lavoratori esclusi dalla produzione di qualunque forma di benessere. E sono tanti!».

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«Bene. Allora, se non hai nulla in contrario, ufficializzerei un primo importante risultato della nostra analisi. Definirei occupazione apparente il fenomeno di cui abbiamo parlato, cioè il costo legato alla necessità di destinare una frazione rilevante della forza lavoro complessiva allo scopo, totalmente improduttivo, di tenere in vita la moneta. Non è questo un primo grande costo occulto, o non abbastanza riconosciuto, del sistema del denaro?».

«Non c'è dubbio. Alla luce del taglio così 'macro' che abbiamo dato alla nostra analisi, non vedo allora perché non si debba parlare anche di disoccupazione apparente».

«Che cosa intendi dire?», domandò Marx incuriosito.

«Tu sai che sono stato sempre piuttosto sensibile al problema della disoccupazione. E sai anche come sia inevitabile che il sistema capitalistico produca un certo numero di disoccupati, a volte molto elevato, a volte più contenuto. Ma il fenomeno è pur sempre increscioso, esecrabile più che spiacevole, anche se si è abituati a trattarlo come un dato di cui si deve prendere atto, un fatto ineludibile, un semplice incidente, per quanto deplorevole. E si trascura o si finge di non accorgersi che il fatto è ben più grave. Chi è, cosa rappresenta un disoccupato, oltre che una persona in uno stato di palese difficoltà materiale e psicologica? Non occorre alcuna riflessione approfondita per riconoscervi l'incarnazione di un paradosso, di una vera e propria aberrazione. Ma è possibile anche solo ipotizzare l'esistenza di un disoccupato – un uomo posto nell'impossibilità di offrire il suo personale contributo alla vita della collettività – in un mondo che ovunque e sotto ogni aspetto ha bisogno dell'intervento di tutti? Basta pensare a questo profilo del fenomeno per riconoscere nella disoccupazione non tanto un'ingiustizia quanto un'idiozia incommensurabile. Innanzitutto la definizione, ne converrai, è avvilente, scoraggiante e umiliante. Pur privo di un'occupazione ufficiale, infatti, il disoccupato ha braccia, gambe e cervello, e un'infinità di occasioni per essere utile al mondo. Lui lo sa, può fare mille cose: occuparsi di sé e degli altri, comporre poesie, coltivare rose... Eppure si trova lì, immobilizzato, costretto ad ascoltare un coro di voci che gli ripete ossessivamente ciò che lui alla fine ha interiorizzato: è inutile che muova anche solo un muscolo se non porta a casa il gruzzolo. La lezione è che si può e si deve lavorare solo se c'è qualcuno disposto a pagare. Ed è così che il lavoro – un insieme di gesti normale, del tutto naturale – diventa un fatto artificioso, elaborato da un meccanismo sbagliato, una fatica che vale la pena di sobbarcarsi a condizione che venga quantificata e remunerata in moneta. Del resto, come avrebbero potuto gli uomini trascorrere le ore e i giorni della loro vita senza lavorare, privati del loro più o meno piacevole passatempo obbligato?».

Gli occhi di Marx scintillavano per l'emozione. «Non puoi immaginare quanto mi trovi d'accordo. Tu stai affermando che la disoccupazione è un altro difetto strutturale del sistema, un altro suo imperdonabile errore. E mi stai dicendo che la disoccupazione involontaria non ha senso, che lavorare è un diritto naturale e inalienabile e che è tanto ovvio lavorare per vivere quanto lo è vivere per lavorare, per sperare in una vita migliore. Il disoccupato non è un uomo a cui viene negata un'occupazione. Di occupazioni utili e possibili è pieno il mondo, che ha bisogno del gesto attento e preordinato di tutti. Il disoccupato è un individuo tagliato fuori dal sistema della moneta, escluso dal circuito finanziario, afflitto da una condizione che gli preclude la possibilità di un guadagno. La disoccupazione non è che un altro frutto, forse il più amaro, dell'economia della moneta. Per quale motivo l'amministratore delegato di un'azienda che pure trarrebbe vantaggio dalle tue competenze, perfettamente congruenti con certi suoi problemi da risolvere, non ti assume? Perché il suo bilancio non può essere gravato da uno stipendio in più. Per quale motivo l'azienda dove hai lavorato per anni con soddisfazione reciproca ti licenzia? Perché non ha più i soldi per pagarti. Il denaro prevale in modo brutale, vince sul capitale. Il capitalista non è che un uomo, uno fra i tanti, tenuto a far quadrare i conti. Se questi non quadrano, salti. Mancano le opportunità d'impiego? Non c'è lavoro? In realtà mancano i soldi per finanziarlo. Il che è grottesco, dal momento che è il lavoro a produrre la ricchezza ed è la ricchezza a dare un significato alla moneta, non certo il contrario. Ma ormai, paradossalmente, sembra essere la disponibilità di denaro a stabilire se è possibile o meno creare posti di lavoro. E ciò benché nessuno possa negare che la moneta è solo un fantasma, pallida e fredda rappresentazione del valore generato dal lavoro».

«Qualcuno ha pensato di risolvere o attenuare il problema mediante il ricorso massiccio a sussidi di disoccupazione», disse a questo punto Keynes. «Tuttavia, più che un rimedio convincente, mi sembra la prova dell'abitudine ormai inveterata di cercare nel denaro la soluzione a qualunque problema. Innanzitutto esiste l'alto rischio che per il disoccupato il sussidio diventi la certificazione della sua triste condizione, l'attestazione del suo ruolo di escluso che deve essere ammansito, della sfortuna che lo ha colpito riducendolo a un peso per una società abbastanza evoluta e civile da sentirsi in dovere di sfamarlo. Ma il supposto rimedio offende la logica più ancora che la psiche. Non mi pare infatti per nulla intelligente, neanche sul piano pratico, l'idea di utilizzare una frazione della ricchezza a disposizione della società per rendere accettabile la circostanza che a qualcuno sia di fatto impedito di contribuire all'incremento di tale ricchezza».

Marx si era fatto pensoso. «Con il denaro», mormorò, «ci si illude di poter comprare tutto, anche la dignità degli uomini. E d'altra parte, è il denaro a esporre gli uomini che non ne dispongono al rischio di perdere la propria dignità. Credo di poter dire che nella mia vita son stato sempre operoso. Non c'è stato giorno in cui non abbia dato al mondo ciò che ero in grado di dargli. Eppure quante volte, nei miei lunghi anni londinesi, non sono riuscito a pagare il macellaio, il panettiere o il medico, e mi sono sentito un miserabile. Solo ora, me ne rendo conto! Non era il capitale a offendermi, a ferirmi, ad avvilire un uomo che si scopriva incapace di mantenere il decoro della sua famiglia. Non era il capitalismo, né la classe sociale che lo rappresentava, a mettermi nell'angolo, a volermi in difficoltà, a erigere il muro che mi si parava davanti. A fare di me un derelitto era il denaro, la differenza che c'era in quel momento tra il fatto di possederne e il fatto di non possederne. Capisci? Capisci tutta la banalità della verità? Se io avessi potuto acquistare più carne non mi sarebbe stata negata, me l'avrebbero data, se avessi potuto comprare più pane avrei avuto più pane, se avessi pagato il medico più spesso di quanto potessi permettermi avrei ottenuto un'assistenza medica migliore, più accurata per me e per i miei figli. Θ stato il denaro l'intoppo, il pasticcio, il guaio. L'impedimento, il vero e insormontabile ostacolo, è stato la convenzione del denaro, la sua egoistica natura, la necessità ineludibile di dare denaro per avere e l'abitudine irresistibile dei miei creditori di ricevere denaro per dare. Io sono stato fermato, bloccato dal denaro, fulminato dalla sua carenza. Lo stesso vale per tutti coloro con cui ho avuto a che fare, per i loro gesti abortiti, per tutte le azioni che sono venute a mancare da parte di chi nel denaro vedeva lo stimolo insostituibile a compierle o, il che è lo stesso, la ricompensa indispensabile per averle compiute».

«Θ proprio così come dici tu, Moro. Tutto dipende dalla posizione che si è guadagnata la moneta, dalla dote di imparzialità che le è stata attribuita, dalla fama e dalla diffusione capillare che si è conquistata. In realtà, la fiducia che in essa si ripone è dozzinale, ha un'origine quasi banale. Pensa al fatto che il credo inconfutabile di cui vive la moneta si basa soltanto sulla circostanza che chi l'ha ricevuta in cambio di qualcosa è sicuro di poter ottenere, immediatamente, qualcos'altro in cambio. Non c'è nulla di grandioso o di edificante nel rapporto che nasce dalla moneta. Non c'è niente che assomigli alla fiducia nello Stato, in una banca centrale, nella vitalità di un sistema economico o nella capacità degli uomini di essere artefici del proprio destino. Pensa ai prezzi e alla loro pretesa oggettività nell'interpretare e nel leggere il valore. Che, in realtà, è quanto di più soggettivo possa esistere. Tu, che avevi voglia di fumare, hai preferito i sigari alla moneta sborsata per averli, e lui, il tabaccaio, preferiva la moneta ai sigari, di cui non vedeva l'ora di liberarsi. Motivo per cui il prezzo — un numero, oggettivo per definizione — simboleggia stranamente la sfrenata e incontenibile soggettività del valore».

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«No, Maynard. L'esempio non è calzante. Il cacciavite è utilizzabile per diversi scopi leciti non meno che pratici. Una pistola, invece, sa fare una sola cosa: sparare, e non è una cosa buona. Tra milioni, miliardi di possibili valori d'uso, il denaro non ne possiede neanche uno. Ha solo un valore di scambio, che in compenso è illimitato. Può dirigersi da qualunque parte, come una pallottola di cui non si conosca la traiettoria può sfrecciare e colpire ovunque. Nessuna utilità concreta, individuabile. Ed è proprio questo su cui stiamo ragionando. Merita di esistere un oggetto talmente inutile e al tempo stesso così straordinariamente potente e pericoloso? Ha ragion d'essere e può essere sfruttato in modo adeguato uno strumento in tutto simile a una mitragliatrice che continua a sparare all'impazzata in ogni direzione?».

«Ti seguo Karl, ma solo fino a un certo punto. Dobbiamo ammetterlo, ci siamo ripromessi di essere realisti: la probabilità di ottenere una condanna a morte del denaro non è maggiore di quella di far condannare un revolver all'ergastolo. Occorre muoversi nei limiti della ragionevolezza, come del resto ci eravamo proposti di fare. Andiamo avanti per la nostra strada, non stanchiamoci di mettere in evidenza i costi del sistema, di elencarli diligentemente e di provare a valutarli, senza sconti, in tutta la loro gravità. Sei stato tu a suggerirlo: concentriamoci dopo, solo dopo, sulle possibili soluzioni. Non esclusa quella, lo ricorderai, di lasciare le cose come stanno, qualora dovessimo verificare che il rimedio presenta il rischio troppo elevato di peggiorare una situazione di per sé già quasi insostenibile. Ti dico questo, credimi, per una mia naturale prudenza — che tra l'altro reputo ben poco superiore alla tua —, non certo perché ritenga che questa nostra analisi sia destinata a non approdare a risultati forieri di cambiamenti rilevanti».

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«C'è di più», sbottò Marx, che sembrava aver assunto l'atteggiamento di un giovane alle prese con un nascente movimento sovversivo, pronto a esplodere come dinamite. «A proposito di deleghe inopportune, se non addirittura pericolose, è sconcertante come il potere finanziario sia troppo spesso capace di prevaricare quello politico. Ci sono decisioni, indirizzi e orientamenti che dovrebbero rimanere di esclusiva competenza della politica come espressione del dibattito e della volontà popolare. Invece si è costretti ad assistere a vere e proprie prove di forza dei sistemi finanziari e dei loro vertici, che riescono non solo ad aggirare provvedimenti legislativi sgraditi, ma anche a influenzare i lavori dei parlamenti, condizionare interi schieramenti e far cadere i governi. In sostanza, non si può fare a meno di osservare l'assoluta impotenza della politica, sia di destra che di sinistra, di fronte allo strapotere della finanza. In maniera ipocrita, la finanza si erge a nume tutelare del sacro valore del risparmio con lo scopo di farla franca, con l'obiettivo di guadagnarsi l'immunità, una sorta di salvacondotto generale che induce chiunque a rispettarla e a temerla. Tutti cercano di essere prudenti, guardinghi per non colpirla, per evitare contraccolpi, per non rischiare di comprometterne la missione, giudicata essenziale, prioritaria, praticamente sacra. Ma cos'è il risparmio, l'ostaggio di cui si fa scudo la finanza? Alludo alla sua versione sostanziale, concreta, reale. Parlo del capitale, di quello vero, di tutto ciò che ci circonda e che vediamo come esito durevole e tangibile del lavoro umano: scuole, strade, ferrovie, ospedali, case, ponti, dighe, stabilimenti e supermercati, palazzi, giardini e acquedotti. Parlo di fatti, e non del cumulo di numeri di cui le banche sono tronfie e paludate custodi, cifre che esistono solo come rappresentazione inadeguata della realtà, vacui e mutevoli ologrammi che turbano le menti».

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Dopo una pausa aggiunse: «Il denaro è il dio più egoista tra tutti quelli che gli uomini hanno commesso l'errore di adorare nella loro infinita ingenuità». Questo disse Marx, con una nota di particolare durezza nella voce.

Keynes non parve impressionato. «D'accordo», ammise. «Ma tutto ciò non ha mai ostacolato la convivenza tra il denaro e la tecnica, che hanno anzi mostrato una perfetta attitudine allo sfruttamento reciproco. Certo, il dio della tecnica è parso più concreto, per certi aspetti più generoso e anche meno vanaglorioso del dio del denaro, sempre pronto a bearsi di convenzionali e vistosi tributi».

«Ma c'è il momento in cui i nodi vengono al pettine», disse Marx con l'aria di chi era abbastanza sicuro di poter tagliare la testa al toro. «Oggi la tecnica è ostacolata dal denaro, una forza che pretende di governare tutto, compresi tempi e metodi di un apparato tecnico-scientifico proteso a esprimere il suo colossale potenziale. Oggi la tecnica si trova in una posizione tale da dover quasi chiedere il permesso al denaro per entrare in azione. Tuttavia, potrebbe intervenire molto più efficacemente di quanto le si consenta. Sono le banche a vagliare í progetti d'investimento. E sono sempre loro che spesso non li approvano, per quanto utili, interessanti e razionali. Per quale motivo? Anche per negligenza, perché sono pigre e lente. Ma soprattutto perché la loro priorità — la loro sola ragion d'essere e la fonte del loro potere — è la salvaguardia del denaro».

«Vediamo un po', cerchiamo di riassumere», disse Keynes in tono pratico. «Il capitalismo — tu sostieni giustamente — necessita di capitale, e di profitto, che non è essenzialmente denaro. Anche il profitto è capitale, frutto che dà il potere di disporre delle cose in cui il capitale si traduce, beni di cui è sufficiente la proprietà, istituzione più solida, come dire, più stabile, meno fluida del denaro. Vero è che il denaro serve al capitalismo per marcare con millimetrica precisione il diritto di proprietà, per delimitare con esattezza differenze, distanze e situazioni di privilegio. Non meno rispondente al vero è che il privilegio sostanziale è il potere, la facoltà di continuare a gestire il capitale e le cose di cui è fatto, dalle più semplici alle più complesse, da quelle a più basso valore aggiunto a quelle ad alto e altissimo contenuto tecnologico. Tutto ciò è più che comprensibile. Ma ammettiamo ora che il capitale e la possibilità di perpetuare un suo incremento siano, per il capitalismo, effettivamente più importanti del denaro. Perché mai il capitalismo dovrebbe rinunciare a uno strumento che finora gli è stato così utile?».

«Ci stiamo avvicinando al cuore del problema. Il capitalismo è flessibile, sei stato tu a ricordarlo, e ha già mostrato in mille occasioni la sua adattabilità. Se si trattasse di scegliere tra il dio del denaro e quello della tecnica non tarderebbe a capire da che parte è meglio stare».

«Ma la mia domanda rimane: per quale motivo il capitalismo dovrebbe trovarsi nella condizione di dover scegliere?».

Keynes, per la verità, era ormai alla ricerca di una conferma più che di una spiegazione. E Marx non lo deluse, poiché diede una risposta che solo lui avrebbe potuto dare.

«La moneta è diventata lenta in relazione alle istanze del pianeta. In ogni caso è meno veloce della tecnica, ed è questo l'argomento di gran lunga più importante, quello conclusivo. Θ la tecnica l'asse portante, la forza vincente. Una forza che prevale su tutto non può essere vinta da una forza minore, non si fa dettare ritmi, andatura e modalità d'espressione da niente e da nessuno. Non può accadere che il dio maggiore si sottoponga a regole stabilite dal dio minore».

Ci fu una breve pausa, studiata da Marx per dare più enfasi alle sue parole. Poi riprese ad argomentare da par suo.

«Vuoi degli esempi? Le economie più evolute soffrono di una capacità di sovrapproduzione, poiché la tecnica sarebbe in grado di immettere sul mercato una quantità di beni molto superiore a quella che il mercato stesso è finanziariamente in grado di assorbire. Il risultato è che la tecnica, teoricamente e praticamente onnipossente, viene frenata, castigata e umiliata per proteggere il sistema finanziario. La tecnica qualche anno fa avrebbe risolto il problema economico e politico di fornire una casa di proprietà anche agli statunitensi più indigenti. Anzi, per la verità il problema non esisteva, di fatto era stato risolto: le case erano lì, già costruite. Poi sono state strappate ai possibili proprietari per far tornare i conti. La crisi scatenata dalla concessione su vasta scala di mutui subprime ha fatto sì che ci si fermasse sull'orlo del baratro, e ciò per dare tempo al denaro di aggiustare i suoi bilanci, per ridargli fiato consentendo di riaffermare le sue regole. Il sistema è in affanno? Le aziende licenziano per non deprimere i loro bilanci? L'esito è una macchina inceppata, obbligata a funzionare molto al di sotto del suo potenziale. Quanti disoccupati, soprattutto giovani, avrebbero braccia e cervello per sviluppare tecnologie ancor più potenti e dilaganti di quelle attuali? La tecnica potrebbe sfamare il mondo molto più efficacemente di quanto la carità non sarà mai in grado di fare. Ma il velo dei rapporti finanziari — che è poi una fitta e tenace ragnatela — lo impedisce, rinviando un obiettivo già tecnicamente realizzabile. In economia la velocità è fondamentale, fa la differenza tra vivere o morire, tra vivere bene e vivere male. Il denaro è lento. Un cinese povero, legittimamente desideroso di diventare ricco, vuole appropriarsi dello stile di vita occidentale non per i suoi figli ma per sé, non domani ma oggi, subito, ed è la tecnica delle comunicazioni televisive e telematiche a dirgli che l'obiettivo è a portata di mano».

«Non occorre che tu vada oltre, Karl. Ho capito. Molta intelligenza, molte risorse umane materiali e immateriali, più o meno elementari e complesse, vengono dissipate o trascurate. Occorrerebbero città più verdi e pulite, obiettivo collettivo condiviso e tecnicamente realizzabile, ma troppo costoso. Si avrebbe bisogno di università, ospedali, edifici, case, spazi pubblici e privati più confortevoli, tutto tecnicamente fattibile, ma il denaro è insufficiente. Urgono massicci investimenti nelle aree più depresse del pianeta, del tutto concretizzabili sul piano tecnico e quanto mai utili, ma finanziariamente proibitivi, oltre che poco redditizi. Occorrerebbe che le imprese esistenti, di qualunque dimensione, assorbissero la miriade di disoccupati tecnicamente idonei a promuovere una crescita e un miglioramento della produzione, ma queste stesse imprese sarebbero così gravate da un incremento dei costi insostenibile per i loro bilanci. Tante nuove brillanti iniziative potrebbero prendere piede, far fiorire un numero incredibile di nuove piccole aziende, ma la forza finanziaria delle grandi imprese già presenti sul mercato le farebbe morire sul nascere».

«Θ proprio così, Maynard. Creatività e coraggio, che sono il cuore dell'Apparato tecnico-scientifico, devono arrendersi all'aritmetica dei costi e dei ricavi, alla banale logica dei numeri cui è affidata la manutenzione della moneta. La tecnica, che pure ha una potenza incontenibile, si vede sistematicamente schiaffeggiata e sbeffeggiata dal sistema del denaro. Fino a quando la forza di serie A verrà messa in scacco da quella di serie B? C'è forse stato qualche errore di valutazione da parte nostra nel momento in cui abbiamo attribuito alla tecnica il ruolo di forza prevalente, storicamente vincente?».

«No Karl, non ti sei sbagliato, non ci siamo sbagliati. Ma ciò non toglie che il quadro rimanga incerto, ancora tutto da comprendere nelle sue sfumature. Potrebbe anche accadere che la tecnica vinca, che riesca a sconfiggere in tempi relativamente brevi l'avversario più debole sulla carta. Ma quale sarebbe per gli uomini l'esito della battaglia? La tecnica non si perde in parole, è operativa, usa il linguaggio dei fatti. E i fatti potrebbero risultare catastrofici per uomini impreparati a cambiamenti improvvisi. Dimmi sinceramente: che cosa ne pensi dello sbocco rappresentato da una rivoluzione violenta?».

«Ne penso tutto il male possibile. Θ una prospettiva che non ho mai ritenuto praticabile in passato, figuriamoci ora. Quanto alla necessità di approfondire, convengo con te. Non possiamo accontentarci di aver individuato limiti e costi di un'economia della moneta, né della sensazione che la moneta sia comunque destinata a tramontare e morire. I modi contano non meno degli esiti, sono determinanti fondamentali degli eventi e, se ci si trova di fronte alla possibilità di fare un salto, occorre sincerarsi che si riesca a farlo senza spaccarsi le ossa».

«Allora non demordiamo, Karl, andiamo avanti. Occupazione apparente, disoccupazione apparente e motivazioni deviate pesano come macigni sul mondo e sul futuro della moneta. Abbiamo in più, sullo sfondo, una forza travolgente e per sua natura dominante come la tecnica, un'energia che, nessuno sa come né quando, potrebbe scatenarsi e scompaginare violentemente il sistema. Un quadro interessante, ma anche preoccupante. Il rischio, ne abbiamo già parlato, è che una situazione come quella attuale, di per sé già deplorevole, diventi insostenibile».

«Θ per questo che bisogna far presto», concluse Marx.

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MAPPA SPAZIO-TEMPORALE



 5.05.1818  Marx nasce a Treviri, in Germania

14.03.1883  Marx muore a Londra

 5.06.1883  Keynes nasce a Cambridge, in Inghilterra

21.04.1946  Keynes muore a Firle, nel Sussex

      1883  nascono Walter Gropius e Benito Mussolini

15.04.1841  Marx si laurea all'Università di Jena con una tesi intitolata
            Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro

      1842  Marx ed Engels si incontrano per la prima volta a Colonia,
            nella redazione della «Rheinische Zeitung»

19.06.1843  Marx sposa Jenny von Westphalen nella chiesa di San Paolo a Kreuznach

21.02.1848  viene pubblicato a Londra, in tedesco, il
            Manifesto del partito comunista
            (appare per la prima volta in inglese, tradotto da Miss Helen Macfarlane,
            sul «Red Republican», a Londra, nel 1850; appare per la prima volta in
            italiano, in appendice, su «L'eco del popolo», fra il 30 agosto e il
            4 novembre 1889, a cura di Leonida Bissolati)

      1850  muore Henry Edward Marx, nato nel 1849

      1851  nasce Friedrich Demuth, figlio di Marx e di Elena Demuth,
            donna di servizio in casa Marx

      1852  muore la piccola Franziska Marx, nata nel 1851

      1855  muore il piccolo Edgar Marx, nato nel 1847

      1867  viene pubblicato ad Amburgo, in tedesco, il primo libro del Capitale di Marx
            (il secondo e il terzo libro usciranno dopo la sua morte, a cura di Engels,
            rispettivamente nel 1885 e nel 1894; il quarto verrà pubblicato da Karl
            Kautsky nel periodo 1905-1910 con il titolo Teorie del plusvalore)

      1872  prima traduzione in lingua straniera del Capitale pubblicata in Russia
            (nel periodo 1872-1875 viene data alle stampe la traduzione francese
            a dispense)

 2.12.1881  muore Jenny, la moglie di Marx, e lui si ammala inguaribilmente di bronchite

11.01.1883  muore Jenny Caroline, la primogenita di Marx, nata nel 1844

      1886  viene pubblicata la traduzione inglese del Capitale, riveduta e controllata
            da Engels; esce anche la prima edizione italiana, pubblicata nella
            Biblioteca dell'economista di Gerolamo Boccardo

      1826  viene inaugurato il Menai Bridge, nei pressi di Bangor, nel Galles

 1870-1883  costruzione del Brooklyn Bridge a New York

      1898  si suicida Jenny Eleanor Marx, nata nel 1855

 1898-1900  Keynes vince a Eton il Junior Mathematical Prize e il Senior Mathematical Prize

 5.08.1895  muore Engels, a Londra

      1903  Keynes entra a far parte della Società degli Apostoli
            (Cambridge Conversazione Society)

      1909  Keynes discute una tesi sulla teoria della probabilità e diventa fellow del
            King's College di Cambridge

      1911  Keynes diventa direttore dell'«Economic Journal»

26.11.1911  si suicida Jenny Laura, la seconda figlia di Marx, moglie del giornalista
            francese Paul Lafargue

10.10.1917  Lenin rientra in segreto a Pietrogrado e organizza la Rivoluzione sovietica

18.01.1919  si apre a Parigi la Conferenza di pace, che sancisce la fine della
            prima guerra mondiale

      1919  viene pubblicato Le conseguenze economiche della pace, libro che dà a
            Keynes una notorietà internazionale

      1921  Keynes pubblica A Treatise on Probability

13.07.1924  muore, a Cambridge, Alfred Marshall

      1925  Keynes sposa Lydia Lopokova, nota ballerina russa

24.10.1929  la data del «giovedì nero», il giorno in cui va profilandosi il crollo
            rovinoso della Borsa di New York, preludio alla grande depressione

      1930  esce a Londra il Trattato sulla moneta di Keynes

21.01.1932  muore il saggista e critico letterario Lytton Strachey,
            intimo amico di Keynes

      1936  Keynes pubblica la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della
            moneta (General Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, London)

28.03.1941  muore suicida Virginia Woolf

01.07.1944  (dall'1 al 22)) si svolge la conferenza di Bretton Woods
            (New Hampshire, Stati Uniti), presso il Mount Washington Hotel

      1947  esce, a cura di Alberto Campolongo, la prima traduzione italiana della
            Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (UTET, Torino)

15.08.1971  il presidente Nixon pronuncia la dichiarazione unilaterale
            dell'inconvertibilità del dollaro

 8.06.1981  muore Lydia Lopokova a Seaford, nel Sussex

15.09.2008  fallisce la Lehman Brothers di New York, il più grande dissesto della storia
            (639 miliardi di dollari)

 2008-2014  la crisi finanziaria, diventata crisi economica, produce decine di milioni
            di disoccupati in Europa

10.05.2015  Marx e Keynes si incontrano, per la prima volta, a Parigi

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