Copertina
Autore Henriette d'Angeville
Titolo La mia scalata al Monte Bianco 1838
EdizioneVivalda, Torino, 2012 [1989], I Licheni 44 , pag. 172, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x1,4 cm , Isbn 978-88-7480-169-5
OriginaleMon excursion au Mont-Blanc
EdizioneArthaud, Paris, 1987
PrefazionePietro Crivellaro
TraduttoreSergio Atzeni
LettoreSara Allodi, 2012
Classe montagna , viaggi
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Indice


  5 LA PRIMA ALPINISTA di Pietro Crivellaro

 21 NOTA ALL'EDIZIONE 2012
    RISOLTO IL GIALLO DELL'ORIGINALE di Pietro Crivellaro

 23 INTRODUZIONE


    PARTE PRIMA. VERSO L'ASCENSIONE

 33 PARTENZA DA GINEVRA
 37 IL CASTELLO DI BONNEVILLE
 41 ARRIVO A CHAMONIX
 45 LA SCOMMESSA DI JULIEN DÉVOUASSOUD
 52 I PREPARATIVI
 57 AUTORITRATTO
 58 LE MIE GUIDE
 63 I PORTATORI
 66 I BAGAGLI

    PARTE SECONDA. L'ASCENSIONE

 73 PARTENZA DA CHAMONIX
 79 LA PIERRE DE L'ECHELLE
 82 IL GHIACCIAIO DEI BOSSONS
 87 I GRANDS MULETS
 95 CONCERTO SUI GRANDS MULETS
 99 IL BIVACCO
104 PARTENZA DAI GRANDS MULETS
109 GRAND PLATEAU
111 DAL GRAND PLATEAU AL CORRIDOR
114 DAL MURO DI GHIACCIO ALLA VETTA
119 LA VETTA
128 RITORNO DALLA VETTA AI GRANDS MULETS
133 DAI GRANDS MULETS ALLA PIERRE DE L'ECHELLE
137 RITORNO A CHAMONIX
142 CHAMONIX DURANTE L'ASCENSIONE

    PARTE TERZA. DOPO L'ASCENSIONE

149 MARIE PARADIS
155 CENA CON LE GUIDE
161 DIANE
165 PARTENZA
169 RITORNO A GINEVRA


 

 

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Pagina 5

LA PRIMA ALPINISTA

Quando, il 4 settembre 1838, Henriette d'Angeville stremata e trionfante pose piede sulla vetta del Monte Bianco, sapeva benissimo di essere arrivata seconda. Eppure l'orgogliosa gentildonna che aborriva da finzioni e bugie non se ne dava la minima pena. Poco dopo la scalata, non si vergognerà di dichiarare la sua vera età per replicare al Journal des Demoiselles, che con eccessiva compiacenza l'aveva definita "una giovane francese", e al Propagateur, che con velata perfidia l'aveva chiamata "una signorina vicina ai quarant'anni": lei reagirà proclamando di avere invece 44 anni, 5 mesi e 24 giorni, per l'esattezza. Figuriamoci se si nascondeva che prima di lei era già arrivata lassù un'altra donna, che l'aveva preceduta di trent'anni nientemeno. La cosa non la preoccupava minimamente anche perché nessuno poteva considerare una rivale Maria Paradis, un'umile montanara di Chamonix che di lì a due giorni, al suo trionfale ritorno in fondovalle, sarebbe accorsa a festeggiarla. La descrizione dell'affettuoso incontro con la vecchia contadina è qui raccontato dalla nobildonna sul finale del suo resoconto.

A dispetto dei fatti storici, non esita ad annunciare un primato assoluto il Fédéral di Ginevra, il quotidiano della città campo-base dell'impresa, dove risiedeva in quel periodo la signorina d'Angeville e dove più viva era l'emozione per la sua discussa avventura, giudicata una capricciosa follia prima dei fatti e applaudita come un atto di eroismo dopo il successo. Cosicché il foglio ginevrino dell'11 settembre 1838 scrive, sia pure con malcelato maschilismo: «Il nostro orgoglioso Monte Bianco deve sentirsi umiliato come non mai. Martedì 4 settembre, all'una e 25 minuti, ha visto la sua cima calpestata da un piede femminile. Colei che ha compiuto questa impresa inaudita negli annali del suo sesso è una francese, Mlle Henriette d'Angeville. D'ora in avanti, quando si dirà con il poeta nil mortalibus arduum [nulla è irraggiungibile per i mortali] sarà bene non dimenticare le mortali».

Fu indubbiamente più equo il Journal de Savoie, e soprattutto attento all'orgoglio locale quanto alle ambizioni dei viaggiatori, già allora attirati a centinaia dalla meraviglia dei ghiacciai. Il foglio savoiardo, riferendo delle festose accoglienze tributate all'"eroina" protagonista della "coraggiosa impresa", conferisce a Mlle d'Angeville il titolo di "prima donna straniera arrivata in vetta al Monte Bianco". Lo stesso epiteto di "prima donna straniera alla regione che sia salita sulla cima del Monte Bianco" le viene riconosciuto dal certificato ufficiale a lei rilasciato a Chamonix il 6 settembre 1838. Pur celebrando la viaggiatrice, si fa garbata allusione a un precedente primato di una donna non straniera, ovvero "l'indigena" Maria Paradis. Siamo ancora agli albori dell'alpinismo, che per i montanari è un lavoro e per i cittadini un nobile passatempo, ma già è chiara la regola del gioco fondamentale: le guide mettono la loro arte e il loro talento a servizio dei "signori" sulla base di un patto economico. Ad ascensione riuscita, se ne restano in ombra sulle loro montagne, lasciando ai clienti tornati in società il godimento simbolico del successo. Per analoga ragione a fine Ottocento l'ideologia olimpica dello sport codificata da De Coubertin riserverà tutta la gloria ai dilettanti, mettendo fuori gioco i professionisti.

A onor del vero l'innegabile prima femminile sulla vetta del Monte Bianco di Maria Paradis, compiuta il 14 luglio 1808, non era stata propriamente una prodezza, portata a termine con eleganza di stile. La poveretta, che all'epoca aveva ventotto anni e faceva la serva, era stata convinta all'ascensione da amici guide, praticamente inattivi da anni a causa delle guerre napoleoniche che congelarono il turismo già fiorente a fine Settecento, fino alla svolta di Waterloo. Una delle guide della spedizione del 1808 era il grande Jacques Balmat, colui che aveva accompagnato il dottore compaesano Michel-Gabriel Paccard nella prima vittoriosa ascensione all'ambitissima vetta, riuscita dopo anni di inutili tentativi nel 1786. La volta di Maria Paradis, che fu l'ottava ascensione assoluta, Jacques Balmat portò con sé anche due figli, Ferdinand e Jean Gédéon, che aveva quattordici anni. Nell'ultimo tratto la donna ormai stremata, venne letteralmente spinta, trainata e portata di peso in vetta dalle guide, dove giunse più morta che viva. Fu insomma un'esperienza orribile, dettata dalla povertà e dalla speranza di ottenere così mance dai forestieri curiosi.

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Pagina 23

INTRODUZIONE



Nei mesi di luglio e agosto del 1838 visitai le valli di Montjoie e di Chamonix, attraversai tutte le località notevoli di quelle contrade e conclusi il viaggio con escursioni al Mont Joli e al Jardin. Neppure in una delle gite sentii la fatica di cui si lamenta la maggior parte dei viaggiatori, forse grazie alla mia buona fibra, fortificata dall'aria pura delle montagne dove vivo, forse per l'abitudine contratta in gioventù di valicare gli erti pendii e le forre profonde del paese natìo.

Ero ai piedi del Monte Bianco; non potevo stargli così vicina senza che in me si ridestasse, e con più forza che in passato, l'antica tentazione di scalarlo.

Ci sono persone per le quali fra il formarsi di una risoluzione e la sua esecuzione c'è soltanto il tempo necessario ai preparativi. Appartengo a questa razza, lo riconosco, non per vantarmene, non ignoro le divergenze di giudizio, so bene che ciò che alcuni chiamano carattere e risolutezza per altri è soltanto fretta temeraria.

Tornata a Ginevra confidai il progetto a pochi intimi; la voce si sparse velocemente e divenne la notizia del giorno. Conosco pochi luoghi dove la gente sia migliore che a Ginevra, dove le relazioni, una volta stabilite, siano più solide, e dove sia più raro il malanimo nei rapporti fra le persone. Ma bisogna anche riconoscere che là più che altrove si ama inquadrare tutti negli schemi tradizionali, e nulla sbalordisce più di un'azione che fuoriesca dai solchi della vita abitudinaria e ordinata.

Quando fu noto dunque che la signorina d'Angeville, appena rientrata da Chamonix, voleva tornarvi per tentare la scalata del Monte Bianco, ci fu un urlo collettivo di stupore e disapprovazione, la cui prima frase era, immancabilmente: «Ma che idea stravagante!», e la seconda: «Dobbiamo impedirle di attuare tal follia».

I visitatori cominciarono subito a mettersi in cammino per venire a scampanellare alla mia porta a qualunque ora; dapprima per verificare la veridicità della notizia, poi per sottopormi al supplizio di un interrogatorio vero e proprio.

«Perché quest'improvvisa inclinazione per i viaggi?»; «Rientraste or ora da Chamonix e volete riandarvi?»; «Perché?»: è una parola piccola ma molto indiscreta quando a pronunciarla sia altri che un buon amico; tuttavia qui proverò a rispondere a tutti i perché rivoltimi a proposito della mia spedizione al Monte Bianco.

Così al primo perché rispondo: è in relazione con i bisogni dell'anima, e con quelli del corpo, diversi da individuo a individuo; voler enunciare al proposito leggi generali è altrettanto irragionevole che voler sottoporre persone di costituzione debole allo stile di vita dei forti, o viceversa.

Ad alcuni si confà la vita tranquilla e dolce dei campi, ad altri il tumulto delle grandi città e le distrazioni sfavillanti delle mondanità; uno brama le penitenze del chiostro, un altro è attirato dagli studi; e qualcuno cerca la vita attiva e svariata offerta dai viaggi. Insomma, ciascuno accorda il suo modo di vita con le sue inclinazioni morali o intellettuali.

Domandare a colui che ama i viaggi «Perché parti?» è altrettanto strampalato che chiedere a chi ama la vita appartata «Perché resti a casa?». Perché mi procura piacere, o gioia, risponderanno l'uno e l'altro, naturalmente.

Perché non ho scelto come meta i luoghi dove tutti vanno? La Svizzera, e l'Italia, per esempio?

Per quante precauzioni si prendano, non esiste viaggio che non trascini con sé una miriade di piccole contrarietà, che secondo me possono essere compensate soltanto dal fascino del nuovo che non riesco a trovare percorrendo paesi cento volte descritti, i cui luoghi pittoreschi son stati dipinti con precisione, i diversi costumi descritti, i canti nazionali raccolti.

Dico di più: quando grazie alle letture e alle testimonianze dei viaggiatori ho già provato tutte le emozioni che quei paesi possono provocare, temo che la realtà dissolva l'incanto delle idee che me n'ero fatta, incanto che vive sempre come effetto di un po' d'illusione.

Ecco perché non mi attira un viaggio in Svizzera o in Italia, mete consuete dei turisti. Perché il Monte Bianco? Sulla scelta del tipo di viaggio ripeto quanto prima dicevo sull'inclinazione spirituale che spinge ciascuno a scegliere un modo di vita peculiare: è nuovamente un modo di affermare l'individualità. Io sono fra coloro che alle scene pittoresche e graziosissime che la natura sa offrire preferiscono gli spettacoli grandiosi... Ecco perché ho scelto il Monte Bianco. Aggiungo che pochissimi viaggiatori l'hanno esplorato, alcuni dei quali hanno redatto relazioni delle loro ascensioni, dove si trova quanto basta a stimolare la curiosità, senza spegnerla. Inoltre: il modo di vedere e di sentire femminile è diverso, talvolta di gran lunga, da quello maschile e, quando sono andata sul Monte Bianco, questo non era ancora stato visitato da una donna capace di valutare le sue impressioni. Infine: era a venti leghe, e in casi simili la vicinanza ha qualche valore: non toglie nulla al piacere del viaggio e ne diminuisce lunghezza e fatica.

«Quando nacque l'idea?» Dieci anni prima. Il progetto un mese prima, la decisione quindici giorni.

«Perché avete atteso che la stagione fosse tanto avanzata?»... «Agosto era meglio di settembre e voi eravate a Chamonix proprio in quel mese»...

I quindici giorni trascorsi fra decisione ed esecuzione non sono tanti, se si devono fare i preparativi per una spedizione del genere. Non si va alla corte del Re delle Alpi in abito di seta e cappello di garza; è visita che impone abbigliamento più austero.

Perché non rimandare la spedizione al 1839?

Nel 1838 la volontà è salda, il piede sicuro; c'è stato un primo viaggio alpino, le escursioni sul Mont Joli, al Jardin, sono presagi di successo per un volo più audace. Chissà cosa porterà il 1839... ah! Gli anni! Gli anni! Sono come i giorni: si susseguono, non si somigliano.

Questi perché non erano l'unico tormento; vi si aggiungevano le profezie più tremende: avrei avuto la stessa sorte del dottor Hamel; sarei tornata con i piedi congelati come il conte di Tilly; la mia vista dopo tale spedizione sarebbe stata rovinata per sempre; sul Monte Bianco avrei avuto nuovamente le palpitazioni, che una volta avevo avuto, in passato; giunta a una certa altezza sarebbero state necessarie tre inspirazioni per un solo respiro; un vaso sanguigno mi sarebbe scoppiato in petto, e in quel caso avrei dovuto o ridiscendere o morire; l'aria rarefatta mi avrebbe fatto zampillare il sangue dagli occhi, dal naso, dalle orecchie; forse durante il tragitto m'avrebbe assalito la tempesta; quando pure arrivassi in cima, era più che probabile che s'avviluppasse di nubi vanificando così lo scopo del mio viaggio. Poi mi si chiedeva di mostrare l'abito che avevo fatto preparare per l'impresa; tutti lo soppesavano, e garantivano che con una corazza così pesante non avrei potuto camminare neppure per mezz'ora!

Esasperata da domande e profezie infauste, non trovai che un modo per sfuggirvi: «Jeannette, se qualcuno chiede di vedermi, direte che sono uscita».

«E le vostre amiche? Si dovrà mandar via anche loro?»

«Nessuna eccezione.»

Dal momento in cui ho dato l'ordine, ho vissuto senza più oppositori.

Quanto ai sostenitori, furono pochi.

Uno in famiglia.

Un altro fra gli amici.

E fra i venticinquemila abitanti di Ginevra avrei potuto citarne fino a tre.

Totale: cinque!

Ma da quando il successo ha arriso alla mia impresa, tutto è cambiato: gli ammiratori abbondano; l'insigne follia si è mutata in eroica passeggiata che deve rendere immortale il nome di colei che l'ha affrontata con tanto coraggio: familiari, amici ed estranei non smettono di ripetermi che questo viaggio - tanto straordinario per una donna - sarebbe incompleto se non ne facessi un resoconto pubblico.

Scrivere per la famiglia e per gli amici è dolce per il cuore e gradevole per l'intelligenza, la penna corre veloce, i pensieri si accalcano, i ricordi riappaiono intatti nella loro freschezza e vivacità; e la certezza che i vostri racconti saranno accolti con interesse e benevolenza qualunque sia il loro valore, gli dà un che di grazioso abbandono, li rende affascinanti anche quando sian privi di uno stile elegante e corretto.

Ma è ben difficile scrivere con naturalezza quando ci si sente di fronte al pubblico, giudice che talvolta s'infatua, è vero, ma troppo spesso trova da ridire, critica e canzona... Quando non gli si possa offrire, come risultato d'un viaggio, neppure una osservazione scientifica, nessuna descrizione completamente nuova (perché sullo stesso tema sono già apparse numerose relazioni interessanti), e quando non si ha alcun titolo per diventarne il beniamino, e nessuna consorteria vi esalta; quando si è donne, e di provincia per di più, bisogna essere temerarie per dirgli: «Ecco la mia opera».

Quindi scriverò per amici e familiari, non per il pubblico.

Ma insistono, mi fanno notare che non si deve confondere il pubblico con i lettori che in un'opera cercano soltanto i difetti sparsi qua e là nel testo e si dilettano a metterli in risalto e a esagerarli; che il racconto del mio viaggio non è opera d'accademia, e che il suo interesse è ben lungi dall'essere esclusivamente letterario; che se dirò il vero ed esprimerò i miei pensieri con semplicità e naturalezza, il pubblico autentico me ne renderà merito e chiuderà gli occhi su qualche difetto di stile, biasimevole soltanto se si è scrittori di professione...

Questi ragionamenti mi paiono incontestabili: scriverò, e darò alle stampe.

Con quale progetto?... A questo proposito i pareri abbondano, e divergono; uno dice: «Impugnate subito la penna, ora che i vostri ricordi sono ancor vivi». Un altro: «Datevi il tempo di giudicare la spedizione nella sua interezza, e di vedere cosa sopravviverà nella memoria». Un terzo: «Non omettete alcun dettaglio e spiegate con precisione tutte le vostre sensazioni fisiche e morali: in ciò consisterà l'interesse del vostro racconto». Il quarto: «Guardatevi dall'affogare la narrazione del fatto principale in una marea di piccoli dettagli secondari: voler dire tutto è il segreto per annoiare». La quinta: «Non ascoltate i pareri di nessuno, men che mai quelli d'un uomo: questa cronaca deve avere un'impronta femminile». Il sesto: «Rendete brillante la descrizione, una spedizione così aerea è quasi un poema, dunque non raccontate soltanto e prosaicamente i fatti». Il settimo: «Seguite liberamente la vostra ispirazione, e soprattutto nessuna pretesa fuoriposto; allora sarete vera, sarete voi stessa».

Con quest'ultimo consiglio interrompo l'elenco; da tutti quelli che mi son stati dati prenderò ciò che hanno di buono. Quindi per scrivere ho atteso l'ora della riflessione, senza però lasciar trascorrere il tempo fino all'oblio delle emozioni vivaci del primo momento; ho detto tutto ciò che m'è parso possa interessare, e ho conservato nell'anima le emozioni più personali e intime, che non mi illudo di riuscire a rendere condivisibili. Non ricorrerò a sensazioni artificiose, ma se talvolta la mia immaginazione si è esaltata di fronte ai grandi spettacoli della natura, perché temere di farlo trasparire?

Prendo in mano la penna, dunque, senza alcun metodo predeterminato, ma coll'intenzione ben ferma d'esser vera e coscienziosa. Può darsi che questa piccola relazione abbia qualche interesse per coloro che già conoscono quelle belle montagne, o qualche utilità per quanti più tardi si proporranno di esplorarle.

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DAL MURO DI GHIACCIO ALLA VETTA

Un proverbio cinese dice: «Quando si devono fare dieci passi, nove sono metà del cammino». Questo aforisma è stato dimostrato rigorosamente dalla mia ascensione al Monte Bianco.

La vigilia mi ero inerpicata sui roccioni del Mimont, avevo superato il ghiacciaio dei Bossons e avevo fatto con facilità numerosi movimenti ginnici. Nelle ultime ore avevo valicato abissi su piccoli ponti di neve, attraversato valanghe cadute la vigilia passando sotto masse nevose che potevano cadere in quel momento, avevo visto senza timore i seracchi minacciosi sospesi sulla testa e avevo superato grandi e piccole salite bene come nessuna guida. Arrivai quasi senza stanchezza ai nove decimi del percorso e credevo quindi d'essere ai nove decimi dell'impresa. Si vedrà invece come il successo stesse per sfuggirmi quasi alla fine e contro quale strano nemico abbia dovuto combattere a quelle altezze.

Cominciammo la scalata in quest'ordine: in testa Mugnier, poi Couttet, io terza, il portatore Simond quarto, poi le altre cinque guide, nello stato fisico malandato che ho appena descritto. Là più che bastoni servivano ringhiere; la topografia dei luoghi indica quanto si sia dipendenti soltanto dal proprio coraggio.

Non avevo scalato venti gradini di ghiaccio che dovetti fermarmi perché mi trovavo in una condizione assolutamente straordinaria: il cuore batteva come volesse spaccarmi il petto, le energie di braccia e gambe sembrava si fossero sciolte per lasciar posto a un torpore letargico, la testa era preda di una sorta d'ondeggiamento, e un sonno di piombo pesava sulle palpebre... Dovetti cedere.

«Devo dormire un attimo,» dissi a Couttet «mi sento nelle nubi.»

«Ancora qualche passo.»

«Impossibile.»

Ebbi appena il tempo di voltarmi e lasciarmi scivolare su uno degli scalini: mi trovai nello stesso tempo seduta e addormentata.

Dopo due minuti il capo spedizione mi svegliò. Ricominciai a scalare. Un momento dopo, situazione identica, stesso bisogno imperioso di sonno. Feci uno sforzo per poter scalare ancora venti gradini, al termine dei quali ricaddi addormentata, e così goffamente che rischiai di rotolare fin giù.

«Una corda, una corda» disse Couttet. Gli fu tesa, mi legò saldamente e ne diede un capo a Mugnier; poi mi svegliò e ci rimettemmo in marcia, con la certezza, perlomeno, che non avrei potuto provocare una caduta fatale non soltanto per me ma per tutti quelli che mi seguivano su quella gradinata quasi perpendicolare.

Nuovo sonno, nuovo risveglio, nuovi sforzi, stesso malessere dopo qualche istante: impossibile assolvere il compito dei venti scalini; ci volle un immenso zelo per arrivare a quindici o sedici, perché le palpitazioni diventavano così violente da soffocarmi.

Durante quella fermata sentii Couttet lamentarsi; quei sopori, così ravvicinati, minacciavano di farci andare molto lenti e lo preoccupavano. «Si mette male!.. Si mette male!» diceva. «Ecco che si riaddormenta. Non porterò mai più donne sul Monte Bianco.» I sedici scalini divennero quattordici, poi dodici, poi dieci: rispettai quel ritmo, ma con sforzi di volontà che non possono esser capiti da chi non ha provato quel tipo di sofferenza. Mentre combattevo mi pareva d'agonizzare.

Dal terzo passo le palpitazioni diventavano soffocanti; il sonno si faceva più intenso man mano che diminuivano progressivamente le forze che sarebbero servite a combatterlo. Le braccia e le gambe si intorpidivano sempre più. Una sete insaziabile, che nulla poteva spegnere, mi dava un'angoscia ulteriore; il polso era impazzito; le forze mi abbandonavano; sentivo senza sentire, vedevo senza vedere... Ma mi restava ancora una facoltà morale che può tutto: la volontà. Soltanto la volontà poté galvanizzare (per così dire) il corpo caduto in letargo!... Fui sconfitta forse trenta volte da quel sonno agonico; trenta volte mi rialzai per andare verso la meta che m'ero prefissa.

Per un istante credetti che la vittoria stesse per sfuggirmi. Ho detto che mi servivano pressappoco due minuti di riposo a ogni fermata. Una volta si tentò di accorciare il tempo ma non guadagnai alcunché: non avevo fatto tre passi che ripiombai in un tale stato di debolezza da far temere che non avessi più la forza di rialzarmi.

«Se muoio prima d'aver raggiunto la vetta promettetemi di portare lassù il mio corpo e di lasciarcelo» dissi con gli occhi socchiusi.

«State tranquilla, ci arriverete, morta o viva.»

Dopo questa promessa mi riaddormentai profondamente; sentii Couttet che mi chiamava, non potevo rispondergli né fare un movimento. Stavo così bene in quel posto che mi pareva più facile sollevare il Monte Bianco che non me stessa.

«Se la si portasse?» chiese Mugnier. «Me ne occupo io, ho ancora la forza per farlo. Signorina, volete essere portata?» Quelle parole mi trassero dal torpore e fecero agire la volontà. «Non voglio essere portata,» risposi «ho l'intenzione di fare l'ascensione con le mie sole gambe; bel merito, veramente, andare sul Monte Bianco in groppa d'altri!...» Mi rialzai e mi rimisi subito in cammino... Il timore di subire quell'affronto mi aveva ridato le forze; feci più del mio compito, ma ben presto dovetti cedere e ricominciare sonni regolari ogni dieci passi.

Infine, di sopore in cammino e di cammino in sopore, finii per raggiungere la sommità del muro di ghiaccio. Vi trovai Stoppen che faceva anche lui una sosta per riposarsi. Espressi stupore perché non aveva un vantaggio più consistente e mi disse d'aver fatto per scelta ciò che io facevo per necessità, cioè una pausa di qualche minuto ogni dieci o dodici passi. Aveva contato i gradini della scala di ghiaccio e mi disse ch'erano trecentocinquantaquattro. Mi fece i complimenti per quella vittoria che non credeva avrei mai raggiunto, dopo aver visto come stavo. Mi disse che molte volte si era trovato abbastanza vicino da vedere il mio viso in uno stato così convulso che ogni volta aveva creduto che quella fermata sarebbe stata l'ultima e sarei stata costretta a ridiscendere.

Dopo un quarto d'ora di riposo e qualche minuto di buon sonno mi sentii meglio e chiesi di riprendere il cammino. Fui risistemata fra i due bastoni, tenuti da Couttet e Pierre Simond. Andai bene finché camminai sulla superficie piana che separa il muro di ghiaccio dalla calotta del Monte Bianco, ma non appena ricominciai a salire riprovai gli stessi malesseri, per quanto di grado meno intenso: palpitazioni, sete, sonno, muscoli privi d'energia: in breve, tutta la coorte!... Che però permetteva — invece di dieci — venti o venticinque passi; gli ultimi li feci addormentata.

Visto lo stato di debolezza in cui mi trovavo ci voleva una buona dose d'intelligenza per dirigere bene i bastoni nelle svolte: il minimo movimento falso mi faceva vacillare. Altrettanto dicasi per la corda: ero ben contenta di sentirmi sostenuta, ma bisognava non servirsene per trascinarmi su: in quel caso cadevo col naso sulla neve. Dovevo dunque avanzare lenta, sentendo d'aver punti di appoggio, ma senza aiuto attivo, che m'avrebbe soltanto spossato, forzandomi a prendere un'andatura che non poteva essere la mia.

Così salii lenta verso l'obiettivo. Ero preda di uno dei sopori ostinati quando sentii la voce di Couttet che mi diceva: «Coraggio! Ecco la vetta! Questa volta ci siamo!...». Sollevai la testa con vivacità e vidi veramente la vetta a trenta o trentacinque passi. Elettrizzata dalla vicinanza mi rimisi subito in piedi e corsi, più che camminare, verso la conquista tanto agognatal... Mancavano forse tre passi, ma non riuscii a farli, ricaddi folgorata da quel sonno incomprensibile!...

Mi furono permessi cinque minuti di riposo; al risveglio mi feci slegare dalla corda ormai inutile e rifiutai anche i bastoni per fare da sola, senza alcun soccorso estraneo, i tre passi che mi separavano ancora dalla vittoria.

All'una e venticinque minuti il mio piede calcò finalmente la vetta del Monte Bianco e piantai il bastone alpino sulla sua groppa, come un soldato inalbera il suo stendardo sulla roccaforte conquistata d'assalto.

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