Autore Pierre Dardot
CoautoreChristian Laval
Titolo Guerra alla democrazia
SottotitoloL'offensiva dell'oligarchia neoliberista
EdizioneDeriveApprodi, Roma, 2016, n.128 , pag. 143, cop.fle., dim. 14x23x1 cm , Isbn 978-88-6548-181-3
OriginalePour en finir avec ce cauchemar qui n'en finit pas. Comment le néolibéralisme défait la démocratie
EdizioneLa découverte, Paris, 2016
TraduttoreIlaria Bussoni
LettoreRiccardo Terzi, 2017
Classe politica , economia , economia politica , economia finanziaria












 

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Indice


    Prefazione all'edizione italiana                         5


0.  Peggiora                                                 9

1.  Governare con la crisi                                  15

2.  Il progetto neoliberale: un progetto antidemocratico    31

3.  Sistema neoliberale e capitalismo                       47

4.  L'Unione europea o l'impero delle norme                 67

5.  Il cappio al collo del debito                           87

6.  Il blocco oligarchico neoliberale                      105


    La democrazia: sperimentare il comune                  127


 

 

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Prefazione all'edizione italiana



Le ganasce della trappola neoliberista minacciano di richiudersi sulle popolazioni europee. Da un lato, un'Unione europea che quotidianamente minaccia di disgregarsi rivela sempre di più il suo disprezzo per la democrazia, mentre moltiplica il ricorso agli ultimatum burocratici a solo vantaggio dell'oligarchia finanziaria. Dall'altro, la pericolosa impennata del nazionalismo, della frustrazione, dei fantasmi della potenza e dell'identità, chiaramente espressi ad esempio dal successo dell'AfD (Alternativa per la Germania) alle ultime elezioni regionali tedesche.

Non c'è alcun dubbio che questi due fronti apparentemente contrapposti si alimentino l'un l'altro alle spese della democrazia: da un lato, ogni manifestazione della volontà del popolo, o ogni tentativo di farsene l'eco, è da subito denunciata con la facile etichetta di «populismo», che si tratti di premere sul Parlamento vallone perché non firmi il Trattato di libero scambio tra Canada e Unione Europea (Ceta) o di presidiare la democrazia elettorale contro il progetto di Renzi di razionalizzazione neoliberale delle istituzioni dello Stato; dall'altro, alla stregua di Viktor Orban o di Marine Le Pen, si vantano le buone azioni di uno Stato autoritario, tanto all'interno quanto all'esterno, pronti a prendere in prestito da Putin la retorica della grandeur nazionale.

Guardando l'ordine dei fattori, resta il fatto che occorre fare attenzione a non invertirli: è la costruzione europea a portare la responsabilità schiacciante del riemergere ed espandersi del nazionalismo. Poiché, con l'Unione europea, non siamo semplicemente di fronte a un «deficit di democrazia», suscettibile di essere colmato dai contropoteri, ma a un vero e proprio smantellamento metodico e impietoso della democrazia, che si è costruito e affermato al ritmo della stessa costruzione europea. Niente lo dimostra meglio del funzionamento dei «trialoghi», termine con il quale si indicano gli incontri a porte chiuse ai quali partecipano rappresentanti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione, che avvengono al di fuori di qualunque controllo democratico e hanno il compito di «finalizzare» i testi delle direttive europee. Queste riunioni, che non hanno alcuna esistenza formale, si sono progressivamente moltiplicate dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona alla fine del 2009, con l'obiettivo di contenere il ruolo del Parlamento. Il loro effetto è stato quello di rafforzare il peso del Consiglio e delle lobby più forti del settore privato nel meccanismo della decisione politica. È attraverso questa strada che sono stati siglati i testi del «six pack», che rafforzano la disciplina di bilancio all'interno della zona euro.


La vittoria del «no» al referendum del 23 giugno 2016 in Gran Bretagna, o Brexit, rappresenta da questo punto di vista un caso da manuale. Da un lato, Jean-Claude Junker e David Cameron, i banchieri della City e i mercati finanziari. Dall'altro, l'odioso Nigel Farage del partito UKIP e la sua campagna contro gli immigrati. Gli effetti della Brexit non si sono fatti attendere, con l'arrivo di un clima irrespirabile, le aggressioni contro i lavoratori polacchi, il progetto di legge – poi ritirato per l'ampiezza delle reazioni – della conservatrice Theresa May, che intendeva obbligare le imprese britanniche a denunciare i lavoratori stranieri. La paralisi politica del Labour Party per l'intera durata della campagna non ha aiutato le cose: lo staff di Jeremy Corbin si è dimostrato incapace di immaginare una rottura di sinistra con l'Unione europea, lasciando così campo libero ai peggiori nazionalisti.


È questa responsabilità politica a incombere oggi sulla sinistra europea. A questo proposito il risultato delle elezioni legislative spagnole del 26 giugno scorso è ricco di insegnamenti. Contrariamente alle attese e alle speranze di molti, la coalizione Podemos-Unidos non solo non è riuscita a superare i socialisti del PSOE, ma ha perso un milione di voti rispetto a quanto realizzato nelle elezioni precedenti. Un risultato in gran parte dovuto alle scelte della direzione di Podemos: la coalizione con Unidos a molti è sembrata un accordo di apparato destinato a realizzare l'unico vero obiettivo della campagna, cioè superare a qualunque costo il partito socialista.


La lezione non lascia possibilità di replica: la sinistra non può permettersi di transigere sulla rivendicazione di democrazia, soprattutto quando si tratta del rapporto con i suoi elettori. E può fare propria questa esigenza solo a condizione di rompere, una volta per tutte, con la logica del partito e degli spauracchi della rappresentanza politica. Per questo deve lavorare attivamente alla reinvenzione di pratiche politiche a partire da una logica del comune, come già è accaduto per gli Indignados spagnoli e per le Nuit Debout francesi.

26 ottobre 2016

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La radicalizzazione del neoliberismo


Potremmo stupirci del fatto che non ci sia più stupore di fronte al continuo consolidamento delle logiche che hanno generato una delle peggiori crisi dal 1929. Diversamente da quest'ultima, che aveva portato a una rimessa in discussione politica e dottrinale assai profonda, dal 2008 non è accaduto niente di simile. In un famoso articolo del luglio 2008 sulla fine del neoliberismo, Joseph Stiglitz faceva eco al famoso testo di Keynes sulla «fine del laisser-faire» scritto nel 1926. Con questo parallelo dava a intendere che lo scenario degli anni Trenta stava per ripetersi. Sappiamo com'è andata. Il neoliberismo, pur godendo di un esteso discredito presso fasce sempre maggiori di popolazione, pur suscitando variegate resistenze, si è radicalizzato a vantaggio della crisi. E non è perché avrebbe dato prova della sua capacità di resilienza. Smarcandosi dai pronostici più ottimisti, il neoliberismo non è crollato, non ha ceduto il passo a un nuovo modo di regolazione. E non per questo oggi si limita a sopravvivere: radicalizzandosi, si è rafforzato. La crisi del 2008, che nelle teste di molti avrebbe dovuto inaugurare una fase postneoliberista moderata, ha invece consentito una radicalizzazione neoliberista. In un saggio notevole (dal titolo The Strange Non-Death of Neoliberalism), il sociologo britannico Colin Crouch ha posto la domanda decisiva: perché il neoliberismo è uscito rafforzato dalla crisi? La radicalizzazione del neoliberismo è appunto uno dei fenomeni più significativi del periodo che stiamo attraversando. La sua massima è: peggio va, più durerà. Se la diminuzione delle tasse a favore dei più ricchi e il suo corrispettivo, gli aumenti per il maggior numero, non hanno dato i risultati promessi, non significa che i governi dovranno rinunciarvi. Anzi. È perché tali diminuzioni e tali aumenti non sono stati abbastanza estesi che occorre perseverare sulla stessa strada.

Ricordiamo velocemente pochi dati. La crisi finanziaria del 2008 ha bloccato la crescita, ha aumentato la disoccupazione, ha indotto una considerevole perdita di ricchezza: il 23% del Pil della zona euro, il 10% del Pil mondiale. Ha generato una spaventosa voragine nel debito pubblico, che ad esempio in Francia è passato dal 64% del Pil nel 2007 all'82% nel 2010, e negli Stati Uniti dal 65% al 93%. Su scala mondiale il debito è passato dal 53% del Pil al 70%, ovvero a un incremento del 54% tra il 2007 e il 2011. Gli Stati dell'Unione europea hanno investito 4500 miliardi di euro, cioè il 37% del Pil, per evitare il crollo del sistema bancario. Se il costo finale di questo salvataggio non è così salato, possiamo comunque misurare l'ampiezza delle somme messe in gioco per evitare l'abisso.

Otto anni dopo l'esplosione della crisi, le disuguaglianze continuano a crescere, la volatilità del capitale continua a essere alta, i sacrifici richiesti alle fasce sociali più modeste non smettono di moltiplicarsi, la situazione del mercato del lavoro continua a degradarsi, i sindacati sono sempre più anemici, la sinistra sempre più a pezzi, ciò che sopravvive della socialdemocrazia agonizza in diversi paesi, l'estrema destra procede a vele spiegate. L'Europa si frantuma, si strappa, si discredita. La xenofobia si propaga, i rifugiati politici e climatici muoiono in mare e lungo le strade, si è smesso di tenere il conto del numero delle vite distrutte dalla disoccupazione. Gli andamenti di borsa, dal canto loro, sono tornati a sfondare valori massimi prima di precipitare di nuovo, i prodotti derivati proliferano, i dividendi sono ripartiti al rialzo, lo shadow banking, condizione di operazione di credito nella più completa opacità, ha strappato il testimone alle banche classiche. E gli hedge funds, in agguato di qualunque occasione di veloce profitto sui mercati, si sono ritagliati una bella nicchia a fianco degli investitori istituzionali. Il sistema finanziario mondiale è sempre più minacciato dall'esplosione di bolle perfettamente prevedibili: le «armi di distruzione di massa» (Warren Buffet) dei prodotti derivati sono libera circolazione, le banche centrali hanno fatto iniezioni per 13.000 miliardi senza altra conseguenza dall'arricchimento delle banche private e l'alimentazione di nuove bolle. I paradisi fiscali, nei quali sono congelati tra i 20.000 e i 30.0000 miliardi di dollari che sfuggono a qualunque fiscalità, prosperano come mai prima, sottraendosi ai timidi controlli. La finanza, l'immobiliare, il mondo politico continuano a vivere in stretta simbiosi: mai dal XIX secolo, con i suoi banchieri corrotti e i suoi baroni ladri, il denaro ha così tanto piegato la politica dei governanti alla propria legge. Le oligarchie politiche ed economiche hanno imposto la soluzione alla crisi: far rimborsare dalla gran parte dei lavoratori salariati e dei pensionati le somme investite per salvare il sistema finanziario dal fallimento e rilanciare l'accumulazione del capitale. Un gigantesco esproprio impone alle popolazioni di rimborsare un debito che non hanno mai contratto. È davvero il mondo alla rovescia di cui parla Aristofane, ma il mondo alla rovescia che oggi è diventato sistema.

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I governi stessi non hanno fatto niente per nascondere la sottomissione a queste «agenzie di rating», giudizi che fino a non molto tempo fa avevano la pretesa di basarsi su criteri di trasparenza e onestà. Al contrario, i governi hanno fatto di tutto per accreditare questi attori della finanza, i quali, con la complicità degli Stati, hanno svolto un ruolo così importante nella globalizzazione. Sono arrivati a concedergli un potere assoluto per poter meglio dimostrare la loro impotenza a resistergli. In gioco c'era la credibilità degli Stati nei confronti dei mercati, eretti a giudici supremi proprio attraverso le agenzie di rating. Gli Stati europei, per fare meglio, si sono trasformati in agenti diretti della repressione finanziaria nei confronti di quegli Stati che non seguivano la strada della completa sottomissione alle esigenze dei creditori. La crisi ha così mostrato che il governo non era altro che il factotum del capitalismo finanziario. Come ha ben messo in evidenza Rawi Abdelal, dopo che negli anni Ottanta gli Stati hanno rimesso il potere al capitale introducendo le regole della completa liberalizzazione, è il capitale che ormai deve essere protetto da parte dello Stato, non le popolazioni. Governare attraverso la crisi significa rivolgere quest'ultima a vantaggio delle classi che in un modo o nell'altro vivono del capitale. Le une vogliono conservare e soprattutto estendere le condizioni più favorevoli alla rendita finanziaria su scala globale, mentre le altre vogliono accrescere la pressione diretta sui lavoratori nelle imprese che controllano.

Quanto al «miracolo» del debito pubblico, esso consente il trasferimento di risorse dai più poveri verso i più ricchi grazie alle misure di austerità messe in campo dagli Stati stessi. È la conseguenza logica di una politica che è consistita nel finanziare lo Stato attraverso i prestiti sui mercati finanziari. Trasferire finanziariamente il costo della crisi dagli azionisti privati ai contribuenti, detto altrimenti passare da una crisi del debito privato a una crisi dei «debiti sovrani», è stato un capolavoro di questa modalità di governo attraverso la crisi. Un modo di governo che si è perfezionato ed è diventato sistematico. L'orizzonte del neoliberalismo è ormai da tempo quello della «tassazione zero» per le grandi imprese, compensata dal trasferimento della totalità del carico fiscale sulle famiglie povere e della classe media. Questo meccanismo non è a sua volta estraneo all'accelerazione della finanziarizzazione dell'economia e della sua cronica instabilità. La flessione della domanda delle famiglie è stata mascherata dall'indebitamento privato e dalle spese sontuose delle classi ricche (immobiliare residenziale, opere d'arte, prodotti di lusso, grandi cilindrate, barche...), alimentando altrettante bolle speculative che gonfiano artificialmente il Pil a vantaggio delle spese pubbliche realmente utili a tutti.

[...]

Sono le logiche del minor offerente ad avere la meglio nel processo di concorrenza generalizzato: minor offerente per i lavoratori, minor offerente fiscale, regolativo e giuridico per le imprese. Queste ultime, con il sostegno delle banche e degli Stati, sono in lotta per l'«attrattiva fiscale», la «competitività», la «flessibilità». Dietro questi termini c'è la grande vittoria delle aziende multinazionali, che esercitano continue pressioni sulle autorità politiche nazionali o locali per godere di vantaggi fiscali, sovvenzioni, deroghe ai regolamenti e di una prolungata deflazione salariale. Con la conseguente devastazione sociale, ambientale e soggettiva che alimenta collera, disperazione, rassegnazione. Che per domani annunciano forme più o meno modernizzate di fascismo, proporzionali al sentimento di abbandono delle popolazioni impoverite.

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A essere neoliberista non è solo l'ideologia, oppure tale o tal altra politica. Una volta che il processo di neoliberalizzazione delle società e delle menti ha raggiunto una certa soglia, è la stessa realtà sociale a diventare neoliberale. Come Marx non cessa di ripeterlo, non è la rappresentazione che rovescia la realtà, è la realtà a essere rovesciata a sua volta. È la realtà a prendere la forma di un sistema di vincoli che si applica agli individui, che piega tutti i presunti «realismi» e «pragmatismi» alla propria legge di ferro. È in questo modo che la «sinistra socialdemocratica» si è affondata con le proprie mani negli ultimi trent'anni. Non è stata semplicemente la vittima di una realtà che le si è imposta e l'ha portata a scendere a patti con la sua vecchia ambizione di redistribuzione e uguaglianza. Dagli anni Ottanta la «sinistra socialdemocratica» è in prima fila nell'istituzione della razionalità neoliberale. In Francia, come in Italia, è la socialdemocrazia ad aver svolto un ruolo decisivo nella liberalizzazione della finanza e del commercio, favorendo il passaggio a una nuova fase economica e politica: quella del Capital rules.

Questa sinistra ha di fatto ripreso integralmente il programma della destra: feticismo della stabilità monetaria, riduzione dell'imposizione e delle spese sociali, flessibilità del mercato del lavoro e, soprattutto, primato pressoché costituzionale del principio di competitività. Prigioniera di questa logica della libertà di circolazione dei capitali e della competitività, la sinistra ha finito per dare ragione alle rivendicazione del capitale e sistematicamente torto a quelle del lavoro. Clinton, Blair, Bérégovoy, Prodi, Jospin, Schröder e oggi Hollande o Renzi sono stati e restano degli zelanti produttori della società neoliberista. È del resto questo nuovo ruolo della sinistra a spiegare il suo crollo in molti paesi, talvolta fino alla sua scomparsa dalla rappresentanza parlamentare (come in Polonia nell'ottobre del 2015), e l'ascesa contestuale, ovunque, di nuove forze conservatrici e nazionaliste, talvolta apertamente fasciste.

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Il neoliberismo è attivamente impegnato a sfasciare la democrazia. Imponendo lentamente, pezzo dopo pezzo, una cornice normativa globale che assolda individui e istituzioni dentro una logica implacabile che demolisce le capacità di resistenza e di lotta. Una logica che nel tempo non si indebolisce, bensì si rafforza. È questa natura antidemocratica del sistema neoliberale a spiegare la spirale della crisi. La rimessa in discussione della democrazia percorre strade diverse tutte riconducibili a ciò che Wendy Brown ha giustamente chiamato un processo generale di «de-democratizzazione», che consiste nello svuotare la democrazia della sua sostanza senza sopprimerla dal punto di vista formale. È certo il parlamento greco ad aver votato le misure di austerità che hanno annientato l'economia greca e fatto del debito un nodo che strangola la società.

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2. Il progetto neoliberale:
un progetto antidemocratico



Il neoliberismo, prima di assumere l'aspetto di un vero e proprio sistema politico-istituzionale, è stato anzitutto un ambizioso progetto di rinnovamento del liberalismo, concepito fin da prima la Seconda guerra mondiale. Dal progetto al sistema istituzionale non vi è certamente pura e semplice continuità: non pochi elementi previsti dal progetto originario sono stati accantonati o abbandonati in corso d'opera, cosicché oggi il sistema può difficilmente essere inteso come la realizzazione integrale e fedele del progetto o come la sua applicazione traviata. Eppure una cosa è certa: nel cuore del progetto di rinnovo del liberalismo, vi è fin dall'origine un tratto antidemocratico fondamentale che deriva dalla volontà esplicita di sottrarre le regole del mercato all'orientamento politico dei governi, consacrandole come regole inviolabili che si imporrebbero a qualunque governo a prescindere dalla maggioranza elettorale dal quale è scaturito. La cosa più sorprendente è che questa ostilità di principio nei confronti della democrazia trova essa stessa una legittimità, perlomeno presso alcuni teorici neoliberali, passando attraverso una certa idea della «democrazia».

Così, all'apice della crisi greca, abbiamo sentito dirigenti politici ricordare impettiti che la democrazia consiste, per un governo scaturito da una maggioranza elettorale, nell'onorare costi quel che costi i propri impegni verso le istituzioni europee e internazionali. Ma allo stesso tempo era comunque e sempre la democrazia che veniva invocata «per schiacciare i cittadini sui loro governi», così da renderli corresponsabili dei debiti da questo contratti. È dunque una stessa parola, quella di democrazia, che serve ad affermare contemporaneamente la responsabilità dei cittadini per i governanti da loro eletti e la responsabilità di questi stessi governanti nei confronti di istituzioni che non ha eletto nessuno. In entrambi i casi, è la responsabilità dei governanti nei confronti dei loro elettori che viene elusa, a esclusivo vantaggio della responsabilità dei cittadini elettori e dei loro governanti di fronte a istituzioni non elette. Potremmo chiederci se tali affermazioni, aldilà del contesto politico specifico nel quale sono emerse, non rimandino a una specifica concezione della democrazia portata avanti dal progetto neoliberale fin dal suo battesimo. Per questo è importante fare un breve ripasso della sostanza di questo progetto: perché, se quest'ultimo è stato fin da subito radicalmente ostile alla democrazia, il sistema istituzionale neoliberale qual è oggi in funzione è un sistema metodico e inflessibile di svuotamento della democrazia e non è in alcun modo una forma originale e inedita di democrazia, come c'è chi cerca di far credere.

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3. Sistema neoliberale e capitalismo



Occorre smettere di pensare l'insediamento del neoliberalismo in forma esclusivamente negativa: lo smantellamento di regole esistenti, l'assottigliarsi dei margini di mediazione degli Stati, il venir meno della sovranità nazionale, il mancato funzionamento della democrazia liberale. Poiché, al contrario, di fronte abbiamo il funzionamento reale di una forma di potere positiva e originale, che faremmo meglio ad analizzare. Il governo neoliberale in effetti ha prodotto un sistema di potere formato da istituzioni politiche e finanziarie e dotato di strumenti legislativi e dispositivi amministrativi. Si tratta di un sistema che assolve funzioni di coordinamento tra spazi nazionali, predispone leve di trasformazione delle società e garantisce una certa preservazione dell'ordine pubblico su scala mondiale. Ciò che caratterizza l'economia politica del neoliberalismo non è la passività della sfera politica, il suo carattere minimo, il suo restringimento: è al contrario la permanenza di un interventismo governamentale produttore di un ordine nuovo. Questo interventismo, di una specie assai particolare, va inteso per quello che è: un insieme di politiche sia condizionate che condizionanti, subordinate e insieme produttrici di un sistema.




Il sistema disciplinare della concorrenza


Il liberalismo è diventato un sistema istituzionale e normativo all'interno del quale una governamentalità produttiva e una logica disciplinare si sostengono a vicenda. Questo sistema neoliberale globale è inseparabile dalla «globalizzazione». In quanto insieme di regole, istituzioni, norme, ha consentito l'intensificazione degli scambi, l'internazionalizzazione della produzione e la liberazione dei flussi di capitale. Questo insieme normativo e regolativo si è costruito lungo il filo di trattati, di patti, di accordi internazionali del diritto commerciale internazionale, dietro l'incoraggiamento e la sorveglianza di organismi internazionali (Wto, OCSE, FMI, Banca mondiale, Commissione europea...) e di agenzie private di rating la cui funzione di polizia economica non ha smesso di aumentare negli ultimi anni.

Questa «globalizzazione dei mercati» non è affatto una specie di caos o di anarchia generalizzata, le cui caratteristiche sarebbero esclusivamente negative rispetto all'ordine pubblico mondiale precedente, invece strutturato dai diritti statuali della sovranità. Le regole e le norme che organizzano la globalizzazione creano uno spazio particolare nel quale si porta avanti un gioco che vincola alle medesime regole gli attori che vi prendono parte. Occorre ribadire il ruolo strategico svolto dalle aziende multinazionali, che sono state le principali protagoniste della globalizzazione. Sono loro infatti a mettere in opera in grande scala una frammentazione mondiale dei processi di produzione che oggi riveste forme singolarmente complesse: iper-globalizzazione della finanza, estensione delle delocalizzazioni alle attività di servizio, parziale rilocalizzazione di alcune attività produttive a prossimità dei mercati.

Le regole e le norme dello spazio globalizzato sono più precisamente quelle della concorrenza tra imprese finanziarie e produttive di grandi dimensioni. La concorrenza reale è una lotta feroce per il potere di mercato tra oligopoli mondiali. Dobbiamo ricordare che la concorrenza può assumere due forme: la concorrenza attraverso i prezzi e la concorrenza attraverso l' innovazione. Il capitalismo neoliberale si caratterizza per il primato accordato alla concorrenza attraverso l'innovazione, mentre gioca sulla complementarità di queste due modalità di concorrenza. Questa osservazione ha un certo rilievo quando sappiamo che queste due modalità determinano due logiche nell'organizzazione della produzione che sono oggi profondamente intrecciate. La prima è quella della «divisione cognitiva» dal lavoro, predominante nei settori di punta (biotecnologia, farmacia, elettronica, informatica...). La produzione è allora organizzata in funzione della divisione di blocchi di sapere relativamente omogenei (ad esempio la ricerca e sviluppo o il marketing). La seconda è quella della «divisione taylorista» del lavoro, che non è stata abolita bensì riattivata dalla prima. Essa è caratterizzata dalla frammentazione del processo di produzione secondo un'esigenza di minimizzazione dei costi e delle scadenze che consentono di far fronte alla concorrenza dei prezzi.

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Spostare più in là le frontiere di appropriazione della natura


Come si impone nel rapporto con la natura questa logica dell'illimitato? Abitiamo un pianeta finito, interamente conosciuto e occupato, eppure la logica della merce può vivere solo nella sua infinita espansione. Non vi sono più spazi vergini, difficile tirare in ballo la narrazione della terra nullius, cosa che impedisce di riprodurre la logica della nuova frontiera che ha accompagnato la conquista dell'ovest. Eppure, ce l'ha insegnato la storia, qualunque frontiera posta dal capitale sta lì per essere superata. E ciò avviene solo grazie alla creazione di norme e di istituzioni. Rispetto a questa logica implacabile, possiamo individuare due nuove forme.

La prospettiva di un esaurimento delle energie fossili in un futuro prossimo spinge alcuni Stati a incentivare una vera e propria corsa all'appropriazione dello spazio esterno all'atmosfera. Il 25 novembre 2015, pochi giorni prima dell'inaugurazione della Conferenza sul clima COP21, Barack Obama promulgava una legge, la legge HR 2262, che autorizzava tale appropriazione senza procedere a una revisione formale dello statuto giuridico di questo spazio. Dagli inizi degli anni Sessanta il diritto internazionale rimanda infatti all'interesse «per l'intero genere umano», per favorire l'uso dello spazio extra-atmosferico a fini pacifici. Il trattato sullo spazio del 1967 ne fissa lo statuto giuridico nei primi due articoli. Anzitutto, riconoscendo un diritto d'uso aperto a tutti gli Stati e che consente un uguale accesso. Poi, sancendo che «lo spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione da parte degli Stati, né sotto pretesa di sovranità, né per utilizzazione od occupazione, né per qualsiasi altro mezzo possibile». Questi due aspetti, uso aperto a tutti e non appropriabilità, rimandano entrambi ai soli soggetti riconosciuti dal diritto internazionale, gli Stati: l'appropriazione nazionale è l'appropriazione da parte degli Stati e la non appropriabilità è la non appropriabilità da parte gli Stati.

È appunto su questo limite che gioca abilmente la legge promulgata il 25 novembre 2015 il cui nome è tutto, Competitiveness Act, ovvero legge della competitività. In uno dei suoi articoli, essa conferisce a un cittadino statunitense intento nell'uso commerciale di una risorsa collocata su un asteroide nello spazio il diritto di detenere, possedere, trasportare, utilizzare e vendere la risorsa ottenuta conformemente alla legislazione applicabile. Cosa che equivale a riconoscere alle società commerciali americane un diritto di proprietà vero e proprio, insieme al suo carattere esclusivo e assoluto.

[...]

Con la finanziarizzazione della biodiversità abbiamo una seconda forma della logica dell'assenza di limite. La mercificazione della natura è giustificata in nome di ciò che ormai occorre chiamare la «compensazione biodiversità». Con questo dobbiamo intendere non il fatto di non avere diritto a distruggere la biodiversità, ma al contrario che abbiamo questo diritto a condizione di sostituire da un'altra parte quel che abbiamo distrutto qui. Ad esempio abbiamo il diritto di distruggere qui dieci ettari di foresta a condizione di reimpiantare altri dieci altrove, con l'argomento che fra trent'anni quando gli alberi saranno cresciuti la differenza non sarà poi molta. Ma per operare questa compensazione occorre valutare preventivamente l'ammontare della perdita da compensare. Occorre dunque dare valore a quello che non è un prodotto del lavoro, ad esempio all'impollinazione degli alberi e dei fiori attraverso le api.

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L'assenza di limite come regime della soggettività


È la medesima logica che ritroviamo al centro della soggettivazione neoliberale, con la quale siamo alle prese con una soggettivazione finanziaria. In effetti, in quanto forma storica specifica del capitalismo, il liberalismo comporta una sostanziale dimensione di immaginario, o meglio: esso si costituisce e si mantiene unicamente grazie a questa dimensione. Anzi, sarebbe incapace di sopravvivere alle crisi maggiori e a maggior ragione di rafforzarsi proprio grazie a queste crisi. Ma tale immaginario è fondamentalmente un immaginario imprenditoriale e non un immaginario mercificato. Se non capiamo questo, siamo condannati all'impotenza. Continuare a ripetere fino allo sfinimento che occorre opporre alle politiche neoliberali politiche keynesiane e redistributive significa non capire che per combattere il neoliberalismo occorre opporre al suo immaginario un immaginario alternativo, cioè un immaginario che dovrà essere all'altezza di quello cui intende sostituirsi elevandosi fino alla proposta di una forma di vita desiderabile. Per fare nascere il desiderio di trasformare il mondo non serve altro che la potenza di un immaginario. Accettare di lasciarsi imprigionare in una discussione sulla fattibilità economica di questa o quella proposta significa aver già perso la partita. Perché è esattamente l'immaginario neoliberale a imporre in anticipo la collocazione su questo terreno e poiché è tale immaginario a dare al neoliberalismo una forza incomparabile, occorre chiedersi da dove provenga l'attrazione che riesce a esercitare, inclusa quella sui più poveri. Detto altrimenti: cosa nel suo contenuto lo fa sembrare il vettore di una promessa di libertà alla portata di ogni individuo?

[...]

In questo senso, la democrazia imprenditoriale supera largamente il ristretto ambito politico: essa è la democrazia ma collocata a portata di mano, una democrazia non delegabile e non rappresentativa poiché è questione del rapporto di ciascuno con se stesso, dunque dell'autonomia e della responsabilità. Ciascuno è così responsabile della conduzione della sua vita. Il che non significa che tutti diventano imprenditori, almeno nel senso statutario del termine. Ma, ci si chiederà, come può qualcuno che non è un imprenditore condurre la propria vita come un'impresa? Difatti, se per essere un imprenditore, occorre avere un'impresa, per prendere parte all'impresa basta essere di un'impresa. Il «cittadino» della «democrazia imprenditoriale» è egli stesso un'impresa, cosicché questa democrazia prima di essere quella del cittadino-imprenditore e quella del cittadino-impresa. Ed è la ragione per la quale conduce la propria vita «sul modello» di un impresa, ovvero sul modello con il quale porterebbe avanti un'impresa se ne avesse una. La democrazia consiste quindi nel dare a ciascuno la possibilità di dirigere l'impresa che lui stesso è e come vorrebbe farlo, nel renderlo totalmente responsabile di questa conduzione e di ciò che ne consegue, fallimenti e successi.

Per capire questo punto decisivo, vale la pena fermarsi sulla teoria del «capitale umano» elaborata dal neoliberalismo americano. L'originalità di questa concezione è quella di rovesciare completamente il modo di pensare il rapporto del soggetto al suo stesso lavoro, quale una certa tradizione dell'economia politica lo aveva pensato nel solco del marxismo. Sappiamo che Marx distingueva tra lavoro e forza-lavoro, tra forza-lavoro e lavoratore. Dei tre concetti è indubbiamente quello di forza-lavoro a essere centrale. Il lavoratore possiede una forza-lavoro, composta da attitudini e competenze, che non è nient'altro se non una merce fornita di un valore determinato. Vendendo questa merce al capitalista, il lavoratore gliene cede l'uso per un tempo determinato in cambio di un salario. Il lavoro, un'attività di lavoro, consiste in un dispendio della forza-lavoro per una durata quantitativamente determinata. In questa prospettiva il lavoro vale in quanto «lavoro astratto», ovvero lavoro reso omogeneo attraverso ciò che il mercato determina come socialmente necessario alla produzione di questa o quella merce. In altri termini, il lavoratore ha una forza-lavoro che impiega durante il processo di lavoro e ciò che anzitutto gli importa è il valore al quale vende la propria forza-lavoro al capitalista. L'attività di lavoro stessa non è altro che la messa in opera di questa forza a condizioni che sono determinate dal capitalista.

Il rovesciamento operato dai neoliberali americani consiste nel situarsi esplicitamente dal punto di vista del soggetto che sta lavorando, oppure nel considerare il lavoratore come un «soggetto economico attivo», facendo completamente a meno del concetto di forza-lavoro. Allora saremo obbligati a scomporre il lavoro tra capitale e reddito: considerando l'attitudine o la competenza del lavoratore come un genere specifico di «capitale» e il salario come il «reddito» di questo capitale. Diremo allora che il lavoratore ricava un certo reddito dal proprio capitale-competenza o che questo reddito è il prodotto o il rendimento di questo capitale. Qualunque fonte di redditi futuri è un capitale, ma il capitale-competenza differisce notevolmente dagli altri capitali, ovvero da quelli che sono investiti in un'impresa da parte dei suoi proprietari. In effetti, il capitale-competenza ha la particolarità che esso non può essere separato dalla persona stessa del lavoratore, ed è precisamente ciò che fa la differenza rispetto alla forza-lavoro: mentre la forza-lavoro può essere ceduta o alienata perché è dissociabile dalla persona del lavoratore, il capitale-competenza non può essere alienato perché non può essere dissociato dalla persona del lavoratore. Non è ciò che viene puntualmente ceduto attraverso un contratto di lavoro, ma è un elemento coestensivo all'intera durata della vita del lavoratore in quanto lavoratore. È composto sia di elementi innati sia di elementi acquisiti, tra i quali in prima fila l'educazione e la formazione. È appunto per questo che merita il nome di «capitale umano». La forza-lavoro è una merce che si possiede senza che per questo si diventi merce, la competenza è un capitale che non si possiede ma che ci rende capitale. Se è sempre possibile prendere le distanze da ciò che si ha, non è mai possibile separarsi da ciò che si è. Il lavoratore è così egli stesso il suo stesso capitale, poiché è egli stesso la fonte dei suoi redditi. In questo senso è un «imprenditore di se stesso».

Non smetteremo mai abbastanza di ribadire l'importanza dell'idea di un'impresa elevata al rango di modello del rapporto a sé per i soggetti.

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4. L'Unione europea o l'impero delle norme



Chi sta dentro l'Unione europea non può invocare la sovranità popolare per opporsi a regole che hanno assunto un valore costituzionale superiore a qualunque volontà generale dei cittadini: «Non possono esserci scelte democratiche contrarie ai trattati europei». Le istituzioni europee, commissione e consiglio, ugualmente si ritengono in diritto di operare contro un governo legittimamente eletto, di sostenere la sua opposizione, di destabilizzare un'intera economia per rovesciarlo, come abbiamo visto nel caso della vittoria elettorale di Syriza in Grecia alla fine del mese di gennaio 2015. In questo senso, la lezione greca è di grande importanza per cogliere il progetto europeo vero e proprio. Infatti, finalmente uscita da un periodo di tentennamenti e sperimentazioni, di mezzi silenzi dei liberali e di fumi senza arrosti dei socialdemocratici, l'Europa è entrata in una fase nuova: quella di un potere nuovo che si rivela e si dichiara in quanto tale e che funziona come un impero di nuovo genere, fondato sull'inflazione della norma giuridica ed economica.

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In cosa l'Unione europea sarebbe sociale?


Il tabù neoliberale ha da tempo marchiato come illegittima qualunque questione di giustizia sociale nell'Unione europea. E se la questione sociale è al centro della costruzione economica europea, lo è unicamenre dal punto di vista della competitività. Lungi dall'abbandonare il sociale alle politiche nazionali, come spesso le si rimprovera, la Commissione europea, la Corte di giustizia dell'Unione europea e la BCE sono diventate veri e propri organi di governo della società, che hanno di mira l'introduzione di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, l'aumento della performance globale dei fattori economici e l'innalzamento del livello di crescita potenziale dell'Europa, stando alla retorica ufficiale. La concorrenza diretta, con i lavoratori distaccati, o indiretta, con la disparità dei salari e della protezione sociale, è un congegno capace di erodere con efficacia il diritto del lavoro e di indebolire quello che resta del lavoro salariato organizzato. Non solo l'Europa non protegge le conquiste sociali, ma le distrugge. Le ormai celebri decisioni della Corte di giustizia dell'Unione europea lo mostrano a sufficienza: le sue sentenze tra 11 2007 e il 2008 costituiscono una vera rivoluzione, perché non hanno mai omesso di schierarsi per la libertà delle prestazioni e delle aziende nell'Unione contro il diritto del lavoro e le contrattazioni collettive fissate in ambito nazionale.

Costruendo con zelo prima il mercato poi la moneta unica, la sinistra europea ha operato attivamente per edificare un sistema normativo che impedisce qualunque politica di sinistra e comporta alla lunga la sua stessa estinzione, a vantaggio della destra più estrema, xenofoba e nazionalista. È grazie all'Europa che l'autodistruzione della socialdemocrazia (e di parte dei verdi) si è accelerata, non solo perché all'interno del Parlamento europeo la sinistra del Partito socialista vota nella maggior parte dei casi come la destra del Partito popolare, ma soprattutto perché l'integrazione europea attraverso la concorrenza è diventata il reale contenuto delle politiche nazionali portate avanti dalla «sinistra».

L'Europa è rimasta a lungo, perfino per la sinistra critica o per i movimenti contrari alla globalizzazione, un oggetto politico poco identificabile. La sua storia non era più conosciuta della sua natura. Ci si limitava all'auspicio di «democratizzare l'Europa», fare un'«Europa sociale», alla stregua o a fianco dell'«Europa dei mercati». La sinistra della sinistra non aveva infatti rinunciato a cercare di influenzare o di riorientare l'Unione europea in un senso più sociale e più democratico, e ciò nonostante l'esplicito inquadramento dei più illuminati dei «socialdemocratici» dentro il progetto ordoliberale. Questo misconoscimento della logica interna alla costruzione europea era il risultato di un fenomeno di restringimento nazionale dell'orizzonte delle sinistre europee, diventate piuttosto indifferenti nella sostanza all'ambiente circostante europeo e internazionale. Il dibattito sul Trattato costituzionale del 2005 ha modificato brutalmente il dato, chiarendo che se l'Europa realmente esistente era «sociale» non lo era nel senso in cui si poteva credere o sperare.

In realtà, la democratizzazione è l'illusione finale dei difensori del «progetto europeo». Proprio come l'Europa sociale, l'Europa democratica non si darà, almeno non nella cornice esistente. Poiché in questione ci sono le stesse fondamenta dell'Europa e non questo o quell'altro «difetto» al quale poter porre rimedio con qualche complemento istituzionale. Ed è la ragione per cui l'iniziativa di Yanis Varoufakis , DIeM25 e il suo Manifesto per la democratizzazione dell'Europa, rischia di essere condannata al fallimento; non perché apra la prospettiva di una costituente europea, ma in virtù degli strumenti immaginati: nell'immediato fa un appello alla democratizzazione della burocrazia dell'Unione europea e immagina di poter rispondere nell'arco di 12 mesi alla crisi economica in corso «con l'aiuto delle istituzioni esistenti e dentro la cornice dei trattati in vigore», grazie a una «reinterpretazione creativa dei trattati». In realtà, qualunque pratica rivolta alla democratizzazione delle istituzioni europee sulle basi costituzionali esistenti può solo voltare le spalle alla democrazia. La lezione greca è senza appello: se vogliamo rifondare l'Europa, è con l'intero sistema dei trattati che dobbiamo rompere. L'alternativa non è «il ripiegamento nazionalista o la continuità dell'Europa attuale», poiché è precisamente questa continuità a nutrire e a esasperare il nazionalismo nelle forme più abbiette. L'Europa non può essere rifondata se non a partire dal basso, da una cittadinanza democratica transnazionale che non potrà essere che l'opera dei cittadini europei stessi.

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La strategia del blocco democratico


«Come vincere le battaglie se non avvengono mai sul proprio terreno?», è la domanda posta da Eric Fassin. Che altrove precisa: «È l'indebolimento ideologico della sinistra a rendere possibile l'affermazione della destra». Il che significa che qualunque alleanza con un partito che di socialista o di democratico mantiene solo il nome ha già dimostrato quanto sia deleteria per quel che resta della sinistra. Significa che le sconfitte della sinistra, per quanto siano l'effetto di rapporti di forza asimmetrici, sono anche arretramenti del pensiero, debolezze della volontà, esplicito consenso alla «realtà» fabbricata dalle oligarchie. La domanda strategica è duplice. Anzitutto si tratta di chiedersi come unificare e concentrare forze diverse, a fronte del fatto che le oligarchie sono strutturate da mille legami di socialità e salde forme organizzative. E come può darsi un coordinamento efficace delle lotte sul piano globale. Poiché, se le oligarchie sono riuscite a dotarsi di istituzioni nazionali e internazionali capaci di concentrare la loro potenza (e non potremmo essere più lontani dall'immagine di un impero privo di centro e di gerarchie), le forze che vi si oppongono hanno grande difficoltà a concepire e a mettere in pratica una politica mondiale alternativa.

Sul primo risvolto di questa domanda, sono state formulate due grandi strategie. La prima, quella di Michael Hardt e Toni Negri , ha scommesso sullo spontaneo comunismo di fondo della moltitudine costituita in soggetto politico. Il suo fallimento, oggi evidente, risiede anzitutto nell'annacquamento della dimensione dell'istituzione, la quale viene ridotta in modo arbitrario a una modalità della «produzione», ovvero a un processo materiale capace di inglobare in modo indifferenziato tutte le dimensioni della vita. Una seconda strategia, formulata da Ernesto Laclau , parte al contrario dal fatto che il «popolo» non è dato, bensì costruito. L'intera questione è allora quella di determinare la natura di una tale costruzione. Per Laclau, oltre all'operazione discorsiva di divisione della società in due campi, il popolo e il potere, «l'unificazione simbolica del gruppo intorno a un individuo» è connessa alla formazione di un popolo. Questa unificazione simbolica deriverebbe più esattamente da un'identificazione degli individui con un leader, che con essi condividerebbe tratti comuni che gli consentono di esserne il «padre» e il «fratello». È legittimo farsi domande sulla possibilità di conciliare la condizione di tale identificazione al capo con le esigenze della democrazia, la quale al contrario implica una messa a distanza dei dirigenti attraverso l'esercizio di un controllo effettivo da parte dei cittadini.

Ancora più importante: è possibile vedere nel successo elettorale del 2015 di Podemos in Spagna una verifica del populismo di Laclau? È legittimo dubitarne. Dopo la breccia di Ciudadanos, la strategia della centralità (né sinistra, né destra) che mirava a dividere la società in due campi, la casta e il popolo, è di fatto fallita. La differenza tra loro (la casta) e noi (il popolo) non ha sostituito quella tra sinistra e destra. Podemos ha finito con l'occupare il posto di un partito di sinistra, che è riuscito a captare l'aspirazione a una democrazia radicale e a godere del sostegno delle forze che sostenevano questa aspirazione con molta costanza (in particolare quella di Ada Colau alla testa di «Barcellona in comune»). Da questo punto di vista, l'iscrizione dei diritti sociali nella costituzione, l'introduzione del proporzionale nella legge elettorale e soprattutto l'istituzione di un meccanismo di revoca del presidente del governo a mezzo mandato sono tutte rivendicazioni programmatiche che hanno avuto un ruolo non trascurabile. In ultima istanza, è dalla fedeltà di Podemos a questo impegno che dipenderà il suo stesso avvenire politico. Tanto lo spontaneismo della moltitudine quanto il costruttivismo della ragione populista finiscono con l'inciampare sulla questione chiave della democrazia, intesa come istituzione messa in opera dai cittadini stessi.

In forma più generale, è il problema del partito come supporto della coalizione da costruire che dovremmo porci, senza sotterfugi e alla luce dell'esperienza trascorsa. Va detto senza giri di parole: nei confronti dell'esigenza di una democrazia politica radicale, è la stessa forma partito che va messa apertamente in causa. In effetti, lungi dal costituire una struttura di organizzazione in quanto tale, indifferente a qualunque contenuto, la forma partito definisce un'istituzione specifica che porta con sé una certa idea dell'attività politica.

[...]

Occorre riconoscere le peculiari condizioni che hanno reso possibile l'avanzata di Podemos alle elezioni legislative del 2015 e le vittorie politiche ottenute a Madrid e a Barcellona che ne sono state il preludio. E tutto comincia con l'occupazione delle piazze nel maggio 2011. La fine delle occupazioni non ha affatto significato la fine dell'immensa energia accumulata e concentrata in questo movimento. Come fa molto giustamente osservare Amador Fernàndez-Savater, questa energia «si è ridispiegata, trasformando i diversi territori del quotidiano: anzitutto si sono create assemblee di quartiere, poi si è alzata una poderosa ondata di difesa del servizio pubblico, si è sviluppata e moltiplicata la piattaforma di difesa delle vittime di ipoteche e migliaia di iniziative, spesso invisibili, sono diventate virali: ovunque cooperative, giardini urbani, banche del tempo, reti solidali di economia, centri sociali, nuove librerie... Possiamo dire che l'evento del 15M ha ricoperto la società con una specie di seconda pelle: una superficie estremamente sensibile, nella quale e attraverso la quale ciascuno ha avvertito come proprio ciò che accadeva ad altri, a degli sconosciuti. [...] Uno spazio ad alta conducibilità nel quale le diverse iniziative proliferano e risuonano tra loro senza riferirsi ad alcuna istanza centralizzante; una pellicola o un film anonimo nel quale circolano correnti di affetti ed energie imprevedibili e ingovernabili, che attraversano con gioia le categorie sociali stabilite». Prescindere da questo ridispiegamento dell'energia del movimento delle piazze, separare la nascita di Podemos da questa «messa in movimento» dell'intera società significa condannarsi a non capire la sostanza. Per la stessa ragione qualunque tentativo di riprodurre lo «schema spagnolo» a partire dall'alto è destinato al fallimento. Perché ciò che è in gioco, aldilà della vittoria elettorale del dicembre 2015, è la pericolosa prevalenza della logica della rappresentazione e della centralizzazione sulla logica dell'uguaglianza e della partecipazione o, per continuare a citare Amador Fernàndez-Savater, la prevalenza del teatro rispetto alla pelle. Che serva da lezione: per non lasciarsi rinchiudere nella logica teatrale della rappresentazione, «occorre riprendere la sperimentazione partendo dal terreno e dall'altezza delle forme di vita», ovvero «aprire la pelle» attraverso l'invenzione di nuove pratiche collettive.

È l'unico modo per dischiudere nuove possibilità agli stessi governi, facendo saltare il chiavistello con il quale si rinserrano facilmente una volta al potere, anche quando sono animati dalle migliori intenzioni. Il caso della Grecia merita ancora una volta la nostra attenzione. Una delle debolezze del governo di Syriza è stata quella di lasciarsi rinchiudere in una divisione dei ruoli in tutto e per tutto classica, quella che impone appunto una logica del teatro: dove i governanti occupano la posizione degli «attori» su una scena e sollecitano il suffragio dei cittadini, ridotti al ruolo meno classico di «spettatori» del teatro politico. Eppure, in Grecia tra la rovine dello Stato sociale sono sorte migliaia di iniziative con l'obiettivo non solo di garantire la sopravvivenza, ma di difendere le forme di vita e di assistenza sociale. Basta citare le imprese autogestite, i collettivi di genitori e di insegnanti che hanno gestito asili, scuole materne e scuole di quartiere, l'esplosione dei luoghi di cultura alternativi, i dentisti, gli psichiatri e i medici di base che hanno garantito assistenza alla salute... Insomma tutti quei tentativi dal basso per produrre «senza Stato, senza finanziamenti, senza aiuti pubblici e senza intermediari privati», che avrebbero meritato di essere incoraggiati dall'alto. Il governo avrebbe accresciuto il proprio margine di manovra interno appoggiandosi su queste iniziative, favorendo il loro coordinamento e la loro integrazione in un progetto politico più esteso. Perché, al di là della situazione specifica della Grecia, ciò che in questione è rapporto tra il governo e lo Stato. La trasformazione neoliberale dello Stato ha oggi raggiunto un punto tale che qualunque governo davvero preoccupato della sovranità popolare dovrebbe governare contro lo Stato esistente, e più precisamente contro tutto ciò che nello Stato sorregge la dimensione oligarchica. Ma può farlo unicamente se può fare appello ai movimenti che formano, o sono suscettibili di formare, la «pelle» della società, contrastando la logica neoliberale dell'amministrazione statale.

Sul secondo risvolto della questione strategica (il coordinamento delle lotte sul piano internazionale), la risposta risiede per noi nell'esigenza di costruzione di un blocco democratico internazionale. Non un cartello di partiti come il Front de gauche in Francia o Syriza in Grecia, forme politiche che hanno ampiamente dimostrato i loro limiti, ma un blocco composto da innumerevoli forze politiche, organizzazioni sindacali, associative, ambientali, intellettuali e culturali. Le quali dovrebbero investirsi sul piano locale, nazionale e internazionale in una stessa lotta contro l'oligarchia a partire da una piattaforma comune. Una dimensione internazionale che non sarebbe affatto l'aggiunta secondaria di una lotta nazionale, bensì il suo tratto costitutivo. La seconda lezione da ricavare dalla capitolazione di Alexis Tsipras è appunto il fatto che nessuna vittoria elettorale nazionale, anche quando scaturita da mobilitazioni sociali di massa, è sufficiente a cambiare il dato. Ancora una volta, il punto debole del governo Tsipras è stato quello di lasciarsi rinchiudere in un faccia a faccia con l'oligarchia eurocratica, senza cercare di costruire un rapporto di forza a livello europeo.

E, da questo punto di vista, gli appelli a «farla finita con l'Europa» sono l'indice di una grande cecità. Che occorra operare una «rottura con le cornici istituzionali dell'Europa realmente esistente» è indubbio. Ma questo non significa rassegnarsi a considerare che «la questione europea sia secondaria». Come se bastasse affermare la necessità di «ripartire dalle cose urgenti della crisi contemporanea», di ordine puramente economico: la disoccupazione, l'esaurimento di una forma di sviluppo, la crescita delle disuguaglianze. Non corriamo forse il rischio, aggirando la questione politica dell'Europa in favore di un approccio economicista estremamente riduttivo, di non affrontare affatto la questione europea? Volendo aderire a un tale ragionamento, dovremmo comunque ridurre la questione europea alla questione dell'Unione europea per come esiste oggi. È possibile buttare al macero secoli di storia, come se tutto fosse cominciato con il trattato di Maastricht o il trattato di Roma? Non significherebbe forse sposare un po' troppo alla svelta la leggenda delle origini della burocrazia? Ma soprattutto, ben oltre la dimensione storica, la questione europea si pone già solo per il fatto che la costruzione europea in qualche decennio ha creato uno spazio istituzionale politico dal quale è inutile e pericoloso voler prescindere, proprio perché assume un significato strategico per la lotta contro l'Europa ordoliberale. Nessun governo di sinistra di qualunque paese può da solo spezzare la costrizione monetaria e normativa. Può aprire e scavare crepe, può mostrare la strada, ma avrà bisogno del sostegno di altri governi e dell'appoggio dei movimenti sociali in altri paesi. Si tratta allora di costruire fin da adesso le condizioni di una tale solidarietà e non di coltivare l'illusione di un ritorno alla sovranità nazionale. Se occorre aprire una crisi politica è su scala europea, rompendo con il sistema dei trattati così da imporre una rifondazione dell'Europa a partire della cittadinanza europea. La posta in gioco è mandare in pezzi la cornice dell'Unione europea, per salvare il progetto dell'Europa politica.

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