Copertina
Autore Alessandro Dal Lago
Titolo Alma mater
SottotitoloQuattordici racconti
Edizionemanifestolibri, Roma, 2008, Società narrata , pag. 256, cop.fle., dim. 14,5x21x1,7 cm , Isbn 978-88-7285-524-9
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


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Indice


Diamogli ventisette                   9

Per i poteri conferitimi             19

Vento divino                         27

Il deserto dipinto                   51

Trecento formaggi                    77

Abdellatif                          101

L'allodola                          125

L'isola dei conigli                 143

Nel paese dei canguri               163

Il commissario                      179

Una controversia scientifica        189

I bassifondi di Bisanzio            207

Non giudicate!                      221

Poniamo per assurdo                 235

Nota                                251


 

 

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Pagina 9

Diamogli ventisette



Carissimo,

l'altra sera a cena ci sei rimasto proprio male per il mio sfogo sull'università. Avrai pensato che sto diventando acido, ora che invecchio. E magari che sputo nel piatto in cui mangio. Tu sei giovane e le tue illusioni sono ancora intatte. Ricerche appassionanti, libri da scrivere e, perché no, la fama, il successo editoriale. Sono sicuro che quando ti trovi in aula, davanti agli studenti, vedi fresche menti da avviare alla conoscenza e non, come me, un branco di ragazzi rumorosi e distratti che sono lì in mancanza di meglio, e poi ti sbeffeggiano per i tuoi tic quando la lezione è finita...

Ma ero anch'io come te, credimi. E forse in un certo senso lo sono ancora, quando sto tra i miei libri e inizio un lavoro nuovo. Il mio problema è un altro. La verità è che non sopporto più quello che c'è in fondo al brodo nauseante in cui siamo immersi, la retorica della cultura e della scienza. Voglio dire, le malignità tra colleghi, l'invidia, il sadismo, tutte le cose che ti puoi immaginare o che cominci a conoscere non mi toccano più di tanto. Se fossimo in un'azienda o in banca sarebbe tutto normale. Ma da noi, nell'accademia, questa miseria è travestita da un linguaggio da zombi. Pensa solo ai giudizi dei concorsi. "Il candidato ha indubbiamente dato prova di operosità, nella sua ricerca trentennale, benché i suoi lavori documentino diligente applicazione più che capacità di innovare...". E tu sghignazzi non solo perché lo stai fregando, ma perché gli dai elegantemente e pubblicamente del fesso. Ogni tanto, qualcuno dà di matto per una cosa del genere, e allora tutti i colleghi a dire: poveraccio, è la quinta volta che lo bocciano. E scuotono la testa, gongolando.

È sempre stato così. Io me ne sono accorto subito, quando ho cominciato tanti anni fa, e non ho mai cambiato idea. Sicuramente l'acidità che ho in corpo si è accumulata fino al punto che non potevo più tenermela in gola.

Pensi che stia esagerando? Allora ti racconto una storia.


Dunque, siamo nel millenovecentosettantanove e io faccio il precario, allora si diceva contrattista, a Milano. C'era stato il rapimento Moro e tutte quelle cose lì, né con lo Stato né con le Br, tu le conosci bene perché le hai studiate. In una facoltà come la nostra, il casino si avvertiva, eccome, c'erano i collettivi autonomi, e qualcuno andava ancora con la pistola alle manifestazioni. Uno come me, un assistente di sinistra, era esposto, capisci, nel senso che ero in contatto con tutti. Mi ricordo che uno studente del mio seminario un giorno viene da me al ricevimento e mi dice seriamente: prof, ho intenzione di entrare in clandestinità nel tal gruppo, che ne pensa? Che cosa gli ho risposto? Che non ne volevo sentir parlare di queste cazzate, magari era un provocatore. Insomma, i tempi erano quelli.

C'era ancora la lotta armata, anche se lo stato ci andava giù duro, con le leggi antiterrorismo e le carceri speciali. Così, un sacco di gente stava in galera, e capitava che molti fossero studenti, anche iscritti alla nostra facoltà. Ora, alcuni che magari erano in attesa di giudizio, a Trani o in qualche altro carcere, chiedevano di fare gli esami e così potevano avvicinarsi a casa. Se il magistrato dava l'autorizzazione, la direzione del carcere avvertiva il preside e questo, sentiti i professori, nominava una commissione regolare, di tre membri, che andava a fare l'esame a San Vittore. Succedevano delle cose comiche che non ti dico. Una volta, un vecchio professore di statistica, un democristiano che tra l'altro era stato minacciato, mi pare, dagli autonomi – poi gli hanno anche dato la scorta – si chiuse in un cesso della facoltà per non essere trovato dal preside, perché aveva paura.

Te la faccio breve, ci sono andato anch'io a fare un esame a San Vittore.

Lo studente in questione era un ragazzino che aveva avuto una storia nota a tutti, anche perché i giornali l'avevano raccontata nei dettagli. Era stato preso mentre lasciava dei volantini di Prima linea nel mezzanino del metrò a Sesto San Giovanni. E quindi era finito in un carcere del sud per reati associativi, terrorismo e così via, una roba da vent'anni minimo, con le leggi in vigore. Ora, in quel carcere la situazione era tremenda. C'erano i brigatisti, quelli degli altri gruppi armati, di sinistra e di destra, i mafiosi, i camorristi, che si spartivano il controllo. Si facevano e si disfacevano le alleanze, ogni tanto scoppiavano le rivolte e qualche guardia ci ha anche rimesso le penne, per non parlare dei detenuti. Sta di fatto che questo pischello, che al massimo si era fatto qualche scontro con la polizia, quando entra in collegio non conosce le regole e fa una cazzata. A quanto ne so, una guardia lo umilia e lui non reagisce oppure se la fa sotto. Ora, per un fatto del genere ti potevano anche tirare il collo. Aveva rotto l'unità dei carcerati, come si diceva. Sembra che ci sia stato un dibattito nella commissione interna, quella che governava i detenuti, alcuni lo volevano eliminare, altri no, ma alla fine hanno deciso di lasciar perdere. Lui comunque era bruciato. Non lo proteggeva nessuno. Pare che un detenuto gli avesse messo gli occhi addosso per farselo. Una bella mattina trovano il detenuto con la gola tagliata e accusano il ragazzino. Omicidio volontario. Era in attesa di processo. quando chiese l'avvicinamento per motivi di studio. E gli fu concesso.

Tu sai l'hai conosciuto Corso, l'ordinario di Storia moderna? Era il professore più in vista della facoltà. È morto dieci anni fa, gli è venuto un tumore al cervello e se ne è andato in tre mesi. Comunque, all'epoca, era la star. Pubblicava per Einaudi, scriveva sulla terza del Corriere. Ovviamente, si rese disponibile. Tutti sapevano che era contrario alle leggi speciali, ci ha scritto anche un capitolo di un saggio sul Pci e il terrorismo. Il suo guaio era Conti, l'assistente ordinario.

Un rompiballe. Pedante, precisino, capzioso, tutto l'opposto di Corso, che invece faceva il farfallone, l'intellettuale à la page. In fondo, Conti mi faceva pena. Il suo problema è che Corso lo schiacciava. Mi sono sempre chiesto perché, da noi, i professori brillanti si prendono come allievi tipi come Conti. Immagino perché non gli facciano ombra. Comunque, Conti aveva pubblicato poco, a più di quarant'anni, e non aveva molte prospettive di carriera. Più invecchiava e più si incupiva. Faceva lo stronzo con gli studenti. Ma non era solo questo. Tutti sapevamo che trincava di nascosto, e sai le volte che usciva dal cesso con il fiato che puzzava di whisky a dieci metri.

Non gli ero simpatico. Forse gli avevano riferito qualche mia battuta. Ma penso che fosse normale avversione perché ero più giovane di lui e con la fama di uno sveglio, brillante. Non hai idea di quanto odio maturi nel nostro ambiente per queste antipatie di pelle. In ogni modo, Conti, quando Corso non c'era, mi prendeva di mira. Facevamo esami insieme, lui sulla parte monografica e io sul manuale. Al momento di dare il voto a uno studente, faceva parlare prima me e poi invariabilmente lo abbassava. Una volta ha cacciato uno a cui avevo proposto ventiquattro e mi ha fatto una ramanzina di fronte a tutti, accusandomi di essere poco serio. Mi sono sentito così umiliato che le mani mi tremavano ancora un'ora dopo.

Ma torniamo al ragazzino in carcere. Nella commissione per l'esame a S. Vittore il preside aveva nominato Corso, che ovviamente era il presidente, Conti e il sottoscritto.

Per me era la prima volta e appena sono entrato mi è venuto un fottone. Bussi all'entrata, ti spiano da una finestrella, ti perquisiscono e poi ti portano dal vice direttore, che guarda i documenti, le autorizzazioni, i bolli e tutto il resto. Corso faceva quello superiore, Conti sembrava molto preso dalla parte. Caro dottore, sono il professor Conti, prego, ma le pare, diceva queste cose qui. Ti accompagnano in sezione. Cancelli, guardie, controlli. La puzza. Un misto di sudore, disinfettante e piscio. Il rumore. Un brusio di fondo che non si ferma mai, lo sbattere dei piatti da qualche parte, urla, comandi. Insomma, puoi immaginare. Alla fine, ci hanno portato in una specie di parlatorio, con una finestrella, un tavolino con una sedia da una parte e tre dall'altra. Un capoguardia, un maresciallo o roba del genere, ci spiega che ci lascerà soli con il detenuto, ma che la porta resterà aperta e le guardie sono pronte dall'altra parte. Dopo un po', sentiamo rumore di ferri e arriva il ragazzino, praticamente portato di peso da due guardie. Ha una catena alle caviglie e le manette. Lo fanno sedere ed escono.

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Pagina 69

– Non si muova! – gridò Conti correndo a fatica verso di lui.

– Ma che c'è, non sono mica caduto – disse il poeta.

– Stia fermo per l'amor di Dio! – Conti lo raggiunse e lo prese per un braccio. Strappò il poeta dal cavalletto e lo trascinò indietro.

– Si può sapere che le prende? – chiese il poeta.

– Sa che c'è dall'altra parte? – disse Conti indicando il cavalletto.

– Beh?

– Nient'altro che il suo Grand Canyon.


Il poeta si stava riprendendo.

– Ma sono proprio coglioni! Ma perché non mettono un cartello? – Il poeta ansimava. – Lei sa quanto deve essere profondo?

– Sette, ottocento metri. Ma ci saranno delle balze e dei pini, si sarebbe fermato dopo qualche metro.

– Capirà che consolazione –. Il poeta lo guardò di traverso.

Tornarono lentamente verso il fondo del sentiero, tenendosi al corrimano laterale. Non erano preparati a quello che videro. Ammutolirono.

Poco sotto i loro piedi, nubi spesse e lanose si stendevano da destra e sinistra all'infinito. Avrebbero potuto infilarci una mano e non l'avrebbero più vista. A una distanza difficile da valutare, poteva essere qualche chilometro, una quinta sconfinata di picchi, formazioni di roccia tondeggianti, castelli di pietra illuminati dal sole basso sorgeva dal mare biancastro. L'ocra, il rosso, il rosa e il viola delle rocce si stagliavano nel cielo scuro in cui spuntavano le prime stelle. Rimasero in silenzio per qualche minuto. Ma quanto è lungo questo affare, chiese il poeta. Oh, centinaia di chilometri, rispose Conti. C'era mai venuto prima? No, è la prima volta, sono senza parole. E che vorrebbe dire in un posto così? Il poeta si voltò e guardò Conti. Non ha l'impulso a buttarsi dentro, lei? Prego, domandò Conti, che cosa ha detto? Lasciamo perdere, disse il poeta. Era rattrappito nel giaccone pesante, la rada capigliatura rossastra sembrava trasparente contro il sole al tramonto. Torniamo indietro, tutto questo mi opprime. Che gli sarà preso, si chiese Conti.

A cena, nel ristorante dell'albergo in stile western, il poeta non aprì bocca.

Andarono a dormire.


Visto che il tempo c'era, decisero di dare un'occhiata alla riserva Navajo, che occupa un'area di migliaia di chilometri quadrati nei cosiddetti Four Corners, dove si incontrano lo stato dell'Arizona, lo Utah, il Nuovo Messico e il Colorado. Conti aveva proposto una visita rapida alla Monument Valley al confine tra Arizona e Utah. John Ford vi aveva girato i suoi film più famosi, Ombre rosse, Sentieri selvaggi. Sì, il poeta li aveva visti da giovane e anche in televisione. Grandi. All'ufficio turistico accanto all'albergo in stile western, li informarono che la neve bloccava gli accessi alla Monument Valley.

Mentre scendevano verso Tuba City, apparvero i primi hogan, le costruzioni a cupola dei Navajo, in muratura e legno. Siamo entrati nella riserva, disse Conti. Videro file di roulotte con i panni stesi, pick up senza ruote, autobus arrugginiti, piccole mandrie di cavalli sparuti. Sembra che vivano come zingari, osservò il poeta. Lei conosce le condizioni in cui campano i nativi, chiese Conti. Il poeta le conosceva, certo, non è mica colpa loro. Il fatto è, disse, che la modernità costringe i poveri a vivere nelle discariche. Lo sa che i Navajo sono gli indiani più ricchi d'America, disse Conti, rispetto agli altri, voglio dire. Da qualche anno hanno aperto le loro case da gioco nelle riserve. Appunto, disse il poeta.

Cominciò a nevicare.

– Le volevo chiedere una cosa, Conti.

– Sì?

– L'ha visto quel film con le due donne che si lanciano in auto nel Grand Canyon?

– Thelma e Louise?

– Proprio quello, sì.

– Certo. Continui.

– Ecco, credo di averle capite, voglio dire il messaggio del regista, anche se magari non se ne è reso conto. Quando l'ho visto in televisione, come le ho detto vado poco al cinema, mi è sembrato un'esagerazione, un film a effetto, ben fatto, ci mancherebbe, che strizza l'occhio al femminismo.

– In un certo senso – ammise Conti.

– Ma ora che ho girato un po' di America, anche se immagino che ne abbiamo visto solo un angolino...

– Eh sì.

– ... ecco, mi è venuta in mente un'altra cosa. Ho pensato che qui si è naturalmente attirati dal vuoto, non c'è bisogno di essere inseguiti dalla polizia per aver la tentazione di buttarsi nel Grand Cavon, e sa perché?

– Mi dica.

– Perché questi qui, voglio dire gli americani, hanno trovato una natura grandiosa, guardi, quasi insostenibile tanto è fantastica, ma sono capaci di buttarci addosso solo merda, mi scusi la parola. Queste città insopportabili piene di smog, lei ha visto Las Vegas! E le autostrade, la pubblicità onnipresente, i cartelloni, le stazioni di servizio e tutte queste automobili che inquinano e consumano benzina più di tutto il resto del mondo messo insieme, e poi quando pensano che il petrolio non gli basta più prendono, e vanno a fare una guerra da qualche parte. Ha visto in Iraq. Questo è una paese fondato sulla spazzatura che esporta spazzatura, caro Conti. Così, quando capita che uno si trova di fronte al Grand Canyon e si rende conto di quello che stiamo facendo, dico noi perché siamo diventati tutti americani, come hanno detto quei fessi dopo l'11 settembre, allora gli viene voglia di farla finita. O magari è lo spirito del Grand Canyon che ci chiama e ci dice: vieni da me, torna nel mio grembo, tuffati, piccolo uomo di merda! Se lei ci pensa, quelle due si buttano con l'auto mentre sono inseguite dalle auto!

– Beh, la capisco, ma credo che lei stia generalizzando, l'America non è mica solo quello che dice lei.

– E che cos'è? Il cibo tutto uguale. Quelle università fasulle, con quei fessi che dicono bla bla, e le ragazze che non si possono guardare, se no ti denunciano, e intorno c'è tutta questa merda, e loro discutono di Heidegger e poi votano Bush!

– Mi scusi, lei fa di tutta l'erba un fascio, guardi che io le ho viste le manifestazioni contro la guerra in Iraq. Io c'ero, sa.

– Si sono visti i risultati – disse il poeta

– Beh, per esempio, continuò Conti, prenda gli indiani, come questi Navajo. È vero che aprono le case da gioco, magari per scucire un po' di soldi a quelli che gli hanno tolto la terra. Però cercano di resistere. Lei a Los Angeles se l'è presa con il tipo di Seattle, perché ha frainteso quello che voleva dire lei. Però, per fortuna c'è gente come lui, anche qui. Sa, è come quando dicono di noi italiani che siamo tutti mafiosi, sono luoghi comuni irritanti, lo ha detto anche lei. Io qui ci vivo da quasi un anno e le posso assicurare che è tutto molto più complicato.

– Sarà – disse il poeta, che cominciava a stancarsi.

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Pagina 152

L'indomani, alle nove in punto, Detlev von Thoma, a nome dell'Alto commissariato, aprì i lavori del convegno.

– Siamo qui, – disse von Thoma – per stabilire se le condizioni in cui gli stranieri privi di documenti sono tenuti nei centri di internamento in quest'isola si conformano alla legislazione internazionale in materia dei diritti dell'uomo. Ci interessa soprattutto accertare se il diritto a chiedere asilo, per qualsiasi motivo, politico o umanitario, è stato rispettato dalle autorità italiane. Ricordo a tutti che l'Alto Commissariato sta svolgendo analoghe indagini in altri paesi europei e si ripromette di allargarle anche ai paesi della riva sud del Mediterraneo. Abbiamo invitato esperti, associazioni e Ong interessate a presentare i dati in loro possesso e, naturalmente, anche rappresentanti delle autorità italiane che però, fino a questo momento, non ci hanno risposto. È anche presente, a nome della Commissione diritti umani del Parlamento europeo, Rosa Ronkainen, – von Thoma sorrise alla deputatessa di Helsinki, seduta in prima fila – che qui saluto, insieme a tutti i partecipanti.

Ci fu qualche applauso. Nathalie Bellocq, in fondo alla sala, prendeva appunti. E ora, disse von Thoma, ho il piacere di dare la parola a...

Dalla finestra spalancata il profumo della mattina d'estate riempiva la sala. L'abbigliamento dei partecipanti era informale. Von Thoma si era levato la giacca e sfoggiava una polo verde. La prima relazione era di un'avvocatessa di Londra specializzata in diritto d'asilo. Diceva cose condivisibili, per quanto poteva capire Conti, sulle contraddizioni delle diverse legislazioni internazionali in materia di diritto d'asilo. Si inoltrò in un'analisi dettagliatissima delle norme dei paesi dell'Unione europea e Conti cominciò a distrarsi.

Dalla sua posizione, accanto alla finestra, godeva di una vista completa della cittadina e del mare. Sulla piccola spiaggia a sinistra della cittadina si potevano vedere gli ombrelloni multicolori e i bagnanti che sguazzavano nell'acqua bassa. Ma il suo sguardo fu attirato dall'imboccatura del porto. Preceduto da una lancia della Guardia costiera, un rimorchiatore trainava una nave mercantile in miniatura, lunga una trentina di metri e bassa sull'acqua, fortemente inclinata, con il castello di poppa che reggeva a malapena un fumaiolo arrugginito. Il ponte brulicava di gente. Il movimento nel porto era molto più convulso del giorno prima. Auto delle polizia che accorrevano sulla banchina, ambulanze, blindati, trillare di fischietti. Una trentina di soldati in tuta mimetica e basco nero saltarono da un camion, si disposero rapidamente in due file e si avviarono di corsa verso la banchina.

In quel momento, l'avvocatessa concluse l'intervento.

– Come bere, look at that! Many, many migrants. Hundreds of them! – gridò Conti in direzione del tavolo degli oratori. A quel punto tutti i partecipanti al seminario, compreso il compassato Von Thoma, si affollarono alle finestre.

Poliziotti, carabinieri, soldati in mimetica, gente in camice bianco si agitavano intorno agli stranieri che venivano fatti sbarcare, aiutati dai marinai delle vedette. Dietro le transenne, qualche passante guardava la scena. Arrivò un pulmino della Rai.

Il seminario riprese.

Parlarono un rappresentante di Medecins sans frontières e un volontario dell'Arci, che spiegò come, a parte le vessazioni immaginabili in quella situazione, non fosse previsto alcun tipo di assistenza religiosa per gli stranieri, in maggioranza musulmani. Si augurò che a qualche religioso fosse consentito di visitare il Cpt e di prestare conforto ai credenti.

Alla fine della mattinata, passarono al buffet allestito nel ristorante. Dopo di che, sarebbero stati liberi per qualche ora. Infatti, dato il caldo opprimente, il seminario sarebbe ripreso solo alle cinque. Conti stava per salire in camera, quando l'australiano gli propose di fare un giro dell'isola in jeep. Avrebbero potuto fare il bagno da qualche parte. Salirono sulla jeep, l'australiano alla guida, Conti, Nathalie Bellocq e la giapponese.

Agli incroci, erano stati allestiti posti di blocco volanti di polizia e carabinieri. Conti chiese a un graduato che cosa stesse succedendo. Una decina di clandestini si erano buttati in mare prima di arrivare in porto, spiegò il graduato. Alcuni erano stati segnalati dai bagnanti e assicurati – proprio così, assicurati, disse il graduato – dalle forze dell'ordine. Pochi erano ancora in giro per l'isola. Conti tradusse per gli altri tre le informazioni del graduato. Ovviamente i clandestini a piede libero non avevano scampo. L'isola, piatta e priva d'alberi, non offriva alcun riparo.

L'impressione di squallore che Conti aveva provato atterrando era rafforzata dalla presenza di complessi turistici a due piani in costruzione e da cartelli vistosi che indicavano le attrazioni naturalistiche, tra cui una spiaggia in cui ogni estate le grandi tartarughe marine venivano a riprodursi. Si diressero verso la spiaggia delle tartarughe.

Mentre correvano lungo la sola strada asfaltata dell'isola, videro piccole creature saltellare tra le sterpaglie. Conti si ricordò che l'isola era famosa anche per il gran numero di conigli selvatici che la infestavano. Erano state avviate campagne di eliminazione dei conigli, a cui si erano opposti alcuni gruppi di ecologisti. L'australiano raccontò che nel suo paese si registravano periodiche invasioni di conigli, a causa del loro tasso esponenziale di riproduzione. In alcuni stati, i conigli distruggevano le coltivazioni ed erano responsabili di una vera e propria desertificazione. La gente usciva di casa la mattina con i fucili per abbattere i conigli, ma senza risultati apprezzabili. Era dovuto intervenire il governo, che aveva inviato unità di disinfestazione. Il loro metodo consisteva nel liberare nelle campagne conigli affetti da un virus – mi pare la mixomatosi, disse l'australiano – il che, in effetti, aveva portato a una drastica riduzione della popolazione dei conigli. Tuttavia, qualcuno era sopravvissuto e, come sempre in questi casi, i conigli si erano adattati e avevano imparato a coesistere con il virus. Anzi, paradossalmente, si erano irrobustiti. Così, i conigli selvatici erano più minacciosi di prima.

Sentirono un colpo sulla parte anteriore della jeep. L'australiano si fermò e scesero a controllare. Avevano investito un coniglio, perché la ruota era sporca di sangue e brandelli di pelliccia grigiastra pendevano dal muso della jeep. L'australiano cercò di ripulire usando uno stecco. La giapponese si allontanò per non guardare.

– Odio questo posto. – disse Nathalie.

Arrivarono alla spiaggia delle tartarughe. Parcheggiarono accanto a decine di veicoli impolverati. La spiaggia era raggiungibile solo a piedi. Si avviarono per uno stretto sentiero che scendeva a precipizio tra fichidindia, massi e ginestre. Turisti ansimanti, carichi di ombrelloni, sedie pieghevoli e sacche refrigeranti risalivano il sentiero. Videro la spiaggia, una mezzaluna in fondo a una piccola insenatura. La sabbia, bianchissima, si intravedeva a malapena, poiché la folla di bagnanti occupava qualunque spazio in cui ci si potesse stendere o sedere. L'acqua, trasparente, di un celeste chiarissimo, pullulava di natanti.

– Come è possibile che le tartarughe vengano a riprodursi in questa confusione? – chiese l'australiano.

– L'accesso alla spiaggia è consentito dalle dieci del mattino alle sei del pomeriggio – rispose Conti, indicando un cartello. – Le tartarughe arrivano all'alba e verso sera, quando rinfresca.

Giunti alla spiaggia, cercarono uno spazio in cui sostare, attenti a non calpestare nessuno. Alla fine riuscirono a inerpicarsi su uno scoglio. Il sole era insopportabile e il rumore assordante.

Poco dopo le cinque, il seminario riprese.

Toccava a Conti, il quale, per conto della Rete dei giuristi democratici, illustrò la situazione dei Cpt italiani e in particolare nell'isola. Fornì i dati e spiegò come dal Cpt locale gli stranieri fossero avviati agli altri centri del paese. Una minoranza veniva espulsa verso gli stati che avevano stipulato accordi di riammissione, come la Libia e il Marocco, ma gran parte era lasciata libera con l'intimazione a uscire dal paese entro pochi giorni. Ovviamente, facevano perdere le loro tracce. In fondo, con tutti i milioni di euro che costano ai contribuenti, i Cpt servono solo ad alimentare il mercato del lavoro nero e servile. A questo punto, concluse, c'è da chiedersi se non esista qualche tipo d'accordo tra paesi della riva sud, trafficanti di uomini e autorità italiane per far finire i clandestini nell'isola. — Non mi piacciono le teorie del complotto, — continuò Conti — ma a me sembra che solo un accordo spieghi il fatto che centinaia di clandestini vengano intercettati qui, mentre potrebbero dirigersi verso isole e coste vicine.

— Lei ha prove al riguardo? — chiese von Thoma.

— No, — disse Conti — la mia è un'ipotesi. D'altra parte, se ci sono accordi di questo tipo, non li rendono certamente pubblici.

— Beh, allora è meglio attenersi ai fatti conosciuti — disse von Thoma. — Noi non siamo qui per fare ipotesi, e tanto meno politiche. L'Alto Commissariato è apolitico e cerca di verificare solo eventuali violazioni dei diritti umani. Naturalmente, se ci fossero qui rappresentanti delle autorità italiane, potremmo chiedere chiarimenti in proposito.

Venne il turno di Nathalie Bellocq.

Si dichiarò assolutamente insoddisfatta del seminario. Era tempo che l'Alto commissariato si assumesse qualche responsabilità, disse, guardando fissamente von Thoma. Noi ci attardiamo in questi convegni, in queste belle sale davanti al mare, e intanto loro annegano. Com'era possibile ridurre quello che stava accadendo, un vero e proprio genocidio di migranti, alla vecchia formula della violazione dei diritti umani?

— Il rispetto dei diritti umani è la nostra missione, — intervenne von Thoma.

Nathalie lo ignorò. — Anche il solito approccio economico o giuridico, come quello del professor Conti, era invecchiato — disse Nathalie. — Perché qui, in quest'isola come in tutte le zone di frontiera d'Europa e d'America, per non parlare dell'Asia del sud, dell'Africa e dell'Australia, non è in gioco solo l'economia o il diritto.

Nathalie si interruppe e guardò il pubblico.

— Ma l'esistenza, sì, l'esistenza dei migranti! E l'esistenza non è la nuda vita biologica, e tanto meno quella economica o giuridica o politica. È l'esperienza vissuta, il bagaglio di memorie, affetti, sogni, speranze e desideri che forma l'identità di ogni essere umano. Che sappiamo noi di queste persone? Nulla, raccogliamo i loro cadaveri, quando il mare li getta a riva, e li seppelliamo in un angolo del cimitero. Se avevano un documento, scriviamo il loro nome sulla tomba, se no gliene inventiamo uno. Ecco quelli che ho trascritti ieri. Oman, Khaled, Alì, Pap, Youssuf...

La voce di Nathalie tremava, mentre scandiva un nome dopo l'altro.

— Hocine, Abderraman, Liu, Rashid...

Qualcuno si agitò in sala.

— Madame Bellocq, può concludere il suo intervento? — disse Von Thoma.

— Aisha, Hadija, Daoud, Hakim...

— La prego, madame Bellocq, concluda — ripeté von Thoma.

— Mustaphà, Massoud, Hong, Baghavati...

— Basta, abbiamo capito! — gridò uno in sala.

— Va bene, sono costretto a toglierle la parola, Nathalie, lei sta impedendo agli altri relatori di parlare — disse von Thoma.

Nathalie si scosse e gridò al pubblico: — Non volete sapere, eh? — Raccolse bruscamente i suoi appunti e si allontanò dal tavolo.

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