Autore Luca D'Andrea
Titolo La sostanza del male
EdizioneEinaudi, Torino, 2016, Stile Libero Big , pag. 458, cop.fle., dim. 13,8x21,6x2,8 cm , Isbn 978-88-06-22100-3
LettoreAngela Razzini, 2016
Classe gialli , thriller












 

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Indice


  3 La sostanza del male

  7 (We are) The Road Crew
 19 Gli eroi della montagna
 30 La voce della Bestia
 44 Duecentottanta milioni di anni fa
 57 Promesse e bugie
 66 Il massacro del Bletterbach
 78 Il Saltner
 89 28 aprile 1985
108 Lily Bar
118 La torta al sapore di B
129 South Tyrol Style
139 Der Krampusmeister
153 Dieci lettere e una slitta
164 La maggior parte delle cose cambia
184 Il re degli elfi
196 Casa Krün
215 Primo febbraio
238 L'atelier del diavolo
257 Jaekelopterus Rhenaniae
276 Il colore della follia
285 Un albero viene assassinato
304 Qualcuno muore, qualcuno piange
321 Due cospiratori e una promessa
339 Heart-Shaped Box
347 Le vespe in soffitta
358 La verità sul massacro del Bletterbach
381 La cosa da un altro mondo
397 Padri
407 Nel ventre della Bestia
421 Wer reitet so spät durch Nacht und Wind?
446 Quattro lettere in fondo all'arcobaleno

450 Ringraziamenti
452 Nota


 

 

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Pagina 3

È sempre cosí. Nel ghiaccio prima si sente la voce della Bestia, poi si muore.

Seracchi e voragini identici a quello in cui mi trovavo erano pieni di alpinisti e scalatori che avevano smarrito le forze, la ragione e infine la vita per colpa di quella voce.

Una parte della mia mente, la parte animale che conosceva il terrore perché nel terrore era vissuta per milioni di anni, comprendeva ciò che la Bestia stava sibilando.

Sette lettere: «Vattene».

Non ero preparato alla voce della Bestia.

Avevo bisogno di qualcosa di familiare, di umano, che mi strappasse alla cruda solitudine del ghiacciaio. Alzai gli occhi oltre i bordi del crepaccio, lassú, alla ricerca della silhouette rossa dell'Ec135 del Soccorso Alpino Dolomiti. Ma il cielo era vuoto. Una saetta slabbrata di un blu accecante.

Fu questo a farmi crollare.

Iniziai a dondolarmi avanti e indietro, il respiro accelerato, il sangue svuotato da ogni energia. Come Giona nel ventre della Balena mi trovavo solo al cospetto di Dio.

E Dio ringhiava: «Vattene».

Alle quattordici e diciannove minuti di quel maledetto 15 settembre, dal gelo emerse una voce che non era quella della Bestia. Era Manny, la divisa rossa che spiccava in tutto quel bianco. Ripeteva il mio nome, ancora e ancora, mentre il verricello lo calava adagio verso di me.

Cinque metri.

Due.

Le sue mani e i suoi occhi cercavano ferite che spiegassero il mio comportamento. Le sue domande: cento cosa e mille perché a cui non potevo dare risposta. La voce della Bestia era troppo forte. Mi stava divorando.

- Non la senti? - mormorai. - La Bestia, la...

La Bestia, avrei voluto spiegargli, quel ghiaccio cosí antico, considerava intollerabile l'idea di un cuore caldo sepolto nelle sue profondità. Il mio cuore caldo. E anche il suo.

Ed eccole, le quattordici e ventidue minuti.

L'espressione di sorpresa sul viso di Manny che si tramuta in puro terrore. Il cavo del verricello che lo solleva come un burattino. Manny che schizza all'insù. Il rombo delle turbine dell'elicottero che diventa un grido strozzato.

Infine.

L'urlo di Dio. La valanga ad annientare il cielo.

Vattene!

Fu a quel punto che vidi. Quando rimasi solo, al di là del tempo e dello spazio, io vidi.

Il buio.

Il buio totale. Ma non morii. Oh no. La Bestia si prese gioco di me. Mi lasciò vivere. La Bestia che adesso sussurrava: «Resterai con me per sempre, per sempre...»

Non mentiva.

Una parte di me è ancora lí.

Ma, come avrebbe detto mia figlia Clara sorridendo, quella non era la z alla fine dell'arcobaleno. Non era la fine della mia storia. Al contrario.

Quello non fu che l'inizio.

Sei lettere: «Inizio». Sei lettere: «Bestia».

Proprio come: «Orrore».

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Pagina 8

(We Are) the Road Crew


1.

Nella vita, come nell'arte, c'è solo una cosa che conta: i fatti. Per conoscere i fatti, quelli che riguardano Evi, Kurt e Markus e la notte del 28 aprile 1985, è essenziale che sappiate tutto di me. Perché non c'è solo il 1985 e il massacro del Bletterbach. Non ci sono solo Evi, Kurt e Markus, ci sono anche Salinger, Annelise e Clara.

È tutto collegato.


2.

Fino alle quattordici e ventidue del 15 settembre 2013, e cioè fino al momento in cui la Bestia per poco non mi aveva ucciso, ero stato definito il cinquanta per cento di un astro nascente in un campo, quello dei documentari, che piú che stelle tende a produrre minuscole meteore e flatulenze devastanti.

Mike McMellan, l'altro cinquanta per cento dell'astro in questione, amava dire che, se anche fossimo stati stelle cadenti in rotta di collisione con il pianeta chiamato Fallimento Totale, avremmo avuto il privilegio di scomparire nella vampata riservata agli eroi. A partire dalla terza birra mi dichiaravo d'accordo con lui. Se non altro era un'ottima scusa per un brindisi.

Mike non era solo il mio socio. Era anche il miglior amico che possiate avere la fortuna di incontrare. Era irritante, saccente, egocentrico come e piú di un buco nero, ossessivo a livelli insostenibili e dotato della capacità di concentrarsi su un singolo argomento di un canarino sotto amfetamina. Ma era anche l'unico vero artista che avessi mai conosciuto.

Fu Mike, quando non eravamo che l'accoppiata di mezzi talenti meno cool di tutta la New York Film Academy (corso di Regia per Mike, Sceneggiatura per il sottoscritto), a capire che se avessimo inseguito le nostre ambizioni hollywoodiane saremmo finiti col culo appiattito dalle pedate, inaciditi e verbosi come il maledetto professor «Chiamatemi Jerry» Calhoun, l'ex hippie che piú di tutti aveva goduto nel martoriare le nostre prime, timide creazioni.

Fu davvero un momento magico, quello. Un'illuminazione che avrebbe modificato il corso delle nostre vite. Forse un po' meno epico di un film di Sam Peckinpah («Andiamo a morire», dice William Holden nel Mucchio selvaggio, e Ernest Borgnine gli risponde: «Perché no?») visto che quando accadde ci trovavamo a piluccare patatine fritte in un McDonald's con il morale sotto le scarpe e l'espressione del bestiame avviato lungo il glorioso boulevard del regno degli hamburger, ma comunque irripetibile. Credetemi.

- 'Fanculo a Hollywood, Salinger, - aveva detto Mike. - La gente è affamata di realtà, non di computer grafica. L'unico modo che abbiamo per fare surf su questo Zeitgeist del cazzo è lasciar perdere la fiction e dedicarci alla cara, vecchia, solida realtà. Cento per cento garantita.

Inarcai un sopracciglio: - Zeitgeist?

- Sei tu il crucco, socio.

Mia madre era di origine tedesca ma non c'era da preoccuparsi, ero anni luce dal sentirmi discriminato da Mike. Dopotutto io ero cresciuto a Brooklyn, lui nel Midwest del cazzo.

Considerazioni genealogiche a parte, ciò che Mike intendeva dire in quell'umido novembre di tanti anni fa era che avrei dovuto buttare le mie (pessime) sceneggiature e, insieme a lui, mettermi a girare documentari. Lavorare di attimi dilatati da trasformare in una narrazione che filasse liscia dal punto a al punto z secondo il vangelo del fu Vladimir Jakovlevič Propp (uno che stava alle storie come Jim Morrison alla paranoia).

Un vero casino.

- Mike... - sbuffai. - C'è solo una categoria di persone peggiore di quelle che vogliono sfondare nel cinema: i documentaristi. Possiedono collezioni di «National Geographic» risalenti al 1800. Molti di loro hanno antenati che sono morti alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Hanno tatuaggi e sciarpe di cachemire al collo. Ovvero: sono degli stronzi, ma stronzi liberal, e per questo si sentono assolti da ogni peccato. Ultimo, ma non per questo meno importante: hanno famiglie piene di soldi che sovvenzionano i loro safari in giro per il mondo.

- Salinger, alle volte sei davvero, davvero... - Mike scosse la testa. - Lasciamo perdere e ascoltami. Ci serve un soggetto. Un soggetto forte per un documentario che faccia saltare il banco. Qualcosa che le persone conoscano già, qualcosa di familiare, ma che noi due mostreremo in un modo nuovo, diverso da come l'abbiano mai visto. Spremi il cervello, pensa e...

Che ci crediate o meno fu in quel momento che mezza sega sommata a mezza sega scoprirono di poter trasformare in carrozza dorata anche la piú bislacca delle zucche. Perché, sí. Ce l'avevo.

Non so come e non so perché, ma mentre Mike mi fissava con quel suo grugno da serial killer, mentre un milione di motivi per rifiutare quella proposta mi si affollava in testa, sentii un gigantesco clic esplodermi nel cervello. Un'idea assurda. Folle. Incandescente. Un'idea cosí idiota che rischiava di funzionare maledettamente bene.

Cosa c'era di piú elettrizzante, potente e sexy del rock'n'roll?

Era una religione per milioni di persone. Una sferzata di energia che accomunava le generazioni. Non c'era anima su questo pianeta che non avesse mai sentito parlare di Elvis, di Hendrix, dei Rolling Stones, dei Nirvana, dei Metallica e di tutto il carrozzone sfavillante dell'unica, vera rivoluzione del XX secolo.

Facile, no?

No.

Perché il rock era anche grandi e grossi body-builder vestiti di scuro, simili ad armadi a due ante e con lo sguardo di un pitbull, pagati per respingere i furbetti come noi. Cosa che avrebbero fatto volentieri anche gratis.

La prima volta che provammo a mettere in atto la nostra idea (Bruce Springsteen in una data di riscaldamento pretour in un locale giú al Village) me la cavai con qualche spintone e un paio di lividi. A Mike andò peggio. Metà della sua faccia somigliava alla bandiera scozzese. Ciliegina sulla torta: per poco non ci beccammo una denuncia. A Springsteen seguí il concerto dei White Stripes, quello di Michael Stipe, dei Red Hot Chili Peppers, di Neil Young e dei Black Eyed Peas, che all'epoca erano all'apice della loro notorietà.

Collezionammo un bel po' di lividi e ben poco materiale. La tentazione di mollare era forte.

Fu a quel punto che il Dio del rock guardò verso di noi, vide i nostri patetici sforzi di omaggiarlo e con sguardo benevolo ci mostrò la strada per il successo.

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Pagina 11

3.

A metà aprile riuscii a trovare un doppio ingaggio per l'allestimento di un palco al Battery Park. Non per un gruppo qualsiasi, ma per la piú controversa, diabolica e vituperata band di tutti i tempi. Signori e signore: i Kiss.

Lavorammo da brave formichine coscienziose poi, mentre la manovalanza se ne andava, ci nascondemmo in un cumulo di rifiuti. Silenziosi come sniper. Quando arrivarono le prime berline scure Mike premette il tasto Rec. Eravamo al settimo cielo. Era la nostra grande occasione. E naturalmente tutto precipitò molto in fretta.

Gene Simmons sbucò da una limousine lunga come un transatlantico, si stiracchiò e diede ordine ai suoi lacchè di mollare il guinzaglio del suo adorato quattro zampe. Non appena libero, il barboncino candido e orrendo dall'espressione luciferina iniziò a latrare nella nostra direzione come uno dei segugi infernali cantati da Robert Johnson («And the day keeps on reminding me, there's a hellhound on my trail. | Hellhound on my trail, hellhound on my trail»). In due balzi, il cagnaccio mi fu addosso. Puntava alla giugulare, il bastardo. La palla di pelo voleva uccidermi.

Urlai.

E qualcosa come dodicimila energumeni che non avrebbero sfigurato nella Hall of Fame dei tagliagole ci afferrarono, ci scalciarono, ci bastonarono e ci trascinarono verso le uscite, con l'intenzione - ringhiarono - di gettarci in pasto all'oceano. Non lo fecero. Ci lasciarono pesti, abbattuti e stanchi su una panchina circondata da cartacce a riflettere sulla nostra condizione di Wile E. Coyote. Restammo li, incapaci di accettare la sconfitta, ad ascoltare l'eco del concerto che andava spegnendosi. Terminati i bis seguimmo con lo sguardo la folla scemare e, proprio mentre stavamo per tornare nella nostra topaia, quando grossi tizi con barbe da Hell's Angels e facce da galera iniziarono a caricare casse e amplificatori sui Peterbilt della band, in quel preciso istante, il Dio del rock fece capolino dal Valhalla e mi indicò la via.

- Mike, - mormorai. - Abbiamo sbagliato tutto. Se vogliamo fare un documentario sul rock, sul vero rock, dobbiamo puntare la telecamera dall'altra parte del palco. Dall'altra parte, socio. Quei tizi sono il vero rock. E, - aggiunsi sogghignando, - non c'è copyright su di loro.

Quei tizi.

I roadies. Quelli che fanno il lavoro sporco. Quelli che caricano gli otto assi, li guidano da una parte all'altra del Paese, li scaricano, montano il palco, preparano l'attrezzatura, aspettano la fine dello show a braccia conserte e, di nuovo, come dice la poesia: «Miglia da percorrere prima di dormire».

Oh sí.

Lasciatemelo dire, Mike fu incredibile. A suon di moine, miraggi di denaro e pubblicità gratuita convinse un annoiatissimo tour manager a darci il permesso di fare qualche ripresa. I roadies, per niente abituati a tutta quell'attenzione, ci presero sotto la loro ala protettiva. Non solo: furono i barbuti a convincere manager e avvocati a permetterci di seguirli (loro, non la band - e fu questo il jolly che li persuase sul serio) per tutta la durata della tournée.

Fu cosí che nacque Nati per sudare: Road Crew, il lato oscuro del rock'n'roll.

Ci facemmo il culo, credetemi. Sei settimane di follia, emicranie, sbronze da fatica e sudore, al termine delle quali avevamo distrutto due telecamere, collezionato diverse intossicazioni alimentari, una distorsione alla caviglia (mi ero arrampicato sul tetto di una roulotte rivelatosi friabile come un biscottino da tè - da sobrio, lo giuro) e imparato dodici diversi modi di pronunciare l'espressione «fuck you».

Il montaggio durò un'estate a quaranta gradi senza condizionatore, passata a scannarci su un monitor che andava fondendo e, ai primi di settembre 2003 (anno magico, se mai ce ne fu uno), non solo avevamo finito il nostro documentario, ma ne eravamo anche soddisfatti. Lo mostrammo a un produttore di nome Smith che di malavoglia ci aveva concesso cinque-minuti-cinque. Ci credete? Ne bastarono tre.

- Un factual, - sentenziò Mister Smith, sommo imperatore della Rete. - Dodici puntate. Venticinque minuti ciascuna. Lo voglio per i primi di novembre. Ce la potete fare?

Sorrisi e strette di mano. Infine un autobus puzzolente ci riportò a casa. Inebetiti e un po' frastornati controllammo su Wikipedia cosa diavolo fosse un factual. La risposta era: un miscuglio fra serie televisiva e documentario. In altre parole, avevamo meno di due mesi di tempo per rimontare tutto da capo e creare il nostro factual. Impossibile?

Non scherziamo.

Il primo dicembre di quell'anno Road Crew andò in onda. E fu un trionfo di share.

All'improvviso eravamo sulla bocca di tutti. Il professor Calhoun si fece fare una foto mentre ci consegnava quello che sembrava un obbrobrio partorito da Dalí, ma che invece era un premio del quale venivano insigniti gli studenti meritevoli. Sottolineo: meritevoli. I blog parlavano di Road Crew, la carta stampata parlava di Road Crew. Mtv fece uno special presentato da Ozzy Osbourne che, con gran dispiacere di Mike, non mangiò nemmeno un pipistrello.

Non tutto fu rose e fiori, però.

Maddie Grady del «New Yorker» ci fece a pezzi con un'ascia poco affilata. Un articolo di cinquemila parole su cui mi lambiccai per mesi. Secondo «GQ» eravamo misogini. Secondo «Life» eravamo due misantropi. Secondo «Vogue» incarnavamo il riscatto della generazione x. E questo ci ferí davvero a morte.

Alcuni nerd della Rete presero a bersagliarci con disamine sul nostro lavoro che, in quanto a prolissità e pedanteria, avrebbero battuto l' Encyclopædia Britannica di parecchie spanne.

Sempre in Internet, culla della democrazia virtuale dei miei coglioni, iniziarono a circolare voci a metà fra il ridicolo e l'inquietante. Secondo i ben informati, Mike e io ci facevamo di eroina, speedball, cocaina, amfetamine. I roadies ci illustravano a turno tutti e centouno i peccati di Sodoma. Durante le riprese uno di noi due era morto («Mike, qui dicono che sei morto». «Qui dice che "uno di noi due" è morto, perché proprio io?» «Hai dato un'occhiata alla tua faccia, socio?»)

La mia preferita però era questa: avevamo messo incinta una groupie di nome Pam (avete notato? le groupie si chiamano sempre Pam) e l'avevamo fatta abortire durante un rito satanico che ci aveva insegnato Jimmy Page.

Nel marzo dell'anno successivo, il 2004, Mister Smith ci fece firmare un contratto per una seconda stagione di Road Crew. Avevamo il mondo in mano. Poi, poco prima di partire per le riprese, accadde una cosa che stupí tutti, me per primo.

Mi innamorai.

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4.

E, strano a dirsi, fu tutto merito di «Chiamatemi Jerry» Calhoun. Organizzò una speciale proiezione della prima puntata di Road Crew seguita da un immancabile dibattito per i suoi studenti. «Dibattito» puzzava di imboscata, ma Mike (che forse sperava di prendersi la rivincita nei confronti del nostro vecchio insegnante e del mondo intero) aveva insistito per accettare e io mi ero limitato a seguirlo, come sempre quando Mike si metteva in testa certe cose.

La creatura che fece breccia nel mio cuore si trovava in terza fila, seminascosta da un tizio sui centocinquanta chili con lo sguardo alla Mark Chapman (un ammiratore della blogosfera, immaginai subito), nella temibile aula 13 di Calhoun, quella che alcuni studenti della New York Film Academy chiamavano «il Fight Club».

Al termine della proiezione il ciccione fu il primo a voler dire la sua. Ciò che disse in trentacinque minuti di orazione è riassumibile in: «Merda di qua, merda di là, merda in tutti gli angoli della città!» Quindi, soddisfatto, si asciugò un filo di bava, si sedette e incrociò le braccia, con un'espressione di sfida sulla faccia da pizza che si ritrovava.

Stavo per vomitargli addosso una lunga (lunghissima) serie di considerazioni poco corrette sui ciccioni saccenti, quando accadde l'impossibile.

La ragazza bionda chiese la parola e Calhoun, sollevato, gliela concesse. Lei si alzò (era davvero aggraziata) e disse, con un fortissimo accento tedesco: - Vorrei chiedervi. Qual è la parola esatta per «Neid»?

Scoppiai a ridere e ringraziai mentalmente la mia cara Mutti per la sua ostinazione nell'insegnarmi la sua lingua madre. All'improvviso quelle ore passate ad autoflagellarmi la lingua contro i denti, ad aspirare vocali e arrotare le r come avessi un ventilatore inceppato in bocca, assumevano tutta un'altra luce.

- Mein liebes Fräulein, - esordii mentre mi beavo del suono simil tappo di capodanno prodotto dagli occhi sgranati di quella massa di studenti arrapati (ciccione compreso). - Sie sollten nicht fragen, wie wir «Neid» sagen, sondern wie wir «Idiot» sagen.

Gentile signorina, non deve chiedere come noi diciamo «invidia», ma come diciamo «idiota».

Si chiamava Annelise.

Aveva diciannove anni ed era negli Stati Uniti da poco piú di un mese per uno stage. Annelise non era né tedesca né austriaca né tantomeno svizzera. Veniva da una minuscola provincia nel Nord Italia in cui la maggior parte della popolazione parlava tedesco. Alto Adige/Südtirol, il nome di quello strano posto.

La notte prima della partenza per il tour facemmo l'amore mentre in sottofondo Springsteen suonava Nebraska, e questo mi riconciliò almeno un po' con il Boss. Il mattino seguente fu duro. Pensavo che non l'avrei mai piú rivista. Cosí non fu. La mia dolce Annelise, nata fra le Alpi a ottomila chilometri dalla Grande Mela, trasformò lo stage in un permesso studio. So che sembra pazzesco, ma dovete credermi. Mi amava, e io amavo lei. Nel 2007, mentre Mike e io ci preparavamo per girare la terza (e ultima, come ci eravamo ripromessi) stagione di Road Crew, in un ristorantino di Hell's Kitchen chiesi ad Annelise di sposarmi. Accettò con tale trasporto che poco virilmente scoppiai in lacrime.

Che altro avrei potuto volere di piú?

Il 2008.

Perché nel 2008, mentre Mike e io, stremati, ci prendevamo una pausa dopo la messa in onda della terza stagione del nostro fuck-tual, in una mite giornata di maggio, in una clinica del New Jersey immersa nel verde, nacque Clara, mia figlia. E quindi: fragranti montagne di pannolini, omogeneizzati a decorare vestiti e pareti, ma soprattutto ore e ore passate a osservare Clara che imparava a conoscere il mondo. E come dimenticare le visite di Mike con la fidanzata di turno (che durava dalle due alle quattro settimane, con una punta massima di un mese e mezzo, ma si era trattato di Miss Luglio) in cui cercava in tutti i modi di insegnare a mia figlia il suo nome prima che Clara riuscisse a pronunciare la parola «papà»?

Nell'estate del 2009 conobbi i genitori di Annelise, Werner e Herta Mair. Non sapevamo che la «stanchezza» con cui Herta giustificava capogiri e pallore era una metastasi a uno stadio molto avanzato. Morí pochi mesi piú tardi, sul finire dell'anno. Annelise non volle che l'accompagnassi al funerale.

Il 2010 e il 2011 furono anni bellissimi e frustranti. Bellissimi: Clara che si arrampica dappertutto, Clara che chiede «cos'è questo?» in tre diverse lingue (la terza, l'italiano, Annelise la stava insegnando anche a me e me la cavavo bene, ero uno studente motivato da un'insegnante che trovavo molto sexy), Clara che, semplicemente, cresceva. Frustranti? Certo. Perché, dopo aver sottoposto a Mister Smith qualcosa come centomila progetti diversi (tutti respinti), alla fine del 2011 iniziammo le riprese della quarta stagione di Road Crew. Quella che avevamo giurato non avrebbe mai visto la luce.

Andò tutto male, la magia era persa e lo sapevamo. La quarta stagione di Road Crew è una lunga, infelice trenodia sulla fine di un'epoca. Ma il pubblico, come generazioni di copywriter sanno, adora sentirsi triste. Lo share fu migliore delle tre serie precedenti. Persino il «New Yorker» ci incensò parlando del «racconto di un sogno a occhi aperti che va in frantumi».

Cosí Mike e io ci ritrovammo esausti, apatici. Depressi. Il lavoro che reputavamo il peggiore della nostra carriera veniva osannato anche da chi fino a poco prima ci aveva trattato come appestati. Per questo nel dicembre 2012 accettai la proposta di Annelise. Passare qualche mese nel suo paese natale, un bruscolino sulla mappa chiamato Siebenhoch, Alto Adige, Südtirol, Italia. Lontano da tutto e da tutti.

Una buona idea.

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