Copertina
Autore Wasim Dahmash
Titolo La terra più amata
SottotitoloVoci della letteratura palestinese
Edizionemanifestolibri, Roma, 2002, Società narrata , pag. 216, dim. 145x210x15 mm , Isbn 978-88-7285-299-6
CuratoreWasim Dahmash, Tommaso di Francesco, Pino Blasone
TraduttoreA.Arioli, P.Blasone, al.
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe narrativa palestinese
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Indice

Nota alla nuova edizione                      7
Wasim Dahmash

Introduzione                                  9
di Luce d'Eramo

POESIA                                       13

IBRAHIM TUQAN: Un cenno; La festa,
    Il partigiano; Voi potenti               15

ABU SALMA: Orizzonte profumato               19

TAWFIQ ZAYYAD: La pianura di Bani Amer;      21
    Diario delle nozze di sangue: da Amman
    a Gerusalemme

FADWA TUQAN: Ritorno al mare; Sulla cima     31
    del mondo; Il canto del prigioniero

KAMAL NASIR: Dal profondo                    37

GIABRA IBRAHIRN GIABRA. Nei deserti          41
    dell'esilio; Da «Sequenze poetiche»

TAWFIQ SAYIGH: «E poi»; Sulle rive del       43
    santo lago; Negli anni dell'esilio

MU'IN BSISU: La luna diciotto anni dopo;     49
    La caccia; Gli occhi d'Elsa la marocchina

SALMA AL-KHADRA AL-GIAYYUSI:                 57
    Morte e bellezza

RASHID HUSAYN: Odiare forse?; Gerusalemme    59
    negli occhi; Non voglio

SAMIH AL-QASIM: A chi cerca il mio Amato;    63
    Una vecchia canzone; Fine della
    discussione col secondino; Gaza

MAHMUD DARWISH: Rita e il fucile; Mia madre; 69
    Passaporto; Promesse della tempesta;
    Poema di Beyrut; Polvere di carovane;
    In sosta sopra un mare

AL-MUTAWAKKIL TAHA: Siamo pari               81

HANAN AWWAD: Desiderio e nostalgia;          85
    Scelsi il pericolo


PROSA                                        89

SAMIRA AZZAM: «Palestinese»                  94

GHASSAN KANAFANI: Morte del letto numero 12; 97
    La scarpata; Un regalo per la festa

MU'IN BSISU: Da «Quademi palestinesi»       119

GIABRA IBRAHIM GIABRA: Isa Nasir assiste    135
    alla morte di Mas'ud al-Farhan e
    ricorda una parte della sua vita

EMIL HABIBI: Felice alla real corte;        153
    Dove Felice canta l'inno della felicità

RAYMONDA HAWA TAWIL: La bambola di Dvora;   161
    Concorso di bellezza; L'occupazione
    del '67; I ragazzi di Palestina

SAHAR KHALIFA: La casa minata               171

GIAMAL BANNURA: Occupazione                 175

AKRAM HANIYYA: Quel villaggio quel mattino  183

MUHAMMAD ALI CTAHA: A'isha vi partorirà un  189
    bambino vivo che vi reciterà quanta Dio
    ne vorrà della Sura della Vacca

YAHYA YAKHLUF: Abulasal e la gallina di     193
    Zulaykha

Appendici                                   197
Nota sugli autori                           198
Nota sui traduttori                         203
Bibliografia                                204

Due riflessioni sul tradurre                207
Biancamaria Scarcia Amoretti

La cultura palestinese e Ghassan Kanafani   211
Pino Blasone

 

 

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Pagina 41

GIABRA IBRAHIM GIABRA
Traduzione di P. Blasone



NEI DESERTI DELL'ESILIO
    Nei deserti dell'esilio
    si susseguono le Primavere.
    Che faremo del nostro amore
    allorché la sabbia e la brina
    avranno empito i nostri occhi?
    Palestina la nostra terra,
    i suoi fiori sono tatuaggi
    sull'incarnato di giovani donne.
    Marzo intarsia i suoi prati
    con anemoni e narcisi
    e in aprile essi esplodono
    di nenùferi e altri fiori.
    Il suo maggio è la romanza
    che cantavamo a metà giornata
    avvolti nell'ombra azzurra
    degli olivi della nostra vallata.
    In mezzo ai campi maturi
    attendevamo il compimento
    delle promesse del luglio
    e i balli della mietitura.
    O terra, tu hai visto scorrere
    la nostra infanzia come un sogno
    all'ombra degli aranceti
    fra i mandorli delle tue valli.
    Che avremo fatto, che mai
    avremo fatto del nostro amore,
    allorquando i nostri occhi
    allorquando le nostre bocche
    saranno piene di sabbia e di brina?

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Pagina 91

SAMIRA AZZAM



«Palestinese»

[...]

Aveva sentito dire... Insomma non poteva dire come lo sapeva, ma, si che lo sapeva che lui avava cercato di ottenere la cittadinanza libanese. Comunque, se ancora la volesse un mezzo ci sarebbe... Anzi c'è un solo mezzo... Il danaro. Eh si, proprio così purtroppo, duemila. Certo duemila sono una bella somma, più di quanto altri hanno pagato, però, si sa, le autorità sono diventate più severe adesso. I palestinesi, si sa, hanno riesumato tutte le genealogie, non c'è rimasta una sola famiglia libanese che non abbia un ramo palestinese... E poi, quegli avvocati che si sono arricchiti con il commercio delle naturalizzazioni, hanno esaurito tutte le risorse genealogiche!

Duemila erano davvero una grossa cifra per lui. Anni prima non aveva accettato di pagarne un quarto per avere un «nonno libanese di un ottimo villaggio» o, in alternativa, per rifare la storia del nonno, il quale a quanto lui ne sapeva, era nato e, sempre a quanto lui sapeva, era morto a Rama, in Galilea. Se gli avessero ricostruito la storia non ne avrebbe tradito la memoria, non lo avrebbe certo misconosciuto prima che il gallo canti tre volte, gli avrebbe soltanto chiesto il permesso di modificare quel caso geografico, lo avrebbe fatto nascere in Libano invece che in Palestina. Tutto lì. Quella leggera modifica lo avrebbe liberato dalla parola «Palestinese» che lo riduceva a membro di un branco in cui si cancellavano i tratti delle persone. La pronunciavano con tono pietoso, lui non voleva essere commiserato; con astio, lui non voleva essere causa del loro risentimento; con tono minaccioso ogni volta che i padroni delle botteghe più piccole spurgavano il loro rancore e lo tessevano in teorie con cui interpretavano gli avvenimenti e i cui fili, fragili, ma fitti, lo avvolgevano. Lo avvolgevano come nebbia carica di ansia, gli facevano sentire che lui, la bottega, i quattro figli, la moglie, erano soltanto un gioco in mano ai grandi stregoni che degli avvenimenti erano i protagonisti; una nebbia che lo portava a pensare che l'unica garanzia per non dover affrontare un altro esilio ignoto consisteva nell'ottenere la cittadinanza. L'impulso s'indeboliva quando si allentavano i fili delle teorie e i suoi timori si affievolivano e morivano nelle pieghe delle preoccupazioni quotidiane, per poi rispuntare vigoroso quando gli capitava un qualcosa che scuoteva l'edificio screpolato della sua esistenza, come quella volta che il figlio maggiore aveva finito la scuola e non riusciva a trovare un lavoro che gli durasse per più di due settimane. La legge al riguardo era chiara: l'impiego è riservato ai cittadini. Il ragazzo non ebbe altra scelta che volare verso uno dei deserti che accoglievano i disgraziati come lui e tollerava di affratellare nella fatica uomini di varie nazionalità.

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Pagina 97

GHASSAN KANAFANI



[...]

Il ricevitore cadde. Il cuscino mi riportò indietro di diciannove anni. Era il 1949.

Quel giorno ci dissero:

- La Croce Rossa porterà a voi bambini dei doni per la festa.

Indossavo calzoncini corti, una camicia verde di cotone e scarpe aperte senza calze. L'inverno era il peggiore che la regione avesse conosciuto, e, quando uscii quella mattina, le dita mi si gelavano coperte di qualche cosa che pareva vetro fine.

Mi sedetti sul selciato e cominciai a piangere. Allora un uomo mi si avvicinò e mi portò in una bottega vicina dove si stava accendendo un fuoco di legna in una specie di scatolone di latta. Mi ci portarono proprio vicino e sporsi i piedi verso la fiamma... Poi mi precipitai di corsa al centro della Croce Rossa e stetti in piedi con le altre centinaia di bambini ad aspettare il mio turno.

Le scatole sembravano lontanissime e noi tremavamo come un campo di canne da zucchero, muovendoci in tondo per far circolare il sangue nelle vene. Dopo un milione d'anni, tocca a me. Un'inferniera linda e inamidata mi dette una scatola quadrata, rossa.

Corsi a casa senza aprirla. Adesso, diciannove anni dopo, ho completamente dimenticato che cosa ci fosse in quella misteriosa scatola; ho dimenticato tutto meno una cosa: un barattolo di minestra di lenticchie.

Afferrai il barattolo di minestra con le due mani rosse di freddo e lo strinsi al petto davanti a dieci altri bambini, fratelli o parenti, che guardavano il barattolo con venti occhi sbarrati.

Probabilmente la scatola conteneva anche splendidi giocattoli per bambini, ma quelli non si potevano mangiare, e così non prestai loro attenzione, e si persero. Tenni invece il barattolo di minestra per una settimana, e ogni giorno ne davo un po' a mia madre in un bicchiere di vetro perché ce la potesse preparare.

Non ricordo nient'altro che il freddo, il ghiaccio che mi ammanettava le dita, e il barattolo di minestra.

La voce dell'uomo che si sveglia all'alba mi risuonava ancora nella testa, quella stanca grigia mattinata, quando le campane incominciarono a suonare in un vuoto pauroso. Tornai dal mio viaggio nel passato, ma quello mi continuava a pulsate nella testa, ed io...

Ma nemmeno tutto questo c'entra.

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Pagina 161

RAYMONDA HAWA TAWIL



La bambola di Dvora

Trovandosi a Haifa la mia scuola, mi sarebbe piaciuto molto andare a trovare mia zia. Ma lei era fuggita in Libano durante i combattimenti, credendo di assentarsi per qualche settimana soltanto. Terminata la guerra, non fu mai autorizzata a ritornare.

Una delle mie compagne di classe, assai gentile, era una ragazza ebrea di nome Dvora, alla quale volevo molto bene. Un giorno, mi invitò da lei. Arrivando vicino a casa sua, compresi subito dove mi conduceva: la sua famiglia occupava la casa di mia zia! La mia emozione raddoppiò quando trovai, entrando, i quadri di mia zia che ornavano sempre le pareti; era sul piano di mia zia che Dvora si esercitava. Ritrovai anche una bambola con la quale giocavo un tempo!

Era sconvolgente ritornare in questi luoghi che mi erano in una volta così familiari e cosí estranei. Siamo nel 1953, cinque anni dopo la guerra; ero fuori di me per la gioia nel ritrovare questi mobili e questi oggetti familiari intatti, esattamente come erano l'ultima volta che li avevo visti. Ma poi mi assalì una grande tristezza quando mi resi conto che era la casa che non riconosceva più me; essa era occupata da estranei, mentre mia zia e i miei cugini erano molto lontano, al di là della frontiera libanese, e non avevano alcuna possibilità di ritornare.

Quando lo dissi a Dvora, lei fu sconvolta quanto me.

- Prendi la tua bambola! - gridò - Siamo amiche!

Mi spiegò che i suoi genitori avevano ricevuto questa casa dal governo al loro arrivo in Israele.

- Veniamo dalla Polonia, anche noi siamo rifugiati. Abbiamo perduto tutto; tutti i nostri parenti sono morti nei campi di concentramento.

Più tardi, mi mostrò il numero di Auschwitz tatuato sul braccio di sua madre.

- Mi dispiace che abbiamo preso la casa di tua zia, mi disse, ma cerca di capire: se non fossimo venuti qui, noi saremmo finiti tutti nelle camere a gas...

Non provai alcun risentimento nei confronti di Dvora e dei suoi genitori. Sentivo che essi stessi avevano la consapevolezza che era ingiusto occupare la casa altrui.

- Presto i profughi avranno l'autorizzazione a ritornare alle loro abitazioni - mi assicuravano - e il nostro governo costruirà per noi nuove case... Allora gli Ebrei e gli Arabi vivranno insieme in pace...

Erano ingenui quanto me; non conoscevamo, né loro né io, le vere intenzioni del loro governo. Non fu mai permesso a mia zia di ritomare, e la famiglia di Dvora abitò venticinque anni in quella casa.



Concorso di bellezza

Il concorso cominciò. Tutt'a un tratto fu chiamato il mio numero. Il mio stomaco era appallottolato, ero sul punto di soffocare; ma riuscii a gettanni in avanti, rossa di timidezza e di confusione. Attraversando il palco, sentii il pubblico applaudire e fischiare con entusiasmo, ma mi ricordai delle raccomandazioni della mamma e non girai la testa...

Era un concorso per eliminatorie. Una ad una, le altre concorrenti furono scartate. Finalmente, mi ritrovai sul palco con un'altra ragazza: una di noi due stava per diventare regina di bellezza! Ero ancora troppo stordita e stupefatta per comprendere quello che succedeva, ma mi sembrò che mi si applaudisse un po' più forte che la mia rivale. Io avevo forse un leggero vantaggio su di lei perché i contadini arabi ci conoscevano, la mamma e me, e mi sostenevano. Ma gli Ebrei mi applaudivano anch'essi.

In quel momento, i giudici si resero conto tutto a un tratto che io era un'Araba e l'altra ragazza un'Ebrea. Il risultato era prevedibile: è a lei che fu accordato il primo premio. Ma la storia non si fermò là. All'annuncio di questa decisione, ci fu una gazzarra spaventosa. Gli Arabi e gli Ebrei seduti al tavolo del comitato balzarono dalle loro sedie e si misero a inveire gli uni contro gli altri. I pugni si serravano, qualcuno sollevò una sedia, si sarebbe detto che stava per scoppiare un tumulto.

Nel frattempo, il pubblico si era messo anch'esso a protestare contro il verdetto, dichiarando che era ingiusto. In seno al comitato, la disputa contrapponeva Ebrei ed Arabi; ma nell'insieme del pubblico, non sapendo la maggior parte delle persone che io ero araba, ero difesa dagli uni come dagli altri. La battaglia si prolungava, virulenta. Finalmente si trovò un compromesso: il presentatore andò al microfono e annunciò che ci sarebbero state due regine di bellezza - una Ebrea e una Araba... Il pubblico accolse con entusiasmo questa decisione, e venne applaudito il senno politico dei mediatori...

Io mi trovai dunque improvvisamente esposta - ragazzina timida, semplice e ingenua - agli sguardi di centinaia di uomini e donne che non conoscevo e, per di più, al centro di una disputa che per poco non era degenerata in un nuovo episodio del conflitto tra Arabi ed Ebrei!



L'occupazione del '67

Al nostro risveglio, il giorno seguente l'occupazione, la nostra casa somiglia a un'isola sperduta in un mare umano. Piena di stupore, contemplo dalla finestra uno degli spettacoli più impressionanti, più terribili che io abbia mai visto. Intorno alla casa, sulla strada, nei boschetti di olivi sono radunate migliaia di persone, vecchi, giovani, famiglie con i loro bambini, donne incinte, infermi. Portano nelle braccia o sulla schiena fagotti nei quali hanno stipato poca roba. Delle giovani donne stringono i loro bimbi. Dappertutto gli stessi corpi spossati, sfiniti, gli stessi visi disperati, inebetiti.

Sembrerebbe un incubo. Che significa tutto ciò? Chi sono? Che fanno là? Che cosa è capitato loro? Corro fuori, costernata, indignata. Pongo delle domande, ma essi sembrano incapaci di parlare ragionevolmente. Appena mi vedono, mi supplicano di dar loro un po' d'acqua... acqua... acqua... Da'ud si precipita in giardino e si mette a versare acqua a centinaia di persone che si accalcano intorno a lui. Io corro in tutti i sensi sotto gli alberi. Della gente si è seduta là, piangendo di sofferenza, di orrore e di disperazione. I genitori mendicano un po' di pane per i loro figli.

Finisco per trovare una donna le cui parole sembrano un po meno incoerenti.

- Siamo di Kalkilya - mi dice, amara e rassegnata - Ci hanno costretti a partire. Gli Israeliani hanno condotto tutti alla moschea e ci hanno dato l'ordine di lasciare la città. Subito.

Mi rimetto a pensare al 1948 e all'esodo massiccio dei Palestinesi. Folle di persone che abbandonavano tutto ciò che possedevano e fuggivano i combattimenti, spinte dai racconti spaventosi di massacri in certi villaggi.

Mormorando con orrore il nome di Deir Yassin, attraversavano in fretta e furia le colline di Galilea verso la frontiera libanese. Prendevano con loro solo ciò che potevano portare; non pensavano che a una sola cosa: sopravvivere.

Io mi dico: Dio mio, tutto ciò sta per ricominciare?

La vista di questi profughi mi ha tolto tutto il coraggio.

La paura mi assale.

La stessa sorte attende noi e i nostri figli? Saremo anche noi obbligati a fuggire sulle colline portando via poche cose?

Io non me ne andrò. Rifiuterò di partire. Possono farmi tutto quello che vogliono! Preferisco morire nel mio paese...

Una donna urla. È stata ferita e sanguina abbondantemente. Mi precipito verso di lei per prestarle i primi soccorsi. Guardo intorno a me gli occhi tristi dei bambini che si aggrappano con terrore alla gonne della madre. Vedrò la stessa espressione sul viso dei miei figli?

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Pagina 183

AKRAM HANIYYA




Quel villaggio quel mattino

[...]

Il primo a notare il movimento dell'uomo uscito dalla tomba fu un soldato che, alla vista di un uomo che aveva l'odore dei morti, il colore dei morti, e il vestito dei morti, si mise a gridare. Il gruppo si girò verso l'uomo che avanzava. Per qualche istante regnò lo stupore, poi alcuni si ripresero e le guardie di frontiera puntarono i mitra contro l'uomo, mentre esplodeva la voce di uno di loro:

- Altolà!

La lingua in cui gli avevano gridato quell'ordine non era arabo, ma Abu Mahmud si fermò. I soldati avanzarono verso di lui con cautela, lanciando occhiate da tutte le parti. Lo circondarono. Si spinse avanti un militare, sembrava che fosse il più alto in grado, fece qualche passo e gridò ad Abu Mahmud:

- Chi sei?

Mahmud rispose con calma:

- E tu chi sei?

- Le domande le faccio io! Rispondi!

- Io sono 'Abd Allah Kalil al-Qasimi.

- Di dove?

- Di questo paese.

- Dov'è la tua carta d'identità?

- Carta d'identità? Quale carta d'identità?

- Che fai qui?

- Ero nella mia tomba, morto, e il rumore della ruspa mi ha svegliato.

Ci fu un brusio di voci; occhiate di paura e di meraviglia si incrociarono tra i presenti, finché il militare non tornò a interrogare Abu Mahmud:

- Sei pazzo... Ho detto cosa fai qui?

- Non sono pazzo... Chi siete voi e che ci fate qui?

- Noi siamo i rappresentanti del governo israeliano.

La risposta folgorò al-Qasimi, che tacque per alcuni istanti, poi riprese la padronanza di sé e gridò:

- Perché spianate le tombe? Questo è un sacrilegio!

- Questa è terra nostra.

- Vostra? Qui sono sepolti i miei avi!

- È nostra, e sopra ci costruiremo un insediamento.

- Ma...

Il discorso fu interrotto dal rumore di una jeep militare che si dirigeva verso il cimitero; tutti la guardarono con interesse. Quando si fu fermata, ne scese un uomo sulla cinquantina, in divisa... Era il governatore militare della zona. Il nuovo arrivato sentì nell'aria che c'era qualcosa di strano, cercò negli occhi qualche risposta e rimase folgorato quando vide l'uomo avvolto nel sudario fermo in mezzo al gruppo. Gli sprizzava la rabbia dagli occhi, il governatore scambiò qualche parola con l'uomo che aveva interrogato Abu Mahmud, e ottenne un adeguato resoconto di quanto era successo... Sulle sue labbra si disegnò un leggero sorriso, poi mostrando un certo interesse si avvicinò ad Abu Mahmud e gli chiese:

- Sei del paese?

- Si!

- Quando sei morto?

Abu Mahmud ebbe bisogno di un po' di tempo per rispondere:

- Cinque o sei anni dopo l'esodo.

Il governatore tornò a fare domande:

- Dove eri nell'anno dell'esodo?

- Ero qui nel mio villaggio.

- Non te ne sei andato via in quei giorni?

Abu Mahmud esitò un attimo, poi rispose deciso:

- No!

Il governatore pazientò un poco prima di continuare, con parole calme e calcolate:

- Non hai difeso il tuo paese e la tua gente?

Il corpo di Abu Mahmud sussultò, e l'emozione provocata dalle domande gli nascose la trappola: rispose con fermezza:

- Sicuro, ho combattuto contro gli inglesi e gli ebrei. Avevo un fucile ereditato da mio padre. Mi sono battuto a Ya'bad e a Bab al-Wadi, ed ero famoso per il mio coraggio.

Le parole uscivano sparate come proiettili dalla bocca di Abu Mahmud, al quale ormai tutto sembrava chiaro. Ricordi antichi cominciarono ad affluire e a scorrere mescolati alla nostalgia e all'amarezza. Ma tutto si bloccò quando il governatore militare, con l'aria di chi ha scoperto un tesoro prezioso, gridò:

- Ah... Allora sei un vecchio terrorista!

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