Autore Stig Dagerman
Titolo Autunno tedesco
EdizioneIperborea, Milano, 2018, n. 289 , pag. 160, cop.fle., dim. 10x20x1,2 cm , Isbn 978-88-7091-489-4
OriginaleTysk Höst
EdizioneNorstedts, Stoccolma, 1947
PrefazioneFulvio Ferrari, Giorgio Fontana
TraduttoreMassimo Ciaravolo
LettoreCristina Lupo, 2018
Classe narrativa svedese , paesi: Germania , guerra-pace












 

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Indice


Autunno tedesco                  11

Rovine                           25

Cimitero bombardato              33

La torta del povero              41

L'arte di scendere in basso      49

Gli indesiderati                 57

I rivali                         65

Generazione perduta              71

Il corso della giustizia         81

Fredda giornata a Monaco         93

Nel bosco degli impiccati       103

Ritorno ad Amburgo              111

Letteratura e sofferenza        121


Postfazione
di Fulvio Ferrari               133

L'autunno di Stig
di Giorgio Fontana              145

Stig Dagerman                   157


 

 

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Pagina 11

Autunno tedesco


Nell'autunno del 1946 gli alberi della Germania sono rimasti spogli per la terza volta dopo il famoso discorso di Churchill sull'imminente caduta delle foglie. È stato un triste autunno, con pioggia e freddo, crisi di fame nella Ruhr e fame senza crisi nel resto del vecchio Terzo Reich. Per tutto l'autunno sono arrivati treni che trasportavano i profughi dell'Est verso le zone occidentali. Gente vestita di stracci, affamata e indesiderata, si accalcava nei bunker bui e maleodoranti delle grandi stazioni ferroviarie o in quelli giganteschi, alti e senza finestre, simili a gassometri quadrangolari, che si innalzano come enormi monumenti alla sconfitta nelle città tedesche rase al suolo. Nonostante il suo silenzio e la sua passiva sottomissione, quella gente, apparentemente insignificante, dava un'impronta di cupa amarezza a questo autunno tedesco. Diventava importante proprio per il fatto di arrivare, di non cessare mai di arrivare, e per il numero in cui arrivava. Forse non era a dispetto del suo silenzio che diventava importante, ma a causa di esso, perché niente di ciò che viene pronunciato appare tanto carico di minaccia quanto il non-pronunciato. La sua presenza era odiata e desiderata, odiata perché arrivando non portava con sé altro che la propria fame e la propria sete; desiderata perché rafforzava sospetti che piaceva avere, diffidenze che piaceva provare, una disperazione da cui ci si lasciava volentieri ossessionare.

Del resto chi, tra quelli che hanno vissuto in prima persona questo autunno tedesco, può dire che quella diffidenza non fosse giustificata, che quella disperazione fosse immotivata? Si può ben dire che questo flusso inesauribile di profughi che ha sommerso la pianura tedesca dalla regione intorno al basso Reno e alla bassa Elba fino ai ventosi altipiani intorno a Monaco sia stato uno dei più importanti avvenimenti di politica interna in un paese che di politica interna è privo. Un altro avvenimento politico più o meno della stessa portata sono stati i sessanta centimetri di pioggia che si sono riversati nelle cantine abitate della Ruhr.


(Ci si sveglia, se mai si è riusciti a dormire, gelati in un letto senza coperte, e con l'acqua fredda che arriva sopra le caviglie si cammina fino alla stufa per provare ad accendere il fuoco con qualche ramo umidiccio tolto a un albero bombardato. Da qualche parte là dietro, in mezzo all'acqua, dei bambini tossiscono come adulti tubercolosi. Se finalmente si riesce ad accendere il fuoco in questa stufa estratta da rovine pericolanti a rischio della propria vita, e il cui proprietario giace sepolto alcuni metri lì sotto da un paio d'anni, il fumo si sparge per la cantina e quelli che già tossivano tossiscono ancora di più. Sulla stufa è appoggiata una pentola piena d'acqua – di quella non ne manca – e ci si piega per raccogliere alcune patate dal fondo invisibile della cantina. Chi sta in piedi con l'acqua fredda fin sopra le caviglie mette le patate nella pentola e aspetta che col tempo diventino commestibili, sebbene fossero già gelate quando si è riusciti a prenderle.

I medici che raccontano agli intervistatori stranieri le abitudini alimentari di queste famiglie dicono che è indescrivibile quel che cucinano in tali pentole. In realtà non è indescrivibile, come non lo è tutto il loro modo di esistere. La carne di dubbia provenienza che in un modo o nell'altro riescono a procurarsi o le verdure sporche trovate dio sa dove non sono indescrivibili, sono profondamente disgustose, ma quel che è disgustoso non è indescrivibile, è solo disgustoso. Alla stessa maniera si può rispondere all'affermazione secondo cui le sofferenze patite dai bambini in queste cantine divenute vasche sarebbero indescrivibili. Se si vuole le si può descrivere in modo assolutamente preciso, le si può descrivere così: chi sta nell'acqua, davanti alla stufa, lascia le patate al loro destino e va verso il letto con i tre bambini che tossiscono, ordinando loro di andarsene subito a scuola. C'è fumo, fa freddo e si fa la fame in questa cantina, e i bambini, che hanno dormito completamente vestiti, mettono i piedi nell'acqua che raggiunge quasi l'orlo delle scarpe rotte, attraversano il corridoio buio dove c'è gente che dorme, salgono la scala buia dove c'è gente che dorme, poi escono nel freddo e umido autunno tedesco. Ci vogliono due ore prima che la scuola apra, e gli insegnanti parlano ai visitatori stranieri dell'inumanità di quei genitori che spediscono i propri figli sulla strada. Ma si potrebbe discutere con tali insegnanti su cosa significhi umanità in questo caso. Un aforisma nazista sentenziava che l'umanità del boia consiste nel colpo rapido, o forse era quello sicuro. L'umanità di questi genitori consiste nel cacciar via i bambini dall'acqua di casa alla pioggia fuori casa, dall'umidità malsana della cantina al tempo grigio della strada.

Naturalmente non vanno a scuola, sia perché la scuola non è aperta, sia perché «andare a scuola» è solo uno di quegli eufemismi che il bisogno crea in gran quantità per chi è costretto a parlare la sua stessa lingua. Escono per rubare o per tentare di procurarsi qualcosa di commestibile con la tecnica del furto o con qualcun'altra più innocente, se esiste. Si potrebbe descrivere le «indescrivibili» peregrinazioni mattutine di questi tre piccoli fino al suono di campanella che annuncia il vero inizio della scuola, poi presentare una serie di «indescrivibili» immagini delle loro occupazioni sui banchi: come le lavagne di ardesia siano inchiodate alle finestre per difendersi dal freddo, e come al tempo stesso lascino fuori la luce così che occorre tenere una lampadina accesa tutto il giorno, una lampadina così debole da rendere estremamente difficile la lettura del testo da ricopiare; come sia la vista dal cortile della scuola, circondato su tre lati da mucchi di macerie alti circa tre metri, macerie di tipo internazionale che servono anche da gabinetti scolastici.

Non sarebbe poi fuori luogo descrivere le «indescrivibili» occupazioni che riempiono la giornata di chi rimane a casa, nell'acqua, o i sentimenti che prova la madre di quei tre bambini affamati quando le chiedono perché non si trucca anche lei come zia Schultze così da avere cioccolato, conserve e sigarette da un soldato alleato. E l'onestà e la decadenza morale in questa cantina piena d'acqua sono entrambe così «indescrivibili» che questa madre risponde che nemmeno i soldati di un esercito di liberazione hanno tanta pietà da accontentarsi di un corpo sporco, sciupato e vicino alla vecchiaia, quando la città è piena di corpi più giovani, più forti e più puliti.)


Questa cantina autunnale era senza dubbio un avvenimento di politica interna di prima importanza.

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Pagina 18

[...] Si analizza, ma è in realtà un ricatto analizzare l'atteggiamento politico dell'affamato senza contemporaneamente analizzare la fame.

Sulle crudeltà commesse in passato dai tedeschi dentro e fuori la Germania non ci possono essere opinioni diverse, perché sulla crudeltà, da chiunque e in qualsiasi modo sia commessa, non si può avere che una sola opinione. Un altro problema è se sia ora corretto o se non sia a sua volta crudele considerare le sofferenze dei tedeschi – di cui tra l'altro si parla in questo libro – come giuste in quanto indubbie conseguenze di una fallita guerra di conquista. Già da un punto di vista giuridico questo modo di considerare le cose è estremamente errato, poiché la sofferenza tedesca è collettiva mentre le crudeltà tedesche, nonostante tutto, non lo furono. Inoltre la fame e il freddo non sono incluse tra le pene comminabili dalla giustizia per lo stesso motivo per cui non lo sono la tortura e il maltrattamento, e un verdetto morale che condanna gli accusati a un'esistenza disumana, ovvero a un'esistenza che riduce la dignità umana dei condannati invece di elevarla – giacché questo dovrebbe essere il fine implicito della giustizia terrena – ha già distrutto i fondamenti del proprio diritto a esistere.

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Pagina 21

Una maestra altrettanto incapace è la guerra. Se si cerca di interrogare il tedesco della cantina sulle lezioni tratte dalla guerra, non ci si sente purtroppo rispondere che questa gli ha insegnato a odiare e disprezzare il regime che l'ha provocata, semplicemente perché il costante pericolo di morte non insegna altro che due cose: ad aver paura e a morire.

In breve, la situazione in cui il visitatore nell'autunno 1946 ha trovato i tedeschi rende moralmente impossibile tirare conclusioni di qualsiasi tipo sulla loro posizione ideologica. La fame è infatti una forma di deficienza, una condizione fisica ma anche psichica che non lascia molto spazio a lunghe riflessioni. Per questo è capitato di ascoltare molte cose estremamente spiacevoli che però, nella situazione attuale, non danno comunque diritto a prognosi sicure. Personalmente, la cosa più ripugnante che ho sentito è stata l'affermazione di un direttore di banca di Amburgo secondo cui i norvegesi avrebbero dovuto, nonostante tutto, essere contenti dell'occupazione tedesca, visto che si erano date loro un bel po' di strade di montagna!

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Pagina 22

Ci sono state elezioni in diverse parti della Germania durante l'intero autunno. La partecipazione è stata forse sorprendentemente vivace, ma l'attività politica non è andata oltre le procedure di voto. Inoltre la situazione era tale che solo con estrema prudenza si possono trarre conclusioni dal risultato. Una vittoria socialdemocratica e una sconfitta comunista: due fatti evidenti ma nient'affatto così univoci come lo sarebbero in una società normalmente funzionante. La propaganda socialdemocratica si è incentrata con forza su problemi di politica estera, cioè sulla Russia; quella comunista si è indirizzata principalmente a problemi interni, cioè al pane. Poiché la situazione nelle cantine era quella che era, è sbagliato dire che i risultati abbiano rivelato un istinto democratico tra i tedeschi; è invece vero che la paura è stata evidentemente più forte della fame.

Come è sbagliato trarre conclusioni sul grado di adesione dei tedeschi al nazismo da alcune parole piene d'amarezza pronunciate in una cantina, altrettanto sbagliato è far uso del termine democrazia in relazione alle cifre del voto di ottobre. Vivendo alla soglia-limite della sopravvivenza non si combatte innanzitutto per una democrazia, ma per allontanarsi il più possibile da tale limite. La questione è in realtà se le elezioni non siano arrivate troppo presto. Come educazione alla democrazia sono state in ogni caso prive di qualsiasi significato, visto che importanti fattori negativi a livello di politica estera hanno operato in direzione opposta: il limitato spazio di movimento dei politici tedeschi ha fatto sì che gli scettici guardassero alle libere elezioni con diffidenza, come a uno stratagemma degli alleati allo scopo di dirottare verso le autorità tedesche il malcontento per la politica di approvvigionamento. Un parafulmine e nient'altro. Le premesse per una democrazia non si chiamavano libere elezioni, ma migliori condizioni di vita, un'esistenza che potesse infondere speranza. Tutto ciò che rendeva questa esistenza ancora più disperata – i razionamenti e, per contrasto, il benessere dei soldati alleati; gli smantellamenti operati senza criterio, con il materiale sequestrato abbandonato ad arrugginire sotto la pioggia; l'abitudine di lasciare cinque famiglie tedesche senza casa per far posto a una famiglia alleata; e soprattutto il tentativo di sradicare il militarismo con un regime militare, di suscitare disprezzo per le uniformi tedesche in un paese sommerso da soldati alleati – tutto questo ha contribuito a rendere il terreno della democrazia più sterile invece di prepararlo meglio, posto che quest'ultimo avrebbe dovuto evidentemente essere lo scopo.

Il giornalista che è uscito indietreggiando dalla cantina avrebbe dovuto, in breve, essere più umile di fronte al dolore, per quanto meritato esso fosse, perché la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata, la si sente ugualmente nello stomaco, nel petto e nei piedi, e queste tre sofferenze estremamente concrete non devono essere dimenticate per quel gelido vento di amarezza sprigionato da un piovoso autunno tedesco del dopoguerra.

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Pagina 50

Le stazioni sotterranee delle città più grandi hanno avuto sorte migliore. Sono povere ma intatte. La metropolitana di Berlino odora di umido e di miseria, ma i treni viaggiano rapidi e sicuri come in tempo di pace. Non ci si volta a guardare i soldati stranieri che passeggiano sulla banchina con ragazze tedesche, ben vestite e mal truccate, che già parlano un perfetto, miagolante americano o un inglese conciliante e veloce. Molte di queste ragazze stanno appoggiate ai lati delle porte, sui treni, e cercano di incrociare il maggior numero di sguardi possibile con la loro aria di sfida, dicendo al proprio soldato inglese che qui la gente non ha buon senso; altre sorreggono l'amico americano ubriaco e hanno occhi che sembrano dire: «Cosa deve fare una povera ragazza?» Il fumo delle loro sigarette alleate si mescola negli scompartimenti con il fumo soffocante e acido di quelle tedesche, dando ai treni sotterranei quel persistente odore di sporcizia e miseria. Quando però la metropolitana sale in superficie, anche i visi di queste ragazze, alla forte luce del giorno, mostrano le ombre della fame. E capita di rado, ma comunque capita, che qualcuno dica: «Un soldato americano sbronzo e foruncoloso e una ragazza tedesca che si prostituisce! Ecco il futuro della Germania!»

Capita di rado, perché la miseria toglie l'abitudine di fare i moralisti a spese altrui. Non è giusto dire, come ha fatto un paffuto cappellano militare della California mentre mangiava la sua bistecca sul Nord-Express, che la Germania è un Paese del tutto privo di morale. La verità è che nella Germania della miseria, la morale ha acquisito una dimensione completamente nuova, e questo fa sì che occhi non abituati non si accorgano nemmeno che esista. Secondo questa nuova morale in certe situazioni non è immorale rubare, perché in tal caso il furto significa soprattutto ridistribuire più equamente le disponibilità, e non privare qualcun altro delle sue ricchezze; allo stesso modo non sono immorali il mercato nero e la prostituzione, quando diventano l'unico mezzo di sopravvivenza. Naturalmente ciò non vuol dire che tutti rubino, traffichino alla borsa nera o si prostituiscano, ma che perfino in certi ambienti religiosi viene considerato più condannabile moralmente morire di fame o lasciar morire di fame la propria famiglia che fare qualcosa di normalmente illecito per poter tirare avanti. Da nessun'altra parte il reato commesso per necessità è tollerato come in Germania; rientra in ciò che i cappellani militari alleati chiamano mancanza di morale. Scendere in basso è più lecito che soccombere.

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Pagina 106

[...] Una sera, mentre stiamo parlando in cucina, qualcuno bussa alla porta: è un ragazzino paffuto e dalle guance rosse come mele; vuole giocare con la figlia dei miei ospiti, una bambina magra di cinque anni che per due anni ha passato quasi ogni notte in cantina. Quando le si domanda se vuole una bambola per Natale, invece del suo vecchio Seppelchen che ha sopportato tante notti in cantina quanto lei, risponde che preferirebbe un panino con tanto burro sopra. Ma queste cose ce le si può sognare. Quando è stata proprio brava, qualche volta, le danno un panino con margarina e zucchero a velo, e anche questa è una cosa da sogno. Il ragazzino appena entrato, invece, non sembra aver bisogno di sognare inutilmente dei veri panini.

«Hänschen hat dicke Backen», dice qualcuno, ed Hänschen sorride tranquillo. Sì, il piccolo Hans ha davvero delle guance paffute, e nella mano destra ha anche un grande panino con lo strutto d'oca. È un patetico incontro tra due diversi panini, tra due diverse Germanie: quella povera e onesta, quella ricca e ambigua. Il papà del piccolo Hans era il Pubblico Ministero di un tribunale nazista; ora si è ritirato dal sangue ed è passato alla terra. Ha acquistato – si badi bene, dopo la disfatta! – il podere più grande del villaggio, e se la passa cento volte meglio degli ex prigionieri dei lager, ora evacuati, che sono stati sistemati nelle case pericolanti e maltenute della campagna attorno.


Se fa rabbia? Certo che fa rabbia, ma non che questo aiuti molto. Di sera sediamo davanti alla cucina economica a parlare di quel che è accaduto e di quel che sta accadendo. C'è un comunista con i nove anni a Buchenwald per sempre incisi sulla fronte e intorno alla bocca e agli occhi. Rimpiange la rivoluzione mancata, il violento capovolgimento che doveva spargere il suo fuoco purificatore sulla Germania e bruciare in un attimo tutto il sudiciume nazista che ora può prosperare e rendere il Paese ancora più scontento, infelice e lacerato. Crede che nell'aprile del '45 esistessero le premesse, ci fosse l'atmosfera adatta per una veloce ma radicale resa dei conti: i soldati respinti entro i confini erano esasperati dal regime di Hitler e avrebbero fatto di tutto per pareggiare i conti, le masse nei campi di concentramento erano pronte a gettarsi sui loro torturatori, e nelle grandi città bombardate c'erano forti gruppi antinazisti che per tutta la primavera del 1945 avevano condotto azioni di guerriglia. E perché non se ne è fatto nulla? Be', perché le nazioni capitaliste vincitrici all'Ovest non desideravano una rivoluzione antinazista. I gruppi rivoluzionari tedeschi sono stati isolati dagli eserciti vincitori, che avrebbero invece dovuto disporre un anello protettivo di cannoni attorno ai confini della Germania per lasciare che i tedeschi stessi liquidassero l'odiato regime. Le masse rivoluzionarie dei campi di concentramento non sono state mandate a casa tutte assieme ma a piccoli gruppi innocui, i soldati sono stati liberati a minuscoli contingenti e í gruppi d'opposizione nelle città, che già prima della fine della guerra avevano organizzato una denazificazione spesso severa, sono stati disarmati dagli alleati e sostituiti con le Spruchkammern, che permettono a un Pubblico Ministero nazista di comprarsi una fattoria mentre fanno morire di fame i lavoratori antinazisti.


Questa teoria, che non è sostenuta solo dai comunisti, è molto affascinante e costituisce tra l'altro un interessante aspetto della visione comunista di un'unità tra i partiti operai tedeschi. Durante i giorni del crollo esistevano senza dubbio le premesse perché una tale unità si potesse formare su basi puramente antinaziste, ma il fronte popolare – prima sognato e poi veramente realizzato – si è spaccato dopo breve tempo. Le sue componenti borghesi rifiutavano di collaborare con gli operai e così è avvenuto lo scisma tra socialdemocratici e comunisti. I comunisti, che per ragioni tattiche facilmente comprensibili sfruttano tutte le occasioni per mettere in evidenza il loro carattere di partito tedesco ma considerano i prigionieri di guerra provenienti dalla Russia come propagandisti antisovietici (sebbene questi non abbiano colpa della loro magrezza), considerano tale spaccatura come una tragedia per la Germania. Ma sono numerosi gli antinazisti che avevano sperato in un esito diverso: persone che rifiutano l'unità senza libertà offerta dai comunisti e al tempo stesso rimpiangono che l'entusiasmo antinazista della primavera del 1945 non sia riuscito a creare niente di meglio che il sistema di discordia tra i partiti e di impotenza di fronte alla reazione che alla fine ha prevalso. Il sogno di una rivoluzione, durato dodici anni, è morto, e gli uomini di Weimar sono rinati.

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