Copertina
Autore Michele d'Arcangelo
Titolo Masaniello. Il re dei lazzari
SottotitoloStoria di una rivoluzione tradita
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2010, , pag. 408, cop.fle., dim. 14x21x2,7 cm , Isbn 978-88-7937-476-7
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe citta': Napoli , paesi: Italia: 1600 , storia sociale , movimenti
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«L'antica e real città di Napoli, un anfiteatro con il suo doppio ordine di alture, Posillipo, il Vomero, il Vesuvio», così la definiva Ottavio Beltramo in un suo trattatello secentesco, ai tempi di Masaniello era una metropoli di quattrocentomila abitanti, in assoluto la città più popolosa d'Europa, dove splendore, magnificenza, cultura, sopraffazione, indigenza e miseria convivevano in una perversa armonia.

Da una parte c'erano la bellezza del paesaggio terrestre e marino che offriva al forestiero una visione fiabesca, i magni palacji allineati lungo la Strada capuana o lungo i decumani, le ville maestose con portici, giardini e parchi ornati di piante e fiori di ogni specie, gli imponenti castelli, i monumenti, le chiese, i conventi, le opere d'arte, la maestria indiscussa dei musici e dei cantori, la genialità dei letterati, l'arguzia dei principi del Foro. Dall'altra, la povertà di un popolo sottomesso, costretto a vivere di stenti, che non riusciva a mettere sui fornelli nemmeno un pignato maritato, l'ingiustizia praticata come un diritto dai viceré spagnoli, dalla classe nobile, dagli arrendatori (dallo spagnolo arrendar, riscuotere gabelle), dagli esattori di ogni risma.

Eppure, nelle sue stridenti contraddizioni, questa Napoli soggetta al repressivo neo-feudalesimo della controriforma iberica, vantava la fama di essere la città più allegra e spensierata d'Europa, tanto da essere meta costante di viaggiatori insigni, conquistati dal fascino di quel vivere diverso, che non sembrava esagerato definire "ultraterreno".


È quindi indispensabile, per meglio capire la vita di Masaniello, penetrare nella composita e cruda realtà sociale, politica, urbanistica e religiosa della Napoli secentesca, dominata dalle sette caste nobiliari: principi, duchi, marchesi, conti, baroni, patrizi e signori. Coloro che non facevano parte della nobiltà erano considerati plebaglia, anche se honorati cittadini.

Di quei quattrocentomila residenti che affollavano la capitale, i due terzi erano sudditi affamati e cenciosi, una "razzumaglia" vittima di quel sistema basato sulla soperchieria, costretta a campicchiare di espedienti, ruberie, elemosine, lenocinio, prostituzione, pederastia, senza neppure un tetto sulla testa, ridotta a dormire all'aperto, sui gradini delle chiese, negli androni, nei verminai bui e puzzolenti, in grotte e rifugi di fortuna infestati da cimici e zoccole, sotto i banchi del mercato vecchio o del "mercatello", uno slargo formato dall'innesto tra le mura aragonesi e quelle vicereali, dove si teneva il commercio delle biade e il maneggio dei cavalli, oppure alle marine, usando le barche capovolte, tirate in secco, come riparo alle intemperie. I più poveri tra i poveri, i cecati, gli scartellati, gli `nzallanuti, esausti e senza più speranze, finivano morti per terra, pasto delle mosche e dei roditori sortiti dalle cloache del Lavinaro.

In una società così strutturata, erano frequenti i fenomeni di delinquenza, di ribellione o di violenza collettiva, contro cui non c'era altra difesa da parte degli artieri, gli artigiani e i bottegai, che le grida di "serra, serra", nella speranza di evitare il saccheggio dei loro negozi o laboratori.

I palazzi dei ricchi non correvano rischi perché ben fortificati e protetti da soldataglia di ventura.

Non vanno esclusi da questa moltitudine diseredata coloro che per vivere entravano a servizio degli aristocratici e dei borghesi (cocchieri, camerieri, cuochi, stallieri, faccendieri), pur senza percepire alcun salario, contenti di ricevere in cambio dei loro umilianti servigi, vitto, alloggio e una bella livrea da sfoggiare in giro per la città con protervia e arroganza.

L'altro terzo della popolazione era costituito dalla Buona classe e dalla Piccola classe che, seppure emarginate e tenute lontane da ogni pubblico incarico, possedevano più ricchezze, a volte, di quei blasonati che detenevano il potere assoluto. La Buona classe era formata da notai, magistrati, avvocati, alti funzionari statali, ufficiali dell'esercito e della gendarmeria, arrendatori, esattori, commercianti, imprenditori, armatori, medici e speziali. Della Piccola classe facevano parte impiegati, militari, poliziotti, operai, pescatori, negozianti, ambulanti, osti e tavernieri, artigiani della seta, calzolai, cuoiai, sellai, barbieri, panettieri, boccieri, trippaioli, vermicellari, pollieri, ortolani, candelai, barcaioli, falegnami, ferrai, imbianchini, muratori, impalcatori, suonatori, pozzati, chiavicari, tutti impegnati a servire la corte e il potentissimo patriziato urbano oltremodo numeroso. Non vanno, inoltre, esclusi i cosiddetti foranei, cioè gli operatori stranieri presenti in città: spagnoli, catalani, genovesi, fiorentini, lucchesi, lombardi, tedeschi, greci, gaetani, aierolani, catanesi e messinesi.

I genovesi e i pisani rappresentavano il nucleo più numeroso. Si occupavano di finanza e commerci, avevano uffici e alloggi in Largo delle Coreggie, nel quartiere che ruotava intorno alla chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Erano anche proprietari di locande e ostelli.

Anche i fiorentini erano una comunità vasta e popolavano la zona compresa tra via Medina e via Toledo. Erano dediti al commercio dei prodotti artigianali e alla tenuta dei maggiori istituti di credito.

Gli ebrei, i "marrani", malvisti da tutta la popolazione per la loro attività di usurai, risiedevano intorno al Borgo di Sant'Antonio Abate, chiamato dai napoletani "la Giudecca". Essi si erano ridotti a poche centinaia dopo le purghe subite alla fine del Cinquecento e nei primi vent'anni del Seicento.


Già dall'inizio del secolo, l'aristocrazia partenopea contava centoventicinque principi, centoventotto duchi, centottantacinque marchesi, sessantadue conti e mille baroni; una vera inflazione di titoli e corone.

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A servire questo dilagante fiorire di basiliche, cattedrali, chiese, cappelle, abbazie, conventi, romitori, eremi, c'era un esercito di oltre ventimila religiosi, tra monsignori, preti, frati, suore e chierici, difficilmente gestibili sia dalle autorità civili, sia dall'Arcivescovado, sia dal Nunzio apostolico, in quanto la maggior parte di loro si era formata alla scuola della Controriforma del Concilio di Trento e mal tollerava l'ingerenza del papato romano nelle loro congregazioni.

Infatti, per evitare gli effetti della riforma protestante di Martin Lutero, in seno alla Chiesa cattolica si stava verificando un benefico ritorno umanistico alla letteratura cristiana patristica e a quella che allora veniva chiamata "teologia positiva", tendente a umanizzare e popolarizzare i concetti filosofici del pensiero religioso che fino al Cinquecento erano di esclusiva competenza del clero.

La dottrina primaria dell' Ecclesia, espressa dai vangeli, tornava a farsi strada non solamente tra i teologi più illuminati, ma anche tra la gente comune, che nella predicazione del verbo di Cristo si ritrovava non quale spettatrice, bensì come autrice del Credo: non più il popolo servo della Chiesa, ma la Chiesa serva del popolo.

Om questo clima di liberalità fraintesa, cardinali e vescovi napoletani si trovavano costretti ad affrontare due problemi etico-religiosi di non poco conto: la simonia e il libertinaggio, che venivano praticati all'interno degli eremi maschili e femminili, diventati case di commercio e ricettacoli di amori clandestini e scandalosi.

Non c'erano preti di un certo rango o priori che non mantenessero concubine "a maggior gloria di Dio"; il fenomeno era così diffuso che il voto di castità pronunciato al momento dell'investitura sacerdotale era più un proposito che un sacro giuramento.

Se i preti e i frati vendevano indulgenze e sacre reliquie, le spose di Dio avevano trasformato i loro chiostri in vere e proprie botteghe artigiane. In alcuni di essi si confezionavano abiti maschili, femminili e stupende parrucche secondo la moda francese. In altri, come il monastero di Donnaromita, si preparavano squisiti dolciumi, cioccolatini, pan di Spagna e foglie di rose candite. In Santa Caterina da Siena, venivano fatti tagliolini di pasta all'uovo più sottili dei capelli, in San Potito, la migliore torta pasqualina detta casatiello.

Tutto questo alla luce del sole. Appena calavano le tenebre, le immacolate monacelle si trasformavano in sfrenate baccanti, disposte al più licenzioso libertinaggio. Erano decine i giovani patrizi e perfino plebei che valicavano indisturbati le mura di quelle badie, per intrattenersi in amorosi convegni con le consacrate a Gesù.

Il fenomeno aveva assunto dimensioni a tal punto preoccupanti, soprattutto per i continui abortì e infanticidi, che le autorità religiose, d'accordo con quelle civili, decisero di costituire un corpo speciale di scoppettilli, guardie armate di schioppetti, per vigilare i cenobi più a rischio. Naturalmente accadde che, in cambio di sostanziose mance, molti di costoro facessero finta di non vedere chi, nel cuore della notte, "salticchiava e' mura".

A trarre tornaconto da questa babele ecclesiale furono i viceré spagnoli che, forti del loro potere, si erano eretti a protettori del clero ribelle, colpito dalle dure sentenze della Curia romana, la quale si lamentava non soltanto per la scandalosa condotta dei religiosi partenopei, ma anche per l'indegno mercimonio che questi facevano, sfruttando impunemente le rendite dei seminari, delle congregazioni, delle grandi abbazie, delle chiese, dei conventi, tramite l'immondo commercio delle indulgenze plenarie, delle sacre reliquie di cui ogni luogo di culto abbondava (molte di queste venivano perfino falsificate con parti di scheletri rubati negli ossari dei camposanti): il sangue di san Gennaro, la testa di san Massimo Maria Cumano, il braccio di san Taddeo, la mandibola di san Giovanni Battista, la costola di san Paolo, i frammenti della Santissima Croce e perfino il bastone pastorale di san Pietro.

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Ma non era questa scomoda, bizzarra e incontrollabile presenza sacerdotale e monacale la vera e dolorosa spina nel fianco del vicereame e della nobiltà partenopea, bensì il popolo napoletano, mansueto e credulone in superficie, pronto, però, a esplodere all'improvviso come il Vesuvio, travolgendo e distruggendo tutto. Poco importava a quei diseredati figli del mare e de nisciuno che il potere finisse sempre con l'avere il sopravvento; quel che a loro importava era l'infliggere, di tanto in tanto, al patriziato e al vicereame ferite profonde, difficilmente rimarginabili.

Non tutte le sommosse, però, avevano sortito risultati negativi; già dai primi anni del Seicento qualche piccolo passo avanti era stato fatto e il popolo aveva ottenuto più civili condizioni di vita, sentenze giudiziarie più eque e riuscì perfino a essere rappresentato da un suo eletto, pur se questi veniva scelto dal viceré dopo un complesso sistema di estrazioni a sorte. Una volta era saltato fuori il nome di Masaniello, un lazzarone non ancora famoso, che l'addetto al sorteggio fu lesto a fare sparire rimescolando la scheda nell'urna e borbottando:

«E chi lo conosce a questo».

L'eletto del popolo, chiunque fosse, onesto o disonesto, sincero o ipocrita, aveva una vita difficile perché non doveva soltanto vedersela con i nobili che l'osteggiavano e minacciavano, ma pure con la plebaglia scontenta se non riusciva a ottenere quanto chiedeva, pronta a tendergli imboscate o a dargli fuoco alla casa.

Se quel popolo vessato e tiranneggiato rappresentava la maggioranza degli abitanti di Napoli, perché nessuna sommossa o ribellione, era riuscita a liberarlo dal giogo che l'opprimeva?

Il popolo, seppure pronto al confronto, non era preparato alla guerra e non aveva armi adatte per fronteggiare gli schioppi e gli archibugi dei soldati e della gendarmeria. Tutt'al più esso poteva condurre una guerriglia, godendo delle zone franche nei bassi e nei fondachi, dove i miliziani spagnoli si rifiutavano di entrare, certi che sarebbero stati bersaglio di tutto quello che agli abitanti capitava sottomano: acqua bollente, mobili, pietre, pece e perfino escrementi contagiati dal tifo e dal vaiolo, infezioni che le truppe reali temevano più delle spade e delle lance.

I bassi erano le abitazioni plebee costruite a livello della strada, dotate di un'unica apertura che serviva da porta e da finestra. Erano composti da un solo locale contenente la cucina, il letto e la latrina.

I fondachi, invece, erano alloggi sorti intorno a qualche cortile, lurido e buio, poco più che dei porcili.

Il rione con gli abituri più temuti dai soldati spagnoli era quello del Mercato vecchio, con il suo dedalo di stradine: vico dei Cangiani, dopo Sant'Eligio, vico degli Spicoli, vico delle Barre, il fondaco di Cenatiempo, così detto dalla famiglia che vi aveva il suo palazzo, vico dei Berettai, una volta de' Scannasorici o de' Parretari, perché vi si facevano le pallottole per le baliste, vico dei Lioni, contrada dei Lanaioli, vico Rotto al Mercato, dove al primo piano avevano casa gli Amalfi e che stava proprio al centro di un serpaio di arrendatori, affittatori, gabellieri. Infatti, poco dopo il vicolo, c'erano gli uffici dell'arrendamento di Piazza Majure, l'arrendamento del grano a rotolo, i dazi per il consumo degli animali, delle carni fresche e salate, della provola e di ogni altro genere di formaggi. C'era pure la Pietra del pesce dove gli esattori si accanivano a tassare anche il pescato minore. Un poco più avanti, in fondo alla strada del Lavinaro, si apriva, con le sue due torri, Porta Nolana, in cui aveva sede la più lucrosa gabella della farina, diretta al tempo di Masaniello dal crudele Gerolamo Letizia, uno degli arrendatori più spietati e ricchi.

Tra tutte queste gabelle, un buon terzo del popolo napoletano sbarcava il lunario arrangiandosi, confidando nella fortuna e nel malaffare: erano all'ordine del giorno le ruberie, la prostituzione, le truffe, il contrabbando esteso a tutte quelle merci o derrate alimentari soggette a prelievo fiscale. Siccome quella pratica truffaldina rendeva molto denaro, la esercitavano anche i nobili caduti in disgrazia, come il marchese di Fuscaldo e il conte di Conversano, diventati di seguito i più ricchi tra i ricchi, tanto da potersi permettere di corrompere i gabellieri che mai fermarono un carico a loro destinato.

«Alt! Cosa trasportate nel carro? Scendete, tirate giù il telone che dobbiamo controllare nel nome di sua Grazia il viceré di Spagna».

«E che volete che trasporti? Poche cose per la mensa del marchese di Fuscaldo».

«Ah, buon'anima generosa il marchese! Passate pure e non vi disturbate a scendere».

Così andavano le cose alle porte daziarie per chi poteva permettersi di mantenere sui propri libri paga agenti e superiori.

Perfino i frati del convento di San Martino contrabbandavano, e una volta che furono scoperti respinsero l'attacco della gendarmeria armati di spiedi, mazze, forconi e picche.

Questo accadeva perché gran parte delle derrate agricole e delle merci provenivano da fuori, a volte da molto lontano.

Dalla Calabria si importavano sedano, limoncello, profumo di gelsomino, guarnaccia, cerella e centola. Dalla Puglia grano, orzo, mercanzie venute dall'Oriente e sbarcate nel porto di Bari. Dalla Sicilia venivano grano duro, agrumi e sorra. Da Avellino le famose nocelle. Da Sorrento, Vico, Capua, Sessa e Fondi arrivavano noci, mozzarelle, beccafichi, quaglie, prosciutti e triglie. Da Nocera e da Nola soppressate, pomodori, salse, conserve e le famose campane. Dalle Canarie, via mare, cacciagione di ogni genere, che arrivava viva in porto e venduta a prezzi stratosferici. Dalla Spagna arrivavano sgombri, sardoni, sotto'olio e sottosale, saracche, lumache, banane, noci di cocco, manghi e avocado, biscotti e cioccolata.

Tutti questi beni andavano a rifornire negozi e botteghe di generi vari esistenti a Napoli, soprattutto quelli di alimentari: duecento verdurai, duecento macellai, trecento pizzicagnoli, quattrocento panettieri, centocinquanta maccheronai, duecento salumai e cento magazzini di vinai, oltre le centinaia di rivendite al minuto.

Oltre a coloro che si dedicavano al malaffare, c'era però anche una gran parte di popolo laborioso, dedito ai più svariati mestieri; i commercianti e gli artigiani rappresentavano la parte più attiva della città, in quanto intorno a loro ruotavano migliaia di manovali e garzoni che venivano avviati alle professioni nobili: fabbro, falegname, stipettaio, idraulico, cordaio, pettinatore, tessitore, ricamatore, vetraio, imbianchino e anche pittore su commissione, come lo Spagnoletto, al secolo Josep de Ribera, famoso per i suoi dipinti su rame eseguiti a ornamento della cappella del tesoro di san Gennaro, e il geniale Cosimo Fanzago.

Gli artigiani, raggruppati secondo l'arte che professavano, erano divisi in due grandi corporazioni: quella alimentare e dei piccoli mestieri e quella manifatturiera.

La prima comprendeva macellai, salumai, fornai, pizzicagnoli, verdurai, osti, locandieri, calzolai, sarti, muratori e così via. Di questa corporazione facevano pure parte gli orefici, i fonditori e coloro che costruivano armi e armature; a Napoli erano famose le armerie di Antonio Ciluto e Lorenzo Palumbo.

Le varie associazioni si riunivano, alla bisogna, in luoghi determinati della città che finirono col prendere il nome dei singoli mestieri: vico degli Azzimatori, piazza della Selleria, vico dei Tintori, strada degli Zappari, via dei Candelari, via de' Chiavettieri, vico Scassacocchi, vico de' Lampionari, via de' Chiodaroli, via dei Bottonari, piazza degli Orefici, vico 'Mpagliafiaschi, vico de' Lazzieri.

All'altra corporazione appartenevano le arti tessili, le tintorie, le gualchierie, i conciatori di pelli, i pellettieri, i bottai, i marmorai, i ceramisti, gli armatori, i velai, i cordai (celebre era Francesco di Benevento, maestro nell'arte di pettinare le canape e confezionare il migliore cordame in commercio), i fabbricanti di cannoni, colubrine, bombarde, obici e polveri da sparo.

Ogni compagnia artigiana gestiva un proprio patrimonio e aveva una guardia armata per sorvegliare i laboratori, i negozi e le botteghe.

Si fregiavano anche di un loro santo protettore: san Biagio, patrono dei taffettari, san Crispino dei calzolai, sant'Agata, protettrice degli orefici, sant'Arcangelo difensore degli armieri, sant'Andrea dei calzettai, san Ciriaco dei macellai, san Vito, patrono dei Bottonai, sant'Eligio dei panettieri, santa Rosa, protettrice dell'Arte della lana.

Una corporazione che si distaccava da tutte le altre era quella dei costruttori di campane.

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Oltre alle festività, il popolo napoletano amava ogni genere di gioco, specialmente quelli proibiti che non si potevano fare in Piazza Castello, nei quartieri militari, nei corpi di guardia, nelle darsene, nelle galere, nei presidi, nelle osterie o nelle rivendite di vino. Erano considerati fuorilegge dalle autorità comunali e vicereali le scommesse, la bassetta, la primiera, il gesso, il trenta e quaranta, il faraone, il banco fallito, la zecchinetta, il biribissi, lo scassadieci, il sette e otto, lo scassaquindici e la cavagnola.

La morra, il gioco delle carte, la dama, la mazza e pivello, l'azzeccamuro, lo strummolo erano tollerati e permessi nei pubblici locali solo se il gestore poteva esibire una regolare licenza, che non veniva concessa gratuitamente.

Vi erano anche altre forme di passatempo come la petriata, anch'essa vietata perché procurava feriti e anche qualche morto. Il gioco consisteva in una sfida tra i ragazzi di due quartieri diversi; la battaglia a suon di sassate e frombolate avveniva, secondo regole ben precise, all'Arenaccia, a Foria o al Ponte della Maddalena, dove nel Sebeto si gettavano le ossa dei giustiziati e dei suicidi o le carcasse degli animali.

I giovani si trastullavano pure a scarrecavarrile (scaricabarile): alcuni guagliuni si ponevano l'uno dietro l'altro, con la schiena curvata, mentre gli altri li saltavano; chi cadeva era escluso. Durante l'esibizione, che poteva durare delle ore, i ragazzi salterini cantavano:

«Piri piri, botta e scartreca pallotta, piri piri e scarrecavarrili».

C'era poi una filastrocca diventata l'inno degli scugnizzi, che non avevano né casa né ricovero:

«Addormo 'n terra, me sistemo l'ossa cu 'o chiaro 'e luna, non appiccio 'a lampa, sempre bone 'e salute, mai 'na tosse e tiro 'nnanze fino a che campo. Ma me piace giocà, giocà da mane a sera».

Naturalmente i giochi e i passatempi dei nobili erano d'altro genere: praticavano la caccia al cinghiale, al cervo, al capriolo, al daino, agli uccelli stanziali e di passo, alla volpe e al lupo. Organizzavano gare veliche nel golfo, competizioni di nuoto, di tiro col fucile, con la pistola e con l'arco. Allestivano giostre, tornei e quintane, e durante le serate fredde partite di scacchi o di scopa.

Le donne, invece, giocavano a dama, a freccette, a mosca cieca o a "è arrivata una nave carica di...".

Uno degli sport più praticati dall'uno e dall'altro sesso erano le corse a cavallo. In città esistevano diversi maneggi, il più alla moda era quello del Mercatello, dove si potevano spesso incontrare don Antonio Carafa, duca di Mondragone, Ferrante di Capua, duca di Termoli, Giordano Acquaviva d'Aragona, Carlo di Noia, principe di Sulmona, oltre ai rampolli della famiglia vicereale.

I migliori maestri d'equitazione del tempo erano Giovanni Battista e suo figlio Pirro, Antonio Ferrante, Giovan Luigi de Ruggiero Cadamosto e il famoso Federico Grisone, stimato gentiluomo.


Le cronache, seppure con avarizia di particolari, ci raccontano che il vero bubbone della Napoli del Seicento erano le società segrete, il banditismo e la camorra, organizzazioni infiltrate a ogni livello della vita istituzionale. Seguendo il detto che tutti sono corruttibili, basta conoscerne il prezzo, i mammasantissima della malavita urbana e i capi delle bande che infestavano il contado si erano assicurati una certa immunità, iscrivendo nei loro libri paga diversi amministratori pubblici, molti "acciuffatori", qualche nobile di privilegio, i migliori avvocati della città e anche qualche giudice desideroso di avere 'u quartierino a mare.

È d'obbligo una distinzione tra le società segrete, o sette, e le combriccole criminali. Le prime erano, quasi tutte, associazioni formate da illustri personaggi della cultura e dell'arte, contrari al regime spagnolo e desiderosi di liberarsene organizzando fronde, sommosse e attentati. Era perciò chiaro che il potere costituito le temesse più della malavita, con la quale, in fondo, poteva trattare mettendo mano alla borsa. Per difendersi da questo costante pericolo sovversivo, i viceré, sull'esempio della madrepatria, avevano costituito un corpo speciale di agenti da introdurre nascostamente in alcune di queste confraternite, per poi intervenire con durezza, mandando a morte, con processo sommario, una volta scoperti, i suoi capi e i suoi adepti. Succedeva però molto spesso che queste spie fossero rimandate al mittente con una pietra in bocca e un cappio di filo di ferro stretto intorno al collo.

Tra le tante, la maggiore e più importante setta segreta era la Compagnia della Morte, capeggiata da Aniello Falcone, grande pittore napoletano, la cui bottega era il santuario dei maggiori artisti dell'epoca, trasformati successivamente in suoi scolari, come si chiamavano tra loro i cospiratori: Salvator Rosa, poeta e pittore, creatore del nuovo paesaggio fantastico, Carlo Coppola, Andrea de' Lione, famoso pittore di battaglie, Paolo Porpora, autore di celebri faune e flore, Marzio Masturzio, Pietro del Po, pittore barocco, Giuseppe Marullo, Giuseppe Garzillo, Cesare Fracanzani, Andrea Vaccaro, celebre pittore di santi e di martiri, Viviano Cadagora, Domenico Gargiulo, detto Micco Spataro.

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che dietro personaggi tanto celebri in Italia e in Europa si nascondessero dei pericolosi congiurati, legati da un tenebroso giuramento di sangue: costoro, infatti, nottetempo facevano strage di spagnoli, soprattutto di ufficiali, senza mai cadere nella rete della polizia.

Tuttavia, se le sette segrete rappresentavano per il vicereame un rischio politico, le confraternite malavitose e il banditismo erano una vera piaga sociale che nessun governo era riuscito a debellare. Le maggiori onorate società che si contendevano la scena partenopea erano la Società dell'umiltà, la Società dell'omertà, la Bella Società riformata, il Circolo, seguite da una pleiade di congreghe minori.

Quella che aveva maggior potere sul territorio e un numero notevole di affiliati era la camorra. La derivazione del nome è incerta; alcuni storici sostengono che discenda dal termine arabo "gomurra" (sito in cui si praticano giochi a rischio), altri dalla Compagnia "dicta de Gamurra", operante a Cagliari nel XIII secolo, formata da mercenari pisani per la difesa della città. Un'altra etimologia risalirebbe ai gamurri, banditi che infestavano le montagne iberiche e poi quelle del napoletano fin dai tempi del primo dominio spagnolo.

L'organizzazione era divisa in paranze o zobbe e aveva un suo codice d'onore, il frieno, a cui ogni guaglione doveva rigidamente attenersi. Chi non lo rispettava veniva punito con lo sfregio, cioè con 'ntaccata e'mpigna, a scippo, a sbalzo, a cacafaccia.

Il trasgressore poteva anche essere stipato, espulso provvisoria- mente, o a tutto punto, se l'espulsione era definitiva. Non costituivano un'eccezione i casi in cui si ricorreva all'articolo primo del codice d'onore: «Tutti i fratelli devono piuttosto morire che confessare, meglio martiri che spie di giustizia. Chi tradisce verrà perseguitato e alla buona occasione ucciso. Se sarà partito lontano e oltremare, verrà ogni mese ucciso un suo familiare o parente, la punizione mortale continuerà fin quando l'infame non avrà trovato il coraggio di presentarsi a giudizio».

La camorra sapeva di essere nel mirino della gendarmeria, non quella comune, ma quella segreta, così ogni giorno il suo Consiglio di Paranza rilasciava un "santo" nuovo, una nuova parola d'ordine; alcune delle più comuni erano: «un piede alla porta e l'altro alla catena», «onore, compagnia e trecatto», «entrate pel canale diretto della società», «il sole che si leva deve anche tramontare».

Gerarchicamente, la camorra si presentava così strutturata: intrito, capoccia dei camoli, prima bottiglia, capitone erano titoli con cui venivano chiamati i capi, persone a cui tutti dovevano ciecamente obbedire. Seguivano il capintrito, colui che organizzava le paranze, il contaiuolo, segretario alle cui dipendenze stava il capocarusiello o cassiere, greffo, un sottocapo, "onorato", il camorrista anziano, non più in grado di agire, una specie di senatore messo a riposo, "il primo tamburo" o "primo voto", colui che, seppure anziano, stava ancora sulla piazza, il tamburo mastro o "bottiglia", un camorrista semplice, la "mezza bottiglia" o guaglione di sgarro, un apprendista, guaglione e' mala vita, addetto a incarichi umili, anche chiamato "mezza gavetta", poteva maneggiare solo il coltello, e infine il postiglione, che faceva da palo e per questo doveva avere vista lunga e udito fino.

La camorra reclutava i suoi adepti tra la gioventù più povera e sbandata, tra quei ragazzi che non avevano nemmeno una casa dove stare e si arrangiavano a vivere un po' ovunque: sotto i portici delle chiese o dei palazzi signorili, sulle spiagge, nelle grotte marine e, quando faceva freddo, in quelle di Monte Calvario al di sopra di Santa Lucia al Monte o negli ipogei urbani, quegli intricati sotterranei su cui Napoli appoggia le sue fondamenta.

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I Gesuiti, durante l'anno della peste, avevano scatenato una feroce campagna persecutoria contro gli ebrei di Napoli e dell'intero vicereame; i fedeli di Loyola, accusati dal popolo di non avere efficacemente interceduto presso il Padreterno per scongiurare il morbo, non trovarono di meglio che ritorcere l'accusa contro i giudei dediti, a loro dire, a riti sanguinari e a "sottrarre il tempo divino".

«L'usura è una peste contagiosa», andavano predicando i Gesuiti di vicolo in vicolo, «perché l'usuraio si nutre di carogne, generatrici della pestilenza. Quindi, solo gli ebrei sono responsabili dell'epidemia perché "sottrattori del tempo di Dio", quello che intercede tra il prestito e la sua restituzione maggiorata di tre volte». Tanto dissero e tanto istigarono la popolazione, che questa si scatenò contro il ghetto, compiendo una strage. Nessuno venne risparmiato, né vecchi, né donne, né bambini; i corpi straziati e sanguinanti furono trascinati per le strade e fatti a pezzi, le case saccheggiate e bruciate. La gendarmeria non mosse un dito e intervenne solo a massacro compiuto.

Ossuna, durante il suo vicereame, non solo aveva osteggiato la Congrega di Gesù, ma non aveva mai tollerato lo strapotere del tribunale dell'Inquisizione, che mandava settimanalmente a morte decine di persone accusate di giudaismo, magia ed eresia. Le carceri napoletane, più che di ladri e delinquenti comuni, erano piene di disperati che, ogni sabato, venivano sorteggiati per essere bruciati sui roghi, secondo un barbaro rituale religioso.

I condannati, uomini o donne che fossero, erano preceduti da un chierico che reggeva una croce dipinta di verde, incatenati mani e piedi, col capo coperto dal "sambenito" decorato con diavoli fiammeggianti e cornuti; procedevano l'uno dopo l'altro fino a Piazza Mercato, dove erano erette le pire. Prima dell'esecuzione, i miscredenti, o presunti tali, venivano esposti nudi su grandi catafalchi e lasciati allo scherno della plebaglia, che su di essi sfogava i suoi istinti peggiori. Solo quando non davano più segni di vita, i boja d' 'a Vicaria li gettavano nei falò. Finita la macabra funzione, che pure tanta allegrezza e divertimento scatenava tra la marmaglia, la legna rimasta bruciacchiata e non interamente combusta era distribuita al popolo per i focolari: «Questa è legna che brucia e non consuma e cuoce tante minestre», recitava il Carmelitano incaricato all'assegnazione dei tronchetti semicarbonizzati.

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Approfittando dell'assenza del cardinale, recatosi a Roma per partecipare al conclave, il dispetto si riversò contro il suo reggente, Pietro de Leya, generale delle galee.

Sulle prime ci furono solo sporadiche scaramucce, qualche casotto del dazio dato alle fiamme, qualche rivoltoso malmenato o arrestato. Insomma, erano più le grida dei fatti.

«Ossuna ha tolto le gabelle, Zapata le ha rimesse!».

«Se il primo era male, il secondo è peggio!».

«Rivogliamo Ossuna! Fuori Zapata!».

«Zapata è un ladrone!».

Come, però, spesso succede, di voce in voce il malcontento lievitò e la sommossa si trasformò in aperta ribellione. La moltitudine dei diseredati si scatenò, passando dalle minacce verbali alle vie di fatto.

In quel frangente il clero partenopeo, pur se neutrale, non biasimò dai pulpiti i rivoltosi. Il viceré era considerato uno zelante prelato legato alla Corona e alla Chiesa di Roma, e questo non era gradito ai religiosi napoletani, timorosi di perdere i loro privilegi, cosicché più di una volta i ribelli braccati dalla gendarmeria trovarono rifugio e asilo dietro le mura dei conventi o delle canoniche, dove il potere civile non poteva entrare.

Il povero Leya non sapeva cosa fare. Reprimere o tergiversare, aspettando il ritorno di Zapata da Roma e lasciare che fosse lui a togliere le castagne dal fuoco?

Venuto a sapere che il cardinale era sbarcato a Pozzuoli, il suo vice gli mandò incontro il generale della guarnigione spagnola di Castel Sant'Elmo per avvertirlo della situazione.

Zapata, che aveva appena contribuito a eleggere, il 9 febbraio 1621, Papa Gregorio XV, che restò famoso, nonostante il breve pontificato, per avere con la bolla Aeterni Patris Filius chiuso le porte dei conclavi alle potenze politiche, pare abbia risposto:

«Il popolo vuole rivoltarsi? Ebbene, noi lo rivolteremo sulla graticola».

Non era, comunque, così facile come lui immaginava e proprio mentre stava con la sua carrozza avviandosi verso il palazzo reale, una moltitudine inferocita attaccò il corteo con sassi e spranghe di ferro. La scorta del viceré intervenne con estrema determinazione e molti furono i contusi, i feriti e gli arrestati.

Dopo quella scaramuccia, il fuoco sembrava essersi spento; invece, qualche mese dopo, esattamente il 24 maggio, in Piazza Dogana, i lazzari circondarono nuovamente il cocchio di Zapata, trascinarono in strada il viceré e lo malmenarono duramente. Impaurito, egli non fece ritorno alla reggia e andò a rifugiarsi nella Certosa di San Martino dopo avere impartito l'ordine di usare ogni mezzo per soffocare la ribellione:

«Se non ci sono tronchi sufficienti per costruire le forche, impiccate i gaglioffi a qualunque appiglio».

I soldati spagnoli lo presero alla lettera, scatenandosi con estrema brutalità sulla popolazione inerme, uccidendo e saccheggiando. Anche se la truppa non ebbe l'animo di entrare nei bassi, assassinò chiunque si trovasse lungo le grandi vie, le piazze, sui sagrati delle chiese. Chi non fu ucciso sul posto venne arrestato e, dopo un sommario processo, impiccato.

La rivoluzione era durata un mese, e per spegnerla il potere regio non usò l'acqua, ma il sangue. Era la fine del giugno 1622, e Masaniello aveva compiuto due anni.

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Ai danni e alle ferite procurate dal terremoto si aggiunse la peste, che aveva dato i suoi primi segni nel 1624, in maniera non virulenta, tanto da indurre i medici a catalogare le prime morti come dovute a mal caduco. Che si trattasse di peste bubbonica, molto probabilmente portata a Napoli dagli schiavi turchi sbarcati all'inizio di quell'anno infausto, fu chiaro solo quando il morbo, nel 1626, cominciò a manifestarsi in tutta la sua virulenza, con febbre alta, cefalee, nausea, dolore agli arti, vomito, delirio, e fece strage tra la popolazione più povera, quella che viveva nei vichi intorno al mercato, nel Lavinaro, tra pulci, cimici e topi.

I pochi e male attrezzati ospedali cittadini e i chiostri dei conventi ben presto non furono più sufficienti a ospitare le migliaia di appestati, così di tutta fretta si costruì un lazzaretto fuori dalle mura, intitolato a san Gennaro, mentre i morti venivano sbrigativamente gettati in fosse comuni colmate di calce viva.

Si sparse la voce che fossero i giudei gli untori della morte nera, per vendicarsi della sanguinosa persecuzione subita diversi anni prima per opera dei Gesuiti e dei Carmelitani, che li avevano accusati di usura e infanticidio; che l'accusa fosse una palese menzogna poco importò alla marmaglia inferocita, fanatica e facinorosa.

Era la notte del 20 aprile del 1626, una falce tagliente di luna schiariva il cielo. Da vari quartieri della città, migliaia di napoletani di ogni ceto, armati di tutto punto, intenzionati a compiere uno sterminio, marciarono verso il vicolo dei Giudei, sull'altura di Monterone, o verso il monastero dei Santi Marcellino e Pietro, nella zona di Forcella, e verso via Giudecca grande, che iniziava da Porta Nuova e proseguiva fino alla chiesa di San Giovanni in Corte. Da un capo all'altro di quella strada vi erano diversi insediamenti satellite, tra cui la Giudecchella, sita tra via San Biagio ai Taffettanari e il vico di San Vito ai Giubbonari, con botteghe e piccole manifatture di stoffe e tessuti.

«Cacciamo gli untori!».

«A morte chi ha crocifisso Gesù!».

«Siano banditi gli usurai!».

«Fuori da Napoli gli spogliamorti!». Così venivano chiamati gli ebrei, perché acquistavano e rivendevano i vestiti di quelli che morivano in ospedale e non avevano parenti.

Il massacro ebbe fine all'alba, quando intervenne la gendarmeria, fingendo di ristabilire una parvenza di ordine.

Decine di case e negozi erano stati saccheggiati, depredati e dati alla fiamme, e oltre duecento erano i morti ammazzati.

Il giorno dopo non ci furono preti che dal pulpito biasimassero quell'eccidio, memori forse della famosa bolla emessa il 15 luglio del 1555 da papa Paolo IV, Cum nimis absurdum, in cui si sosteneva che «è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall'amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani da oltraggiarli per la loro misericordia e da pretendere il dominio invece della sottomissione. Questi ebrei osano vivere in mezzo ai cristiani e perfino nelle vicinanze delle chiese, senza perciò potersi riconoscere. Comprano case, svolgono commerci di ogni genere, assumono balie cristiane, insomma commettono questi e numerosi altri misfatti a vergogna e disprezzo del nome cristiano. [...] Si rende quindi necessaria una loro identificazione con l'apporre una stella gialla a cinque punte che i suddetti giudei, stirpe infame, dovranno portare ricamata sul petto...».

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Trascorsero diversi mesi prima che Genoino, diffidente com'era, decidesse d'incontrare quel giovane lazzaro.

Era una fredda e umida mattina di febbraio dell'anno 1644. Una pioggia battente e spessa tormentava i bassi e i vichi, trasformandoli in lerci pantani dove, camminando, si affondava fino a metà polpaccio.

Un vento salmastro di nord-ovest agitava le acque del golfo, tanto che molte imbarcazioni alla fonda, pinchi, velaccieri, golette, tartane, sciabecchi, polacche, feluche, dovettero rinforzare gli ormeggi con ancore di posta, una a destra e l'altra a sinistra della prua e una terza al dritto di poppa, per evitare disastrose collisioni.

Quel giorno non c'era mercato e Masaniello, coperto da una cerata da pescatore, fornita di cappuccio, si era recato al molo piccolo per sovrintendere alla consegna di un carico di frutta, da lui venduta al comandante di una caracca maltese, attraccata sotto il torrione del Carmine.

La trattativa si era quasi conclusa, quando un lazzariello, bagnato da strizzare, lo raggiunse trafelato, tirandolo forte per la manica.

«Masaniè, te vo parlà 'nu vecchio che sta dentro 'nu carro de signori, chillo là in funno».

«E chi è 'stu vecchio?».

«Nun saccio, pare 'nu prete».

Cosa volesse un prete da lui, Masaniello non riusciva a immaginarlo, né poteva pensare che quella sarebbe stata un giornata decisiva per la sua vita.

Incuriosito, lasciò Giovanni a trattare l'imbarco delle casse e, a passo svelto, s'incamminò verso la carrozza, che sostava nello spiazzo usato solitamente per la pesatura del pescato.

«Sali, figliolo, ché fuori piove», lo invitò il religioso seduto sul panchetto rivestito di pelle, con la schiena un po' curva in avanti e i gomiti appoggiati sulle ginocchia.

Le rughe profonde che solcavano il volto gli conferivano un aspetto severo che metteva soggezione, pur se non parevano segni di vecchiezza, bensì pieghe che ne rafforzavano l'espressione. I suoi occhi avevano la vivace mobilità dei lumi esposti alla corrente, gialli a tratti e a tratti rossigni. In testa portava un copricapo sacerdotale di velluto nero, con un nastro di raso rosso sopra la tesa. Vestiva una zimarra lunga che giungeva alle caviglie, chiusa da una lunga fila di bottoni di madreperla.

«Signore, ditemi in cosa posso servirvi», chiese Masaniello, sicuro che si trattasse di qualche affare di contrabbando. A Genoino non pensava più per il troppo tempo trascorso dal giorno che Micco gliene aveva parlato.

«Tu allora non sai chi sono?», lo interpellò il sacerdote, sorridendo. «Non mi conosci?». Le parole sembravano disegnarsi sulle sue labbra prima di essere pronunciate.

Masaniello guardò con più attenzione quella faccia severa, con un pizzetto canuto che gli allungava il mento a dismisura.

«Scusate, reverendo, ma proprio non vi conosco!», insistette il lazzaro, intimidito da quello sguardo magnetico che lo fissava con insistenza.

«La giornata è cupa e all'interno di questo abitacolo fa più buio ancora. Faccio un po' di luce».

Dalla tasca laterale dell'abito estrasse un contenitore di zolfanelli, ne tolse uno e l'accese strofinandolo contro il bordo della scatola.

«E adesso?».

«Non vi conosco proprio», confermò il giovane, allargando le braccia con fare sconsolato.

«Sono don Giulio Genoino».

«Oh, padre mio!», esclamò Masaniello, chinandosi a baciargli la mano che sembrava un artiglio. «Di voi mi hanno parlato Micco Spataro e Marco Vitale, compari che vi adorano».

«Mi fa piacere che persone tanto per bene dicano dì me le cose giuste». Fece una pausa e aggiunse: «Se tu non hai lavori da sbrigare, vorrei averti a pranzo, nella mia dimora».

«Di commerci non ne ho da fare, ma se pure ne avessi, non me ne prenderei cura. È troppo grande l'onore che mi concedete».

Genoino abitava in una bella casa della curia napoletana, nei pressi di San Giorgio Maggiore a Forcella. Egli occupava l'intero piano terra, e aveva sul retro un grande giardino in parte coltivato a orto, protetto da un alto muro di pietra lavica.

La saletta dove consumarono il pasto a Masaniello parve come il refettorio del convento di Santa Maria del Carmine. Tutte le pareti erano ricoperte, dal pavimento al soffitto, da librerie stipate in ogni scaffale di testi antichi, rilegati in pelle, con le diciture in oro.

Un candelabro d'ottone dorato, a cinque bracci, campeggiava al centro della tavola, spandendo intorno una luce bionda, rilassante.

«E voi, quei libri che ci sono lì, tutti lì avete letti?», chiese Masaniello con la bocca piena, senza curarsi d'inghiottire il boccone che stava masticando.

«Tutti li ho letti, e qualcuno più di una volta», rispose Genoino, senza togliergli di dosso le sue pupille indagatrici.

Quel vecchio pareva acceso dentro da un fuoco sacro, che nemmeno i lunghi anni di detenzione erano riusciti a spegnere, né lo avevano fiaccato nel corpo e nello spirito le brutalità subite, anzi sembrava lo avessero rinvigorito nella mente e nell'anima.

«Io non ho mai letto un libro in vita mia».

«Sai leggere e scrivere?».

«Leggo e scrivo, male», ammise il lazzaro, chinando il capo, mortificato.

«Dovrò fartene leggere diversi, sotto la mia sorveglianza. Devi addottorarti, ragazzo mio, per essere all'altezza del destino che ti è stato riservato».

«Destino? Quale destino? Io sono un pesciaiolo e un contrabbandiere. Lo faccio per mantenere la famiglia. Questo lo dico, perché se vengo da voi a leggere e imparare, con che denari metto il pane in tavola?».

«Per i denari non ti preoccupare, te li daremo noi, abbastanza da vivere tranquillo. Tu, però, continuerai a tenere il tuo banco per non destare sospetti, e quando sarai occupato con l'organizzazione», non la nominò, «farai servire tuo fratello. Devi, invece, e subito, sospendere i tuoi traffici illeciti: non possiamo correre il rischio che tu finisca in carcere. D'ora in poi, Tommaso Aniello d'Amalfi sarà un cittadino esemplare di Sua Maestà Felipe di Spagna. Di contro, va bene che tua moglie continui a frequentare la secondina che ha conosciuto all'arrendamento, può tornarci utile al momento opportuno; sarà il nostro cavallo di Troia all'interno di quella prigione».

Parlava, e sembrava che la sua bocca fosse ingorgata dalla fanghiglia, ché dalle labbra dischiuse fiorivano bolle grigiastre di saliva, una visione non piacevole, anche se i suoi detti, colmi di sapere e di saggezza, arricchivano la mente e l'anima.

«È Dio che vi manda! Ma toglietemi una curiosità. Perché volete insegnarmi a leggere e a conoscere qualche buon libro, oltre al vangelo, che già conosco?».

«A Napoli, prima o poi, accadrà quello che da tanto doveva accadere, e il popolo ha bisogno di un capo carismatico, quale tu sei per istinto naturale».

Il vecchio sapeva blandire, ed era disposto a bere vino anche col Demonio, se questo gli fosse tornato utile.

«Se lo dite voi, ci credo. Ma spiegatemi cosa significa "carismatico", e se l'incontro di oggi fa già parte delle lezioni che dovrete impartirmi».

«Sei proprio un guappo! Simpatico tuttavia. Sì, prima di andartene avrai le monete promesse. Paga tutti i tuoi debiti e consiglia Bernardina di non farne altri. Riscatta dal Monte dei pegni gli ori di famiglia e ricompra il mobilio che hai venduto per mettere assieme i soldi che ti hanno estorto per liberare tua moglie». E concluse: «"Carismatico" significa che hai il dono soprannaturale di farti obbedire ciecamente dalla gente; un dono che devi mettere a disposizione del popolo per aiutarlo a liberarsi dalla tirannia e dall'indigenza che l'affligge».

«E che io sia carismatico è scritto in quei libri che avete letto?».

«Pressappoco è così. Proprio in quei libri, e per la mia lunga esperienza di agitatore. Tutti coloro che ti conoscono sono concordi nel sostenere che sai parlare alla folla e sai farte ascoltare, che hai coraggio e che perfino gli sbirri più prepotenti hanno paura di te. In poche parole, sei l'uomo giusto per compiere l'impresa che io ho fallito ventisei anni fa».

«Di voi mi hanno detto che avete avuto una vita difficile e travagliata».

«È vero. Ma ora trasferiamoci nel mio studio; comincia la prima lezione».

Trascorsero tre lunghe ore, e Genoino parlò di rivoluzione e di ricchi da impiccare, con lo stesso religioso fervore con cui avrebbe parlato di santi e di beati. Citava con voce chiara passi del Nuovo Testamento, frammenti di vita degli anacoreti, mescolando i vaticini di Cirillo incisi sulle tavole d'argento offerte dall'angelo sul Monte Carmelo, con quelli della Sibilla cumana.

Quando il vecchio saggio smise di parlare, Masaniello sembrava in stato di trance. Aveva imparato più in quel pomeriggio che in tutta la sua vita e, intelligente com'era, aveva assorbito ogni insegnamento, ogni furberia, ogni metodo utile alla causa. Quello non era che l'inizio.

«Don Genoino, prima di lasciarvi, volevo chiedervi una cosa. Sopra la finestra di casa mia, verso la parte sinistra della fontana, v'è pintata un'aquila bicipite. Vitale mi ha detto che è l'emblema di Colaquinto».

Genoino diede alla sua risposta una intonazione profetica e disse:

«È un segno del destino, figlio mio».

E gli raccontò del grande Sovrano, del concilio di Trento e della Controriforma per contrastare l'eresia di Martin Lutero, della conferma solenne, avvenuta nel 1535, in cui l'imperatore aveva convalidato per il popolo di Napoli ì diritti concessi dal suo avo Ferdinando il Cattolico, di ritorno dalla gloriosa battaglia di Tunisi. Gli spiegò che detti privilegi furono vergati su una pergamena, a cui fu apposto il sigillo reale. Gli parlò pure di Tommaso Campanella, Cola di Rienzo, Spartaco, e concluse:

«Tu sei l'unico a non essere sospettato di ribellione e puoi andartene tranquillo in giro per la città ad aizzare il popolo contro ìl grassiere e preparare la gente alla rivolta».

«Alla rivolta?».

«Sì, alla rivolta. E quel giorno sarai tu a condurla. Lasciami finire... noi saremo al tuo fianco, naturalmente, per consigliarti, aiutarti. Sai come si chiamava il Capitano del Popolo che il viceré di Toledo imprigionò, cento anni orsono, e che poi dovette liberare con tante scuse? Si chiamava come te, Masaniello!»

Quando il giovane lasciò l'abitazione del religioso, la pioggia era cessata e un'esile falce di luna illuminava le acque della baia. Un pungente odore di alghe macerate saliva dalla spiaggia.

Appena rientrato, Masaniello in casa svegliò Bernardina e sua madre, raccontando loro di quel colloquio che doveva rimanere segreto, dei trenta scudi d'oro che Genoino gli aveva regalato e di quel Capitano del Popolo che portava il suo stesso nome al tempo di don Pedro de Toledo.

«Quel prete è persona troppo per bene, e non può certamente essersi preso gioco di me».

Bernardina al racconto gonfiò il petto, orgogliosa di essere sua moglie, e Antonia concluse che quel Masaniello era sicuramente un loro antenato.


Masaniello, il pomeriggio dopo, andò alla chiesa del Carmine a parlare con padre Cocozza.

Udito il racconto, il religioso invitò il lazzaro a seguirlo in sagrestia per incontrare il priore Ottaviano Altomanno. Appena fu al suo cospetto, il giovane s'inginocchiò ai suoi piedi, baciando il bordo della stola che il sant'uomo gli aveva avvicinato alla bocca.

Altomanno aveva una voce soave e, quando parlava, sembrava che stesse recitando un salmo:

«Quest'anno la nostra comunità religiosa vuole attribuire alla Santa Vergine del Carmelo feste più solenni del solito. E abbiamo pensato a te come capitano degli alarbi, quando assalteranno il castello costruito in Piazza Mercato».

Masaniello sentì una vampata di calore arrossargli il viso e si lasciò andare, per la gioia, a un pianto incontenibile. Un onore così grande non se lo sarebbe mai aspettato, e nemmeno si chiese perché gli avessero assegnato quel ruolo, così ambito da tanti illustri borghesi.

Soltanto quando furono nel chiostro, padre Cocozza gli svelò il mistero:

«Don Genoino ha parlato con il priore, il priore con il cardinale, e tutti si sono dichiarati d'accordo nell'affidarti l'incarico. Una specie di prova generale», sussurrò appena.

«Prova generale per cosa?», chiese Masaniello, sopravanzando Cocozza di un passo per meglio scrutarlo negli occhi.

«La prova del giorno che il popolo, stanco di sopportare, si ribellerà alle gabelle. Sei giovane, sei onesto, sei coraggioso, sei stimato dai lazzari e dalla plebaglia e sei tanto timoroso di Dio da rispettare, in caso di rivolta, le immunità ecclesiastiche, una garanzia che gli altri tuoi amici intellettuali non sono in grado di assicurarci. Insomma si' 'nu bravo guaglione».

«E io sarò capace di sostenere quella parte?».

«Certo che ne sarai capace», lo rassicurò il prete, dandogli un'amichevole pacca sulla spalla.

Quella sera, Masaniello non si ritirò a casa per cenare, preferendo passeggiare su e giù per il mercato, senza lasciarsi tentare dalle taverne da cui giungevano le voci alticce dei suoi compari. «Perché hanno scelto proprio me per compiere questa missione?», si chiedeva, ancora tormentato dal dubbio che si trattasse di un sogno dal quale prima o poi si sarebbe svegliato. «Io non sono che un randagio, un uccello di passo con tante fantasticherie in zucca. Però so», e si concesse un complimento, «radunare i lazzari in men che non si dica, con un solo fischio».

Se fosse rincasato a quell'ora di notte, avrebbe sicuramente svegliato Bernardina, scatenando una ridda di domande a cui non poteva rispondere, impegnato dal giuramento del segreto. Quindi, decise di andare alla spiaggia e aspettare lì che facesse giorno.

Per vincere il freddo e l'umidità che penetravano nelle ossa, accumulò alghe secche e legna di ogni genere, accese un falò visibile perfino dai navigli all'ancora e vi sedette davanti, godendosi il tepore della fiamma.

Cominciò a fantasticare, finché il sonno non lo avvolse, facendogli da coperta fino al mattino.

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sabato 6 e domenica 7 luglio 1647

La notte tra sabato e domenica di quella prima settimana di luglio era stata particolarmente afosa e opprimente. Non un filo di vento né dai monti né dal mare aveva portato un po' di refrigerio alla canicola puzzolente, che opprimeva i budelli grommosi dei vichi come una cappa infuocata di cenere vulcanica.

Anche il sole, in quell'alba, era apparso sui crinali dei monti come una grande pupilla incandescente puntata fissa sulla città, e c'era in quel guardare una stupefatta meraviglia come se l'astro vedesse Napoli per la prima volta o... per l'ultima.

L'aria si era appena colorata di un biondore incerto e le ombre cupe sfumavano di viola che già le squille delle parrocchie e dei conventi suonavano a stormo, richiamando i fedeli al mattutino: quelle delle chiese che sorgevano a destra, dopo la Piazza Majuri e la fontana delli lioni, come la Vergine dei Gesuiti, detta la Carminiella, di Santa Maria delle Grazie dei Carrettieri, o la Carmela del Carmine, alloggiata nella cella alta del campanile bulbato di Fra' Nuvolo, i cui rintocchi parevano un allarme, come se fossero sbarcati i turchi. Le nolane di Santa Caterina in Foro Magno, di San Giovanni a Mare, legata al baliaggio dei cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme, della Bianca santa croce al Mercato e della gotica basilica di Sant'Eligio, la cui comunità era frequentata da tutti i macellai della zona.

Uno scampanio ossessivo, che tanto disturbava i nottambuli coricati da poco, ma che non recava molestia alcuna alla gente del popolo, in piedi fino dall'ora antelucana per compiere i mestieri quotidiani.

Mentre le vecchie facevano la coda davanti ai portali delle parrocchie ancora chiusi, biascicando salmi o intonando orazioni, i commercianti, i negozianti, gli ambulanti, i garzoni, i vastai, i salmatari, i verdummari, i suggici, i carrettieri, i gabellieri, i dazieri, i sorveglianti, davano inizio alle loro diverse mansioni, così come accadeva dai tempi più lontani.

Qua e là giungeva il trepestio delle ruote cerchiate dei carri e dei plaustri che traballavano sulle pietre sconnesse delle vie, diretti ai caselli daziari protetti, come se si fosse in guerra, da barriere di sacchetti di sabbia. Come sottofondo a quello stridore, che raggelava il sangue, i continui nitriti dei cavalli e i ragli dei somari e dei muli, rimescolati alle grida roche dei conducenti che incitavano quelle povere bestie, gravate da carichi che stentavano a trascinare.

Anche le portelle sconnesse e sverniciate delle rivendite che allungavano le cacciate sulla piazza, degli spacci, dei magazzini, cominciavano ad aprirsi, una dopo l'altra, cigolando sui cardini arrugginiti, mentre i negozianti, solerti, affiggevano alle ante le insegne con i prezzi stabiliti dal portolano rappresentante la municipalità.

Pure i tavolilli avevano cominciato a esporre nelle ceste vettovaglie di ogni genere, e già da un angolo all'altro risuonavano i richiami del venditori per attirare l'attenzione dei primi avventori, per lo più calandrelli di nobili famiglie, che si aggiravano tra i banchi, in attesa che arrivassero frutta e verdure fresche.

«Venite, ché ho la migliore frutta!».

«Ortaggi di frescura al banco mio!».

«Cerase appena spicche!».

«Perseche succose, albicocche rare, fichi di Sorrento gonfi di latte come tette!».

«Sedani, finocchi, rafanelli belli!»

«Pesce di paranza, crostacei vivi, molluschi di scogliera!».

In Piazza Mercato, l'antico Campo moricino o mercato di Sant'Eligio, limitato un tempo da un fiumicello formato dalle acque esuberanti del fonte Formello, che si raccoglievano nel Lavinaro, c'era, in quella domenica, un insolito fermento di popolo e un preoccupante formarsi di capannelli che si spostavano da una parte all'altra dopo avere conferito con Masaniello, seduto tranquillo dietro il suo banco di crostacei e molluschi.

I gendarmi, abituati da sempre al brontolio e ai mugugni del popolame, non sembravano preoccupasi di quell'andirivieni di staffette, e se la prendevano comoda, stravaccati sui gradoni della vicina fontana, intenti a fare colazione con fette abbrustolite di lardo, con salsicce secche e pane fresco, ridendo e scherzando tra loro, o motteggiando con le ragazze che andavano alle cannelle per attingere acqua.

Perfino i corbellatori, vestiti a festa, pronti per la gita pomeridiana a Mergellina con la famiglia, avevano aperto tranquilli i loro gabbiotti, disposto i registri per la riscossione dei dazi e delle gabelle, preparato i tavolacci dietro cui stavano, impettiti e solenni, i giovani scrivani che attendevano con le penne in mano, intinte nel denso inchiostro di seppia, bene attenti a non macchiare le pergamene tributarie, pena un tarì di multa.

Al torrione del Carmine erano già approdate le battane di Mase Carrese, l'ortolano viaticale di Pozzuoli, cariche di frutta di ogni specie e dei migliori fichi che si potessero trovare: fichi troiani, verdi fuori e rossi dentro, fichi buttàri, adatti da essiccare al forno, fichi fioroni dall'epicarpo scuro e dalla polpa sanguigna, roridi ancora di rugiada, sistemati in cestelle e cuoppi, pronti alla vendita.

Quando tutto quel ben di Dio raggiunse i casotti dove si doveva pagare la gabella di cinque carlini al cantaro, Carrese e gli altri coltivatori cominciarono a protestare e inveire, dicendo che da quel mattino non avrebbero più versato un centesimo e che i negozianti e gli ambulanti, se volevano arricchire quel demonio di don Carlo Brancaccio l'arrendatore, facessero a modo loro.

«A modo nostro?», reagirono i commercianti, inveleniti. «Ma che stramberia ti frulla in capo? Noi già le tasse le paghiamo all'annonario, che ci leva la pelle di dosso e c'impone le assise con i prezzi calmierati. Sappi, bello de mammeta toia, che nemmeno noi siamo più disposti a comprare la frutta e la verdura a prezzo alterato, così che poi, alla chiusura dei banchi e dei negozi, ci troviamo con metà della merce invenduta perché troppo cara; frutta e verdura che il portolano pretende sia buttata nell'immondezzaio o data in pasto ai maiali di don Gesualdo, che pasturano al mercato come se fossero in un porcile».

Quell'atteggiamento ribelle di venditori e compratori non piacque al capitano di giustizia che, pur essendo amico di Carrese, minacciò di arrestarlo se non si fosse deciso alla pesa dei suoi prodotti e Mase, precedentemente istruito su quello che doveva fare, non oppose resistenza.

Lasciati alcuni suoi fidi a compiere la bisogna, formò una commissione di quaranta pozzolani – era la prima volta che succedeva una cosa simile –, e andò a cercare Naclerio, che abitava nei paraggi di Porta San Gennaro, ma l'eletto non era in casa; allora i manifestanti si spostarono in Piazza della Reggia per protestare sotto le finestre del viceré:

«Dio ci manda l'abbondanza e il mal governo ci affama e ci depreda!».

«Abbasso gli arrendatori, viva il re di Spagna!».

«Togliete la gabella o scoppierà l'inferno!».

Svegliato e infastidito dal vocio dei dimostranti, il duca d'Arcos convocò, tirandolo giù dal letto, il suo reggente don Diego Zuffia, grassiere di Napoli, competente per le questioni dell'annona, perché gli suggerisse quello che si poteva fare per calmare gli animi; don Diego, zotico e reazionario, non trovò di meglio che fare allontanare la plebaglia a colpi di randello.

Gli ordini impartiti dal comitato rivoluzionario e dalle giunte rionali erano di non reagire a nessuna provocazione finché non fosse scoccata la scintilla destinata a dare fuoco alla polveriera, quindi i manifestanti si attennero, sia pure a malincuore, al comandamento, tornando in buon ordine verso Piazza Mercato.


Fu per caso che sul sagrato del Carmine incontrarono Naclerio, che i pozzolani odiavano in maniera particolare in quanto convinti che lui avesse usato nei loro confronti metodi oltremodo repressivi. Cogliendo l'occasione al volo, lo fermarono e cominciarono a spintonarlo e coprirlo d'insulti.

L'eletto, elegante nel suo abito della festa blu scuro, abbellito da una gorgiera candida e inamidata, credendo che la moltitudine violenta volesse linciarlo, commise lo sbaglio di estrarre dalla fondina la sua grossa pistola a due canne, capace con un colpo solo di staccare la testa a un uomo, nella speranza d'impaurire quel Carrese che più di ogni altro temeva perché, sicuramente, non estraneo all'aggressione che aveva precedentemente subito.

«Mase Carrese, tu sei un fanatico esaltato, un compare merdoso di Masaniello, statti accuorto che se fai solo un altro passo avanti io t'accido, poi che sia di me quel che sia», disse, tremando, Naclerio.

«Io sono un uomo onorato e non ho corna in testa come avite vuie!», lo provocò Mase.

«Ti mando in galera con le mani legate dietro la schiena, come si usa con i mariuoli», strillò forte Naclerio, ringalluzzito dalla vicinanza di una pattuglia di gendarmi.

Infatti, visto quello che stava per accadere, Tonno Barbaro, capitano di giustizia, fu lesto a porsi al fianco di Naclerio, seguito da una ventina dei suoi che formarono una barriera con le spade sguainate.

«Ed è così, Naclerio, che servite il popolo, vostro elettore?», gli rinfacciò Carrese, per nulla intimorito dall'arma puntata contro il suo petto. «Domani vi denuncerò al Tribunale di San Lorenzo e...». Non riuscì a proseguire, perché l'eletto gli troncò la parola colpendolo in faccia con un pacchero.

Seppure profondamente oltraggiato, Mase non si ribellò, portò la mano sinistra sulla guancia oltraggiata e disse, rivolto ai presenti che turbinavano di sdegno:

«Avete visto come l'eletto tratta la povera gente che lavora e sgobba?».

A nemmeno cento metri dal Carmine, dove si trovava Carrese, stava succedendo qualcosa di ben più grave: i contadini diretti al mercato con i loro carri stipati di derrate alimentari invece di fermarsi ai posti di controllo per la pesa e il pagamento delle imposte, continuarono ad avanzare, costringendo le bestie al trotto veloce.

Il maresciallo Adalberto Luzzato, addetto all'arrendamento delle cibarie, resosi immediatamente conto della ribellione, chiamò a raccolta le sue guardie, urlando come un forsennato:

«All'armi, ragazzi, che si mette male!».

All'incitamento, una decina di gabellieri uscirono dal casotto daziario e, schioppo in braccio, si misero in mezzo alla strada per fermare i carriaggi.

«Guagliu'», continuò a sbraitare Luzzato, «stateve cheti, non cercate rogne, fermateve! Che manfrina è questa? Se non venite a pagare l'esazione, stamane non si farà mercato, e la vostra frutta la darete ai porci. Capito bene?», ribadì, puntando anche lui l'archibugio contro gli agricoltori.

I conduttori dei barrocci, però, non prestarono orecchio all'intimidazione, e invece di arrestare gli animali, li colpirono più forte con la frusta, cosicché, imbizzarriti, aumentassero l'andatura.

Luzzato, per non finire travolto da quella carica forsennata, saltò prontamente di lato lasciando cadere a terra il suo fucile. Passato il trambusto e riavutosi dalla sorpresa, il maresciallo corse a recuperare l'arma e, imbracciatala, stava per fare fuoco in direzione del contadino più vicino, quando la sua attenzione fu attirata da un centinaio di lazzari provenienti dai vichi circostanti. Ognuno di loro portava, bene in vista, infilato nella cintura di stoffa che reggeva le brache, "l'amico a lama lunga".

«Marescià, che fate con chillo schioppo, ci vulite accidere? Un colpo avite, marescià, e nui simmo tanti, ve conviene?».

Al poveretto non rimase che abbassare l'archibugio e cercare riparo tra i suoi riscossori, che nemmeno si erano sognati di mettere mano agli spadoni inguainati nelle custodie con l'elsa incordellata, come richiedeva la legge, e non sapendo con chi prendersela per lo smacco, sfogò la sua rabbia contro lo scrivano, mezzo insonnolito:

«E tu non startene lì a bocca aperta, come se avessi visto apparire la Madonna!», abbaiò, spruzzando saliva dalla bocca. «Vai di corsa a chiamare don Andrea Naclerio».

Non sapeva che l'eletto era nelle vicinanze e in una situazione non migliore della sua.

L'intervento minaccioso dei lazzari, tuttavia, non era sfuggito alle guardie civiche che pattugliavano la zona dei Morticelli, ove un tempo c'erano le fosse per la conservazione dei grani e che ora servivano per gettarci i cadaveri dei morti per pestilenza; le guardie, secondo l'addestramento ricevuto, si disposero in drappello, con gli schioppi al fianco e gli spiedi in resta.

«Via, via», cominciò a berciare il capopattuglia che camminava innanzi. «Buoni cittadini, statevi calmi, fate il dovere vostro, ché sta per uscire la messa e queste agitazioni non s'hanno da mostrare alla santa Maria della Neve, che piangerà lacrime di sangue vedendo i suoi figli farsi caini».

«Non ci costringete a usare le cattive maniere», gli fecero eco i commilitoni, stivalando tra le immondizie e gli acquitrini verso l'imboccatura del mercato, mettendo in fuga una decina di porci che stavano grufolando tra cumuli di rifiuti. «Anche noi siamo poveri come voi e non vogliamo farvi del male».

«Se siete poveri come noi, andate a casa, godetevi la domenica e date a noi gli schioppi, ché altrimenti ce li prendiamo», rispose arrogante un giovane lazzaro, sicuro che nessuno degli sbirri avrebbe osato sparare un solo colpo.

Era l'ora settima del mattino. I raggi del sole, stesi a sghembo come lunghe pennellate, tingevano d'ocra le facciate delle case che circondavano il catino della piazza.

Masaniello, come se nulla dovesse accadere, se ne stava seduto tranquillo su una cassetta coperta da uno straccio di balla, intento ad aprire mitili con il coltello, spruzzarne di limone la valva rimasta piena del frutto e poi succhiarla rumorosamente, con ghiottoneria.

Fu Ciccio l'ortolano, di carattere focoso e facile all'ira, a provocare il putiferio. Appena giunto davanti al casello daziario, tagliò con un trincetto le corde che tenevano salde le sporte della frutta sul pianale del suo carro, cosicché tutto quel ben di Dio franò sull'acciottolato, ingombrando il passaggio:

«Su, su, popol buono, raccogli, mangia! Nemmeno uno spicciolo voglio, come nemmeno voglio pagare uno spicciolo di gabella».

Gli birri e i dazieri, frastornati da quel gesto che non si aspettavano, tentarono di tenere lontana la folla dando mano ai bastoni ma, soverchiati dalla moltitudine, abbandonarono il campo, dandosi alla fuga.

Nel frattempo, sollecitato dallo scrivano mandato da Luzzato, l'eletto arrivò al mercato vecchio, scortato da Tonno Barbaro e da una decina di agenti daziari.

Era livido in volto, un po' per la crescente calura, un po' per la rabbia che aveva provato poc'anzi, vedendosi trattare in quel modo da un pezzente di erbaiolo.

Al suo comparire si fece un improvviso silenzio; si udiva solo il fastidioso ronzio delle mosche e delle vespe, attirate dall'odore delle frattaglie appese fuori dalla bottega di Berto il macellaro.

«Che fantasia vi ha pigliato stamattina?», cominciò a sbraitare Naclerio, fattosi coraggioso per la presenza dei gabellieri e di uno squadrone di gendarmi sopraggiunto sul posto. «Vi siete svegliati con la voglia della galera? Il nuovo tributo è legge, lo sapete bene, e si deve pagare. Se non avete soldi a sufficienza, fate a meno del vino e del tabacco e comprate la frutta per i vostri figli. Quindi niente più storie, mettetevi in fila ordinata con i carri davanti ai tavolacci daziari».

Una scudisciata in pieno viso avrebbe fatto meno male di quelle parole uscite dalla bocca di un rappresentante popolare, e fu Vincenzo a farsi avanti e ad affrontare l'eletto:

«Scarafone di un giudio, vuoi che in gola ti cacci un tizzone ardente? Pagale tu le gabelle, mangiapane a tradimento».

A dargli manforte intervenne Giovanni, il fratello di Masaniello:

«Figlio di donna ingabellata, proprio tu ci vieni a fare il predicozzo, che nulla ti manca sulla tavola? Vattene, prima che si abbui il sole».

Naclerio lo guardò con disprezzo e, imbaldanzito dalla numerosa presenza degli agenti che tenevano la marmaglia sotto tiro, di rimando rivolse il suo insulto contro Antonia, madre di Giovanni e Masaniello:

«Sei tu che parli, nato da una pecora guasta, che si è venduta il culo per un tozzo di pane?».

A quella volgarità, Giovanni ebbe il buon senso di non piantargli il coltello tra le costole, limitandosi a spappolargli sul viso una manciata di fichi maturi che teneva in mano.

Esaltata da quella scena, la plebaglia del mercato cominciò a gridare improperi sia contro l'eletto sia contro la soldataglia che lo difendeva.

«Zecca di cane!».

«Mal generato!».

«Femminiello!».

«Figlio di chiavica, di padre cornuto e sora bocchinara!».

«E vuie che gli state appresso, ancora peggio site!».

«Che di vuie si perda la semenza!».

«Guitti, mariuoli, salterelli e cembali!».

Mai si erano udite simili invettive rivolte a un rappresentante del Tribunale di San Lorenzo.

Un lazzariello, robusto che pareva un lottatore, si fece avanti sgomitando e aggredì l'eletto con pugni e calci.

«Così, dagli, fallo nero il porco, il pendaglio da forca!», lo incitavano gli amici, ridendo e cantilenando: «Nun vulimmo la gabella! Viva viva il re di Spagna! Mora, mora il malgoverno! Tiriam fora le budella e spedimmo in 'sto mumento l'esattori a l'inferno!».

A Naclerio non rimase altro che darsi alla fuga, imitato dai gendarmi e dai gabellieri che, per timore di essere sopraffatti e massacrati da quella marmaglia inferocita, alzarono le braccia in segno di resa, depositando a terra schioppi, pistole, spade, alabarde e corsesche.

Neppure quell'atto di capitolazione placò la rabbia del popolo, e iniziarono a volare le prime pietre, blocchi di piperno e tufo. Una colpì in testa Naclerio che, stordito, si accasciò al suolo.

I due capi popolari Nasone e Palumbo, che gli erano amici da tempo, d'accordo con il capitano Barbaro e l'aiuto di Vincenzo e Giuseppe Fattorusso, Cappuccino, caricarono il ferito su una barchetta e lo misero in salvo, accompagnati dalle insolenze e dalle villanie dei muschilli che aspettavano al molo il loro turno per entrare nella mischia:

«Ché, vi si è stretto il culo? Chillo è un affamatore, marezzatelo, ché non ci fa compassione».

Dalle spallette dei navigli alla fonda, i marinai osservavano incuriositi l'accendersi della ribellione, tifando naturalmente per il popolo. Dovettero intervenire gli ufficiali di bordo per costringerli sottocoperta, menando sullo loro testa colpi di piatto con le sciabole d'ordinanza.

Ormai, in tutto il rione del mercato, l'esultanza era generale e il nome di Masaniello cominciò a risuonare come un rombo di tuono:

«Masaniè, tu sei il capo nostro!».

«Dicce tu che duvimmo fa!».

«Capitano, nostro capitano!».

Il capopopolo aspettava solo quell'esortazione corale per intervenire, come qualche sera prima avevano concordato i capi della congiura.

Si tolse il grembiule cerato, afferrò il taccaro con la mano sinistra e, a due a due, risalì i gradini della scaletta lignea che conduceva al palco delle esecuzioni. Appena in cima, si mise davanti alla ringhiera dal passamano crostoso di sangue rappreso, che nessuna pioggia era mai riuscita a lavare, e cominciò ad arringare la moltitudine imbaldanzita che, padrona del campo, sciabordava minacciosa come un mare in tempesta.

«Tommà, si tu vaie innanze, nuie te venimmo arret'!».

«Mora, mora il malgoverno, viva, viva il re di Spagna!».

«Basta co' 'e patimiente, dacce 'nu poco de speranza!».

«Moran li nobili, moran l'usurai giudii. Loro se magnano 'a carne, nui magnanimo li suricilli!».

«Che sia lode a Cristo, nostro salvatore!».

Un fraticello domenicano andava tra la gente, reggendo tra le mani un reliquario che i timorati si chinavano a baciare, come se conservate nella scarabattola ci fossero le ossa di san Gennaro.

Quel sommovimento, già dal suo apparire alla ribalta della storia, stava dimostrando di non essere la solita sommossa fugace, ma qualcosa di più serio e pericoloso per il potere costituito.

Masaniello, stordito e inebriato da quel trionfo di massa, chiese il silenzio facendo cenni con le mani, e quando l'un dopo l'altro tutti tacquero, pronunciò il suo primo discorso:

«Popol mio», iniziò con una invocazione che sarebbe diventata abituale, «troppo abbiamo sofferto e troppo ci siamo inchinati davanti ai soprusi e alle ingiustizie, tanto che le nostre schiene sono diventate gobbe. Popol mio, finalmente hai capito e quello che oggi farai sarà solo l'inizio di quel che faremo ai nobili e agli speculatori. Non dissecchi l'albero tagliando i rami, ma sradicando le radici. Così la pensavo quando, qualche tempo fa, ho dato alle fiamme la baracca delle gabelle».

«Sei tutti noi, Masaniè, e pure noi le incendieremo tutte, e guai e morte a chi si opporrà!», esplose unanime la piazza.

«Popol mio, sarà bene tutto quello che compirai. Sono anni che nei nostri piatti non ci mettiamo dentro che fame, quella fame che ha condotto innanzi tempo molti dei nostri figli al camposanto. Abbiamo obbedito, siamo stati, come lo saremo ancora, sudditi fedeli del re di Spagna, che sicuramente ignora le vessazioni a cui siamo sottoposti, perché i veri responsabili delle nostre sciagure gli tengono nascosto, per loro interesse, lo stato di miseria e povertà in cui versiamo. Popol mio, a quante inique gabelle siamo costretti? Ognuno di voi sa bene che le celle dell'arrendamento sono piene di nostri fratelli e sorelle, non perché sorpresi a rubare, a uccidere, a depredare, ma solo per avere contrabbandato un pugno di farina o qualche libbra di carne. Popol mio, al male si è aggiunto il malanno, da quando il viceré, su consiglio dei nobili succhiasangue e degli arrendatori, ha imposto la nuova tassa scellerata non sulle stoffe di lusso, visto che noi possiamo vestirci pure di stracci, ma sulla frutta e sulla verdura, gli unici alimenti che ci reggono in piedi. Questo ti pare giusto, popol mio?».

«No-o-o-o-o, è infame!», ruggì la folla.

«Ti pare giusto, popol mio, che i calvi mangino fino a crepare, che gli sfruttatori e gli usurai giudei, gli arrendatori, i gabellieri vivano grassi sulle nostre spalle?».

«No-o-o-o-o! Uccidiamoli tutti senza pietà!».

«Se così vuole il popol mio, così sarà fatto. Se entro domani ogni gabella alimentare non verrà tolta, noi faremo rimpiangere ai signori di questa città l'eruzione del Vesuvio».

«Masaniello, tu sei la nostra guida e metteremo Napoli a ferro e a fuoco se tu ce lo comanderai», gridò Marco Vitale, rispettando il copione della rivolta.

«Popol mio», riprese esaltato il tribuno, «formiamo subito un corteo, numeroso e armato, e andiamo alla reggia. O il duca d'Arcos ascolta le nostre giuste lagnanze, o lo faremo penzolare impiso con una corda grezza da questa forca». E voltandosi verso il patibolo, lo indicò col braccio teso. «Adesso togliete dalle botteghe le tabelle delle assise, che mostreremo in corteo perché tutti sappiano a quali angherie è costretta la povera gente». Con la mano destra si tolse il cappello, sventolandolo nell'aria come una bandiera. «E che nessuno si faccia avanti», urlò deciso, «tentando di fermarci, ché allora sarà guerra senza quartiere e senza prigionieri. Sarà rivoluzione. Popol mio, non perdere altro tempo, organizza le tue squadre e assali porta per porta, seggio per seggio, sedile per sedile, dai alle fiamme le case degli arrendatori e le sontuose dimore dei ricchi. Nulla sia risparmiato e tutto venga distrutto dal fuoco, ma che non ti venga in mente, popol mio, d'impossessarti del benché minimo oggetto: la punizione sarebbe terribile, tutto dev'essere gettato sui roghi. Noi siamo dei rivoluzionari, non i lanzichenecchi del viceré. Popol mio, ascoltami e ubbidiscimi: i capifamiglia, i reggitori del casato, siano trucidati sul posto, le mogli, i figli e i servi tradotti nelle carceri dell'ammiragliato e di Castel dell'Ovo, ché di celle libere ce ne saranno tante dopo la liberazione dei nostri fratelli prigionieri».

Un applauso di osanna e di tempesta salutò la fine del discorso di quel demagogo nelle cui vene scorreva il sangue puro del condottiero.

«Basta soprusi, facciamo giustizia!».

«Bruciamo i gabbiotti!».

«All'arme, all'arme!».

«Serra, serra, ché scoppia il finimondo!».

Alle grida ogni attività e ogni commercio cessarono all'improvviso, e tutti fecero calca per formare il corteo. Lazzari, alarbi, guappi, muschilli, ambulanti, arsenalotti, luciani, pescatori, pescivendoli, garzoni, donne dei diversi mestieri, formarono lo zoccolo duro di quella inarrestabile marea umana, armata di fascine impeciate, alabarde, partigiane, forconi, falci, roncole, brandistocchi, spiedi, spade, coltelli, schioppi, archibugi e pistole. Tutti avevano un sopruso da punire, una vendetta da compiere; le donne, più imbestialite degli uomini, brandivano forchettoni, bastoni e pesanti mestoli di rame, pronte a dare sfogo ai rancori che si portavano dentro da decenni.

«Che siano rispettate le chiese e i conventi!». La voce di Masaniello risuonò possente sopra la moltitudine.

«Adesso, alle dogane!», incitò Pizzo della Monaca.

«Dopo alle dogane, ché ora, popol mio, devo mostrarti coloro ai quali dovrai rispetto e obbedienza come se in ognuno di loro ci fossi dentro io». E fece cenno ai membri del comitato rivoluzionario di salire sul palco perché la gente potesse vederli e riconoscerli. «Giovanni Amalfi, mio fratello, che ho nominato portaordini, Giovanni Esposito, capitano dei lazzari e degli alarbi, Marco Vitale governatore del tribunale della giustizia popolare, Mase Carrese, capo delle batterie, Giuseppe Palumbo, capitano della conciaria, Micco Spataro, capo del Consiglio dei rivoltosi, Aniello Falcone, ispiratore della rivoluzione. Mentre don Genoino, che non è presente, sarà la nostra guida spirituale e politica. Per me ho riservato l'incarico di Capitano generale del fedelissimo popolo. Se tutti siete d'accordo, confermate la scelta delle nomine, che non potranno più essere cambiate».

«Siamo d'accordo. Sì, siamo tutti d'accordo!», fu l'assenso assoluto che risuonò di strada in strada, di piazza in piazza, entrando fin dentro la camera da letto del viceré che, ben sapendo di non poter fare conto sulla gendarmeria né sull'esercito spagnolo, che reputava l'esplosione di un barile di polvere meno dannoso dell'esplosione dell'intera polveriera, aveva già in mente le mille promesse che avrebbe fatto, senza essere sicuro di mantenerne nemmeno una.

Incoraggiati dal plauso e dal consenso popolare, un centinaio di lazzari, con in mano le torce accese, si spostò verso il lato settentrionale del mercato, dove si trovava la trattoria dei Galli, per distruggere l'ufficio daziario ricostruito al posto del casotto arso da Masaniello.

Poi a uno a uno furono mandati in pezzi gli odiati tavolacci e saccheggiati i casotti delle gabelle situati nei pressi del mercato, bruciati gli arredi, le scartoffie, i registri, e fatte a brandelli anche le tende che servivano da riparo notturno ai corbellatori di guardia.

I gabellieri, i soldati e gli esattori di servizio furono assaliti e massacrati a colpi di roncola e i loro corpi mutilati trascinati per strada come macabri trofei. Solo pochi superstiti trovarono riparo nell'ospedale adiacente la chiesa di Sant'Eligio, nella speranza che la furia popolare risparmiasse quel sacro luogo.

Da lontano venivano altri spari, segnali di altri scontri. Era bastato un motivo qualunque perché la marmaglia dei fondachi, dei bassi, dei vichi, curva per la servitù come l'ansa di un lituo, si scatenasse, decidendo di cambiare la storia e di lasciare la propria impronta non solo nel fango delle strade, ma sulla dura pietra vulcanica.

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