Copertina
Autore Raffaele D'Agata
Titolo La restaurazione imperfetta
SottotitoloUn ventennio di precarietà globale (1990-2010)
Edizionemanifestolibri, Roma, 2011, Esplorazioni , pag. 190, cop.fle., dim. 14,5x21x1,2 cm , Isbn 978-88-7285-664-2
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe storia contemporanea , storia: Europa
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Indice


1.  La fine dell'impero comunista                             7

    — Le ragioni del 1917
    — L'influenza sovietica sulla civiltà contemporanea
    — Il comunismo come fede e come potenza
    — L'erosione dei fondamenti economici
    — L'iperestensione imperiale
    — L'erosione dei fondamenti culturali
    — L'ultimo bagliore

2.  Dall'Europa divisa all'Europa invertebrata               53

    — La cornice di Potsdam
    — L'offensiva revisionistica e il suo scacco
    — La difficile strada per Helsinki
    — Il sogno della "casa comune europea" e
      la scommessa perduta di Gorbacëv
    — Vittoria di chi?
    — Né Unione né Europea

3.  La guerra come ordine                                    81

    — Ruoli intercambiabili
    — Sangue, petrolio, e titoli
    — Scioglimento e liquidazione dell'Unione Sovietica
    — Sconfitta ed eclissi della Palestina laica
    — Il ritorno della guerra in Europa
    — Gorghi di tenebra

4.  Lacci globali                                           135

    — Potere militare e flussi di risorse
    — Adattamenti
    — L'impero della paura e la guerra infinita
    — Squilibri tra domanda e offerta di egemonia democratica

 

 

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Pagina 65

IL SOGNO DELLA CASA COMUNE EUROPEA E LA SCOMMESSA PERDUTA DI GORBACËV

Tutto ciò chiaramente costituiva un insieme di premesse favorevoli quando il nuovo corso inaugurato da Gorbacëv a Mosca dopo il 1985 comportò anche l'intenzione di rimettere in discussione la divisione della Germania, e insomma di riprendere in forme nuove il tema di fondo dell'unità tedesca entro un quadro paneuropeo di sicurezza (che a suo modo era stato il tema chiave della politica europea dell'Urss tra il 1945 e il 1955). Ciò si manifestò chiaramente meno di due anni più tardi, quando un comitato di esperti fu costituito a Mosca sulla questione, includendo decisi fautori del dialogo con Bonn come Valentin Falin e Nikolaj Portugalov, e quando proprio Portugalov fu in qualche modo autorizzato a infrangere un tabù accogliendo su Moskovskie Novosti la nota tesi di Brandt (sommamente invisa a Berlino-Est) circa l'appartenenza di entrambi gli Stati tedeschi a un'unica nazione.

Fin dai primi giorni dopo l'elezione di Gorbacëv alla massima carica nella guida della politica sovietica, comunque, l'importanza della questione tedesca nel nuovo corso, e l'imminenza di svolte in questo campo, furono abbastanza chiare. Una visita di Brandt a Mosca come presidente della Spd e dell'Internazionale socialista fu fissata per il maggio del 1985, ed Egon Bahr, recatosi nella capitale sovietica in aprile per prepararla, apprese dallo stesso Gorbacëv che il concetto di "sicurezza comune" – elaborato negli anni precedenti dalla Commissione Palme come proposta di mediazione sulla questione degli euromissili – sarebbe stato il concetto chiave cui la sua politica in questo campo si sarebbe ispirata. Nel suo primo colloquio con Brandt, quindi, Gorbacëv parlò della totale rimozione degli armamenti nucleari e chimici dall'intero continente, anticipando con ciò un'iniziativa politica più ampia sul tema generale del disarmo che era destinata a conseguire importanti successi (innanzitutto d'immagine, ma non soltanto) in occasione dei vertici americano-sovietici di Reykjavik e di Ginevra.

Brandt poteva vedere in ciò la piena realizzazione di ciò che la sua politica come ministro degli esteri e come cancelliere aveva concepito e perseguito: la possibilità del cambiamento, tanto all'interno dei blocchi quanto nei loro rapporti reciproci, attraverso l'avvicinamento e la rimozione dei problemi circa la sicurezza come conseguenza dell'abbandono di ogni reciproca rivendicazione. Il confronto tra i blocchi, e la stessa divisione dell'Europa in blocchi, avrebbero perduto senso e motivi in base a questo presupposto. Era proprio ciò che adesso Gorbacëv sembrava intendere riferendosi all'Europa come "casa comune". E poté apparire abbastanza significativo che egli scelse proprio Praga, dove si recò nell'aprile del 1987, per avanzare con enfasi questo motto in un discorso pubblico, criticando la divisione del continente in blocchi contrapposti. Il discorso di Praga fu infatti interpretato come un segnale di disponibilità nei confronti dei movimenti d'opposizione nei paesi del Patto di Varsavia e un invito alla loro fiduciosa pazienza malgrado l'ostilità alle riforme manifestata da quei regimi e la mancanza di pressioni in senso contrario da parte di Mosca.

Contrariamente a quanto poteva superficialmente apparire, comunque, né il tema dell'unità tedesca né la connessa critica alla divisione dell'Europa costituivano, come tali, la novità del nuovo corso della politica sovietica. Piuttosto, potevano anche essere interpretate come un ritorno alla sua fase iniziale immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, cioè prima che la contrapposizione circa il Piano Marshall determinasse la sovietizzazione forzata dei paesi limitrofi, e prima che l'accettazione della divisione della Germania come dato permanente, a metà degli anni cinquanta, comportasse la formazione del Patto di Varsavia come cornice della militarizzazione della sua parte orientale. Ciò che era nuovo era da una parte la mentalità che ora ispirava e orientava le mosse sovietiche, e dall'altra le tendenze di fondo nella distribuzione dell'influenza e del potere tra le ideologie e tra le classi a livello mondiale. In un senso, cioè, la nuova mentalità interpretata e rappresentata da Gorbacëv si proponeva di ringiovanire e rivitalizzare le ragioni della rivoluzione russa anche mediante la rimozione delle rigide fortificazioni che le avevano a lungo preservate ma anche congelate e occultate. Ma, contemporaneamente, le tendenze di fondo nella distribuzione dell'influenza e del potere tra le ideologie e tra le classi a livello mondiale rendeva particolarmente intempestivo il perseguimento un tale proposito, e molto improbabile il suo effettivo successo.

In effetti Gorbacëv diede molta importanza al dialogo e alla convergenza con la socialdemocrazia proprio in una fase in cui questa affrontava un momento difficile, non riuscendo a contrastare in modo efficace l'offensiva neoconservatrice contro le sue precedenti conquiste sull'onda della deregolamentazione globale del capitale finanziario (neanche nella stessa Germania occidentale, dove una certa tradizione interclassista del partito democristiano la rendeva meno virulenta).

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ADATTAMENTI

Il grande crollo delle monete e delle borse asiatiche nel 1997 provocò tra l'altro un ingente deflusso di capitali speculativi dall'Asia orientale verso gli Stati Uniti, che venne ad alimentare ulteriormente l'apparente espansione dell'economia americana sotto l'amministrazione Clinton. Tre fondamentali fattori determinarono uno stato di euforia e addirittura la percezione diffusa di una vera e propria prosperità nell'America di fine secolo. Vi fu innanzitutto una sostenuta lievitazione dei valori dei titoli nel mercato dei capitali. Vi si aggiunse un'esplosione dei consumi finanziata dal debito. Anche l'occupazione aumentò notevolmente, essendo per altro accompagnata (insolitamente) da una bassa inflazione. Quest'ultimo fenomeno fu osservato e anche spesso lodato come un risultato eccezionale e quasi prodigioso, anche se in effetti era a sua volta da imputare – come fu chiarito in particolare dal presidente della Riserva Federale Alan Greenspan in una testimonianza resa al Congresso nel luglio del 1997 – a "un aumentato senso d'insicurezza del lavoro" e, di conseguenza, a "salari contenuti". L'accesso alla bolla finanziaria sotto forma di stock options (specialmente nei settori in crescita collegati in diversi modi con la telematica, allora molto celebrati come new economy o e-economy) costituì in parte una compensazione per quanto sopra, insieme con l'accesso generalizzato al credito per il consumo e anche per l'investimento immobiliare privato e familiare.

Questo singolare genere di espansione fu accompagnato dalla diffusione di retoriche di tono democratico e progressista qualificate come nuove. Gran parte della novità, al nocciolo, sembrava però chiaramente consistere nell'opinione che le aggressive politiche neoconservatrici avessero avuto la meglio negli anni ottanta semplicemente perché i loro promotori avevano avuto buone ragioni dalla loro parte, e che molti aspetti della loro opera fossero ormai acquisiti e irreversibili.

Lo stesso Clinton aveva condotto la campagna per la nomina a candidato presidenziale non soltanto come governatore dell'Arkansas ma innanzitutto come uno dei maggiori dirigenti del Democratic Leadership Council, cioè di una corrente d'iniziativa che imputava le ripetute sconfitte del partito democratico dal 1972 in poi (con la sola breve eccezione rappresentata dalla presidenza di Carter dal 1976 al 1980) all'eccessiva influenza di vecchie e screditate idee di sinistra circa l'importanza del ruolo del governo nel combattere le disparità sociali e circa il modo di affermare i punti di vista americani nel resto del mondo (cioè la rinunciataria idea che fosse sbagliato e controproducente cercare di imporli ad ogni costo e con tutti i mezzi ancora prima di capire o affrontare le ragioni dei contrasti e delle differenze). Nel 1990, poco dopo avere assunto la presidenza del Dlc, Clinton si fece promotore della Dichiarazione di New Orleans, concepita come una specie di manifesto teorico e programmatico dei cosiddetti New Democrats (esempio e in parte modello di un'ondata mondiale di ripensamenti entro movimenti e partiti di sinistra che i loro critici etichettarono talvolta sprezzantemente come "nuovismo", senza per altro riuscire ad evitare di essere soverchiati).

Una delle affermazioni più caratterizzanti del Manifesto di New Orleans era la rivendicazione di un'eguaglianza "di opportunità" ma non "di redditi". Questa era un'idea certamente molto difficile da controbattere (e anche da percepire come davvero nuova), ma poteva suonare anche piuttosto fuori tema e fuori tempo in una situazione in cui (per effetto delle politiche neoconservatrici seguite nel corso del precedente decennio) l'uno per cento più ricco tra gli americani possedeva il quaranta per cento della ricchezza del paese, mentre il venti per cento ne possedeva l'ottanta (e comunque i quattro quinti più poveri ne possedevano soltanto un quinto).

Un altro principio fondamentale di quel manifesto clintoniano quasi echeggiava il concetto di silent majority, contrapposto da Nixon nel 1969 al movimento contro la guerra che lui stesso (con l'aiuto generoso dell'establishmnent del partito democratico) aveva appena sconfitto nella campagna presidenziale dell'anno precedente: metteva infatti l'accento sui "valori morali e culturali condivisi dalla maggior parte degli americani", e arrivava quasi a manifestare una certa comprensione per le ragioni dei fondamentalisti evangelici menzionando il "bisogno di fede". Ciò aveva una conseguenza pratica fondamentale, che era anche affermata: mantenere e accrescere un apparato militare forte (strong defense) come strumento di una politica estera interventista (presentata in termini di scelta di "non ritirarsi dal mondo").

Č anche vero che durante la campagna presidenziale, e i primi mesi del suo mandato, Clinton manifestò intenzioni meno decisamente orientate in questo senso. Malgrado i numerosi caveat che mettevano l'accento sull'importanza di qualità e stili di vita molto più familiari alle classi medie e superiori che ad altri (dato il significato realisticamente probabile di termini piuttosto generici come responsabilità, merito, e iniziativa individuale), enunciò l'intenzione di investire sull'educazione, sulla diffusione delle opportunità, e soprattutto sulla riforma di un sistema sanitario come quello americano che lasciava la salute dei cittadini quasi completamente nelle mani di imprese assicurative private praticamente inaccessibili ai più. La sua riforma sanitaria fu tuttavia bocciata dal Congresso, fortemente influenzato dai potenti gruppi di pressione legati agli interessi minacciati, e le elezioni di mezzo termine del novembre 1994 diedero al partito repubblicano la maggioranza tanto alla Camera dei rappresentanti quanto al Senato. Clinton, dopotutto, aveva ottenuto la presidenza nel 1992 con appena il 43 per cento dei voti popolari (computati su una percentuale di votanti pari al 55 per cento dei cittadini maggiorenni, la quale a sua volta corrispondeva a una percentuale di voti espressi pari a poco più dell'80 per cento dei cittadini registrati come elettori), e non aveva messo nella sua riforma sanitaria né abbastanza innovazione per trascinare i poveri verso la sua parte né abbastanza conservazione per ammorbidire l'opposizione degli interessi minacciati.

Lo stesso poteva dirsi del suo proposito inizialmente enunciato di abbassare il livello massimo delle spese elettorali ammissibili per i candidati al fine di ridurre la loro dipendenza dai gruppi di pressione più ricchi e più forti. Clinton archiviò quel piano, enunciato durante la campagna elettorale, quasi immediatamente dopo il suo insediamento, essendo pressato da un coro bipartisan di parlamentari allibiti e irritati; ma è stato calcolato che, se le sue disposizioni fossero state in vigore proprio nelle elezioni del 1992, meno di cento dei 2593 candidati avrebbero dovuto ridurre le loro spese (in quanto superiori alla soglia ipotizzata di seicentomila dollari).

Ma il problema del conflitto d'interessi del personale politico dirigente e rappresentativo nelle democrazie – ossia del grado e delle condizioni della loro indipendenza rispetto al potere della ricchezza – non era ormai (se mai lo era stato) un problema soltanto americano. Secondo una tendenza antica e costante, oltre che ampiamente spiegabile, nelle classi elevate il controllo di abbondanti risorse materiali coincideva largamente con il controllo di conoscenze superiori e complesse, e per gran parte del diciannovesimo secolo questa constatazione era stato l'argomento principale per giustificare le limitazioni del diritto di voto. L'estensione di questo diritto a tutti i cittadini adulti suscitò poi in un senso svariati sforzi diretti a semplificare adeguatamente i termini delle questioni (quando non proprio a celarli), ma in un'altra direzione diede luogo anche allo sviluppo di vere e proprie scuole di allenamento alla complessità, ossia di percorsi di accesso delle classi più povere a forme più ricche di vita intellettuale e morale. I grandi partiti politici del Novecento, complessivamente, avevano funzionato come i principali strumenti di tali percorsi. In larga misura, ciò era accaduto sotto forma di versioni generalmente più raffinate (sebbene in alcuni casi o a tratti anche meno o altrettanto poco raffinate) di comunità di tipo religioso: anzi, in qualche caso (come quello di partiti popolari ispirati al cattolicesimo in Europa dopo la seconda guerra mondiale), una tale analogia si traduceva in più o meno larga coincidenza con culture religiose di origine tradizionale, e in interazione attiva con processi di evoluzione di tali stesse culture.

Un simile fenomeno poteva essere riconosciuto come un altro dei risultati più o meno diretti della rivoluzione sovietica sul corso della civiltà. Sebbene cioè la sua prima manifestazione matura fosse stata già offerta dai maggiori partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale già verso la fine dell'Ottocento, fu specialmente l'avvertita necessità di sottrarre proseliti alla chiesa militante diretta universalmente da Mosca che aveva spinto molte élites politiche e culturali concorrenti a dare vita a forme di comunicazione e di mobilitazione pubblica in qualche modo simili a quelle che la nuova fede suscitava. Ciò contribuì a motivare e rendere attivi strati di personale politico entro i quali il disinteresse personale non era raro, o comunque era abbastanza frequente per dare alimento a significative manifestazioni di miglioramento della qualità della vita civile in un contesto crescentemente inclusivo. Naturalmente, e come sempre, ciò accadeva accanto ad altro, e non poco, che gettava semi di diverso genere. Ma si trattava, nel complesso, di un fenomeno rilevante, soprattutto (in Occidente) dopo la seconda guerra mondiale: tanto da suggerire di contrassegnare gli anni cinquanta e sessanta del Novecento come un'età classica della democrazia.

Gli anni ottanta e novanta furono invece caratterizzati da una forte contrazione degli orizzonti temporali e motivazionali dell'azione nella sfera pubblica. Ciò coincise allora con un generale cambio di registro nell'impostazione della sfida ideologica globale nei confronti del comunismo. Negli anni ottanta, cioè, tale sfida cessò di essere concepita e portata avanti anche e specialmente in termini di sfida concorrenziale – cosa che implicava un qualche più o meno esplicito riconoscimento di ragioni dalla parte antagonista – per dare invece luogo a una posizione di radicale e assoluto rigetto. In conseguenza di ciò, anche l'organizzazione delle forme di comunicazione e di interazione nella sfera pubblica venne a perdere ogni carattere imitativo verso i modelli di militanza e di consenso politico attivo che erano stati a lungo associati sia con l'esperienza comunista sia con la necessità di misurarsi con essa. Al contrario, per una parte maggioritaria o comunque determinante dei ceti dirigenti entro il mondo occidentale, cominciò allora ad essere questione di emanciparsi definitivamente da quell'influsso, rivendicando e promuovendo la molla dell'interesse privato come fondamento primario e quasi sufficiente della convivenza civile (con il solo limite di regole del gioco empiricamente ammesse come convenienti). La sentenza di Thatcher per cui "non c'è una cosa come 'la società'" sanzionava definitivamente, insieme con il successo della sua leadership, l'avvento del nuovo clima.

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L'IMPERO DELLA PAURA E LA GUERRA INFINITA

Il giorno prima dell'inizio dei bombardamenti sulla Serbia, cioè il 23 marzo 1999, Clinton rilasciò alcune singolari dichiarazioni che furono immediatamente riprese dalla stampa ma non furono molto ricordate in seguito. "Una relazione forte (strong partnership) tra Usa ed Europa", disse, "è tutto ciò che è in gioco nella faccenda del Kosovo". Nello stesso discorso, specificò che un "forte rapporto con il mondo" comportava anche la possibilità per gli Stati Uniti di "vendere in tutto il mondo", al cui fine, disse ancora, "L'Europa ha da essere una chiave". Qualche giorno dopo, in una delle poche ulteriori registrazioni di queste affermazioni nella grande corrente dell'informazione, un commento del Sunday Times esprimeva stupore a avanzava il dubbio che il presidente, in quella occasione, avesse sbagliato messaggio. Cosa che poteva anche essere interpretata come un suo errore nel consultare i fascicoli prima di prendere la parola, attingendo da quelli preparati dai suoi consiglieri in tema di strategia globale anziché da quelli preparati dagli esperti in comunicazione.

Quanto a comunicazione, però, la campagna mediatica che aveva preparato la guerra contro la Serbia era stata straordinariamente efficace. In seno all'opinione pubblica negli Stati Uniti e nei paesi europei della Nato, i dubbi circa la sensatezza di bombardare quel paese, uccidendo e terrorizzando i suoi abitanti, come modo migliore di assicurare i diritti e la sicurezza della minoranza albanese maggioritaria nella sua provincia del Kosovo, ebbero scarsa risonanza e un limitatissimo effetto, inversamente proporzionali al loro fondamento.

Diversamente da quanto accadde nel 1991 in occasione della guerra del Kuwait (promossa da un presidente repubblicano, e appoggiata più o meno volentieri da una quantità di governi prevalentemente moderati o conservatori), nel 1999 la guerra contro la Serbia fu promossa da un presidente democratico e condivisa con apparente convinzione da governi europei socialdemocratici o di centro-sinistra. Non tutti gli elementi sono forse veramente disponibili per conoscere l'effettivo grado di attenzione e di adesione, da parte di ciascuno di loro, nei confronti di poste reali della situazione come quelle parzialmente rivelate dal citato discorso di Clinton. A quanto sembra, comunque, essi credettero o decisero di credere innanzitutto nel mito che stavano costruendo o condividendo, come se la sua affermazione richiedesse anche una narrazione drammatica, da elaborare (ove necessario) su fondamenti scarsi e molto parziali.

Una tale operazione poteva certo essere suggerita dalla considerazione che anche la costruzione della memoria della seconda guerra mondiale aveva avuto luogo, in parte, sotto forma di narrazione mitica: tanto gli aspetti di accanimento arbitrario presenti accanto alle necessità militari nella distruzione aerea delle città dei paesi dell'Asse, quanto gli aspetti primari di elementare violenza che fecero parte del fenomeno complessivo della resistenza partigiana, vi erano stati cioè assorbiti fino quasi alla reticenza in un quadro d'insieme caratterizzato da un senso chiaro e predominante. Un solo senso razionale poteva insomma essere attribuito alle incoerenze e alle reticenze delle dichiarazioni pubbliche dei leader del centro-sinistra mondiale circa le poste e le motivazioni di quella che fu a tutti gli effetti la sua guerra (tanto da coincidere di fatto con la celebrazione non meno solenne che mondana del loro impegno per i princìpi della "terza via" clintoniana in un ricevimento a Washington il 25 aprile 1999, proprio mentre le bombe cadevano su Belgrado): quasi la scommessa, cioè, che ciò che stavano facendo avrebbe infine avuto, per l'appunto, un senso. Se infine fosse accaduto qualcosa di simile (o d'inverosimile), soltanto un'erudizione proba ma irrilevante, o al più una magnanima disposizione a tenere comunque conto dei lati oscuri di ogni vicenda del genere, avrebbero dato spazio a qualche ulteriore interesse per le attività criminali e le connessioni terroristiche internazionali degli alleati che la Nato ebbe sul campo in quei giorni. Questi, frattanto, non erano infatti altri che i dirigenti e i membri del cosiddetto Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), emanazione in gran parte di mafie potenti e spietate: dunque decisamente non migliori (per essere benevoli) dei paramilitari nazionalisti serbi lungamente lasciati sciolti dall'ambiguo e cinico potere di Milosevic.

Può anche darsi che almeno alcuni dei dirigenti del centrosinistra mondiale (cioè, accanto a Clinton e Blair, l'italiano D'Alema, i tedeschi Schroeder e Fischer, e il francese Jospin) abbiano avuto in mente uno schema del tipo appena descritto (anche se, come si è visto all'inizio di questo paragrafo, ciò non sembra così chiaro almeno nel primo dei casi nominati). In ogni modo, tale schema era destinato ad essere radicalmente falsificato un decennio più tardi, quando il risultato consolidato di quella facilmente vittoriosa impresa militare si sarebbe presentato come un piccolo potentato saldamente nelle mani di una branca agguerrita del crimine organizzato transnazionale, intenta fra l'altro a promuovere una vera ed efficace pulizia etnica nei confronti della superstite minoranza serba e delle sue memorie culturali.

Ciò che è stato qui appena detto circa il possibile declassamento della rilevanza di fatti anche gravi entro narrazioni dotate di senso alla base di stabili e organici sistemi di egemonia – e circa l'esclusione di una tale possibilità nel caso della guerra del Kosovo – doveva riguardare ancora di più un altro fondamentale aspetto di quella vicenda: cioè, le estese e strette connessioni che i terroristi kosovari (attivi anche nei confronti dei rappresentanti politici tradizionali e moderati dei loro diritti e delle loro esigenze) palesemente avevano con quella holding transnazionale semi-privata di attività belliche informali e di capitali finanziari che si era sviluppata ormai come un enorme e subdolo tumore per effetto delle trame relative al Grande Gioco centroasiatico nel corso degli anni ottanta, fino a rappresentare ormai un quasi inafferrabile ma potente impero mondiale.

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SQUILIBRI TRA DOMANDA E OFFERTA DI EGEMONIA DEMOCRATICA

L'aggressione americana all'Irak ebbe inizio con massicci bombardamenti il 20 marzo 2003. Baghdad cadde il 9 aprile. La televisione diffuse in tutto il mondo scene in cui statue del dittatore Saddam Hussein erano abbattute alla presenza o per opera di folle infuriate e raggianti che però, stranamente, non erano inquadrate. Era un primo segnale. Tuttavia Bush volle dare un altro segnale, il 1° maggio, sbarcando spettacolarmente da un elicottero su una portaerei ancorata nel Golfo e proclamando la vittoria come "missione compiuta". In realtà l'Irak stava piombando in un abisso di terrore e di anarchia, e cinque anni più tardi (dopo avere ottenuto la conferma per un secondo deleterio mandato grazie all'irresoluta subalternità del suo competitore democratico di allora, come sempre ossessionato dall'idea di un mitico elettorato "di centro" da non scuotere troppo), George W. Bush avrebbe lasciato al suo successore la dura realtà di una sconfitta da gestire (aggravata per tutti dalla constatazione che non vi sono, d'altra parte, vincitori). La war on terror – dichiaratamente e programmaticamente irresponsabile circa le sue conseguenze, priva di obiettivo definito e di piani di ricostruzione veramente degni del nome – aveva trasformato il fenomeno del terrorismo internazionale occasionalmente vestito di religione islamica, da conseguenza spinosa ma forse ancora rimediabile di politiche sbagliate e di alleanze ambigue, quasi in un vero fenomeno di massa sempre più alimentato da dolore, sangue e disperazione.

Qualcuno tentò di opporsi prima che tutto ciò fosse scatenato. E non furono pochi. Il 15 febbraio 2003, in varie città di tutti i continenti, un minimo di sei o un massimo di dieci milioni di persone (secondo le stime) manifestarono la loro consapevolezza di ciò che stava per accadere e la loro volontà che non accadesse. Raramente queste persone appartenevano a partiti politici. Ciò non accadeva neanche a Roma, dove si svolse la manifestazione più numerosa (circa tre milioni), quasi come ultima eco di ciò che era esistito in Italia fino a dieci prima rappresentando e unificando l'intero complesso di idee e di culture diverse, in evoluzione, che era potenzialmente in grado di contrastare l'egemonia globale della restaurazione in atto.

I cicli temporali e di questo genere di fenomeni, e la distribuzione della loro intensità nello spazio, saranno probabilmente un importante oggetto di studio per coloro che cercheranno di ricostruire la storia delle persone in carne ed ossa in questa o quella parte del mondo globalizzato tra la fine del ventesimo secolo e l'inizio di questo ventunesimo. Per quanto riguarda i dieci (o sei) milioni del 15 febbraio 2003, alcuni, immediatamente dopo, evocarono stupiti la comparsa di una "terza potenza mondiale", salvo poi ricredersi (e in qualche caso, naturalmente, rallegrarsi) nel constatare non soltanto (come in fondo era prevedibile) che la guerra si scatenava, ma che né i comportamenti elettorali né le corrispondenti strategie degli esistenti partiti politici (o di ciò che qua e là ne restava) apparivano significativamente influenzati da questi movimenti.

La questione è aperta. L'irruzione del popolo della pace non fu né imprevedibile né del tutto effimera. Il 2001 non fu soltanto l'anno dell'attacco alle Torri gemelle, ma anche, in gennaio, l'anno del Forum sociale mondiale di Porto Alegre, a sua volta espressione anche di quell'attivismo transnazionale che poco più di un anno prima si era manifestato come "popolo di Seattle" (in occasione della conferenza ministeriale dell'Organizzazione mondiale del commercio nel dicembre del 1999): cioè di un movimento che rappresentava bisogni e livelli di coscienza opposti rispetto alle strategie fondamentali perseguite nelle alture di comando del potere economico e politico transnazionale, e si organizzava per resistervi e contrastarne gli effetti. Soprattutto, il 2001 (solo due mesi prima del crollo delle Torri, destinato, come si disse, a "cambiare tutto") era stato l'anno in cui un settore particolarmente arretrato o troppo avanzato delle forze di controllo e di repressione funzionali a quelle strategie, nell'Italia appena riconquistata da Berlusconi, aveva inopinatamente alzato il livello del conflitto funestando con una torbida orgia di provocazioni e di sangue l'imponente e festosa volontà di influire da parte dei non potenti né conformati, a Genova, in occasione del vertice del G8.

Questi movimenti sembravano ogni volta disperdersi e scomparire. Ma in profondità, tra l'una e l'altra manifestazione, qualcosa continuava ad accadere, in modo sparso, locale, determinato, e anche e soprattutto in quelle forme non militanti e apparentemente perfino non politiche in cui si manifesta il nucleo più profondo e vitale di ogni resistenza alla hybris del potere: l'adesione alla sublime necessità del quotidiano. Le nuove tecnologie della comunicazione sono state largamente penetrate da queste spesso singole storie ed esperienze, dando vita a una rete flessibile ma capace anche, occasionalmente, di concentrazione determinata ed efficace. Gli effetti sono stati eterogenei per qualità ed entità, e tra essi sembra necessario annoverare il risultato della stessa elezione presidenziale americana del 2008, frutto di un processo cui anche una parte delle alture di comando ha dovuto adattarsi flessibilmente, ma cercando di esercitare (per ora, efficacemente) tutta la sua forza. Non appariva ancora, alla fine del primo decennio del Duemila, una forma di soggettività collettiva (di partito) in grado di dare espressione costante a queste energie e di determinare fatti conformi alle loro esigenze essenziali, capaci di aprire possibilità e alternative nuove rispetto alle sole attualmente ammesse dal sistema.

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