Copertina
Autore Robert Darnton
Titolo Il futuro del libro
EdizioneAdelphi, Milano, 2011, Saggi 67 , pag. 276, cop.fle.sov., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-459-2586-3
OriginaleThe Case of Book. Past, Present, and Future [2009]
TraduttoreAdriana Bottini, Jacopo M. Colucci
LettoreGiorgio Crepe, 2012
Classe libri , scrittura-lettura , copyright-copyleft , beni comuni , storia sociale , comunicazione , informatica: reti , informatica: sociologia
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Indice


Introduzione                                       11

PARTE PRIMA. Il futuro                             23

 1. Google e il futuro dei libri                   25
 2. Il paesaggio dell'informazione                 43
 3. Il futuro delle biblioteche                    65
 4. Perduti e ritrovati nel cyberspazio            83

PARTE SECONDA. Il presente                         91

 5. Libri elettronici e libri tradizionali         93
 6. Gutenberg-e                                   105
 7. L'open access                                 129

PARTE TERZA. Il passato                           135

 8. Inno alla carta                               137
 9. L'importanza di essere bibliografici          161
10. I misteri della lettura                       181
11. Che cos'è la storia del libro?                207

Post scriptum                                     241

Bibliografia                                      259
Indice analitico                                  263


 

 

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INTRODUZIONE



Questo libro parla di libri; è una spudorata difesa della parola a stampa, passata presente e futura. E anche una riflessione sul posto che spetta ai libri nell'ambiente digitale, una realtà ormai consolidata nella vita di milioni di persone. Lungi dal deplorare le modalità di comunicazione elettroniche, voglio anzi esplorare le possibilità di stringere un'alleanza fra esse e la forza straordinaria che fu scatenata oltre cinque secoli orsono da Johann Gutenberg. Esiste un terreno comune ai libri tradizionali e ai libri elettronici? Quali vantaggi reciproci legano le biblioteche e Internet? Sono interrogativi che in astratto possono sembrare fatui, ma che acquistano importanza concreta nelle decisioni prese quotidianamente dai protagonisti dell'industria delle comunicazioni: webmaster, ingegneri informatici, finanzieri, avvocati, editori, bibliotecari, nonché un grande numero di semplici lettori.

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Qualunque tentativo di scrutare il futuro mentre si lotta con i problemi del presente deve a mio parere trarre ispirazione dallo studio del passato. Ho pertanto strutturato questa raccolta di scritti in tre sezioni, in un percorso a ritroso che, partendo da alcune congetture sul mondo dei libri che esisterà di qui a cinque o dieci anni, tocca le polemiche in corso su temi attuali, per giungere a una serie di riflessioni su precedenti età dell'informazione, con i loro specifici sistemi di comunicazione. Non che questi saggi fossero stati concepiti secondo un ordine prestabilito: furono scritti sullo stimolo del momento e prendevano di mira, senza andare troppo per il sottile, bersagli in movimento.

Se mi è lecito ricorrere a una metafora di altro genere, vorrei dire che la forma del saggio può essere molto adatta per «saggiare» un argomento, un po' come fanno gli esperti di metallurgia quando estraggono un campione di roccia per determinarne la composizione. I saggi-recensione sono particolarmente utili sotto questo profilo. Nell'ultima sezione ho incluso tre scritti di questo tipo, in cui prendo in esame elementi diversi della storia del libro: la carta, che dal Quattrocento a oggi ha costituito il materiale di base della letteratura; la bibliografia, lo strumento principale per prendere le misure di un testo; e la lettura, l'elemento più fondamentale e più misterioso del processo comunicativo. L'argomento dell'ultimo capitolo è la comunicazione stessa, ovvero la produzione e la fruizione dei libri intese come fasi interconnesse. In esso cerco di definire l'ambito disciplinare della storia del libro e di illustrarne i metodi attingendo a ricerche di archivio. Sono convinto che la storia del libro costituisca uno dei campi più vitali degli studi umanistici. O dobbiamo pensare che il favore che essa incontra sia sintomo di un interesse nostalgico per un mondo perduto, oggi che Internet fa sembrare un reperto arcaico il torchio del tipografo?

Potrebbe essere così, ma lo studio dei libri non deve necessariamente limitarsi a una specifica tecnologia. Procedendo a ritroso nella dimensione storica del mio argomento, vorrei aiutare il lettore a guardare ai problemi attuali da una prospettiva più lunga. Benché a mio avviso lo studio della storia non insegni lezioni direttamente applicabili al presente, l'immersione nel passato può fornire un utile inquadramento prospettico degli avvenimenti presenti e futuri. Il mondo, lo avvertiamo tutti con un certo turbamento, è inesorabilmente avviato verso una nuova èra, che sarà configurata dalle innovazioni tecnologiche. Vediamo rispecchiata questa trasformazione nei modelli di comportamento delle persone. Siamo di fronte a una nuova generazione «nata digitale», che è sempre «connessa», intenta a conversare dappertutto con il cellulare, a inviare con un clic messaggi istantanei, a interagire in realtà più o meno virtuali. I giovanissimi che incrociamo per strada o che ci siedono accanto sull'autobus sono contemporaneamente presenti e assenti. Muovono il corpo sulle note di una musica udibile solo da loro, chiusi dentro il guscio dei loro sistemi digitali. Sembrano costituzionalmente diversi rispetto a noi, che traiamo il nostro atteggiamento nei confronti della macchine da un'altra area dell'inconscio. La nostra generazione ha imparato a sintonizzare la radio o a regolare l'ora girando una manopola; le giovani generazioni attivano e disattivano sistemi schiacciando un tasto. La differenza tra i due gesti può sembrare insignificante, eppure deriva da riflessi situati nel profondo della memoria cinetica. Gli esseri umani si orientano nel mondo mediante una disposizione sensoriale che i tedeschi chiamano Fingerspitzengefühl, radicata nei movimenti fini delle dita. Proviamo, noi che abbiamo imparato a guidare la penna con il dito indice, a osservare come i giovani usano i pollici sulla tastiera del cellulare, e capiremo come la tecnologia penetri le nuove generazioni, anima e corpo.

Questa modificazione del Fingerspitzengefühl significa forse che presto i lettori smetteranno di sfogliare e maneggiare i libri? A quanto pare, i dispositivi di lettura si sono conquistati un posto nel panorama dell'informazione. Ma il dispositivo più antico di tutti, la forma «codice», continua a essere quello dominante. Anzi, la sua fetta di mercato è in crescita. Secondo il Bowker's Global Books in Print, nel 1998 in tutto il mondo furono pubblicati 700.000 nuovi titoli; nel 2003 i nuovi titoli erano 859.000; e 976.000 nel 2007. Nonostante la crisi economica in corso, il numero di libri pubblicati arriverà presto a un milione l'anno.

La resistenza dell'antiquata forma «codice» illustra un principio generale della storia della comunicazione: un medium non ne scalza un altro, almeno nel breve termine. La pubblicazione tramite manoscritti continuò a fiorire per molto tempo dopo l'invenzione di Gutenberg; i giornali non spazzarono via il libro a stampa; la radio non rimpiazzò i giornali; la televisione non estromise la radio; e Internet non ha allontanato gli spettatori dalla televisione. Ne dobbiamo concludere che l'innovazione tecnologica offre un rassicurante messaggio di continuità, a dispetto del proliferare delle invenzioni?

La risposta è: no. L'esplosione delle modalità di comunicazione elettroniche è altrettanto rivoluzionaria dell'invenzione della stampa a caratteri mobili, e noi abbiamo altrettante difficoltà ad assimilarla di quante ne ebbero i lettori nel Quattrocento, quando si trovarono di fronte ai testi a stampa. Ecco, per esempio, che cosa scriveva Niccolò Perotti, un erudito umanista italiano, a Francesco Guarnerio nel 1471, meno di vent'anni dopo l'invenzione di Gutenberg:

Negli ultimi tempi, mio caro Francesco, mi sono spesso congratulato con l'età nostra, quasi avessimo ottenuto proprio ora un dono grande, invero divino, con il nuovo tipo di scrittura di recente giuntoci dalla Germania. Vedevo infatti che un uomo solo poteva stampare in un mese ciò che parecchi amanuensi a stento avrebbero potuto portare a termine in un anno ... Questo mi induceva a sperare che entro breve tempo avremmo avuto una tale quantità di libri, che non sarebbe rimasta una sola opera che non ci si potesse procurare per scarsità o mancanza di mezzi ... Ora tuttavia – o fallacia dei pensieri umani! – vedo che le cose sono andate ben diversamente da come speravo. Infatti, adesso che chiunque è libero di stampare ciò che gli aggrada, sovente gli uomini trascurano l'eccellenza, per scrivere, a puro fine di divertimento, ciò che meglio sarebbe dimenticare, anzi cancellare da tutti i libri. E anche quando scrivono cose degne, le stravolgono e corrompono al punto che sarebbe di gran lunga preferibile fare a meno di tali libri, anziché spedirli in migliaia di copie in tutte le provincie del mondo, col rischio, ahimè, di diffondere un così gran numero di menzogne.


Sembra di leggere i commenti di quanti, me compreso, criticano Google Book Search, rammaricandosi per le imperfezioni testuali e le inesattezze bibliografiche del «nuovo tipo di scrittura» che ci giunge su Internet. Ma il futuro sarà comunque digitale. Quello attuale è un periodo di transizione, nel quale la modalità a stampa e quella digitale coesistono e le nuove tecnologie diventano presto obsolete. Stiamo già assistendo alla scomparsa di molti oggetti familiari: la macchina per scrivere, ormai relegata nei negozi di antiquariato; la cartolina postale, una curiosità; la lettera scritta a mano, un compito superiore alle capacità della maggior parte dei ragazzi, che non sanno più scrivere in corsivo; il giornale quotidiano, estinto in molte città; la piccola libreria, sostituita dalle grandi catene di distribuzione, a loro volta minacciate dai distributori online, come Amazon. E la biblioteca?

Sembrerebbe l'istituzione più arcaica di tutte. E tuttavia il suo passato fa ben sperare per il suo futuro, perché le biblioteche non sono mai state magazzini di libri. Sono sempre state e sempre saranno centri di studi e di cultura. La loro posizione centrale nel mondo del sapere le rende idealmente adatte a mediare tra le due modalità di comunicazione, a stampa e digitale. Anche i libri possono accoglierle entrambe. Siano stampati su carta o immagazzinati su un server, i libri costituiscono il corpo del sapere e la loro autorevolezza deriva da elementi che trascendono la tecnologia usata per produrli. Essa è dovuta in parte agli autori, benché i libri fossero oggetto di reverenza ben prima che nel Settecento prendesse forma il culto dell'autore. Come sottolineano gli storici del libro, gli autori scrivono il testo, ma il libro è materialmente fatto da professionisti specializzati, e questi ultimi esercitano funzioni che vanno ben oltre la manifattura e la diffusione di un prodotto. Gli editori sono come dei guardaportone, che controllano il flusso della conoscenza. Tra l'illimitata varietà di materiale suscettibile di essere reso pubblico, essi, sulla base della loro competenza professionale e delle loro personali convinzioni, selezionano ciò che a loro avviso si venderà o merita di essere venduto. I giudizi degli editori, informati a una lunga esperienza nel mercato delle idee, condizionano ciò che raggiungerà i lettori, e i lettori, in quest'epoca di sovraccarico di informazioni, hanno più che mai bisogno di affidarsi ad essi. Selezionando i testi, revisionandoli, impaginandoli in modo che siano leggibili e portandoli all'attenzione dei lettori, i professionisti del libro forniscono servizi che sopravvivranno a ogni cambiamento tecnologico.

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Pierre Bourdieu insegna. Ma perlopiù noi bibliotecari tenderemmo a sottoscrivere i princìpi scolpiti in bella vista nelle nostre biblioteche pubbliche. «Aperta a tutti» si legge sopra l'ingresso principale della Public Library di Boston; e sulla parete della sala del Consiglio di amministrazione della Public Library di New York sono incise in oro queste parole di Thomas Jefferson: «Considero la diffusione dei lumi e dell'istruzione la risorsa più sicura per migliorare la condizione umana, promuovere la virtù e favorire la felicità dell'uomo». Eccoci tornati all'illuminismo.

La Repubblica degli Stati Uniti fu fondata sulla fede nel principio cardine della Repubblica delle Lettere del Settecento: la diffusione dei lumi. Secondo Jefferson, l'illuminismo si realizzava per il tramite degli scrittori e dei lettori, dei libri e delle biblioteche – specialmente delle biblioteche: quella della sua residenza di Monticello, quella dell'Università della Virginia e la Biblioteca del Congresso. Tale fede è incorporata nella Costituzione degli Stati Uniti. L'articolo 1, comma 8, istituisce il copyright e i brevetti soltanto «per un periodo limitato» e fatto salvo il fine superiore della promozione del «progresso della scienza e delle arti utili». I Padri fondatori riconobbero il diritto degli autori a un equo ritorno economico per la loro fatica intellettuale, ma posero il bene pubblico al di sopra del profitto privato.

Come si misura l'importanza relativa di questi due valori? Come ben sapevano gli estensori della Costituzione, il copyright fu creato in Gran Bretagna nel 1710 dallo Statuto di Anna Stuart allo scopo di mettere un freno alle pratiche monopolistiche della London Stationers' Company, la corporazione dei librai editori londinesi, e anche, come proclamava il suo titolo, «per la promozione del sapere». All'epoca, il Parlamento stabilì la durata del diritto d'autore in quattordici anni, rinnovabili una sola volta. I librai editori cercarono di difendere il proprio monopolio reclamando la durata perpetua del copyright in una lunga serie di cause giudiziarie. Ma persero la guerra con la sentenza definitiva del caso Donaldson contro Beckett, nel 1774.

Quando, quindici anni più tardi, si riunirono per stilare la Costituzione degli Stati Uniti, gli estensori accolsero la concezione che aveva prevalso in Gran Bretagna. Ventotto anni parvero loro un periodo sufficientemente lungo per proteggere gli interessi di autori e editori. Superato quel limite, doveva prevalere l'interesse pubblico. La prima legge sulla proprietà intellettuale – intitolata come quella inglese alla «promozione del sapere» – adottò a sua volta il limite di quattordici anni rinnovabili per altri quattordici.

Qual è la durata del copyright oggi? Secondo la legge Sonny Bono del 1998 sul prolungamento del copyright (nota anche come «legge per la tutela di Topolino», perché il personaggio di Walt Disney stava per entrare nel pubblico dominio), oggi si estende per settant'anni dopo la morte dell'autore. In pratica significa oltre un secolo. La maggior parte dei libri dati alle stampe nel Novecento ancora non rientra nel pubblico dominio. Per quel che riguarda la digitalizzazione, l'accesso al nostro patrimonio culturale si arresta generalmente al 1° gennaio 1923, data oltre la quale un numero imprecisato ma altissimo di libri è protetto da copyright. E su quel confine rimarrà... a meno che qualche esponente di interessi privati non si assuma il compito della digitalizzazione del nostro patrimonio bibliografico, lo confezioni per i consumatori, con tanto di fiocchi costituiti da accordi legali privati, e metta in vendita i pacchetti a scopo di lucro, distribuendo i profitti tra gli azionisti. Allo stato attuale, per esempio, Babbitt, di Sinclair Lewis, pubblicato nel 1922, rientra nel pubblico dominio, mentre un altro suo romanzo, Il figlio di Giuda, pubblicato nel 1927, non lo sarà fino al 2022.

Passare dagli elevati princìpi dei Padri fondatori alle pratiche delle industrie culturali dei giorni nostri significa abbandonare il mondo dell'illuminismo per entrare in quello sguaiato del capitalismo corporativo. Se applicassimo la sociologia della conoscenza al presente, come aveva fatto Bourdieu, ci accorgeremmo che viviamo in un mondo rapace e spregiudicato, modellato sulle esigenze di Topolino.

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A questo punto, il lettore sospetterà che io sia passato dalla lamentazione all'entusiasmo utopico, entrambi generi molto frequentati dagli americani. Le due modalità potrebbero del resto operare insieme, dialetticamente, se non fosse per il pericolo rappresentato dalla commercializzazione. Quando colossi commerciali come Google mettono gli occhi sulle biblioteche, non vi vedono soltanto dei templi del sapere. Vi vedono risorse potenziali o, come dicono loro, dei «contenuti» pronti per essere sfruttati. I fondi librari delle biblioteche, messi insieme lungo i secoli con immenso dispendio di denaro e di energia, possono essere digitalizzati in massa a costi relativamente contenuti — milioni di dollari, certo, ma nulla a paragone dell'investimento che sono costati.

Le biblioteche esistono per promuovere un bene pubblico: per «favorire la conoscenza», una conoscenza «aperta a tutti». Le imprese capitalistiche esistono per fare soldi a beneficio dei loro azionisti — anche questa un'ottima cosa, perché il bene pubblico dipende da un'economia fiorente. Tuttavia, se permettiamo la commercializzazione del contenuto delle nostre biblioteche, ci scontriamo inevitabilmente con una contraddizione di fondo. Consentire che un soggetto privato digitalizzi le raccolte delle biblioteche e ne venda il risultato con modalità che non garantiscono il più ampio accesso possibile equivarrebbe a ripetere l'errore compiuto quando le case editrici vollero sfruttare il mercato delle riviste scientifiche, ma su una scala infinitamente più grande, perché questo trasformerebbe Internet in uno strumento per la privatizzazione di un sapere che attiene alla sfera pubblica. Nessuna mano invisibile interverrà a correggere il disequilibrio tra bene privato e bene pubblico. Solo il pubblico lo potrebbe fare, ma chi si farà portavoce del pubblico? Certo non i legislatori che hanno prodotto la legge a tutela di Topolino.

Non si può imporre per legge l'illuminismo, ma si possono stabilire le regole del gioco a tutela dell'interesse pubblico. Le biblioteche rappresentano il bene pubblico. Non sono aziende, ma devono essere in grado di coprire i loro costi. Devono avere un business plan. Ricordate lo slogan della Edison, «Dig we must», quando dovette spaccare le strade di New York per predisporre la rete elettrica della città? «Digitize we must» dicono le biblioteche. Ma non a qualunque condizione. Lo dobbiamo fare nell'interesse del pubblico, vale a dire pretendendo che chi effettua la digitalizzazione ne risponda di fronte alla cittadinanza.

Sarebbe ingenuo identificare Internet con l'illuminismo. La sua capacità potenziale di diffondere la conoscenza supera le più ardite speranze di Jefferson; ma mentre la Rete veniva costruita, link dopo link, gli interessi commerciali non sono rimasti seduti in panchina a guardare. Vogliono controllare il gioco, dominarlo, diventare i padroni del campo. Competono tra loro, naturalmente, ma con una ferocia tale da eliminarsi a vicenda. La lotta per la sopravvivenza sta portando alla formazione di un oligopolio; e chiunque sarà il vincitore, il vero sconfitto potrebbe essere il bene pubblico.

Non mi si fraintenda: so che le aziende devono rispondere ai loro azionisti e ritengo che gli autori abbiano diritto a un ritorno economico sul frutto del loro ingegno e che gli editori meritino di trarre un guadagno per il valore che aggiungono ai testi forniti dagli autori. Ammiro molto la straordinaria abilità di creare hardware, software, motori di ricerca, tecniche di digitalizzazione, algoritmi capaci di ordinare le risposte in base alla loro rilevanza. Riconosco l'importanza del copyright, anche se mi sembra che il Congresso l'abbia definito meglio nel 1790 che non nel 1998.

Ma neppure noi possiamo starcene seduti a guardare, fiduciosi che le forze del mercato opereranno per il bene pubblico. Dobbiamo coinvolgerci, batterci con vigore, riconsegnare al pubblico il suo giusto predominio. Quando dico «noi», intendo dire «noi, il popolo», noi che abbiamo creato la Costituzione e che dovremmo fare in modo che i princìpi illuministici sui quali è fondata informino le realtà quotidiane della società dell'informazione. Sì, digitalizzare è necessario. Ma, ciò che più conta, è necessario democratizzare. Dobbiamo aprire l'accesso al nostro patrimonio culturale. In che modo? Riscrivendo le regole del gioco, subordinando gli interessi privati al bene pubblico, traendo ispirazione dalla Repubblica delle Lettere degli illuministi per creare una Repubblica digitale del sapere.

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IL PAESAGGIO DELL'INFORMAZIONE



Siamo di fronte a un proliferare di informazioni così forsennato, e la tecnologia dell'informazione si modifica a una velocità tale che è impossibile non porsi il problema di come orientarsi in questo nuovo paesaggio. Che cosa ne sarà, per esempio, delle biblioteche di ricerca a fronte di meraviglie tecnologiche come Google? Come riuscire a dare un senso alla nuova situazione? Non possiedo la risposta a queste domande, ma posso suggerire un metodo per affrontarle: analizzare la storia delle prassi comunicative. Semplificando al massimo, possiamo dire che, da quando gli esseri umani hanno imparato a parlare, la tecnologia dell'informazione ha conosciuto quattro mutamenti epocali.

Intorno al 4000 a.C. l'umanità imparò a scrivere. I geroglifici egizi risalgono al 3200 circa, la scrittura alfabetica al 1000 circa. Secondo studiosi come Jack Goody, l'invenzione della scrittura rappresentò il progresso tecnologico più importante della storia dell'umanità, in quanto modificò la relazione dell'uomo con il passato, aprendo la strada alla nascita del libro e al suo ruolo di motore della storia.

Il secondo grande mutamento si ebbe quando all'inizio dell'èra cristiana il codice sostituì il rotolo. Intorno al III secolo d.C., la forma «codice» (vale a dire il libro con le pagine da sfogliare, a differenza del rotolo, che si avvolge) ebbe un ruolo decisivo nella diffusione del cristianesimo. E trasformò l'esperienza della lettura: la pagina diventò un'unità percettiva, e i lettori ebbero la possibilità di sfogliare un testo sempre più chiaramente articolato, con parole separate da spazi, suddiviso in paragrafi e capitoli e dotato di indici e di altri ausili per la lettura.

Il codice subì a sua volta una trasformazione in seguito all'invenzione della stampa a caratteri mobili intorno al 1450. È vero che i cinesi avevano perfezionato i caratteri mobili già intorno al 1045 e che i coreani usavano caratteri di metallo anziché matrici di legno dal 1230. Ma l'invenzione di Gutenberg, a differenza di quelle dell'Estremo Oriente, si diffuse in un lampo, rendendo il libro disponibile a cerchie sempre più ampie di lettori. La tecnologia della stampa rimase immutata per quasi quattro secoli, ma il pubblico dei lettori si estese sempre di più, grazie al diffondersi dell'alfabetizzazione, dell'istruzione e dell'accesso alla parola stampata. Opuscoli e giornali, stampati con presse meccaniche a vapore su carta fabbricata con polpa di legno anziché con stracci, favorirono ulteriormente il processo di democratizzazione, che durante la seconda metà dell'Ottocento vide il formarsi di un pubblico di massa.

Il quarto grande cambiamento, la comunicazione elettronica, è avvenuto ieri, o l'altro ieri, dipende in che modo lo si misura. Internet nacque nel 1974, almeno come termine. Derivava da ARPANET, una rete di computer attiva dal 1969, e da precedenti esperimenti di comunicazione tra computer. Il Web nacque nel 1991 nei laboratori del CERN come strumento di condivisione di informazioni tra fisici. Dalla metà degli anni Novanta si diffusero i siti web e i motori di ricerca. Da quel momento, una serie di marchi che tutti conosciamo ha reso la comunicazione elettronica un'esperienza quotidiana: Gopher, Mosaic, Netscape, Internet Explorer e infine Google, creato nel 1998.

L'accelerazione dei cambiamenti, se li mettiamo in fila in questo modo, dà le vertigini: dalla scrittura al codice, 4200 anni; dal codice ai caratteri mobili, 1250; dai caratteri mobili a Internet 524 anni; da Internet ai motori di ricerca 17 anni; dai motori di ricerca al relevance ranking algoritmico di Google, 7 anni; e chissà che cosa arriverà a breve, forse domani stesso.

Ciascuna modificazione della tecnologia ha trasformato il paesaggio dell'informazione, mentre l'accelerazione è continuata a un ritmo tale da sembrare tanto inarrestabile quanto incomprensibile. In prospettiva (la longue durée degli storici francesi) il quadro generale appare chiaro, o forse frastornante. Ma sono stato io, allineando i fatti in questo modo, a creare l'impressione che essi conducano inevitabilmente a una conclusione esageratamente drammatica. È un trucco a cui indulgono spesso gli storici, francesi o americani non importa. Dando un diverso ordine alle prove, è possibile arrivare a un quadro diverso, dove risalta la continuità anziché il cambiamento. La continuità a cui mi riferisco riguarda la natura delle informazioni, ovvero, per dirla in altro modo, l'innata instabilità dei testi. Anziché guardare le trasformazioni tecnologiche in prospettiva, con lo sguardo che ci fa dire che siamo entrati in una nuova èra, l'età dell'informazione, voglio dimostrare che ogni epoca è stata, ciascuna a suo modo, un'età dell'informazione, e che l'informazione è sempre stata instabile.

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L'informazione non è mai stata stabile. Potrà sembrare un'ovvietà, ma questo enunciato merita una riflessione. Serve a correggere la convinzione che l'accelerazione delle trasformazioni tecnologiche ci abbia catapultati in una nuova èra, in cui l'informazione è improvvisamente sfuggita a ogni controllo. È il caso di dire, piuttosto, che la nuova tecnologia ci obbliga a ripensare il concetto stesso di informazione. Dobbiamo immaginarla non già come un insieme di fatti oggettivi o di pepite di realtà, pronte per essere estratte da giornali, archivi e biblioteche, ma come messaggi che vengono costantemente rimodellati durante il processo di trasmissione. Abbiamo a che fare non con documenti fissi e immutabili, ma con testi plurali e mutevoli. Analizzandoli con sano scetticismo sullo schermo del nostro computer, possiamo imparare a leggere in modo più proficuo il giornale al mattino – e perfino a capire l'importanza dei libri antichi.

I bibliografi se ne sono accorti molto prima che fosse inventato Internet. Questa idea dell'informazione è stata elaborata da Sir Walter Greg alla fine dell'Ottocento e perfezionata da Donald McKenzie alla fine del Novecento. I loro studi forniscono una risposta agli interrogativi sollevati da blogger, virtuosi di Google e altri entusiastici fautori del World Wide Web: perché conservare più di un esemplare di un libro? Perché spendere somme ingenti per acquistare prime edizioni? Le collezioni di libri rari delle biblioteche non sono forse condannate all'obsolescenza, oggi che si può trovare tutto su Internet?

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Nell'ambiente in rapida evoluzione della tecnologia elettronica le aziende declinano rapidamente.

Google potrebbe sciogliersi o la sua tecnologia essere eclissata da una ancora più potente, che renderebbe il suo database obsoleto e non più accessibile, come è accaduto ai vecchi floppy disk e CD-ROM. Le aziende elettroniche nascono e muoiono. Le biblioteche di ricerca durano nei secoli. Meglio rafforzarle, piuttosto che dichiararle obsolete, perché l'obsolescenza è connaturata semmai ai media elettronici.


Google farà degli errori.

Nonostante l'attenzione alla qualità e ai controlli di qualità, Google trascurerà alcuni libri, salterà delle pagine, creerà immagini sfocate e riprodurrà i testi in maniera per molti versi imperfetta. Fino a pochi anni fa eravamo convinti che i microfilm avrebbero definitivamente risolto il problema della conservazione dei testi. Adesso sappiamo che non è vero.


Come nel caso dei microfilm, non c'è garanzia che le copie di Google dureranno per sempre.

Col tempo i bit si degradano. I documenti potrebbero andare smarriti nel cyberspazio a causa dell'obsolescenza del formato in cui sono codificati. Hardware e software si estinguono a un ritmo allarmante. Finché non sarà risolto l'increscioso problema della sopravvivenza elettronica, tutti i testi «nati digitali» appartengono a una specie a rischio. L'ossessione di creare sempre nuovi media ha inibito gli sforzi per salvaguardare quelli vecchi. Abbiamo perduto l'80 percento di tutti i film muti e il 50 percento di tutti i film girati prima della seconda guerra mondiale. Niente sa preservare i testi (eccettuato il caso di quelli scritti su pergamena o incisi nella pietra) meglio dell'inchiostro su carta, specialmente carta fabbricata prima dell'Ottocento. Il miglior sistema di conservazione che sia mai stato inventato è antiquato e premoderno: il libro.

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I MISTERI DELLA LETTURA



Ci fu un tempo in cui i lettori erano soliti raccogliere i passi più interessanti degli autori che leggevano in una specie di zibaldone detto commonplace book Ogni volta che si imbattevano in una frase particolarmente succosa, la trascrivevano in un taccuino sotto l'intestazione appropriata, aggiungendovi osservazioni fatte nel corso della loro vita quotidiana. Lo avevano imparato da Erasmo; e se non avevano sottomano il suo popolare manuale, De copia, consultavano uno dei modelli pubblicati o chiedevano lumi a qualche insegnante che conoscevano. Questa abitudine, che si diffuse in tutta l'Inghilterra tanto fra i normali lettori quanto fra dotti famosi, come Francis Bacon, Ben Jonson, John Milton e John Locke, comportava un modo speciale di fare propria la parola stampata. A differenza dei lettori odierni, i quali seguono il flusso della narrazione dal principio alla fine (a meno che non siano «nati digitali» e inseguano su una macchina gli indizi ipertestuali), gli inglesi della prima età moderna leggevano a spizzichi e bocconi, saltando spesso da un libro all'altro. Scomponevano il testo in frammenti, che riassemblavano in nuove unità trascrivendoli in sezioni diverse del loro taccuino. Poi rileggevano ciò che avevano copiato, riconfigurando il tutto man mano che aggiungevano nuovi brani. Lettura e scrittura erano dunque attività inseparabili, che rientravano nel tentativo incessante di dare un senso al mondo. Un mondo che era pieno di segni: lo si poteva esplorare leggendo; e, conservando traccia delle proprie letture, ciascuno costruiva un proprio libro, che portava impressa la personalità del lettore-scrittore.

L'epoca dei commonplace books raggiunse il culmine nel Seicento, anche se la pratica era nata forse già nel dodicesimo secolo e rimase poi in voga in età vittoriana. Scomparve molto prima dell'avvento delle tecniche di montaggio multimediale, ma qua e là sopravvive ancora. Il migliore esempio del genere sono i Notebooks di Geoffrey Madan, pubblicati dalla Oxford University Press nel 1981. Probabilmente sono l'ultimo prodotto della serie; infatti sono ormai fuori commercio e sembrano caduti nell'oblio, tranne forse nelle sale di ritrovo dei professori di qualche università inglese. Invece meriterebbero di essere recuperati, perché si tratta di un testo assai proficuo, specialmente per chi è interessato alla lettura in sé come modo per dare un senso al mondo.

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Per nostra sfortuna, tuttavia, raramente Drake commentava gli avvenimenti coevi, forse per non compromettersi: il suo diario politico è una delusione per chiunque amerebbe seguire le reazioni di un deputato di seconda fila di fronte a una rivoluzione. Inoltre non è possibile datare con precisione le citazioni riportate nei taccuini. Esse ci illuminano però sull'idea che Drake aveva della lettura e dei suoi usi. Alcuni esempi:

La carne che abbiamo ingerito, finché galleggia intera nello stomaco, è un peso, ma quando viene elaborata si trasforma in forza e nutrimento. Lo stesso valga per la lettura dei libri. Non lasciamo che le cose che abbiamo raccolto dai vari autori rimangano intere, giacché in tal caso non sarebbero nostre, ma sforziamoci di digerirle e assimilarle - altrimenti andranno a riempire la memoria lasciando vuoto l'intelletto.

Bada a non studiare troppo i libri eruditi, perché distraggono dagli affari, ingombrano la memoria e distolgono dall'occuparsi di cose più utili.

Per acquistare saggezza non c'è niente di più efficace della frequente lettura di apoftegmi, proverbi, favole morali, discorsi saggi ... emblemi, espedienti strategici, giudizi e sentenze espressi in disparate occasioni storiche.

Per Drake la lettura era come la digestione, un processo consistente nell'estrarre l'essenza dai libri e nell'incorporarla dentro di sé. Preferiva brani a misura di bocca, utili per l'applicazione alla vita quotidiana. La lettura infatti non doveva mirare all'erudizione, ma aiutare l'individuo a farsi strada nel mondo, e i bocconi più utili si presentavano sotto forma di proverbi, favole morali o addirittura di motti araldici riportati nella letteratura emblematica.

Questo modo di leggere rientrava in un universo mentale quanto mai distante dal nostro, benché anche noi a volte si legga per fini utilitaristici. L'aspetto di alterità della mentalità di Drake risalta negli esempi di saggezza proverbiale riportati nei suoi taccuini:

Il cavallo sceglilo scozzonato, la moglie da scozzonare.

Mai elogiare la propria moglie, il proprio vino e il proprio cavallo, perché ciò induce gli altri a volerli in prestito.

La dissimulazione non è meno giovevole ... dei medicamenti preservativi.

L'amico certo si conosce nell'incerto.

Come sappiamo, i proverbi si possono intendere in mille modi diversi, per cui non c'è un modo univoco di interpretare le centinaia di citazioni dei taccuini di Drake.

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Padroneggiando una simile mole di materiale e sintetizzandola con tanta abilità, Sharpe ha dato un importante contributo alla storia della lettura. Ma evidentemente non gli basta: vuole dimostrare che la storia della lettura è la vera chiave per comprendere la Storia, o quantomeno quella del Seicento. Per Drake e per i suoi contemporanei, sostiene Sharpe, la selettività intellettuale che stava alla base dei loro commonplace books si dimostrò decisiva per orientarsi nella politica spietata delle corti dell'epoca. Ne derivò una diffusa mentalità machiavellica – non che tutti gli esponenti dell'élite colta adottassero la medesima filosofia di vita, ma tutti tendevano a leggere il mondo con il medesimo disincanto.

E tutti si trasformarono da lettori in scrittori: la compilazione di quei taccuini li portò inevitabilmente a diventare loro stessi autori, e in tal modo si accentuò in ciascuno la percezione di sé come individuo autonomo. L'io autoriale prese forma nello zibaldone dell'uomo comune, e non soltanto nelle opere dei grandi scrittori. Stephen Greenblatt ha definito self-fashioning questa tendenza propria dell'epoca rinascimentale.

Benché quell'idea sia stata rielaborata fino allo stremo dagli studiosi del Rinascimento, Sharpe cerca di insufflarvi nuova vita applicandola all'ambito politico. Nel farsi egli stesso scrittore, Drake, sostiene Sharpe, «scrisse anche un copione per la società e per lo Stato». Tutti coloro che annotarono a margine i libri che leggevano e che compilarono raccolte di citazioni «prepararono il copione di una nuova cultura politica». A questo punto dell'argomentazione, le metafore diventano stiracchiate. Sharpe afferma che gli inglesi per mezzo della lettura «poterono ... costituirsi come attori politici», indipendentemente dal fatto che ciò che leggevano riguardasse o meno gli affari dello Stato; la politica infatti era «un tipo di coscienza» e la psiche «un testo di politica»; «la guerra civile stessa diventò un testo contestato». La lettura dunque è tutto: «Noi siamo ciò che leggiamo».

Il che sarà pur sempre meglio del vecchio detto ripreso dai Verdi tedeschi, «Noi siamo ciò che mangiamo» («Man ist, was man isst»); ma il punto, ancora una volta, è: risponde a verità?

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Questo punto merita una riflessione, perché la storia della lettura è diventata uno dei campi di ricerca più vitali delle scienze umanistiche; e tuttavia consiste perlopiù di studi – diciamo così – clinici su singoli casi, da cui non emerge uno schema generale. Anziché ancorarsi a una visione comune delle tendenze di lungo periodo, gli storici della lettura tendono a trattare il loro soggetto alla stregua di un bersaglio mobile all'interno di una dialettica tra polarità binarie: la lettura praticata sfogliando le pagine del codice in contrapposizione alla lettura praticata svolgendo un rotolo; la lettura di testi a stampa di contro alla lettura di testi manoscritti; la lettura silenziosa contrapposta alla lettura ad alta voce; la lettura solitaria contro la lettura in gruppo; la lettura estensiva, che scorre velocemente i più diversi materiali, contro la lettura intensiva, che si concentra su pochi libri riletti più volte. Oggi che la ricerca si è rivolta ai commonplace books, potremmo aggiungere all'elenco il binomio lettura segmentale-lettura sequenziale.

Ma ancora più importante sarebbe prestare maggiore attenzione alla lettura come elemento di quella che un tempo si definiva la storia delle mentalità, vale a dire delle concezioni del mondo e dei modi di pensare. Tutti coloro che usavano compilare raccolte di passi d'autore, da Drake a Madan, si orientavano nella vita attraverso la lettura, stralciando frammenti di esperienza e ricombinandoli secondo un certo schema. Le affinità sottintese che tenevano insieme tale schema esprimevano il tentativo di venire a capo della vita, di darle un senso, non già elaborando teorie, bensì imponendo una forma alla materia. La compilazione di tali taccuini è paragonabile alla confezione delle trapunte patchwork: si creano dei disegni, alcuni più belli di altri, ma ciascuno a suo modo interessante. Ne emerge un quadro della cultura del tempo: con i tasselli che la compongono, le cuciture o le lacerazioni, e la stoffa ordinaria di cui è fatta.

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CHE COS'È LA STORIA DEL LIBRO?



Histoire du livre in Francia, Geschichte des Buchwesens in Germania, history of books (o of the book) in area anglofona: i nomi cambiano da un Paese all'altro, ma la storia del libro è riconosciuta ovunque come un'importante nuova disciplina. Se non fosse per la lunghezza impraticabile dell'espressione, la si potrebbe chiamare storia sociale e culturale della comunicazione a stampa, perché il suo scopo è la comprensione di come le idee venivano trasmesse attraverso la parola stampata e di come l'esposizione alla parola stampata ha influito sul pensiero e sul comportamento dell'umanità negli ultimi cinquecento anni. Ci sono storici del libro che si spingono anche nel periodo che ha preceduto l'invenzione dei caratteri mobili; e studiosi che si concentrano sui giornali, i volantini, i manifesti e altro materiale non strettamente librario: il campo di indagine può essere esteso e ampliato in molti modi, ma perlopiù riguarda i libri dopo l'epoca di Gutenberg, un'area di ricerca che negli ultimi anni è andata sviluppandosi con tale rapidità da meritarsi presto, è presumibile, un posto nel canone delle discipline umanistiche, accanto alla storia della scienza e alla storia dell'arte.

Quale che sia la sua evoluzione in futuro, il suo passato dimostra come un campo del sapere possa assumere una distinta identità scientifica. La storia del libro è nata dalla convergenza di diverse discipline aventi in comune un precipuo insieme di problemi, tutti riguardanti il processo della comunicazione. All'inizio, tali problemi si presentarono sotto forma di domande concrete in branche di studio senza rapporti tra loro: quali erano i testi originali di Shakespeare? Che cosa diede impulso alla Rivoluzione francese? Quale nesso esiste tra cultura e stratificazione sociale? Nel cercare di rispondere a queste domande alcuni studiosi scoprirono che i rispettivi percorsi si incrociavano in una terra di nessuno situata all'intersezione di una mezza dozzina di campi di ricerca. Decisero allora di costituire un proprio campo e di invitarvi storici, studiosi della letteratura, sociologi, bibliotecari, e tutti coloro che avevano interesse per il libro in quanto forza attiva della Storia. La storia del libro cominciò a dotarsi di proprie riviste, centri di ricerca, convegni e circuiti di conferenze. E ad attirare vecchi capi tribali oltre che giovani turchi. Oggi, benché non impieghi parole d'ordine o strette di mano segrete e non abbia ancora licenziato una propria popolazione di dottorandi, i suoi adepti si riconoscono reciprocamente da quel tipico scintillio nello sguardo. Lavorano per una causa comune, in uno dei rari settori delle scienze umane in cui si respira un'aria di espansione e si avverte un fermento di idee nuove.

Beninteso, la storia della storia del libro non è cominciata ieri. Risale agli umanisti del Rinascimento, se non prima; e acquistò slancio nel corso dell'Ottocento, quando lo studio del libro inteso come oggetto materiale portò alla nascita in Inghilterra della bibliografia analitica. Ma l'attività recente si distacca dagli indirizzi di studio consacrati le cui origini si possono ricostruire attraverso i numeri arretrati di «The Library» e del «Börsenblatt für den Deutschen Buchhandel» o nelle tesi dell'Ecole des Chartes. Il nuovo filone si è sviluppato negli anni Sessanta in Francia, dove mise radici in istituzioni come l'Ecole Pratique des Hautes Etudes e si diffuse attraverso libri come L'Apparition du livre (1958) di Lucien Febvre e Henri-Jean Martin, e Livre et société dans la France du XVIIIe siècle (due volumi, 1965 e 1970) di un gruppo di studiosi legati alla Vlème Section de l'Ecole Pratique des Hautes Etudes.

I nuovi storici del libro inserirono il loro soggetto entro la gamma di temi studiati dalla scuola di storia socioeconomica delle «Annales». Anziché soffermarsi su minuzie raffinate di ordine bibliografico, cercarono di individuare lo schema generale della produzione e fruizione dei libri lungo ampi archi di tempo. Compilarono statistiche in base alle richieste di privilèges (una forma di copyright), analizzarono il contenuto di biblioteche private e seguirono il percorso delle correnti ideologiche attraverso generi letterari normalmente trascurati, come i testi della bibliothèque bleue (sorta di paperback ante litteram). A loro non interessavano i libri rari e le prime edizioni; si concentravano sui libri più ordinari, perché volevano capire l'esperienza letteraria dei lettori ordinari. Posero in una luce inconsueta fenomeni noti, come la Controriforma e l'illuminismo, mostrando come nella dieta letteraria della società nel suo complesso pesasse di più la cultura tradizionale rispetto alle avanguardie. Pur non arrivando a fornire risposte conclusive, dimostrarono quanto fosse importante porre domande nuove, usare metodi nuovi, saggiare nuove fonti.

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VI. I LETTORI



Benché esista una cospicua letteratura sulla psicologia della lettura, nonché sulla fenomenologia, la testologia e la sociologia della stessa, questa esperienza umana rimane un mistero. Come fanno i lettori a dare un senso ai segni che ricoprono la pagina stampata? Quali sono gli effetti sociali dell'esperienza della lettura? E come si è modificata nel tempo? Alcuni studiosi della letteratura, come Wayne Booth, Stanley Fish, Wolfgang Iser, Walter Ong e Jonathan Culler ne hanno fatto l'oggetto centrale della critica testuale, perché considerano la letteratura non già un canone di testi, bensì un'attività di costruzione di significati all'interno di un sistema di comunicazione. Lo storico del libro potrà trovare utili alcuni concetti elaborati da questi studiosi: pubblico immaginario, lettore implicito, comunità interpretativa. Ma probabilmente considererà le loro osservazioni troppo avulse dalla dimensione temporale. Benché si muovano agevolmente nella storia della letteratura (in particolare dell'Inghilterra seicentesca), questi studiosi sembrano supporre che i testi abbiano sempre agito sulla sensibilità dei lettori nello stesso modo. Ma il borghese londinese del Seicento abitava un universo mentale ben diverso da quello di un professore americano di oggi. La lettura stessa è cambiata nel tempo: spesso in passato era fatta ad alta voce e in gruppo, oppure tra pochi intimi clandestinamente e con un'intensità che oggi riesce difficile immaginare. Carlo Ginzburg ha mostrato quanta pregnanza di significato un mugnaio friulano del Cinquecento, a nome Menocchio, sapesse infondere nei testi, mentre Margaret Spufford ha descritto gli sforzi e la determinazione dei membri più umili delle comunità rurali inglesi per padroneggiare la parola stampata, negli anni in cui veniva pubblicata l' Areopagitica. Dappertutto nell'Europa della prima età moderna, i lettori, dai Montaigne ai Menocchio, estraevano dai libri significati decisivi per la loro vita. Non si limitavano a decifrarli: la lettura era una passione, ben prima che dilagassero la Lesewut e il Wertherfieber dell'età romantica. In effetti nella lettura c'è sempre un afflato Sturm und Drang, anche oggi, nonostante la moda della lettura veloce e l'idea meccanicistica che vede nella letteratura soltanto una codificazione e decodificazione di messaggi.

Ma la risposta dei lettori, per quanto siano «attivi», in ultima analisi è modellata dal testo. Come osserva Walter Ong, le pagine iniziali dei Racconti di Canterbury così come di Addio alle armi creano una cornice in cui immettono a forza il lettore, suo malgrado, qualunque cosa egli pensi dei pellegrinaggi e delle guerre. E la forma tipografica stessa, non solo lo stile e la sintassi, determina il modo in cui il testo trasmette significati. McKenzie ha dimostrato come il Congreve licenzioso e ribaldo delle prime edizioni in quarto si trasformò nel dignitoso autore neoclassico delle Opere complete del 1710 in virtù della grafica del libro, più che dell'operazione di mondatura del testo. La storia della lettura dovrà dare conto del modo in cui i testi vincolano il lettore, oltre che di come i lettori si prendono delle libertà con i testi. E ogniqualvolta gli uomini si sono confrontati con i libri, è sempre scaturita una tensione tra le due forze, che ha prodotto a volte risultati straordinari, come nella lettura che Lutero diede delle Epistole paoline, Rousseau del Misantropo e Kierkegaard del sacrificio di Isacco.

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BIBLIOTECHE: TRE LAMENTAZIONI



Le questioni storiche discusse in questo libro evidenziano problemi cruciali del presente e del futuro. Perché questi collegamenti siano chiari, indulgerò a quello che i francesi chiamerebbero prêcher pour mon saint – sosterrò, cioè, l'importanza delle biblioteche e del libero accesso alla conoscenza nell'ecologia dell'informazione del ventunesimo secolo. Tanto numerosi sono i problemi che affrontano le biblioteche, che quella che pronuncerò sarà una lamentazione – anzi, tre lamentazioni, ciascuna relativa a un fronte di crisi; ma anziché profetizzare la rovina, spero di concludere con un lieto fine.

[...]


TERZA LAMENTAZIONE


Google rappresenta il non plus ultra in fatto di business plan: ha fatto miliardi controllando l'accesso all'informazione, e ora li investe nel controllo dell'informazione stessa. Ciò che era iniziato come Google Book Search è ormai diventato la più grande biblioteca del mondo e insieme il più grande affare nel settore librario. Come ogni azienda, Google risponde in primo luogo ai suoi azionisti. Le biblioteche esistono per procurare libri ai lettori – libri e altre forme di conoscenza e intrattenimento – a titolo gratuito. La fondamentale incompatibilità tra gli scopi delle biblioteche e quelli di Google Book Search potrebbe essere attenuata se Google offrisse alle biblioteche l'accesso ai propri database a condizioni ragionevoli. Ma le condizioni sono espresse in un documento di 368 pagine noto come Google Settlement, il cui scopo è in realtà risolvere un altro conflitto: la causa contro Google portata avanti da autori e editori con l'accusa di violazione del copyright.

A dispetto della sua enorme complessità, l'accordo si è ridotto a essere una spartizione della torta: dei profitti prodotti da Google Book Search, il 37 percento andrà a Google, e il 63 percento ad autori e editori. E le biblioteche? Non sono fra gli attori dell'accordo, ma molte hanno fornito, gratuitamente, i libri che Google ha digitalizzato. Alle biblioteche sta per essere richiesta la sottoscrizione di abbonamenti istituzionali i cui prezzi potrebbero crescere in maniera altrettanto disastrosa di quelli degli abbonamenti alle riviste, e questo per avere accesso alla versione digitalizzata dei propri libri e di quelli delle biblioteche sorelle. A stabilire il costo della sottoscrizione sarà un Book Rights Registry, nominato in rappresentanza di autori e editori che avranno tutto l'interesse ad aumentare i prezzi. Le biblioteche paventano quindi quella che chiamano una quotazione «modello-eroina» – una strategia di vendita che prevede dapprima l'immissione sul mercato a costi contenuti, quindi un aumento implacabile dei prezzi fino al livello più alto, una volta che i consumatori sono stati agganciati.

Perché entri in vigore, l'accordo deve essere approvato dalla Corte distrettuale del Southern Federal District di New York. Il Dipartimento di giustizia ha archiviato due memorie in cui la Corte ventila la possibilità, e in effetti la probabilità, che l'accordo conceda a Google un tale vantaggio sui potenziali concorrenti da violare le leggi antitrust. Ma la questione più importante che incombe sul dibattito legale è di natura politica: davvero vogliamo che i problemi relativi al copyright siano risolti in cause tra privati? E davvero vogliamo rendere commerciabile l'accesso alla conoscenza?

Io spero che la risposta a queste domande conduca al mio lieto fine: una biblioteca digitale nazionale, o Digital Public Library of America (DPLA), come qualcuno preferisce chiamarla. Google ha dato prova della possibilità di trasformare la ricchezza intellettuale delle nostre biblioteche, libri che giacciono inerti e sottoutilizzati sugli scaffali, in un database elettronico da cui può attingere chiunque, ovunque e in qualsiasi momento. Perché non applicare ai fini del bene pubblico questa ricetta per il successo – una biblioteca digitale costituita da tutti i libri delle più grandi biblioteche di ricerca, accessibile gratuitamente all'intera cittadinanza, anzi, a tutto il mondo?

Liquidare questa meta come utopica e naïf significa ignorare i progetti digitali che negli ultimi vent'anni hanno dimostrato il loro valore e la loro praticabilità: tutte le principali biblioteche di ricerca hanno digitalizzato parte delle loro collezioni; dal 1995 la Digital Library Federation opera per riunire i loro cataloghi o «metadata» in un unico network; imprese più ambiziose, come Internet Archive, Open Knowledge Commons e Public.Resource.Org hanno tentato la digitalizzazione su una scala più ampia: saranno pure minuscole rispetto a Google, ma d'altra parte numerosi Paesi sembrano determinati a superare Google sul suo stesso campo, con la scansione completa del contenuto delle rispettive biblioteche nazionali.

Nel dicembre del 2009 il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato l'investimento di 750 milioni di euro nella digitalizzazione del «patrimonio culturale» francese. La Biblioteca nazionale dei Paesi Bassi intende digitalizzare entro dieci anni ogni libro, giornale e periodico olandese prodotto dal 1470 a oggi. In Giappone, Australia, Norvegia, Finlandia, le biblioteche nazionali sono in via di completa digitalizzazione; ed Europeana, uno sforzo di coordinamento delle collezioni digitali su scala internazionale, rende già liberamente accessibili online oltre 15 milioni di documenti provenienti da biblioteche, archivi, musei, raccolte audiovisive.

Se questi Paesi sono in grado di istituire biblioteche digitali nazionali, perché gli Stati Uniti non possono farlo? A causa dei costi, potrebbe argomentare qualcuno: c'è molto più materiale in lingua inglese che in giapponese o in olandese, e la sola Biblioteca del Congresso ospita 30 milioni di volumi. Le stime del costo di digitalizzazione di una pagina variano enormemente, dai dieci centesimi (la cifra fornita da Brewster Kahle, che ha digitalizzato oltre un milione di libri per l'Internet Archive) ai dieci dollari, a seconda della tecnologia e della qualità richiesta. Ma dovrebbe essere possibile digitalizzare l'intera Biblioteca del Congresso per una cifra inferiore ai 750 milioni di euro di Sarkozy – e il costo potrebbe essere spalmato su un decennio.

L'ostacolo più grande è legale, non finanziano. Si può presumere che la DPLA escluderebbe i libri attualmente in commercio, ma ne includerebbe comunque milioni che, sebbene fuori catalogo, sono ancora protetti da copyright, e in particolare quelli pubblicati tra il 1923 e il 1964, un periodo per cui la copertura del copyright si fa assai oscura a causa della proliferazione di «orfani», libri per i quali non sono stati identificati i detentori dei diritti. Il Congresso dovrebbe produrre una legislazione che protegga la DPLA da cause riguardanti libri fuori commercio ma sottoposti a copyright. I titolari dei diritti dovrebbero ricevere un indennizzo, per quanto molti, specie in ambito accademico, potrebbero voler rinunciare al compenso pur di dare ai propri libri nuova vita e maggiore diffusione in forma digitale. Nelle memorie presentate alla Corte distrettuale di New York, diversi autori hanno protestato contro il carattere commerciale di Google Book Search, dicendosi pronti a concedere il libero accesso alle loro opere.

Forse persino Google potrebbe essere convertita alla causa. Potrebbe girare alla DPLA i circa due milioni di libri di pubblico dominio che ha digitalizzato, come base di una collezione che crescerebbe fino a includere libri più recenti – in primo luogo quelli del problematico periodo 1923-1964, e poi quelli resi disponibili dai detentori dei diritti. Con quest'atto di generosità Google non avrebbe nulla da perdere: ogni libro messo a disposizione, col consenso degli altri donatori, potrebbe essere esplicitamente identificato come contributo di Google, e la sua dedizione al bene comune sarebbe oggetto d'ammirazione.

Anche se Google si rifiutasse di cooperare, una coalizione di fondazioni potrebbe bastare al finanziamento della DPLA, mentre una coalizione di biblioteche di ricerca provvederebbe ai libri. Con un lavoro sistematico su tali patrimoni bibliotecari, si potrebbe costituire una grande collezione, conforme agli standard più elevati negli apparati bibliografici, nelle scansioni, nelle scelte editoriali, e nell'impegno nella conservazione ad uso delle future generazioni.

Se l'accordo di Google Book Search non dovesse essere approvato dalla Corte, il suo scioglimento arriverebbe in un momento straordinario nello sviluppo di una società dell'informazione. Siamo in un periodo di fluidità, incertezza e opportunità. Ciò che si è disfatto può essere ricostruito in modo nuovo, con la subordinazione del profitto privato al bene pubblico e l'accesso egualitario al commonwealth della cultura.

La Digital Public Library of America risolverà tutti gli altri problemi — il costo delle riviste, l'economia dell'editoria accademica, gli squilibri nei budget delle biblioteche e gli ostacoli alla carriera dei giovani ricercatori? No. Ma aprirà la via a una generale trasformazione del paesaggio di quella che chiamiamo società dell'informazione. Piuttosto che di migliori business plan (non che siano privi d'importanza), abbiamo bisogno di una nuova ecologia, basata sul bene pubblico invece che sul guadagno privato. Può darsi che questa non sia una conclusione soddisfacente; ma non è una risposta al problema della sostenibilità — è un appello a cambiare il sistema.

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