Copertina
Autore Léonie D'Aunet
Titolo Oltre Capo Nord. Viaggio di una donna allo Spitzberg
EdizioneVoland, Roma, 2006, Confini 14 , pag. 252, cop.fle., dim. 145x205x15 mm , Isbn 978-88-88700-48-9
OriginaleVoyage d'une femme au Spitzberg [1854]
CuratoreAlessandra Grillo
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe viaggi , paesi: Finlandia , paesi: Olanda
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Indice

Cenni biografici                     9
Nota per la lettura dei nomi        13

            LETTERA PRIMA
Olanda. Da Parigi ad Amburgo        15

            LETTERA II
Danimarca, Svezia e Norvegia
Da Amburgo a Christiania            33

            LETTERA III
Da Christiania a Drontheim          56

            LETTERA IV
Da Drontheim a Hammerfest           80

            LETTERA V
I Lapponi                          103

            LETTERA VI
Spitzberg
Da Hammerfest a Hammerfest         119

            LETTERA VII
Lapponia
Da Hammerfest a Mattaringuy        146

            LETTERA VIII
Finlandia                          198

            LETTERA IX
Svezia orientale e Prussia         216

Indice dei luoghi                  242
Note della traduttrice             247

 

 

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Pagina 9

CENNI BIOGRAFICI



Θ il 1854 e in una Parigi da poco passata sotto l'impero di Napoleone III, esce un volume intitolato Voyage d'une femme au Spitzberg; l'autrice si firma Léonie d'Aunet, ma è ben più nota alle cronache mondane con il nome di Mme Biard.

Moglie del pittore di corte Franois Biard, tra il 1842 e il 1843 la giovane conosce Victor Hugo e ne diventa l'amante, nell'agosto 1845 i due sono colti in flagrante adulterio dal marito e da un commissario di polizia. Hugo, in qualità di Pari di Francia si appella alla propria immunità; Léonie, invece, non ha nessuna difesa ed è imprigionata nel carcere di Saint-Lazare dove vengono prese in custodia prostitute e donne 'perdute'.

Biard era da sempre stato gelosissimo della moglie, bella e di venti anni più giovane di lui, ed è proprio in seguito a una delle ennesime scenate che Léonie aveva deciso di abbandonare la casa coniugale, al numero 8 di Place Vendóme, sede dell'atelier del pittore di corte. Poiché in caso di separazione Biard sarebbe stato costretto a concedere alla moglie una somma consistente, e tenendo conto anche dei due figli, l'uomo aveva iniziato a farla seguire per scoprirne un eventuale amante e dimostrarne la colpevolezza, all'epoca punibile con la prigione. Biard accetterà di far commutare la pena in un soggiorno forzato in convento solo dopo gli interventi di Fortunée Hamelin, amica comune dei coniugi, e della duchessa d'Orleans, moglie di Luigi Filippo, allora re di Francia, che convince il marito ad affidare al pittore alcuni importanti lavori in cambio di un 'atto di clemenza' nei confronti dell'ormai ex moglie.

Una donna sola, separata, con alle spalle una condanna per adulterio: la sopravvivenza nella buona società parigina non è delle più semplici, ma Léonie trova aiuto tra le conoscenze di Hugo e inizia a collaborare con alcune riviste; proprio su una tra le più prestigiose, la Revue de Paris, fondata da Maxime Du Camp, nel 1852 appare un estratto del Voyage, firmato "Mme Biard (Louise d'Aunet)". Biard è, quindi, il cognome dello scandalo, ma anche quello con cui Léonie (che qui sceglie di usare il proprio secondo nome, Louise) è balzata alle cronache in quanto prima donna a oltrepassare il Circolo Polare Artico e a raggiungere lo sconosciuto Spitzberg (le isole Svalbard).

[...]

Una donna, una scrittrice, un viaggiatore, come ama autodefinirsi (non usa mai il termine 'voyageuse', ma sempre 'voyageur'): Léonie d'Aunet è un rarissimo esempio di scrittura al femminile che nell'Ottocento abbia trattato le lontane regioni artiche. Ammirata per l'impresa, biasimata per l'adulterio, ostracizzata da molti, esaltata dai lettori, dopo la morte Léonie d'Aunet è diventata solo un nome nella lista delle amanti di Victor Hugo e inevitabilmente questa etichetta è stata quella che le è stata data dai biografi del grande scrittore.

Oltre Capo Nord. Viaggio di una donna allo Spitzberg, prima traduzione italiana del Voyage, riscopre la sensibilità di una giovane donna, la sua cultura e la sua intelligenza, portando alla luce un'autrice dimenticata, troppe volte confinata nell'oblio dalla critica letteraria.

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Pagina 21

Mi avevano parlato a lungo della pulizia delle Olandesi e in effetti mi è sembrata favolosa; non trascurano neanche le catene e le lastre dei camini, i chiodi delle porte e i raschietti per i piedi, che brillano come gioielli d'acciaio; queste persone non hanno amore per la pulizia, ne hanno il culto. Le donne non smettono mai di lavare, sfregare, spolverare, rassettare, lustrare, spazzare o raschiare: non fanno altro. A giudicarle dall'aspetto, forse faranno meno bene quello che è meno 'meccanico'. Quelle che, grazie a una posizione sociale privilegiata, sono dispensate dal frenetico e perpetuo lavaggio delle abitazioni, non manifestano comunque grande passione per i piaceri intellettuali: trascorrono anzi la vita a vestirsi, passeggiare nel parco o restare sedute vicino alla finestra con un ricamo, interrompendosi di frequente per lanciare un'occhiata a un piccolo specchio attaccato all'asta di ferro mobile, sistemata all'esterno della casa. A seconda dell'inclinazione questo curioso attrezzo riflette tutti i passanti. Viene chiamato spia e il nome è appropriato poiché questo pezzo di vetro, che il pedone non diffidente scorge appena, è di una perfidia, o piuttosto di una fedeltà tremenda, nel riportare ogni minimo gesto.

Le strade dell'Aia sono solitarie, quasi deserte: l'unico luogo veramente animato della città è il gran canale all'ora del mercato. Si vedono arrivare lunghi battelli carichi di frutta, verdure, uova, volatili e pesci scintillanti per la freschezza, che si agitano e riescono ancora a saltare all'interno delle reti dove sono stati catturati; i marinai seduti nella parte anteriore fumano gravemente e da ogni casa escono le operose massaie per recarsi a bordo a fare la spesa. Queste donne dalle braccia robuste, le guance fresche e il vestito pittoresco che vanno, vengono, chiacchierano, comprano, si apostrofano a vicenda passando da un battello all'altro, danno a tutto l'insieme una vitalità e uno splendore che non saprei descrivere. Sicuramente il nostro mercato coperto di Parigi è più grande: la folla è più numerosa, le derrate più abbondanti, ma l'effetto prodotto agli occhi dello spettatore è completamente diverso. A Parigi il mercato si svolge in uno spiazzo circondato da case alte e nere: è un luogo rumoroso, sporco, infrequentabile, nauseabondo; i piedi affondano nel fango, l'olfatto è offeso dalle pungenti esalazioni emanate da ogni genere di immondizia. Che contrasto con questo mercato olandese, pulito, ridente, gioioso, così ben collocato sul gran canale, all'ombra di bellissimi alberi e fiancheggiato da marciapiedi spaziosi! Questo basta a spiegare perché le padrone di casa a Parigi si astengano dal controllare le proprie cuoche al mercato, mentre all'Aia le accompagnino quasi sempre.

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Pagina 29

Brouk non è né una città né un borgo e men che mai un villaggio: si tratta piuttosto di un agglomerato di case costruite da proprietari abbastanza ricchi da soddisfare ogni loro desiderio. Assecondando una naturale inclinazione olandese, in questo luogo gli abitanti sono arrivati ad assurdità ed eccessi inimmaginabili nella cura e nella pulizia: è proprio vero che bisogna stare in guardia anche dall'abuso delle cose migliori!

Innanzitutto le strade, ma non sono certa in effetti che si possano definire così, visto che non vi passano le carrozze; tuttavia non posso nemmeno chiamarli viali dato che la pavimentazione è fatta di mattoni disposti artisticamente; le strade, dunque, vengono spazzate come noi facciamo con le nostre camere da letto e, affinché nessun incidente venga a insidiare questa rigorosa pulizia, gli animali non possono oltrepassare le mura della città. Quanto alle abitazioni, immaginatevi delle copie esatte delle casette in miniatura di Norimberga che ci regalavano il primo dell'anno in grandi scatole: case impeccabili, pulite, dipinte a olio, dai colori brillanti – il verde chiaro, il lilla, l'azzurro cielo – messi in risalto da piccole modanature che spiccano sul fondo; a Brouk alcune hanno persino bordature d'oro attorno alle finestre. Al centro della facciata di ogni casa si vede una graziosa porta, spesso decorata e intagliata con ghirlande e medaglioni in stile Luigi XV, che resta ermeticamente chiusa; secondo l'usanza del paese, infatti, la si può aprire solamente in tre circostanze solenni: il battesimo, il matrimonio o la morte di uno dei signori della casa. C'è un'altra porta bassa, nascosta, discreta, che si apre su una stradina laterale e che quotidianamente funge da ingresso.

A Brouk, la cosa migliore è dissimulare la propria esistenza per quanto possibile: si confessa di vivere a un determinato indirizzo solo costretti da un evento di una certa importanza, come venire al mondo o andarsene. Per il resto, la gente cerca di scomparire o di farsi il più piccola possibile. Non ho potuto vedere l'interno delle abitazioni perché mi è stato chiesto, sul serio, di togliermi le scarpe prima di entrare.

In questo fantastico paese si assiste a un curioso capovolgimento dell'ordine naturale: l'uomo è sottomesso alle cose, l'essere intelligente e animato è schiavo della materia inerte; ci sono persone che si forzano, si costringono a privazioni, restano immobili per evitare di camminare sulle pietre, di calpestare i prati o usare troppo le porte. A forza di ricerche, di minuzie e di arte malamente appresa, hanno reso sgradevoli e noiosi persino i loro giardini colmi dei fiori più rari. Attorno ai prati, dove nessun filo d'erba supera in altezza il proprio vicino, serpeggiano vialetti coperti di sabbia fine sulla quale una mano paziente ha tracciato arabeschi e, dal momento che i passi ne distruggerebbero inevitabilmente i fragili disegni, quei pochi abitanti ancora desiderosi di passeggiare fanno mettere sui viali alcune assi mobili, montate su piedini. Nei boschi, i tronchi sono dipinti di grigio o di bianco e i rami sono potati in maniera talmente regolare che ogni albero sembra un mazzo di fiori artificiale confezionato con carta bianca. Affinché all'insieme non manchi proprio nulla, alcune statue in legno, vestite con abiti veri, sostituiscono nei boschetti i passeggiatori in carne e ossa con meno danni per il giardino, mentre nei laghetti nuotano cigni perfettamente riprodotti. In conclusione, una decorazione dell'Ambiguo è infinitamente più reale del paesaggio di Brouk; non conosco niente di più freddo, di più triste, di più misero di questo angolo di mondo in cui l'uomo sembra essersi incaricato di impoverire, sfigurare e mutilare la natura, con il pretesto di abbellirla.

Dopo solo due ore ho provato un violento desiderio di abbandonare questo paese di maniaci; avevo fretta di ritrovare un po' di vita, di movimento, di disordine, insomma, anche un po' di polvere; tutto mi sembrava preferibile a quello che avevo sotto gli occhi. La gente di Brouk non ha il gusto e l'amore per la pulizia: ne ha il fanatismo, il feticismo!

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Pagina 57

Se in Svezia ci sono poche città, in Norvegia non ve ne sono affatto; tra Christiania e Drontheim se ne incontra una sola: Lille-Hammer, peraltro di così recente costruzione da non essere neanche indicata sulla maggior parte delle carte. Del resto si tratta di una piccola, orribile città, regolare, disegnata col compasso, fredda e noiosa, dal momento che non ha più il verde e non ha ancora edifici; è solo un parallelogramma di alcune centinaia di metri, pieno zeppo di tristi alveoli quadrati come scatole dove è rinchiusa una moltitudine di persone, non più contadini e non ha ancora cittadini, in quella fase che mostra i vizi delle due condizioni: la grossolanità dei campi e la vanità delle città.

Con mio grande dispiacere, a causa dell'assenza di cavalli, ho passato due ore in questa tediosa località; non ho potuto fare assolutamente niente, neanche cenare. L'intero commercio locale di generi alimentari non è stato in grado di procurarmi nemmeno un pezzo di carne. Non è stato facile far comprendere al mio stomaco che gli abitanti, avendo eliminato i prati dei dintorni per realizzare ambiziosi cantieri, avevano eliminato anche i montoni. Racimolando tutto ciò che avevano, sono riusciti a trovarmi salmone crudo, salmone affumicato, salmone mezzo salato, pane e burro; ho cenato con questi ultimi due, poiché i troppo frequenti incontri col salmone, servitomi in ogni modo nei giorni precedenti, mi avevano disgustata.

In Norvegia la questione gastronomica è di una desolante semplicità; si mangia poco e male; oltrepassata Christiania non si trova da nessuna parte né pane né vino, i due fondamenti di ogni pasto francese. Quello che in queste regioni viene denominato pane non ha nulla in comune con ciò che noi chiamiamo con lo stesso nome. Il pane norvegese ha la forma e la dimensione di un piatto di porcellana e quasi la stessa consistenza; è fatto con farina d'orzo, segale e una buona dose di paglia. Queste specie di gallette dure vengono cotte a lungo, vi si pratica un buco al centro e vengono infilate a dozzine in lunghi bastoni appesi al soffitto; nelle case ben tenute sono ricoperte da un panno, ma poiché questa precauzione viene sovente disattesa, il fumo e la polvere hanno campo libero.

Oltre al pane così poco appetitoso, al quale mi sono rassegnata solo dopo un lungo digiuno, si trovano dappertutto (salvo che a Lille-Hammer) uova e latte; c'è spesso anche formaggio insipido e burro molto salato; tutto questo, insieme all'immancabile salmone, costituisce la base di un menu alquanto ristretto, come vedete.

Tale scarsità sembra comprensibile in un territorio così poco coltivato e così poco popolato; a volte le abitazioni sono a tal punto rare che si può viaggiare per un giorno intero senza incontrare una casa tra una stazione di cambio e l'altra, tra loro sempre molto distanti. Le stazioni di cambio, che qui chiamano gaard, non sono villaggi ma fattorie piuttosto grandi. Il gaard norvegese si compone di una vasta costruzione circondata da piccoli edifici utilizzati come granai, stalle, ecc. La casa, eretta con tronchi di abete appena squadrati, i cui interstizi sono tappati con muschio, serve da abitazione al padrone e alla sua famiglia; i domestici e il bestiame alloggiano invece nelle strutture di servizio. I gaard formano piccole colonie assolutamente isolate e autosufficienti. Le enormi distanze e il rigore degli inverni obbligano le famiglie di contadini a fare fronte a ogni necessità della vita, rendendoli molto industriosi.

Le donne filano il lino e la canapa, tessono la tela e cuciono una sorta di panno grezzo e robusto, chiamato wadmel, con cui gli uomini si vestono. Gli uomini sono a turno contadini, fabbri, muratori, carpentieri e, al bisogno, addirittura calzolai e sarti. Oltre a buoni vestiti e a mobili discreti, le ragazze hanno anche qualche pizzo, qualche gioiello e alcuni scialli di seta che il padre porta dalla città; poi, in ogni casa si scorge, posato rispettosamente su un centrino, il grosso volume, la biblioteca del povero, il libro che rimpiazza e sovrasta tutti gli altri, il libro dei libri – la Bibbia – e qualunque bambino sollecitato dalla madre saprà leggervene un versetto. Dolce e tranquilla esistenza! Fredda, pura e uniforme come l'azzurro del cielo del Nord, regione serena e umile, senza bagliori, senza burrasche, che i cuori stanchi guardano con invidia: Invideo quia quiescunt, disse Lutero.

Questa popolazione felice possiede una sua bellezza particolare, e sembra di poter leggere la vita di ogni uomo dalla sua placida fisionomia. Il Norvegese è soprattutto sano e robusto, i visi sono quadrati e freschi, i nasi all'insù e carnosi, gli occhi di un azzurro pallido, i capelli fini, biondi e ricci. I bambini hanno una peluria liscia quasi bianca, che ricorda quei piccoli Gesù di cera accompagnati da un agnello di cotone cardato che, in Francia, si vedono sotto vetro nelle camere delle locande. Le donne, poco più alte degli uomini, hanno una splendida carnagione che le fa apparire spesso più graziose di quanto non siano. Hanno molti bambini e, nonostante la pacatezza delle abitudini, sembrano vecchie anzitempo.

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Pagina 98

I tre mesi d'estate, o piuttosto i tre mesi di luce, rappresentano per il mercante di Hammerfest il periodo in cui prodigarsi nell'attività e realizzare il guadagno di tutto l'anno; a partire da settembre le navi non arrivano più e quelle che si trovano nel porto salpano una dopo l'altra. I Russi se ne vanno per primi, perché ritornano nel proprio paese doppiando Capo Nord, dove i ghiacci arrivano presto, e rientrano ad Arkhangelsk passando davanti a una delle coste più pericolose del mondo; le navi olandesi e inglesi partono subito dopo. A poco a poco il porto diventa deserto, il cielo si incupisce, le notti, prima corte, si allungano rapidamente fino al momento in cui l'oscurità diventa assoluta, fino a quando notti di ventiquattro ore rimpiazzano giorni di ventiquattro ore. Un freddo di cui è impossibile farsi un'idea, che raggiunge in genere i trentacinque gradi sotto zero, accresce l'orrore di queste tenebre e vi aggiunge i suoi tormenti. Non si può pensare, senza un moto di profonda pietà, al destino di questi sfortunati, condannati a trascorrere tutta la loro vita in condizioni tanto disagevoli; ciò che appare incomprensibile, inoltre, è vedere uomini talmente sovreccitati dalla sete di denaro da venire a cercare fortuna in questa terra diseredata e da rinunciare, in nome di una speranza di profitto, al sole del quale ogni gioia, così come ogni fiore, ha bisogno per sbocciare.

In corrispondenza della punta più settentrionale della mezzaluna formata dalla città, si innalza la sola grande costruzione di Hammerfest; si tratta del 'tempio' in cui questi adoratori dell'oro raccolgono le ricchezze, sotto la forma in assoluto meno tentatrice che possa prendere la ricchezza: quella dell'olio di pesce. Quando ci si avvicina a questa specie di laboratorio, si sente esalare un odore terribile e se si entra si è quasi soffocati; malgrado ciò io vi ho messo piede. L'interno è molto buio, appena rischiarato da alcune aperture disuguali praticate nel muro, coperte durante l'estate da un velo di tela e chiuse ermeticamente in inverno. In mezzo al magazzino, in un'immensa vasca di ghisa, bollono continuamente pesci in tranci; un piccolo condotto sistemato in pendenza e comunicante con la parte alta della vasca, raccoglie l'olio che sale sulla superficie dell'acqua e lo fa giungere in trogoli di pietra, dove viene raffreddato prima di essere messo nelle botti e destinato al commercio; questo mostruoso pentolone sempre in funzione, i quarti di carne posati sui larghi tavoli, le ossa enormi dei trichechi e delle balene ammucchiate negli angoli, conferiscono all'ambiente l'aspetto fantastico e orribile della cucina di un orco colossale; dopo averlo visitato una volta, giuro che non si ha più voglia di ritornarvi.

All'estremità meridionale della mezzaluna è situata la casetta di un uomo chiamato Bank che, in questo paese sperduto, esercita l'originale mestiere di locandiere; la sua casa in legno di abete è larga appena quattro metri e l'appartamento d'onore, a me riservato, si compone di due stanze di otto piedi quadrati ciascuna e ha il soffitto talmente basso che potevo toccarlo con la mano. Evidentemente l'architetto dell'edificio l'aveva progettato solo per le Lapponi. Il mobilio si riduce alla sua più semplice espressione: un letto dotato solo di assi e piumino — a formare l'antitesi più spiacevole — un tavolo e due poltrone di legno. Il viaggiatore è libero di attaccare chiodi al muro, unico modo per sopperire alla mancanza di armadi. Le finestre e le porte sono in miniatura, proporzionate alle camere: le prime sono larghe tre piedi, le altre appena cinque; non si può guardare fuori senza togliersi il cappello né entrare senza abbassarsi, inoltre gli abitanti amano così tanto il sole da non mettere mai niente alle finestre che possa offuscare la luce. Pertanto in estate bisogna subire il continuo chiarore o creare una falsa oscurità con l'aiuto di scialli e mantelli appesi davanti ai vetri. Nonostante l'espediente al quale ero ricorsa, feci molta fatica ad abituarmi a queste giornate senza fine: mi procuravano un malessere e un'ansia inesprimibili, l'ordine delle mie abitudini quotidiane era completamente stravolto; mi alzavo a mezzogiorno, pranzavo alle undici di sera, andavo a passeggiare alle due del mattino; non sapevo più quando dovevo andare a letto e quando alzarmi, e il sonno era diventato quasi impossibile. Se a Hammerfest non ci fosse un orologio o un calendario presto non si saprebbe proprio come vivere perché, senza rendersene conto, si potrebbe rischiare di essere in anticipo o in ritardo di quindici giorni rispetto al resto del mondo. Non c'è nessun lusso nel soggiornare in questo luogo, come potete immaginare; se si è male alloggiati, si è nutriti ancora peggio e la monotonia del menu è uno dei problemi maggiori. Il vitello e il salmone costituiscono la base immutabile dell'alimentazione, le zuppe variano tra l'orzo con pezzi di limone e la segale con ciliegie secche; nei giorni di festa si ottengono patate, renna arrostita e latte. Spossati da tale trattamento si arriverebbe a commettere follie per un brodo; però nulla avrebbe potuto realizzare il sogno del mio stomaco sconfortato: ci sarebbe voluto un prodigio, ma nessun dio venne in mio aiuto. L'ordinaria insipidità di casa Bank costa ogni settimana quaranta franchi a persona.

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Pagina 103

LETTERA V
I Lapponi


Posizione della Lapponia — Ricerche etnologiche
Diverse ipotesi sulle origini dei Lapponi
La fisionomia — Il linguaggio
L'abito tipico — I lussi — Le donne
Civetteria lappone — La cassaforte
Culle per bambini — Manufatti — I pattini da ghiaccio
Lapponi sedentari — Le abitazioni — L'arredamento
Osservazioni generali — Religione lappone
Il carattere — Un matrimonio
Descrizione degli sposi — Abiti nuziali — Emozioni
Un'escursione a piedi — Panorama di Hammerfest
L'arrivo della Recherche — Gita a Capo Nord — Havesund
La famiglia Ullique — Aneddoto storico
Il busto del re Luigi Filippo
Un giardino polare — Digressioni ornitologiche
Capo Nord — Ritorno a Hammerfest



Dal punto di vista geografico, la Lapponia è compresa tra il 64° e il 72° di latitudine Nord e il 22° e il 40° di longitudine Est. Ha pressappoco la forma di un triangolo, il cui lato più lungo è rivolto verso Nord e il cui vertice coincide con Torneδ, all'estremità settentrionale del Mar Baltico. Confina, a Est, con il fiume Kemi, i cui affluenti nascono addirittura dal lago Kola vicino al Mare Glaciale e, a Ovest, con il fiume Luloδ, che nasce vicino a Bodoλ, sul Mare del Nord. Oltre a questi due fiumi, che la cingono come fossero due braccia, la Lapponia è attraversata quasi in linea verticale, da Capo Nord al Mar Baltico, da tre fiumi: l'Alten, il Muonio e il Torneδ, che confluiscono in uno solo. Volendo essere precisi, si dovrebbe chiamare Lapponia solo la regione situata al di là del Circolo Polare; siccome molti viaggiatori e geografi designano con questo nome anche le province situate a Sud di Torneδ, non credo di assegnare alla Lapponia confini troppo ampi circoscrivendo il suo territorio come ho fatto.

Sui Lapponi si raccontano e si ritengono vere tantissime leggende assurde e, nonostante il progresso faciliti molto ai giorni nostri i viaggi in luoghi lontani, la Lapponia continua a suscitare curiosità. Pochi viaggiatori si avventurerebbero in regioni tanto pericolose e difficili da esplorare; penso quindi di non dover tralasciare alcun dettaglio sui pochi e stravaganti abitanti di questo paese.

La mia ignoranza mi impedisce di fornire spiegazioni etnologiche approfondite; tralasciando simili pretese, sembra tuttavia evidente che i Lapponi discendano da alcune popolazioni asiatiche, i Mongoli o piuttosto gli antichi Sciiti uraliani, ai quali fisicamente somigliano in modo molto marcato. I capelli neri e lisci, il viso squadrato, gli zigomi pronunciati, il naso camuso, gli occhi piccoli e molto distanziati li rendono troppo diversi da ogni altra popolazione del Nord perché si possa individuare un'origine comune a tutte. L'altezza è un'ulteriore differenza: senza essere come i Pigmei, che Ercole portò con sé in una pelle di leone, la statura dei Lapponi contrasta con le ragguardevoli altezze delle contrade settentrionali. Θ raro incontrare un uomo alto cinque piedi; la loro statura varia di solito tra i quattro piedi e quattro pollici ai quattro piedi e dieci pollici; è evidente quindi che la loro altezza media è di molto inferiore a quella degli altri popoli d'Europa. Anche la lingua contribuisce a farne un popolo a parte: parlano un idioma incomprensibile ai Russi o ai Norvegesi, con i quali sono in continuo contatto. La mia opinione sulla loro origine sarebbe avallata dalla grande affinità di alcune espressioni che utilizzano con la lingua dei Tartari. Il loro abbigliamento, essenziale, è quello di ogni popolo primitivo e cacciatore, non molto dissimile da quello di Magog, figlio di Jafet. A farne le spese sono le pelli degli animali; i Lapponi indossano sempre come primo indumento una pelle di montone con la lana rivolta verso l'interno; in inverno, su questa specie di saio viene sistemata una casacca di pelle di renna e in estate una casacca di wadmel grigio o azzurro intenso, arricchito da strisce di stoffa multicolori. Il colletto, sempre rigido e rialzato, è ornato da piccoli pezzi di stoffa rossa e da lamine di stagno decorate da impunture cucite con perizia; anche l'apertura della casacca e i polsini hanno le stesse decorazioni. La cintura di pelle di renna che chiude la casacca dà la misura del lusso di ciascuno; ogni Lappone vi applica bottoni di stagno o piastrine di rame o d'argento grossolanamente cesellate a seconda della loro ricchezza. Gli uomini portano i capelli lunghi sciolti sulle spalle e si coprono la testa con una cuffia di stoffa decorata con strisce di colori diversi, come la casacca; proteggono le gambe con ghette di pelle di renna e calzano zoccoli realizzati con la stessa pelle, identici ai nostri di legno, ma a forma di stivaletto cosicché si possano fissare con sottili cinghie di cuoio. Riempiono le scarpe di sottili fili d'erba ben secca e vi infilano i piedi nudi.

Le donne sono vestite come gli uomini, con la sola eccezione del copricapo che è molto bizzarro; immaginatevi un casco di panno blu o verde, che avvolge la testa come una cuffia e talvolta è anche rovinato da un merletto di cotone, che rende colei che lo indossa tanto fiera quanto brutta. La forma del copricapo si ottiene con un pezzo di legno tagliato a cimiero e adagiato sulla testa prima di sistemarvi la cuffia. Tale cimiero costringe la stoffa in una forma marziale che rende le donne lapponi simili a comiche Minerve; a completare il tutto, e per distinguersi dagli uomini, si tagliano i capelli molto corti, per cui se con le cuffie appaiono sgradevoli, quando le tolgono diventano davvero orribili. Alcune intrecciano sulle gambe nastri di lana rossa che da lontano sembrano calze; tutte portano sul fianco un piccolo astuccio di pelle contenente filo, forbici e, oggetto meno femminile, tabacco. Tutte le Lapponi infatti fumano, ma non durante la prima giovinezza, e questa usanza contribuiva non poco a farmi confondere i due sessi, specie nei primi tempi del mio soggiorno a Hammerfest.

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LETTERA VI
Spitzberg
Da Hammerfest a Hammerfest


Partenza da Hammerfest – Il pilota – Il Mar Glaciale
L'isola di Cherry (Beeren Eilana)
Come fu scoperta l'isola – Panorama
Gli uccelli di mare – Bellsund – Festeggiamenti a bordo
L'isola del Principe Carlo – Magdalena-Bay – Ancoraggio
Lo Spitzberg
Cenni sulle precedenti spedizioni – La baia
Disgelo – Le coste – Resti
Tombe – Sguardo all'indietro – Storie di naufragi
La penisola delle Tombe – Conversazione tra marinai
La mia cabina a bordo – I miei abiti – Divertimenti
Cristalli di ghiaccio – Neve colorata
Flora dello Spitzberg – Foche
Trichechi – Uccelli – Volpi – Un pericolo – Angosce
Rientro delle scialuppe – Iscrizione sulla roccia
Ricordo del poeta Regnard – Il polo magnetico (di Ross)
Un raggio di sole – Partenza – Le Tre Corone
Altre balene – La prima notte dell'anno
Raffica di vento – Ritorno a Hammerfest



Le mie partenze sono in genere segnate da incidenti dovuti, senza alcun dubbio, alle piccole e occulte cospirazioni degli spiriti che si oppongono alla mia indole viaggiatrice: attraversando Parigi, un cavallo malamente attaccato aveva fatto rovesciare la nostra carrozza; a Le Havre una violenta mareggiata aveva mandato in frantumi diverse pale del timone; ad Amsterdam ci eravamo arenati su una secca; a Drontheim una fitta nebbia ci aveva obbligato a gettare l'ancora praticamente nella rada. Lasciando il porto di Hammerfest una virata di bordo, eseguita troppo vicino alla terraferma, stava per sbriciolare il bompresso; poiché le onde avevano gravemente danneggiato la scialuppa del capitano, questi pretendeva di farci rientrare in porto per ripararla, nonostante fossimo appena salpati; ma poi tutto si aggiustò: venne in nostro aiuto il carpentiere che, dopo averci portato in pieno Mar Glaciale, poté ritornare tranquillamente dalla moglie e dai figli.

Lasciammo Hammerfest il 17 luglio, e non saprei riferirvi le mie impressioni dei primi giorni: sarebbe troppo monotono visto che pensai bene di ammalarmi; sentivo dire che il vento spirava forte da Sud e che procedevamo bene, ma tutto questo era di scarsa consolazione considerato il triste stato in cui mi trovavo a causa del beccheggio e del rollio. Tuttavia mi abituai, e il quarto giorno mi sentii abbastanza forte da salire sul ponte e andare a vedere che aspetto avesse il mare a 74° di latitudine, punto in cui eravamo giunti il 20 luglio. Mi apparve bello e terribile; non era più la mia bonaccia di Havesund. Le onde ribollivano tutt'intorno, abbattendosi sulla prua come nel tentativo di impedirci il passaggio; un vento ghiacciato torceva le funi e scuoteva rudemente le vele; gli alberi scricchiolavano nello sforzo di resistere; la corvetta procedeva un po' piegata su un fianco, con le vele leggermente di sbieco per favorire l'andatura. Tutti erano contenti, avanzavamo rapidamente. Ammirai con curiosità quello spettacolo così nuovo per me, poi ridiscesi in fretta per attingere alla riserva di flanella e poter proseguire nel mio ruolo di osservatrice; in pochi minuti, infatti, nonostante avessi indossato un vestito da uomo, che a noi donne sembra sempre così caldo, avevo patito troppo intensamente i morsi del vento polare.

Mentre eravamo preda di queste raffiche e dello stancante rollio, ci mettemmo alla ricerca dell'isola Cherry che ci apparve il mattino del 21 luglio.

L'isola Cherry, che molti geografi chiamano Beeren-Eiland (l'isola dell'Orso), fu scoperta il 9 giugno 1596 da un vascello olandese che si era smarrito mentre si recava in Nuova-Zembia. Willem Barents ne era il timoniere, Jakob Heemskerke il comandante: due tra i più famosi e infaticabili esploratori delle regioni polari.

Appena sbarcato, l'equipaggio uccise un orso alto nove piedi e fu proprio per questa circostanza che Heemskerke battezzò l'isola Beeren-Eiland. Il 17 agosto 1603, Ιtienne Bennet, comandante della nave inglese The Grace, arrivò a Beeren-Eiland e ne cambiò la denominazione in Cherry, dal nome del signor Cherry, proprietario della Grace.

Un tempo Cherry – o Beeren-Eiland, per restituirle il suo nome originario – sembra essere stata luogo di raduno dei trichechi del Mar Glaciale, giacché Welden racconta che, nell'estate del 1608, il suo equipaggio uccise sulle coste dell'isola più di mille esemplari, dai quali fu ricavato sul posto l'olio trasportato in seguito in Inghilterra.

I Francesi, nelle loro numerose spedizioni, non erano mai sbarcati a Cherry; le nostre navi l'avevano trovata sempre circondata da diverse leghe di ghiaccio, tra le quali era impossibile aprirsi un varco. Quest'anno il perdurare dell'inverno, ritardando il disgelo allo Spitzberg, ha lasciato il mare sgombro e ci ha permesso di arrivare fin sotto le coste scoscese dell'isola. Beeren-Eiland non possiede né un golfo né una baia adatti all'attracco di grosse navi, anzi è attorniata da una temibile cintura di scogli. Il capitano, a conoscenza di queste due circostanze, lasciò la corvetta ancorata a una distanza di sicurezza, e permise solo a due scialuppe di andare a esplorare questa terra sconosciuta. Io non presi parte alla spedizione e restai sul ponte, ammirando l'insolito e magnifico aspetto della costa.

[...]

Eravamo dunque giunti alla meta del nostro lungo e avventuroso viaggio: lo Spitzberg!

Lo Spitzberg è un'isola, situata più a Nord del paese dei Samoiedi, della Siberia e della Nuova-Zembia; è davvero ai confini del mondo. Si tratta di un territorio insolito e in verità poco conosciuto: in Danimarca e in Svezia, infatti, diverse persone, avendo sentito dire che andavo allo Spitzberg, mi domandarono se pensavo veramente di scalarlo fino alla vetta. Il termine Spitzberg, che significa in effetti 'montagna appuntita', li aveva tratti in inganno; mi venne in mente, in quella circostanza, la scimmia di La Fontaine che scambiava il nome di un porto per un nome di persona.

Benché sia così poco conosciuto, lo Spitzberg ha un padrone: appartiene all'imperatore di Russia, che non ha ancora pensato di farne una succursale delle prigioni siberiane. Del resto, sarebbe un atto di clemenza; là, infatti, si sarebbe sicuri di morire fin dal primo inverno. In novembre il termometro gela, si rompe l'acquavite a colpi d'ascia e si possono registrare temperature tra 45° e 50° sotto zero.

L'isola dello Spitzberg è situata tra il 77° e l'81° di latitudine Nord. Θ larga sessanta leghe e lunga circa trentacinque. L'isola ha pressappoco la forma di una grande N, con la seconda gamba molto frastagliata. Θ divisa da due fenditure così profonde, l'una a Sud e l'altra a Nord, che non è mai stata esplorata abbastanza a fondo per sapere se c'è un collegamento tra i due lembi di terra. Alcuni marinai sono portati a credere che lo Spitzberg sia formato da due isole saldate fra loro da un largo banco di ghiaccio; ma chi andrà mai a controllare? Alcune spedizioni olandesi e inglesi, che hanno svernato in questi paraggi, hanno tentato di verificare il fatto senza riuscirci.

La costa che abbiamo fiancheggiato, dove è situata la baia della Maddalena, è quella occidentale, che fronteggia le terre ancora inesplorate del Nord della Groenlandia.

La baia della Maddalena si trova all'estremità dell'isola ed è l'ultimo approdo possibile per una nave di grandi dimensioni. Θ posizionata a 80° Nord di latitudine, a circa duecentocinquanta leghe dal Polo, pressappoco quanto dista Parigi da Marsiglia.

L'ultimo scoglio dello Spitzberg, situato esattamente di fronte al Polo, viene chiamato punta di Halduyt e una quindicina di leghe lo separano dalla baia della Maddalena.

La baia della Maddalena, con la gola che la precede, ricorda molto bene una caraffa inclinata; è circondata su due lati da montagne di granito alte millecinquecento o milleottocento piedi; fra ogni montagna si sono formati immensi ghiacciai la cui altezza aumenta ogni anno. Questo costante innalzamento è inevitabile: un'estate lunga solo qualche settimana non riesce a sciogliere completamente gli immensi ammassi di neve che un inverno di dieci mesi riversa sullo Spitzberg, e nel giro di poco tempo, i ghiacciai raggiungeranno quasi la sommità dei picchi di granito. Questi ghiacciai hanno tutti forma convessa, al contrario di quelli delle Alpi, che sono concavi.

Il giorno del nostro arrivo pioveva talmente tanto che non potei lasciare la nave, ma l'indomani mattina, di buon'ora, mi affrettai a scendere a terra. Dico a terra per abitudine di narratrice, ma dovrei dire a neve, giacché da nessuna parte vidi la più piccola traccia di terra.

Durante la notte (ancora una parola di cui non dovrei servirmi poiché non c'erano notti), durante il mio sonno, piuttosto, era cominciato il disgelo e la fisionomia della baia era cambiata come per miracolo. All'immobile solitudine del giorno precedente era seguito uno spettacolo sfavillante.

Una piccola flotta di iceberg circondava la corvetta e ricopriva il mare a perdita d'occhio.

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