Copertina
Autore Elvio Dal Bosco
Titolo La leggenda della globalizzazione
SottotitoloL'economia mondiale degli anni novanta del Novecento
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Temi 139 , pag. 128, cop.fle., dim. 115x195x10 mm , Isbn 978-88-339-1522-7
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe economia , economia politica , globalizzazione , lavoro
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Indice

  7 Introduzione

    La leggenda della globalizzazione


 15 1. La globalizzazione alibi del neoliberismo

       Una falsa novità, 15
       Commercio internazionale e investimenti diretti
       all'estero, 20
       Le grandi aree economiche, 27

 54 2. L'economia reale preda della finanza

       Le dimensioni dei mercati, 54
       Le istituzioni monetarie nazionali e
       internazionali, 60
       La finanza e l'economia reale, 76

 84 3. Il lavoro ostaggio della precarietà

       Altro che fine del lavoro»!, 84
       Evoluzione generale del mercato del lavoro, 86
       Occupazione settoriale, 91
       Forme e tempi di lavoro, 94
       La distribuzione del reddito, 105

108 4. Lo Stato sociale sotto assedio

       Un capitalismo «dal volto umano», 108
       La spesa sociale e il suo finanziamento, 112
       Mistificazioni ideologiche e conquiste reali, 123
 

 

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Pagina 7

Introduzione


Analizzando gli aspetti essenziali dell'economia mondiale negli anni novanta del secolo appena trascorso, il libro mira a mostrare ciò che sta dietro alle leggende del neoliberismo e a smontare pezzo per pezzo il meccanismo costruito dal cosiddetto Consenso di Washington per imporre a tutto il mondo il modello di capitalismo avviato negli Stati Uniti dai governi presieduti da un mediocre attore di Hollywood. Il libro non si sofferma su quel fenomeno chiamato new economy, che ha tenuto banco nella pubblicistica degli ultimi anni del Novecento, ma al cui dispiegarsi si assisterà nel secolo presente, una volta che saranno finite nel dimenticatoio le presunte novità che ne avrebbero fatto il regno di Bengodi.

[...]

I quattro capitoli sono dedicati ai singoli aspetti della vita economica e sociale investiti dall'ideologia neoliberista, la quale sotto il manto della pretesa modernizzazione sta riportando il mondo all'Ottocento. Nel primo capitolo si sostiene che la globalizzazione non è una novità perché, misurata con i dati del commercio internazionale e degli investimenti diretti all'estero, essa è al livello del 1914; successivamente, due guerre mondiali e la Grande crisi degli anni trenta hanno ridotto fortemente il grado di internazionalizzazione. Essa viene oggi strumentalizzata dal «pensiero unico» onde addebitarle l'asettica necessità di contenere i costi salariali nelle aree sviluppate per reggere la concorrenza delle aree emergenti, deviando così l'attenzione dai guasti prodotti dalle politiche economiche e sociali che si ispirano al neoliberismo.

Il secondo capitolo è incentrato sull'enorme sviluppo delle attività finanziarie a livello nazionale e internazionale. L'assoluta libertà dei movimenti di capitali, che non sottostanno più ad alcun vincolo amministrativo, ma non sono sottoposti neanche a controlli di mercato, ha accresciuto fortemente i rischi sistemici, ha ridotto l'efficacia delle politiche delle banche centrali, mentre le istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo monetario (FMI) hanno addirittura favorito il dispiegarsi incontrollato delle transazioni di capitale a breve termine, penalizzando quel paesi che osavano contrastarlo. Peraltro, la ricerca sottolinea l'effetto più preoccupante esercitato dal peso eccessivo della finanza rispetto all'economia reale: l'allocazione della spesa finale del PIL a favore dei consumi privati, soprattutto vistosi, e a scapito degli investimenti produttivi, che sono il fulcro dell'accumulazione capitalistica.

Nel terzo capitolo, riguardante il mercato del lavoro, insieme a un quadro generale delle dinamiche in atto nelle sue variabili principali, si esaminano le diverse forme di lavoro flessibile, il cui sviluppo è una caratteristica degli anni novanta, almeno come tendenza, perché, misurato come consistenza e non come flusso, il lavoro a tempo indeterminato è ancora largamente prevalente. Grande è invece l'insicurezza del posto di lavoro provocata dalla martellante campagna volta a esaltare le virtù del lavoro flessibile. In concreto, si può affermare che tali forme di lavoro sono positive, da un lato, se vengono incontro ai bisogni di alcune categorie di lavoratori, purché inserite in un sistema di garanzie simili a quelle godute dai lavoratori a tempo pieno; si osserva, dall'altro, che l'imposizione di forme di lavoro senza regole e non concordate con i lavoratori e con le loro organizzazioni conduce a un ritorno a condizioni di lavoro e di vita tipiche dell'Ottocento per fasce crescenti di popolazione nei paesi capitalistici sviluppati.

Il quarto capitolo illustra come l'aumento della disoccupazione e il contenimento dei salari mettono in crisi i pilastri del welfare state classico. Lo Stato sociale è non soltanto un ammortizzatore che garantisce una vita dignitosa a tutti i cittadini e uno stabilizzatore automatico che sostiene l'economia nelle fasi negative del ciclo, ma anche un elemento fondamentale di legittimazione delle democrazie moderne. La gestione privatistica della sanità e delle pensioni, oltre a essere molto più costosa di quella pubblica, implica una ulteriore crescita delle attività finanziarie, con i connessi rischi sistemici e con gli effetti negativi sull'economia reale descritti nel secondo capitolo.

In sintesi, quello che i neoliberisti chiamano modernizzazione è il ritorno all'Ottocento" o, peggio, a un nuovo feudalesimo. In questa ottica, esemplare è l'intervista concessa in occasione del suo novantesimo compleanno da un grande imprenditore tedesco, Werner Otto, all'autorevole settimanale liberale «Die Zeit» (19 agosto 1999):

L'ideologia del shareholder-value è una brutta perversione dell'economia sociale di mercato, che ci riconduce al vecchio capitalismo delle origini. Non va perso di vista il fatto che l'impresa è una comunità di persone. Quello che conta è sempre l'uomo, l'economia è fatta per servire l'uomo e la finanza è fatta per servire l'economia. Questa è la scala dei valori!

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Pagina 22

La premessa da cui partono i neoliberisti è che per creare posti di lavoro a bassa qualificazione basti ridurre i salari, differenziandoli notevolmente. Si prendono per esempio i paesi in cui negli anni scorsi è fortemente aumentata la disuguaglianza dei redditi, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Nuova Zelanda, approfittando della debolezza dei sindacati, della diminuzione dei sussidi alla disoccupazione e di altri interventi sul mercato. Non si tiene conto delle più recenti analisi dell'OCSE, dalle quali risulta che non c'è una correlazione statistica fra disuguaglianza dei redditi e andamento dell'occupazione: i Paesi Bassi, pur con un alto grado di uguaglianza dei redditi, hanno aumentato il numero degli occupati del 34 per cento fra il 1980 e il 1995, contro un incremento del 26 per cento negli Stati Uniti. Si è anche visto che le occupazioni a basso salario non facilitano il passaggio ad attività meglio remunerate. Fra i peggio retribuiti in Germania nel 1986, solo il 26 per cento era rimasto in questa categoria nel 1992, contro il 39 per cento in Gran Bretagna e addirittura il 56 per cento negli Stati Uniti.

Altro aspetto importante del problema è che in corrispondenza alla riduzione dei salari si ha un calo più che proporzionale della produttività, anche perché in questa circostanza le imprese investono meno nella qualificazione delle proprie maestranze, cosicché 1'offerta di lavoro non qualificato aumenta più rapidamente della domanda. Non si capisce che è meno foriero di conflittualità accrescere la produttività dei lavoratori piuttosto che diminuire i salari, anche perché in una struttura salariale meno differenziata i lavoratori con la più alta qualifica hanno un costo del lavoro relativamente più favorevole alle imprese che nei paesi con elevata disuguaglianza dei redditi.

Va infine ricordato che il discorso sulla competitività internazionale non deve far dimenticare che in realtà il commercio mondiale registra la crescente importanza che assumono gli scambi all'interno di grandi aree: oggi il 75 per cento dell'interscambio complessivo dei paesi capitalistici sviluppati si svolge all'interno di questa stessa area, contro meno del 70 per cento nel 1979. Questo discorso vale anche per le aree economiche integrate; attualmente l'interscambio all'interno dell'Unione Europea corrisponde al 62 per cento sul totale del commercio estero di quest'area; quello interno alla NAFTA, cioè l'area di libero scambio che comprende Stati Uniti, Canada e Messico, è pari al 52 per cento, mentre quello dell'area asiatica del Pacifico arriva al 45 per cento.

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Pagina 28

Paesi capitalistici sviluppati

Esaminando più da vicino l'area capitalistica sviluppata, conviene iniziare dal «modello americano», che è stato ed è tuttora uno dei miti più resistenti dell'ideologia neoliberista. Esemplare in questa ottica è l'esortazione di Aznar e Blair in una lettera del marzo 2000, inviata agli altri Stati membri dell'Unione Europea in vista dell'imminente vertice di Lisbona, ad adottare tale modello:

L'obiettivo è conquistare uno spazio economico liberalizzato, competitivo, con crescita stabile, e pioniere in fatto di nuove tecnologie. Se vogliamo fare dell'Unione Europea la miglior economia del mondo dobbiamo usare come rifenmento i risultati dei migliori, gli Stati Uniti.

Negli anni novanta questo paese avrebbe mostrato elevata crescita economica, piena occupazione, forte progresso della produttività connessa alle nuove tecnologie informatiche, con conseguente grande incremento della competitività a livello internazionale. Le tabelle 1.4 e 1.5 non confortano questa tesi: il tasso annuo di incremento del PIL pro capite (quello totale è fuorviante perché avvantaggia i paesi con notevole aumento della popolazione e penalizza quelli con popolazione stagnante) negli anni novanta è in linea con quello del decennio precedente (2 per cento) e, prescindendo dal Giappone in preda a una lunga spirale deflazionistica, è di poco superiore al tasso medio dell'Unione Europea e dei suoi principali paesi membri, mentre risulta minore il progresso della produttività per occupato (la stima per ora lavorata è di difficile confronto, ma si sa che il numero di ore lavorate è salito in misura ragguardevole negli Stati Uniti, peggiorando quindi il rapporto), soprattutto nei confronti della Germania (cfr. tab. 1.4). Quanto alla piena occupazione, se in Europa occidentale si considerasse occupato chi lavora un'ora alla settimana (sic!) come si fa negli Stati Uniti, scomparirebbe anche qui la disoccupazione di massa.

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Pagina 35

Del resto, allora la banca centrale tedesca non aveva nascosto la sua soddisfazione, come sottolineava in una intervista Helmut Schlesinger, presidente della Bundesbank, all'indomani della firma del Trattato: «Sul presente testo dell'Unione economica e monetaria è stata apposta con forza l'impronta tedesca. Ci sono solo pochi punti marginali, per i quali avremmo auspicato una formulazione diversa». Schlesinger si riferiva al fatto che il Comitato dei governatori aveva recepito il punto di vista della Bundesbank sulla futura banca centrale europea: la stabilità dei prezzi quale obiettivo prioritario della politica monetaria e l'indipendenza della banca centrale dalle autorità politiche nel perseguimento di tale obiettivo. È comprensibile che le banche centrali dei paesi europei sostengano l'autonomia nei confronti dei governi, spesso discreditati, e accettino il punto di vista della Bundesbank, ma il problema è un altro. È vero che quest'ultima ha dimostrato nei decenni la sua autonomia dal potere politico, ma non certo da quello del grande capitale tedesco. L'autonomia nei confronti dello Stato le ha consentito di perseguire quella politica monetaria tendenzialmente restrittiva che rappresenta un pilastro nella strategia economica del grande capitale volta ad accrescere il ruolo economico e politico della Germania nel mondo. Non c'è da meravigliarsi: la banca centrale è di norma l'intellettuale collettivo del capitalismo, nel senso che lavora in maniera efficiente per salvaguardare, al di là delle contraddizioni che investono singole imprese o interi settori dell'economia nel corso delle fasi cicliche o delle trasformazioni strutturali, le condizioni di fondo del capitalismo.

Il ruolo di Cenerentola nel processo di integrazione europea è toccato alla Carta sociale europea, che avrebbe dovuto garantire le conquiste sociali godute dai lavoratori nell'Unione Europea, ma è rimasta finora solo un enunciato di belle intenzioni.

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Pagina 45

I paesi in transizione

Gli anni novanta sono stati anche quelli del primo decennio dei cosiddetti paesi in transizione, dopo l'implosione del «socialismo reale» fra il 1989 e il 1991, e sono importanti per il discorso sul neoliberismo, in quanto i sostenitori di tale ideologia hanno imposto una terapia shock a questi paesi, che avrebbe dovuto in breve tempo traghettarli nell'economia di mercato e integrarli pienamente nella divisione internazionale del lavoro; invece li ha portati nel caso migliore (i tre paesi più avanzati dell'Europa centrorientale) in una situazione molto squilibrata sul piano economico e degradata in quello sociale, mentre ha prodotto una vera e propria catastrofe negli altri, in primo luogo gli Stati dell'ex Unione sovietica.

La terapia shock è stata considerata come la più adatta per il passaggio all'economia di mercato dalle istituzioni monetarie internazionali, in primo luogo dal FMI e dai suoi consulenti di scuola neoliberista (un nome per tutti, Jeffrey Sachs), ma anche dai nuovi governi degli ex paesi del socialismo reale, che volevano far piazza pulita di qualsiasi intervento dello Stato nella vita economica. Secondo Sachs i paesi in transizione avrebbero dovuto introdurre gli elementi essenziali di una economia di mercato: monete nazionali stabili e convertibili, libertà degli scambi internazionali di merci e degli investimenti esteri, proprietà privata delle imprese; tutti elementi esportati con successo ovunque nel mondo. Vaclav Klaus, presidente del consiglio della Repubblica ceca, aveva nel 1997 dichiarato lapidariamente al momento della svalutazione della corona a chi gli ricordava i costi sociali della transizione: «Io non sono a favore dell'economia sociale di mercato, ma del capitalismo senza aggettivi!»

Che cosa significasse il capitalismo senza aggettivi era chiaro ai critici della terapia shock già nei primi anni novanta. Alice Amsden, prima di analizzare in concreto gli effetti di tale terapia, osservava che questa si rifaceva a un modello di capitalismo in auge nel XVIII secolo, a una forma primitiva di economia di mercato e, passando al merito, scriveva:

La terapia shock abrogò di colpo tutti i controlli sui prezzi e quelli amministrativi, in presenza di un latente eccesso di domanda derivante dal sistema pianificato. Tuttavia, l'aumento conseguente della spesa poté essere mantenuto al livello dell'offerta disponibile solo attraverso l'aumento dei prezzi; nell'ambito delle liberalizzazioni, in molti paesi le imprese accrebbero di parecchie volte i loro prezzi di vendita. I salari reali caddero in proporzione, portando al collasso la spesa dei consumatori in un momento in cui gli scambi con il precedente blocco socialista crollavano con una reazione a catena. Senza gli stimoli provenienti dalla domanda per consumi o da quella estera, sprofondarono gli investimenti, la forza trainante del sistema pianificato. Al di là delle chiacchiere di voler creare una economia di mercato, il colmo dell'ironia fu che con il crollo dei redditi reali non sorse un mercato effettivo in cui le imprese potessero vendere le loro merci. Di conseguenza, la produzione scese ben al di sotto dell'offerta potenziale.

Il giudizio sulla terapia shock si appesantisce ulteriormente nelle parole di uno dei più feroci, oltre che più competenti, critici del sistema sovietico: «A fallire è stata tutta la scienza economica occidentale. Lenin operò meglio quando introdusse la NEP - questa è da prendere come una osservazione seria, anche se forse scorretta!»

Il mito neoliberista del mercato sregolato che avrebbe portato in pochi anni il benessere nei paesi in transizione, almeno in quelli economicamente più avanzati, evapora di fronte ai dati effettivi riscontrati negli anni novanta. Nell'insieme dei paesi considerati, il PIL è diminuito a un tasso annuo del 4 per cento a prezzi costanti, dovuto in larga misura alla caduta dello stesso nella Federazione russa, ma il suo andamento è stato positivo solo in Polonia nell'arco del decennio (cfr. tab. 1.8).

Il numero degli occupati è sceso del 2 per cento all'anno nel periodo in esame e la diminuzione non ha risparmiato neanche la Polonia; i dati sulla disoccupazione sono lacunosi, ma dalle statistiche disponibili si rileva che dalla piena occupazione del sistema precedente si è passati successivamente a una crescita quasi ininterrotta della disoccupazione: la quota dei disoccupati sulle forze di lavoro è stata nel 1998 pari al 13 per cento nella Federazione russa, al 10 per cento in Polonia, al 9 per cento in Ungheria e al 7,5 per cento nella Repubblica ceca.

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Pagina 82

Questa evoluzione è interessante per il ragionamento sulle determinanti degli investimenti. Nell'impostazione elaborata da Michal Kalecki negli anni trenta e affinata successivamente, il prodotto nazionale lordo si divide, dal lato della distribuzione, in profitti lordi e salari lordi e, dal lato degli impieghi, in investimenti lordi, consumi dei capitalisti e consumi dei lavoratori; assumendo che i lavoratori non risparmino, i profitti lordi sono uguali alla somma degli investimenti lordi e dei consumi dei capitalisti. A questo punto Kalecki si chiede:

Qual è il significato di questa equazione? Significa che in un determinato periodo i profitti determinano gli investimenti e i consumi dei capitalisti, o viceversa? La risposta a questa domanda dipende da quale di queste variabili è direttamente soggetta alle decisioni dei capitalisti. Ora, è ovvio che i capitalisti possono decidere se consumare e investire di più in un dato periodo rispetto a quello precedente, ma essi non possono decidere di guadagnare di più. Perciò, sono le loro decisioni di investimento e di consumo che determinano i profitti, e non viceversa.

Naturalmente, oggi le cose sono più complicate rispetto a quando Kalecki formulava la sua teoria degli investimenti, giacché consistenti fasce di lavoratori percepiscono alti stipendi e possono quindi destinare quote apprezzabili del reddito a risparmi, da cui ricavano interessi e dividendi che possono utilizzare per consumi più elevati, anche se cala la quota dei redditi da lavoro dipendente. Resta il fatto comunque che, a prescindere dagli attori della distribuzione (capitalisti o lavoratori) fra consumi e investimenti, ci troviamo in presenza di una elevata espansione delle attività finanziarie e di una riduzione relativa della formazione di capitale fisso; il che potrebbe significare che il predominio della finanza sull'economia reale è sfavorevole all'accumulazione del capitale e quindi alla crescita economica.

Sembrano lontanissimi i tempi, e si era nel 1989, quando un grande scrittore italiano contemporaneo, Paolo Volponi, faceva esaltare dal protagonista del suo romanzo l'industria, paradigma dell'economia reale: «Tutti dovranno capire il primato sociale, culturale e scientifico dell'industria: e lo stesso capitale dovrà sottomettersi e seguirne le ragioni. Il capitale verrà rinnovato e regolato dall'industria».

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Pagina 84

3.

Il lavoro ostaggio della precarietà


Altro che «fine del lavoro»!

Il persistente alto livello di disoccupazione nell'Europa occidentale negli anni novanta e la presunta difficoltà nel trovare le politiche adatte a ridurlo sensibilmente hanno fatto parlare tanto, quasi sempre a sproposito, di fine del lavoro, sebbene i dati ILO mostrassero un quadro ben diverso a livello mondiale. L'occupazione è crollata solo nei paesi in transizione dove la terapia shock degli ideologi neoliberisti ha posto fine al pieno impiego, anzi alla penuria di lavoratori nei paesi più sviluppati del cosiddetto campo socialista. Il notevole aumento del lavoro salariato nei PVS coesiste con una larga massa di lavoro sottoccupato: circa 800 milioni di lavoratori guadagnano meno di un salario minimo e lavorano con un orario inferiore al tempo pieno.

Lo slogan «fine del lavoro» non vale neanche per l'area dei paesi capitalistici sviluppati, per la quale esso è stato in effetti coniato. I dati statistici parlano chiaro in proposito: negli anni novanta l'occupazione è aumentata a ritmi quasi uguali a quelli del decennio precedente e la disoccupazione è cresciuta di poco nell'insieme dell'area.

[...]

È peggiorata, invece, la qualità del lavoro, nel senso che le imprese nelle nuove assunzioni si sono orientate vieppiù verso forme varie di precariato. Finora queste pratiche hanno ridotto solo di poco la quota del lavoro a tempo indeterminato sul volume complessivo fra l'inizio e la fine degli anni novanta, ma le campagne orchestrate dal neoliberismo sul tramonto del posto fisso erano mirate a far accettare ai lavoratori il deterioramento delle condizioni di lavoro e delle garanzie retributive e assicurative, imponendo così una ulteriore ridistribuzione dei redditi a favore dei profitti.

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Pagina 88

Nell'istituire un confronto fra Stati Uniti e Unione Europea, i paladini del «miracolo americano» portano a sostegno della loro tesi la grande capacità dell'economia statunitense di creare nuovi posti di lavoro, confermata dalla riduzione dell'aliquota di disoccupazione al 4 per cento alla fine degli anni novanta, contro il 9 nell'Unione Europea, e dall'alto tasso di attività pari al 77 per cento, contro il 69 nello stesso anno in Europa. A prescindere dai diversi sistemi di rilevazione statistica dei dati che gonfiano la creazione di posti di lavoro negli Stati Uniti, essi si dimenticano che la grande maggioranza di tali posti è stata creata in attività del settore terziario con bassi salari e senza diritto a ferie, pensione e assicurazione medica. A costoro ha risposto correttamente un dirigente di spicco del partito democristiano tedesco, sostenitore del cosiddetto modello renano:

Dobbiamo capire che non siamo legati a una falsa alternativa; non si tratta di scegliere fra essere poveri ma non disoccupati come in America oppure essere disoccupati ma non poveri come in Germania. Nel suo ultimo discorso Bill Clinton ha detto di aver creato 700000 nuovi posti di lavoro; il giorno dopo si è fatta viva una persona da Detroit per dire che egli ne aveva quattro di posti, perché di un solo lavoro non poteva vivere. La conseguenza è che in America si disgregano le famiglie, scompare l'educazione e si spezzano le relazioni sociali.

Nel confronto fra i diversi paesi c'è peraltro un irrisolto problema di misurazione statistica della disoccupazione: si va da un metodo di rilevazione molto estensivo, come in Italia, dove sono compresi fra i disoccupati «altri in cerca di occupazione» (tolta questa categoria, l'aliquota di disoccupazione scenderebbe nel 1999 all'8,6 per cento, ossia sotto alla media europea), a uno talmente restrittivo da apparire grottesco, come negli Stati Uniti, dove è considerato occupato chi lavora almeno un'ora alla settimana (sic!). Non solo, ma nei due paesi in cui la restaurazione neoliberista ha celebrato i suoi massimi trionfi si è fatto anche ricorso a trucchi statistici: negli Stati Uniti, fra i dati del censimento e quelli del mercato del lavoro vi è una differenza in meno di circa sei milioni di persone fra i 25 e i 60 anni; in Gran Bretagna sono stati esclusi dal numero dei senza lavoro le persone in età superiore ai 55 anni e i disoccupati di lunga durata.

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Pagina 106

Comunque, non si tratta solo di un andamento sfavorevole del monte salari, al lordo e ancor più al netto, ma emerge anche una forte divaricazione fra i salari bassi e i salari alti, che si era già verificata negli anni ottanta negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, paesi antesignani delle politiche neoliberiste con i governi Reagan e Thatcher, ma che ora investe la generalità dei paesi considerati. Negli Stati Uniti, addirittura, mentre i salari reali del decile più elevato sono aumentati in misura significativa negli anni novanta, quelli del decile più basso sono diminuiti. Secondo i sostenitori del modello americano, questo sarebbe il risultato della diversa capacità professionale, ma tale assunto è contraddetto dal fatto che non si è allargato il divario salariale fra i lavoratori non qualificati e quelli compresi nella fascia mediana del reddito, bensì quello fra questi ultimi e i lavoratori ad alto reddito.

Paul Krugman, in un lungo editoriale sul supplemento del «New York Times» del 20 ottobre 2002, mostra quanto sono cambiati gli Stati Uniti negli ultimi trent'anni. Egli ricorda gli anni cinquanta e sessanta della sua giovinezza in una società costituita in larga parte dalla classe media, a seguito degli impulsi egualitari del New Deal e del dopoguerra. Nel 1970 lo 0,01 per cento più ricco aveva un reddito superiore di 70 volte a quello medio; nel 1998 questo divario è balzato a 3OO volte. Quando si affronta questo tema - continua l'autore - ci si espone al sospetto di rivangare la «lotta di classe» o essere preda della «politica dell'invidia». Gli economisti ortodossi cercano di spacciare questa evoluzione per un portato del processo di modernizzazione, ma in realtà è un ritorno all'Ottocento. Il già menzionato sociologo francese Robert Castello mette bene in evidenza:

L'avventura del lavoro salariato, partito da situazioni miserabili e indegne socialmente, ma poco per volta diventato una situazione relativamente confortevole e relativamente ben protetta, porta a pensare che non si debba svendere, abbandonare quella che è stata una vittoria straordinaria sulla vulnerabilità di massa. Per una buona parte della popolazione, per secoli la vita era vissuta alla giornata, per finire a crepare all'ospizio. Il compromesso sociale degli anni sessanta-settanta ha più o meno vinto questo. È un progresso sociale che merita di essere conservato.

Per concludere questo capitolo, contro le mistificazioni ideologiche del neoliberismo mi sembrano illuminanti nel definire il lavoro come senso della vita ma con tempi, ritmi, salari e provvidenze sociali tali da consentire una vita dignitosa a tutti, le affermazioni di uno dei più prestigiosi sociologi italiani, Luciano Gallino:

A onta di quanto si scrive sul deperimento della forma lavoro, invenzione transitoria della rivoluzione industriale - e bisogna avere un angolo visivo alquanto ristretto per scriverlo, all'epoca in cui almeno un altro miliardo di uomini sta correndo a vestire i panni del salariato capitalistico - il lavoro rimane, ed è destinato a rimanere per generazioni, un fattore primario di integrazione sociale. È il filo più robusto tra quelli che compongono il legame invisibile ma vitale che tiene insieme individui, comunità e società. Situa in un rapporto dialettico l'individuo con se stesso e con il mondo. Purché il lavoro abbia certe caratteristiche: come l'esser ragionevolmente stabile, dignitosamente retribuito, discretamente interessante, e svolto in condizioni compatibili con i diritti della persona alla salute, alla sicurezza e al rispetto. Oltre alla disoccupazione, anche la precarietà come modello di lavoro e la malaoccupazione, ivi incluso il sommerso, sono la negazione di tali caratteristiche. Per questo motivo l'una e l'altra sono minacce gravi per l'integrazione sociale. prestigio dell'Unione Sovietica in Occidente, che le derivava dai successi dell' economia pianificata e dal contributo decisivo offerto alla prevedibile sconfitta della Germania nazista, e di arginare la paventata diffusione della rivoluzione comunista in tutta l'Europa. Con i suoi due Rapporti, Social Insurance and Related Services nel 1942 e Full Employment in a Free Society nel 1944, William Beveridge pone le basi del moderno Stato sociale in Europa. In precedenza, erano state create istituzioni embrionali di sicurezza sociale in Germania con il cancelliere Bismarck fra il 1883 e il 1885 per controbattere la propaganda dell' emergente Partito socialdemocratico tedesco; negli Stati Uniti nel 1935 a seguito della Grande crisi con il SocialSecurity Act e in Svezia con i primi governi socialdemocratici negli anni trenta. Negli anni cinquanta- settanta lo Stato sociale si sviluppa rapidamente, soprattutto nell'Europa occidentale, meno negli Stati Uniti e in Giappone, dove prevale rispettivamente una visione privatistica e familistica della questione sociale. Fra il 1950 e il 1980 la quota della spesa sociale sul PIL balza da circa il 5 a oltre il 25 per cento nella media europea, crescendo solo al 14 per cento negli Stati Uniti e all'I I per cento in Giappone. Negli anni ottanta lo Stato del benessere è posto sempre più in discussione, sebbene l'attacco non sia ancora frontale; come scrive Angus Maddison: I governi non hanno finora preso seri provvedimenti sulla via dello smantellamento dello Stato sociale; in questo campo non si è avuto nulla di simile alle vittorie ottenute dalla scuola liberista nell' allontanare la politica macroeconomica dalle predominanti direttrici keynesiane. 2 gli ideologi neoliberisti hanno usato la fine della piena occupazione come pretesto per smantellare lo Stato del benessere, sostenendo che esso non era più finanziabile in presenza di un alto livello di disoccupazione!

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Pagina 111

La riduzione della spesa sociale non si tramuta però automaticamente in una diminuzione della quota della spesa pubblica sul PIL, croce di tutti i neoliberisti; si osserva invece uno spostamento della spesa verso la sfera dell'ordine pubblico. Negli Stati Uniti si registra una correlazione inversa fra spesa sociale e spesa carceraria: l'aumento dei fondi e del personale per gli istituti di pena è stato possibile solo a scapito degli stanziamenti per l'assistenza sociale, la sanità e l'istruzione. Gli Stati Uniti hanno scelto di fatto di costruire per i poveri case di reclusione e di pena piuttosto che dispensari, asili nido e scuole. Non è un caso che nel 1997 vi erano in quel paese 600 detenuti per 100000 abitanti, contro circa 80 nell'Europa occidentale, dove lo Stato del benessere ha ancora una notevole incidenza sulla spesa pubblica.

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Pagina 121

In generale, l'impostazione neoliberista predica l'introduzione della concorrenza fra pubblico e privato e la partecipazione dei pazienti alla spesa sanitaria al fine di contenerne i costi, ma la ricerca empirica porta al risultato opposto. In uno studio econometrico sulla spesa sanitaria nei paesi OCSE si arriva alla conclusione che nei paesi con prevalente quota pubblica la spesa rispetto al PIL è minore e all'interno del settore pubblico l'assistenza diretta costa meno di quella indiretta, mentre negli Stati Uniti, paese a netta prevalenza del settore privato, un quarto dei costi è dovuto a cure non necessarie. Altri studi condotti da tecnici sanitari negli stessi Stati Uniti rilevano due tipi di mala sanità: cure insufficienti per una parte della popolazione e cure eccessive per un'altra.

Quanto ai supposti benefici dei mercati competitivi, detti studi mettono in evidenza che rispetto ai mercati non competitivi i primi sono più costosi, con più duplicazioni dei servizi, più lunga degenza dei ricoverati e più personale dirigenziale. In Germania si sostiene che l'introduzione dei princìpi di mercato nella sanità pubblica non ha comportato né minori costi, né migliori prestazioni, ma solo un aumento dei guadagni per i medici, i farmacisti e l'industria sanitaria. Fallimentare è stato anche l'esperimento fatto negli Stati Uniti di dare dei buoni ai consumatori di servizi sanitari, con l'idea che avrebbero saputo scegliere i migliori offerenti.

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Pagina 125

Alla fine del decennio, il World Labour Report 1997-98 dell'Ufficio internazionale del lavoro ha presentato uno studio statistico, in cui si afferma che più è sviluppato lo Stato sociale, più una economia è aperta. Mettendo a confronto il grado di globalizzazione, si ottiene una graduatoria (Paesi Bassi, Danimarca, Germania, Stati Uniti e Giappone) che corrisponde esattamente a quella della spesa sociale.

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Tutto sommato, mi pare che il senso profondo dello Stato sociale sia stato descritto in maniera plastica non da economisti, sociologi o politologi, ma da un noto regista cinematografico e moderatore televisivo degli Stati Uniti, Michael Moore, in una recente intervista. Prendendo per esempio il caso, accaduto nella sua città natale nel Michigan, di un bambino di sei anni che ha ucciso in classe una coetanea, egli sostiene che la domanda vera da porsi è che razza di società è questa che impone a una ragazza madre di lasciar solo il bambino, perché le è stato tolto il programma di assistenza, ed è stata costretta ad accettare un lavoro sottopagato a oltre cento chilometri di distanza. Poi, facendo riferimento all'Europa, egli si chiede:

Per voi europei i McDonald's e i film di Hollywood sono la quintessenza dell'americanizzazione! Ma voi non diventerete simili a noi per il consumo dei film di Spielberg e degli hamburger, lo diventerete se demolirete il vostro Stato sociale o distruggerete il vostro sistema sanitario o sostituirete il vostro sistema fiscale, basato sulla solidarietà, con un altro che premia i ricchi. C'è una differenza enorme tra una società che abbandona i cittadini a se stessi e un'altra che offre loro una rete di sicurezza sociale. Qui è in gioco la civiltà stessa: niente di più e niente di meno.

In conclusione, si può affermare che l'obiettivo del neoliberismo è il ritorno a un capitalismo selvaggio senza regole in una società autocratica di tipo feudale, dove una ristretta minoranza di miliardari esercita il potere su una larga maggioranza costituita da una fascia di popolazione dotata di redditi decenti e da una fascia crescente di precariato prossimo al livello di mera sussistenza, con una disciplina dei diritti tale da minacciare la prima fascia di finire al livello della seconda. Ma il neoliberismo non è l'unica forma di capitalismo: è possibile un'altra società, in cui alla libertà d'impresa sul piano microeconomico si giustapponga un insieme di regole a livello macroeconomico tale da coniugare efficienza economica, rispetto dell'ambiente e condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti.

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