Copertina
Autore Norman Davies
Titolo Storia d'Europa
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2006 [2001], Economica , pag. XV+1424+32, 2 voll., ill., cop.fle., dim. 16,5x21,7x6,5 cm , Isbn 978-88-424-9964-0
OriginaleEurope: A History
EdizioneOxford University Press, Oxford, 1996
TraduttoreMarina Caterina Magnani
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe storia contemporanea , storia moderna , storia medievale , storia antica , storia: Europa
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Indice


PRIMO VOLUME

VI    Indice delle cartine
VII   Prefazione
XIII  Il mito di Europa
1     Introduzione
57    I.    Peninsula.
            Ambiente e preistoria
113   II.   Hellas.
            Grecia antica
171   III.  Roma.
            Roma antica (753 a.C.-337 d.C.)
243   IV.   Origo.
            La nascita dell'Europa (330 circa-800)
327   V.    Medium.
            Il Medioevo (750 circa-1270)
427   VI.   Pestis.
            La cristianità in crisi (1250 circa-1493)
521   VII.  Renatio.
            Rinascimento e riforme (1450 circa-1670)
643   VIII. Lumen.
            Illuminismo e assolutismo (1650 circa-1789)

SECONDO VOLUME

VII   Indice delle cartine
753   IX.   Revolutio.
            Un continente in agitazione (1770 circa-1815)
845   X.    Dynamo.
            Fucina del mondo (1815-1914)
1005  XI.   Tenebrae.
            L'Europa in eclissi (1914-1945)
1189  XII.  Divisa et indivisa.
            Europa divisa e indivisa (1945-1991)

1279  Appendice I. Indice dei box
1281  Appendice II. Note alle tavole e referenze iconografiche
1289  Appendice III. Compendio storico
1413  Indice dei nomi

 

 

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Pagina VII

Prefazione


Questo libro non è il risultato di una ricerca originale. Dato che la maggior parte degli argomenti trattati sono già stati accuratamente ed esaurientemente studiati dagli storici, la ricerca sulle fonti primarie è stata necessaria solo in rari casi. Se si può parlare di una originalità del libro, questa consiste nella selezione, nella riorganizzazione e nella presentazione dei contenuti. Il principale intento è stato quello di delineare delle coordinate spazio-temporali per la storia europea e, introducendo in questo schema una gamma sufficientemente ampia di argomenti, di cercare di dare un'idea del tutto (per quanto il tutto sia impossibile da abbracciare).

L'apparato accademico è stato ridotto al minimo. Non ci sono note relative a fatti o ad affermazioni che si possono trovare nelle più conosciute e affermate opere di consultazione. Tra queste, una menzione speciale deve essere fatta per i ventinove volumi dell'edizione della Encyclopaedia Britannica che possiedo (11a edizione, 1910-1911), di gran lunga migliore di tutte quelle successive. Le note bibliografiche vengono fornite solo quando si devono documentare citazioni meno familiari e fonti d'informazione non contenute nei manuali più comuni. Non si deve comunque pensare che l'autore sia necessariamente d'accordo con le interpretazioni dei testi da lui citati: «On ne s'étonnera pas que la doctrine exposeé dans le texte ne soit toujours d'accord avec les travaux auxquels il est renvoyé en note.»


Le considerazioni accademiche che sottostanno alla stesura di questo volume sono esposte nell'Introduzione. Ma il suo progetto può richiedere alcune spiegazioni.

Il testo è stato costruito su molti livelli differenti. Dodici capitoli narrativi danno una visione panoramica dell'intera storia europea, dalla preistoria a oggi. Gradualmente il fuoco si restringe: dal capitolo I, che riguarda i primi cinque milioni di anni, ai capitoli XI e XII, che coprono il XX secolo, in media quasi una pagina per anno. Ogni capitolo contiene una selezione di "box" di approfondimento, scelti, diciamo pure, con il teleobiettivo e che illustrano temi più ristretti, che tagliano trasversalmente il flusso cronologico. Ogni capitolo finisce con una "istantanea", un panorama dell'intero continente considerato da un particolare punto di vista. L'effetto finale può essere simile a un album storico-fotografico, in cui scene panoramiche sono inframmezzate a una collezione di immagini dettagliate e di primi piani. Si spera sia chiaro che il grado di precisione raggiungibile nei vari livelli varia in modo considerevole. Infatti non è possibile aspettarsi che un lavoro di sintesi abbia gli stessi standard di una monografia scientifica che, evidentemente, ha scopi piuttosto differenti.

I dodici capitoli principali seguono lo schema tradizionale della storia europea. Forniscono la griglia cronologica e geografica di base dentro la quale sono stati collocati tutti gli altri temi e argomenti. Si concentrano sulla "storia dei fatti": sulle principali divisioni politiche, sui movimenti culturali e sui trend socioeconomici che rendono possibile agli storici dividere la massa d'informazioni in unità gestibili (anche se necessariamente artificiali). Una particolare enfasi sulla cronologia si trova nella parte dedicata al periodo medievale e moderno, quando è riconoscibile e si può già vedere in azione una comunità europea. L'ampiezza geografica vuole dare un'equa copertura a tutte le parti della penisola europea, dall'Atlantico agli Urali, a nord, a sud, a est, a ovest e al centro.

In ogni momento si è tentato di contrastare la naturale propensione verso l'"eurocentrismo" e la "civiltà occidentale" (vedi Introduzione, pp. 18-20, 20-35). Ma in un lavoro di questa portata non è stato possibile allargare la narrazione al di là delle frontiere europee. Sono comunque stati posti appropriati segnali per indicare la grande importanza di argomenti come l'islam, il colonialismo o l'Europa "fuori dall'Europa". Alle vicende dell'Europa orientale viene data un'adeguata importanza. Ogni volta che lo si è ritenuto appropriato, queste vicende sono state integrate nei più ampi temi che hanno influenzato l'intero continente. Una componente orientale è compresa nell'esposizione di alcuni argomenti, come le invasioni barbariche, il Rinascimento o la Rivoluzione francese, che troppo spesso sono stati presentati come vicende di una certa importanza solo per l'Occidente. Lo spazio dato agli slavi può essere attribuito al fatto che essi formano la più grande etnia di tutta l'Europa. Le storie nazionali vengono regolarmente riassunte, ma particolare attenzione è stata data alle nazioni senza stato, non solo agli stati-nazione. Non sono stati dimenticati i gruppi minoritari, dagli eretici e dai lebbrosi sino agli ebrei, ai rom e ai musulmani.

Negli ultimi capitoli, le priorità della visione "alleata" della storia non sono state seguite (vedi Introduzione, pp. 43-46). Né sono state polemicamente contestate. Le due guerre mondiali sono state trattate come due atti consecutivi di un unico dramma e la preferenza è stata data al conflitto nel cuore del continente, tra Germania e Russia. Il capitolo finale sull'Europa del dopoguerra arriva sino al 1989-1991 e alla disintegrazione dell'Unione Sovietica. Vi si sostiene che il 1991 ha visto la fine di un'arena geopolitica, denominata "il grande triangolo", le cui origini risalgono all'inizio del XX secolo (vedi Appendice III, p. 1388), e il cui crollo offre un'adeguata frattura nella continuità della storia. L'inizio del XXI secolo dispiega una nuova possibilità di progettare una nuova Europa.

I "box", circa 300 (vedi Appendice I), svolgono molti compiti. Focalizzano l'attenzione su un'ampia varietà di questioni specifiche che altrimenti non troverebbero posto nelle generalizzazioni e semplificazioni di una sintesi storica. Qualche volta introducono argomenti che attraversano i confini dei capitoli; e illustrano tutte quelle curiosità, quei capricci e quelle correnti secondarie che gli storici troppo seri spesso trascurano. Soprattutto sono stati scelti per dare, il più possibile, un'idea "dei nuovi metodi, delle nuove discipline e dei nuovi campi di studio" della ricerca attuale. Sono dei campioni desunti da circa sessanta categorie del sapere e sono stati distribuiti nei capitoli cercando di abbracciare la più grande varietà possibile di tempi, luoghi e argomenti. Per ragioni che dipendono dalla lunghezza del libro, dalla pazienza dell'editore e dalle forze dell'autore, il numero dei box è stato ridotto rispetto al progetto iniziale. Ciononostante, si spera che, complessivamente, il quadro riesca a dare un'impressione efficace, anche se con un minor numero di pennellate.

Ogni box è ancorato al testo in un punto specifico, sia nel tempo che nello spazio, ed è contrassegnato da un titolo che ne riassume il contenuto. Ognuno di essi può essere gustato separatamente oppure letto in relazione alla parte in cui è inserito.

Le dodici "istantanee" alla fine dei capitoli vogliono dare una visione panoramica che abbracci l'Europa da un capo all'altro. Congelano il tempo della narrazione cronologica, di solito in momenti di cruciale importanza, e impongono un temporaneo arresto alla precipitosa marcia attraverso l'enorme distesa spazio-temporale. Dovrebbero aiutare il lettore a riprendere fiato e a fare una stima delle numerose trasformazioni avvenute, una per volta, su più fronti. Queste parti del testo sono deliberatamente soggettive e non cercano di soppesare le molteplici opinioni e le prospettive alternative che senza dubbio esistono. In questo senso sono spudoratamente parziali e approssimative. In alcuni casi sono al limite della faziosità, mettendo insieme eventi noti con supposizioni e deduzioni non documentate. Come molte altre parti del libro, possono essere giudicate troppo al di là dei confini convenzionali dell'analisi e dell'argomentazione accademica. In questo caso, focalizzeranno l'attenzione non solo sulla ricca varietà della storia europea, ma anche sulla ricca varietà di punti di vista attraverso i quali può essere letta.

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Pagina XIII

Il mito di Europa


In principio non c'era Europa. Per cinque milioni di anni ci fu solo una lunga e sinuosa penisola senza nome, posta come la polena di una nave sulla prua della più vasta distesa di terra di tutto il mondo. A occidente si estendeva un oceano che nessuno aveva mai attraversato. A sud si estendevano due mari chiusi e collegati, cosparsi a loro volta da isole, insenature e penisole. A nord si estendeva la grande calotta glaciale che, nel corso delle varie epoche, si espanse e si contrasse come una mostruosa e agghiacciante medusa. A est, infine, c'era il ponte terrestre con il resto del mondo, da dove tutti i popoli e le civiltà dovevano giungere.

Negli intervalli fra le ere glaciali, la penisola accolse i suoi primi coloni. Gli umanoidi di Neandertal e i cavernicoli di Cro-Magnon avranno senz'altro avuto nomi, volti e idee. Ma non è dato sapere chi fossero realmente. Si possono solo debolmente riconoscere dalle pitture, dai manufatti e dai resti mortali.

Quando il ghiaccio si ritirò per l'ultima volta, solo dodicimila anni fa, la penisola ricevette una nuova ondata di emigranti. Oscuri pionieri ed esploratori si mossero lentamente verso occidente, seguendo le coste, attraversando terre e mari finché anche le isole più lontane non furono raggiunte. Il loro più grande capolavoro a noi pervenuto, mentre l'età della pietra lasciava il posto a quella del bronzo, fu costruito al limite estremo delle terre abitate, su una remota isola in mezzo al mare. Ma nessuna speculazione odierna può rivelarci con certezza che cosa ispirò quei costruttori così abili, né come quell'imponente cerchio di pietre fosse chiamato.

All'estremo opposto della penisola, all'inizio dell'età del bronzo, un altro di quei lontani popoli stava fondando una comunità la cui influenza è durata sino a oggi. Verso la fine del secondo millennio a.C., gli elleni, discesi in tre ondate principali dal cuore del continente, presero il controllo delle coste dell'Egeo. Conquistarono gli abitanti del luogo e si unirono a essi. Si sparsero nelle migliaia di isole disseminate tra le coste del Peloponneso e dell'Asia Minore. Assorbirono la cultura dominante della terraferma e anche la più antica cultura cretese. La loro lingua li distingueva dai "barbari", "coloro che parlano un idioma incomprensibile". Erano i creatori dell'antica Grecia [BARBARI].

Più tardi, quando i fanciulli del periodo classico chiedevano da dove fosse nata l'umanità, veniva loro risposto che il mondo era stato creato da un ignoto opifex rerum o "divino artefice". Si raccontava loro del Diluvio e di Europa.

Europa era la protagonista di una delle più sacre leggende del mondo classico. Europa era la madre di Minosse, signore di Creta, e quindi la progenitrice del più antico ramo della civiltà mediterranea. Omero la menzionò solo di sfuggita. Ma in Europa e il toro attribuito al siracusano Mosco e, soprattutto, nelle Metamorfosi del poeta romano Ovidio, è immortalata come un'innocente principessa che, vagabondando con il suo seguito di ancelle lungo le spiagge della nativa Fenicia, fu sedotta da Zeus che le si mostrò sotto le sembianze di un candido toro:

E dissipata a poco a poco la paura, ora le offre il petto perché lo palpi con la sua mano virginea, ora le corna perché le inviluppi di ghirlande appena intrecciate. A un certo punto la figlia del re si azzarda a sedersi sul dorso del toro, senza sospettare di chi sia in verità. Allora il dio, allontanandosi con fare indifferente dalla terra e dalla spiaggia asciutta, comincia a imprimere le sue false orme sulla battigia, poi va più avanti, poi si porta via la preda sull'acqua in mezzo al mare.

Lei è piena di spavento, e si volge a guardare la riva ormai lontana. La destra stringe un corno, la sinistra è poggiata sulla groppa. Tremolando le vesti si gonfiano alla brezza.


Questo è il mito di Europa così come veniva raffigurato sui vasi greci, nelle case di Pompei (vedi figura 1), e in tempi più recenti da Tiziano, Rembrandt, Rubens, il Veronese e Claude Le Lorrain.

Lo storico Erodoto, autore del V secolo a.C., non rimase particolarmente colpito dalla leggenda. Secondo lui, il rapimento di Europa era solo un episodio delle guerre dell'età antica. Una banda di fenici di Tiro aveva rapito Io, figlia del re di Argo; così una banda di greci era partita da Creta e aveva rapito la figlia del re di Tiro. È il caso di dire "occhio per occhio".

Il mito di Europa ha molti significati. Ma nel portare la principessa dalle coste della Fenicia (oggi Libano meridionale) a Creta, Zeus stava sicuramente trasferendo i frutti della più antica civiltà asiatica alle nuove colonie dell'Egeo. La Fenicia apparteneva all'orbita dei faraoni. La cavalcata di Europa crea un legame mitico tra l'antico Egitto e l'antica Grecia. A Cadmo, il fratello di Europa, che girò il mondo per cercarla, fu attribuito il merito di aver portato l'arte della scrittura in Grecia [CADMO].

La cavalcata di Europa inoltre esprime la fondamentale irrequietezza di coloro che ne seguirono le orme. Al contrario delle grandi civiltà della valle del Nilo o dell'Indo, della Mesopotamia o della Cina, che furono assai durature ma letargiche nel loro sviluppo geografico e intellettuale, la civiltà del Mediterraneo fu stimolata da continui movimenti. Il movimento crea incertezza e insicurezza. L'incertezza incoraggiò un costante fermento di idee. L'insicurezza incitò le attività energiche.

Minosse era rinomato per la sua flotta. Creta era la prima potenza navale. Le navi trasportavano cose, persone e anche cultura, incoraggiando scambi di tutti i tipi con le terre verso le quali salpavano. Come gli abiti di Europa, le menti di quegli antichi marinai erano costantemente lasciate "fluttuare nella brezza", tremulae sinuantur flamine vestes.

Europa cavalcò seguendo il cammino del sole, da est a ovest. Secondo un'altra leggenda, il sole era un carro di fuoco che cavalli invisibili trainavano dalle scuderie nascoste dietro l'alba sino al riposo, oltre il tramonto. Infatti, una delle possibili etimologie contrappone Asia, "la terra del sol levante", a Europa, "la terra del sole calante". Gli elleni cominciarono a usare il termine "Europa" per designare i loro territori a ovest dell'Egeo, distinguendoli dai più antichi insediamenti in Asia Minore.

Agli albori della storia europea, il mondo conosciuto si estendeva a oriente. A occidente si apriva l'ignoto e tutte le destinazioni dovevano ancora essere scoperte. La curiosità di Europa può essere stata la sua rovina. Ma portò alla costruzione di una nuova civiltà che alla fine ebbe il suo nome e che si diffuse nell'intera penisola.

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Pagina 1

Introduzione


La storia oggi

La storia può essere scritta secondo diverse scale di ingrandimento. Si può scrivere la storia dell'universo in un'unica pagina o il ciclo vitale di un'efemera in quaranta volumi. Uno storico molto anziano e illustre, specializzato nella diplomazia degli anni trenta del Novecento, una volta scrisse un libro sulla crisi di Monaco e sulle sue conseguenze (1938-1939), poi un secondo volume su L'ultima settimana di pace e quindi un terzo intitolato 31 agosto 1939. I suoi colleghi aspettarono invano il coronamento di tutta l'opera che avrebbe dovuto chiamarsi Un minuto a mezzanotte. È un esempio del moderno vezzo di conoscere sempre di più su sempre di meno.

Anche la storia d'Europa può essere scritta secondo qualsiasi scala d'ingrandimento. La collana francese L'évolution de l'humanité, che al 90 per cento parlava d'Europa, fu progettata dopo la prima guerra mondiale e doveva comprendere 110 volumi principali e molti altri supplementari. Il presente lavoro, al contrario, è stato commissionato per comprimere lo stesso materiale e qualcosa di più in un unico volume.

Tuttavia nessuno storico può competere con i poeti in quanto a economia di pensiero:

    Se l'Europa è una ninfa,
    Allora i suoi occhi celesti sono Napoli,
    E Varsavia il suo cuore.
    Sebastopoli e Azov,
    Pietroburgo, Mitau, Odessa:
    Queste sono spine nei suoi piedi.
    Parigi è la testa,
    Londra il colletto inamidato
    E Roma lo scapolare.


Per qualche ragione, mentre le monografie storiche hanno assunto una prospettiva sempre più ristretta, gli studi generali si sono assestati su uno standard di centinaia di pagine per secolo. The Cambridge Medieval History (1936-1939), per esempio, copre il periodo che va da Costantino a Tommaso Moro in otto volumi. Il tedesco Handbuch der europäischen Geschichte (1968-1979) percorre dodici secoli, da Carlo Magno ai colonnelli in Grecia, in sette tomi, tutti ugualmente imponenti. È una pratica diffusa dare più spazio alla contemporaneità rispetto all'epoca antica o medievale. Per i lettori inglesi questo fenomeno risulta evidente nella raccolta pionieristica in otto volumi Periods of European History di Rivington: 442 anni con una media di 1,16 anni per pagina in Dark Ages, 476-918 (1919) di Charles Oman, 104 anni con una media di 4,57 pagine per anno nel Europe in the Sixteenth Century (1897) di A.H. Johnson, 84 anni con una media di 6,59 pagine per anno nel Modern Europe, 1815-99 (1905) di W. Alison Phillipps. Anche le raccolte più recenti seguono lo stesso schema.

Quasi tutti i lettori sono più interessati alla storia recente. Ma non tutti gli storici sono pronti ad assecondarli. «L'attualità non può diventare "storia" se non sono trascorsi almeno cinquant'anni», dicono alcuni, «finché i documenti non sono diventati disponibili e il senno di poi ha schiarito le menti.» È un punto di vista valido. Ma vuol dire che ogni studio generale dovrebbe fermarsi proprio nel momento in cui comincia a essere più interessante. La storia contemporanea è permeabile a ogni tipo di pressione politica. Tuttavia, nessun adulto istruito può sperare di operare efficientemente senza alcuna conoscenza delle origini dei problemi contemporanei. Quattrocento anni fa sir Walter Raleigh, scrivendo in carcere sotto la minaccia di una sentenza di morte, comprese perfettamente questo pericolo. «Nello scrivere una storia moderna, chiunque dovesse sentire la Verità troppo vicino a sé», scrisse, «potrebbe forse perdere l'appetito.»

Viste le complicazioni, non si dovrebbe essere sorpresi di scoprire che gli studi sull'"Europa" o la "civiltà europea" possono variare enormemente. I tentativi andati a buon fine di scrivere una storia generale dell'intera Europa, in un unico volume e con un unico autore, sono stati pochi e distanti fra loro. A History of Europe (1936) di H.A.L. Fisher o A Modern History of Europe (1971) di Eugene Weber sono tra le rare eccezioni. Tutti e due sono ampi studi sul dubbio concetto di "civiltà occidentale". Probabilmente, fra queste grandi opere generali le più efficaci sono quelle che si sono concentrate su un unico tema, come la Civilisation di Kenneth Clark, che guarda alla storia europea dal punto di vista dell'arte e della pittura, o The Ascent of Man (1973) di Jacob Bronowski, che vi si è avvicinato attraverso la storia della scienza e della tecnologia. Tutte e due derivavano da ricche produzioni televisive. Un'opera più recente ha affrontato la questione da un punto di vista materialistico, basandosi sulla geologia e sullo studio delle risorse economiche.

Il valore delle analisi storiche in più volumi è fuori questione; ma sono condannate a rimanere opere di consultazione, non di lettura. Né gli studiosi di storia, né i lettori generici si faranno strada attraverso dieci, venti o centodieci volumi di sintesi generale prima di arrivare all'argomento che li attrae di più. Questo è spiacevole. La struttura complessiva stabilisce dei parametri e degli assunti che si ripresentano, senza discussione, nelle singole parti.

Negli anni più recenti, l'urgenza di riesaminare la struttura generale della storia europea è andata aumentando di pari passo alla moda per le ricerche sempre più specializzate e dettagliate. Le illustri eccezioni che confermano la regola sono davvero poche, come per esempio il lavoro di Fernand Braudel. Ma molti storici sono stati trascinati nel vortice del "sempre di più su sempre di meno" sino al punto di dimenticare le prospettive più ampie. E tuttavia lo studio dell'umanità richiede diverse scale di ingrandimento. La storia ha bisogno di vedere l'equivalente dei pianeti che girano nello spazio; ma anche di avvicinarsi e guardare la gente sulla terra e poi scavare dentro di loro e sotto di loro. Gli storici hanno bisogno di usare strumenti analoghi al telescopio e al microscopio, all'elettroencefalogramma e alla sonda geologica.


Negli ultimi anni, è indiscutibile, lo studio della storia si è molto arricchito grazie a nuovi metodi, nuove discipline e nuovi campi d'indagine. L'avvento dei computer ha aperto la strada alle analisi quantitative, altrimenti al di là della portata degli storici [AFFITTI]. La ricerca storica si è molto avvantaggiata grazie all'uso di tecniche e di concetti provenienti dalle scienze sociali e umane [ARICIA] [CACCIA] [CEDRO] [CONDOM] [EPICA] [FIESTA] [FINOCCHIO] [GENI] [GOTTARDO] [LEONARDO] [LITUANIA] [NOVGOROD] [PLOVUM] [PROPAGANDA] [VENDEMMIA]. Dal 1929 in poi, la prospettiva inaugurata dalla scuola francese delle Annales ha ottenuto un consenso pressoché universale [ANNALES]. Nuovi campi accademici, come la storia orale, la psichiatria storica (o psico-storia), la storia della famiglia o quella del costume, sono adesso saldamente affermati [AUDIO] [BOGEY] [USI] [ZADRUGA]. Nello stesso tempo, è stata data una nuova dimensione storica a materie che riflettono interessi contemporanei. Antirazzismo, ambiente, sesso, semitismo, lotta di classe e pace sono argomenti che occupano una considerevole parte della saggistica e dei dibattiti odierni. Nonostante le implicazioni relative alla "correttezza politica", tutto serve per arricchire l'insieme [ATENA NERA] [CAUCASIA] [ECOLOGIA] [FEMME] [NOBEL] [POGROM] [SPARTACO].

Tuttavia, la moltiplicazione dei campi d'indagine e il corrispondente aumento di pubblicazioni specialistiche ha inevitabilmente creato forti preoccupazioni. Gli storici professionisti disperano di "mantenere il passo con le pubblicazioni". Sono tentati di immergersi ancora più a fondo nei vicoli della superspecializzazione e di perdere la capacità di comunicare con il pubblico generico. Troppa specializzazione è andata a detrimento della narrazione storica. Alcuni specialisti hanno lavorato in base al presupposto che lo schema generale non abbia bisogno di revisioni, che l'unica strada per fare nuove scoperte sia di scavare più a fondo in un campo ristretto. Altri, assorti nell'esplorazione delle "strutture profonde", hanno completamente voltato le spalle alla "superficie" della storia, concentrandosi sull'analisi dei "trend sotterranei e di lungo termine". Come quei critici letterari che pensano che il significato letterale del testo non abbia importanza, così alcuni storici hanno creduto opportuno abbandonare lo studio dei "fatti" tradizionali. Producono studenti che non hanno alcuna intenzione di imparare come, dove e quando qualcosa sia avvenuto.

Il declino della storia dei fatti è stato accompagnato, specialmente nelle aule, dalla crescita dell'"empatia" e cioè di un esercizio pensato per stimolare l'immaginazione storica. L'immaginazione è senza dubbio un elemento vitale per lo studio della storia. Ma gli esercizi di empatia possono essere giustificati solo se c'è una briciola di conoscenza. In un mondo dove anche la narrativa rischia di essere esclusa dalle fonti di informazione storiografica, qualche volta gli studenti corrono il pericolo di non avere nulla su cui costruire la loro consapevolezza del passato se non i pregiudizi del loro insegnante.

Il divorzio fra storia e letteratura è stato particolarmente disdicevole. Nelle discipline umanistiche, quando gli "strutturalisti" furono spodestati in alcuni ambiti della professione dai "decostruzionisti", sia gli storici che i critici letterari non solo si orientarono verso l'esclusione di tutto il sapere tradizionale, ma anche verso la separazione reciproca. Fortunatamente, visto che gli aspetti più selvaggi del decostruzionismo sono stati "decostruiti", ci sono speranze che questa ferita possa rimarginarsi. Non c'è alcuna ragione perché gli storici assennati non debbano usare testi letterari e valutarli criticamente o perché i critici letterari non debbano far uso delle conoscenze storiche [GATTOPARDO] [KONARMIJA].

Potrebbe sembrare, comunque, che gli specialisti abbiano bluffato. C'è sempre stata, nella ricerca storica, un'equa divisione del lavoro tra le industriose api operaie e le api regine, i grands simplificateurs, che mettono ordine nel lavoro dell'alveare. Non ci sarebbe più miele se le operaie prendessero completamente il sopravvento. Né si può accettare che le linee di fondo della storia generale siano fissate una volta per tutte. Anch'esse cambiano secondo le mode, e quelle fissate cinquanta o cento anni fa sono mature per una revisione. Allo stesso modo lo studio degli strati profondi della storia non deve mai essere diviso dal lavoro in superficie. Nella ricerca di "trend", "società", "sistemi economici" o "culture" non si dovrebbero perdere di vista gli uomini, le donne e i bambini.

La specializzazione ha aperto le porte a interessi politici spregiudicati. Dato che nessuno è considerato così competente da poter offrire un'opinione al di là del proprio ristretto campo d'interesse, i predatori sono stati lasciati liberi di cercare il proprio bottino fuori da ogni controllo. La combinazione di una seria ricerca documentaria e di argomenti vistosamente limitati, che a priori esclude un'analisi completa di tutti i fattori rilevanti, è un'operazione particolarmente perniciosa. Si reputa che A.J.P. Taylor abbia detto di un lavoro di questo tipo: «è al novanta per cento corretto e al cento per cento inutile».

La reazione più prudente a questi sviluppi consiste nell'essere favorevoli al pluralismo interpretativo e alla "sicurezza dei numeri": cioè incoraggiare un'ampia varietà di ricerche specialistiche in modo da controbilanciare i limiti di ognuna di esse. Un unico punto di vista è rischioso. Ma su cinquanta, sessanta o anche trecento si può costruire un insieme passabile. «Non esiste un'unica Verità, ma tante verità quante sono le coscienze.»

Nel capitolo II, viene menzionata la famosa soluzione di Archimede per il problema del π e cioè per il calcolo del rapporto fra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro. Archimede sapeva che la lunghezza della circonferenza doveva essere da qualche parte fra la somma dei lati di un quadrato circoscritto al cerchio e la somma dei lati di un quadrato inscritto nel cerchio. Incapace di ricavarla direttamente, si concentrò sull'idea di trovare un'approssimazione sommando i lati di un poligono di 96 lati inscritto nel cerchio. Più lati dava al suo poligono, più si avvicinava alla forma del cerchio. In modo analogo, si è tentati di pensare, maggiori sono le sorgenti di luce, minore sarà la distanza tra il passato e il tentativo degli storici di ricostruirlo.

Altrove, l'impossibile compito dello storico è stato paragonato a quello di un fotografo: le fotografie, statiche e bidimensionali, non potranno mai dare un'accurata rappresentazione del mondo, che invece è in movimento e tridimensionale. «Gli storici, come le macchine fotografiche, mentono sempre.» Se questa similitudine dovesse essere ulteriormente sviluppata si potrebbe dire che i fotografi possono aumentare la verosimiglianza del loro lavoro, nel caso che la verosimiglianza sia lo scopo, moltiplicando il numero di fotografie dello stesso soggetto. Molti scatti presi da differenti angolazioni e con lenti, filtri e pellicole diverse possono, tutti insieme, ridurre l'evidente selettività di un singolo scatto. Come chi fa i film ha scoperto, molti fotogrammi guardati in sequenza creano una passabile imitazione dello scorrere del tempo e del movimento. Con lo stesso sistema, "la storia a tutto tondo" può essere ricostruita se gli storici confrontano i risultati provenienti dal più ampio numero possibile di fonti. Il risultato non sarà mai perfetto; ma ogni diversa angolazione e ogni diversa tecnica contribuisce a illuminare le parti che compongono tutto l'insieme.

La distorsione è una caratteristica essenziale di tutte le fonti d'informazione. L'assoluta obiettività è assolutamente irraggiungibile. Ogni tecnica ha i suoi punti di forza e le sue debolezze. La cosa importante è capire dove stia il valore e la distorsione di ogni tecnica e quindi raggiungere una ragionevole approssimazione. Coloro che obiettano all'uso che gli storici fanno della poesia, della sociologia, dell'astrologia o di qualsiasi altra cosa, in base al fatto che queste fonti sono "soggettive", "parziali" o "non scientifiche" affermano un'ovvietà. È come se qualcuno criticasse i raggi X o le ecografie perché riproducono un'immagine scadente del viso di una persona. I medici usano ogni mezzo conosciuto per scoprire i segreti del corpo e della mente umana. Agli storici occorre una simile varietà di strumenti per penetrare i misteri del passato.

La storia documentaria, che è stata a lungo in auge, è, allo stesso tempo, una delle più stimate e una delle più rischiose linee di approccio. Maneggiata senza cautela, può portare a clamorose forme di mistificazione della realtà; ed è incapace di prendere atto di enormi aree di storia passata. Tuttavia, nessuno può negare che i documenti storici siano uno dei filoni di conoscenza più fruttiferi [HOSSBACH] [METRYKA] [SMOLENSK].

Lord Acton, fondatore della scuola storica di Cambridge, una volta predisse un effetto particolarmente deleterio della storia documentaria. Essa tende infatti a dare più importanza all'accumulazione delle prove che alla loro interpretazione da parte dello storico. «[Viviamo nell'] epoca della documentazione [...],» scrisse Acton circa novant'anni fa, «che tenderà a rendere la storia indipendente dagli storici e a sviluppare l'insegnamento a spese della scrittura.»

In generale, gli storici hanno prestato più attenzione ai loro dibattiti interni che ai problemi incontrati dai loro, da troppo tempo tolleranti, lettori. La ricerca dell'obiettività scientifica ha contribuito molto a ridurre i vecchi voli di fantasia e a separare i fatti dalla finzione. Ma allo stesso tempo ha anche ridotto il numero di strumenti che gli storici possono usare per comunicare le loro scoperte. Perché non è sufficiente per un buono storico stabilire i fatti e fare appello alle prove. L'altra metà del compito consiste nel penetrare la mente dei lettori e nel combattere la possibilità di una percezione distorta, un fenomeno a cui è soggetto ogni "consumatore di storia". Le distorsioni non riguardano solo i cinque sensi, ma anche un complesso circuito intellettuale prestabilito che va dalla terminologia linguistica, dai nomi geografici e dai codici simbolici alle opinioni politiche, alle convenzioni sociali, alla disposizione emotiva, alla fede religiosa, alla memoria visiva e alla tradizionale conoscenza storica di ognuno di noi. In altre parole, ogni consumatore di storia filtra tutte le nuove informazioni in base alle sue esperienze e alle sue conoscenze.

Per questa ragione, gli storici che vogliono essere efficaci devono dedicare tanta cura nel trasmettere le loro informazioni quanta nel raccoglierle e plasmarle. In questa fase del lavoro, molte delle loro preoccupazioni sono le stesse dei poeti, degli scrittori e degli artisti. Devono tener d'occhio il lavoro di tutti coloro che li aiutano a modellare e a trasmettere le proprie impressioni del passato: gli storici dell'arte, i musicologi, i museografi, gli archivisti, gli illustratori, i cartografi, i diaristi, i biografi, i documentaristi sonori, i cineasti, gli scrittori di romanzi storici e anche gli spacciatori di "aria medievale in bottiglia". In ogni fase l'elemento chiave, come per la prima volta fu definito da Vico, è «l'immaginazione storica creativa». Senza di essa, il lavoro dello storico rimane lettera morta, un messaggio che è impossibile trasmettere [PRADO] [SONATA] [SOVKINO].


In questa presunta età della scienza, la parte immaginifica del mestiere dello storico è stata senza dubbio messa in secondo piano. Il valore di illeggibili relazioni accademiche e di indigeribili raccolte di dati viene esagerato. Gli storici che ricorrevano alla fantasia, come per esempio Thomas Carlyle, non sono stati semplicemente censurati per un eccesso di licenza poetica. Sono stati dimenticati. E tuttavia, le idee di Carlyle sulla relazione fra storia e poesia sono comunque degne di considerazione. È importante controllare e verificare, cosa che Carlyle qualche volta non faceva. Ma è anche importante "raccontarla giusta". Tutti gli storici dovrebbero raccontare le loro storie in modo convincente o essere ignorati.


Il "postmodernismo" è stato un passatempo degli ultimi anni per tutti coloro che davano la precedenza allo studio degli storici rispetto allo studio della storia. Si riferisce a una moda che ha seguito le orme di due "guru" francesi, Foucault e Derrida, e che ha attaccato sia le regole comunemente accettate della scienza storica che i principi metodologici tradizionali. Una delle sue linee di approccio consisteva nel demolire il valore delle fonti documentarie, come avevano fatto i letterati decostruzionisti con il "significato" dei testi letterari. Altrove ha denunciato "la tirannia dei fatti" e le "ideologie autoritarie" nascoste dietro ogni corpus di informazioni. Nelle sue posizioni estreme ritiene che tutte le affermazioni relative al passato siano "coercitive". E fra i fautori di quella coercizione sono compresi tutti gli storici che parlano di "impegno in favore dei valori umani". Agli occhi dei suoi critici, il postmodernismo ha ridotto la storia a un "piacere degli storici"; ed è diventato uno strumento per i radicali politicizzati con un ordine del giorno tutto loro. Nel suo disprezzo per la conoscenza classificata, insinua che sapere qualcosa è più pericoloso di non sapere niente.

Tuttavia il fenomeno ha sollevato più problemi di quanti ne abbia risolti. I suoi sostenitori entusiasti possono solo essere paragonati a quei tetri accademici che, invece di raccontare barzellette, scrivono dotti volumi sull'analisi dell'umorismo. Ci si chiede anche se tradizionali storici liberali possano propriamente essere definiti "modernisti"; e se l'etichetta "postmodernista" non debba essere riservata a coloro che stanno cercando di raggiungere un compromesso tra il vecchio e il nuovo. Va molto bene deridere l'autorità di tutti quanti, ma alla fine ciò porta solo a deridere Derrida. È solo una questione di tempo prima che i decostruzionisti siano decostruiti dalle loro stesse tecniche. «Siamo sopravvissuti alla "morte di Dio" e alla "morte dell'uomo". Sopravviveremo sicuramente alla "morte della storia" [...] e alla morte del postmodernismo.»


Ma ritorniamo al problema delle scale d'ingrandimento. Ogni narrazione che racconta il lungo cammino della storia deve essere per forza progettata diversamente rispetto a una rassegna panoramica che coordina tutte le caratteristiche importanti di una particolare fase o di un momento specifico. Il primo approccio, quello cronologico, deve enfatizzare gli eventi e le correnti innovative che, anche se atipiche al momento della loro prima apparizione, guadagneranno importanza successivamente. Il secondo approccio, quello sincronico, deve combinare sia le innovazioni che la tradizione e descrivere il modo in cui interagiscono. Il rischio del primo è l'anacronismo, quello del secondo l'immobilità.

La storia dell'Europa nella prima età moderna è servita come laboratorio per questi problemi. Inizialmente dominata dagli storici che esploravano le radici dell'Umanesimo, del protestantesimo, del capitalismo, della scienza e dello stato-nazione, attirò quindi l'attenzione di specialisti che mostrarono, piuttosto correttamente, come erano sopravvissuti e cresciuti alcuni aspetti del mondo medievale e pagano. Gli storici che vogliono essere esaurienti devono in qualche modo trovare un compromesso fra le due posizioni. Nel descrivere il XVI secolo, per esempio, è fuorviante parlare esclusivamente di streghe, alchimisti e fate così come lo era un tempo parlare quasi esclusivamente di Lutero, Copernico o dell'ascesa del parlamento inglese. Una storia che sia esauriente deve prendere in considerazione il dibattito fra gli specialisti, ma deve comunque trovare anche il modo di elevarsi rispetto ai loro interessi passeggeri.

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L'idea di Europa

Quella di "Europa" è un'idea relativamente recente. Ha gradualmente sostituito l'idea di "cristianità" attraverso un complesso percorso intellettuale durato dal XIV al XVIII secolo. I decenni a cavallo del Settecento, dopo generazioni di conflitti religiosi, furono comunque il periodo decisivo. Nella prima fase dell'Illuminismo, infatti, diventò imbarazzante per le varie nazioni ricordare la loro comune identità cristiana (vedi capitolo VIII); e l'idea di Europa soddisfaceva il bisogno di una definizione con caratteristiche più neutre. A occidente, le guerre contro Luigi XIV ispirarono molti pubblicisti che invocarono un'azione comune che ricomponesse le divisioni esistenti. William Penn (1644-1718), un quacchero più volte costretto in prigione, nato da un matrimonio fra un inglese e un'olandese (nonché fondatore della Pennsylvania), ebbe il merito di difendere sia la tolleranza universale che l'idea di un parlamento europeo. Charles Castel de Saint Pierre (1658-1743), un abate francese dissidente, autore del Projet d'une paix perpétuelle (1713), chiedeva l'istituzione di una confederazione di potenze europee per garantire una pace duratura. A oriente, l'affermazione dell'impero russo sotto Pietro il Grande esigeva un radicale ripensamento della situazione internazionale. Il trattato di Utrecht del 1713 fu l'ultima grande occasione in cui venne fatto pubblico riferimento alla respublica christiana.

Dopo di ciò, la coscienza di una comunità europea, opposta a quella cristiana, acquistò sempre più importanza. Nel 1751 Voltaire descrisse l'Europa come

una specie di grande repubblica divisa in molti stati, alcuni monarchici, altri misti [...] ma tutti simili fra loro. Hanno gli stessi fondamenti religiosi, anche se divisi in molte confessioni. Hanno gli stessi principi giuridici e politici, sconosciuti invece alle altre parti del mondo.

Vent anni dopo Rousseau annuncio: «non esistono più francesi, tedeschi e spagnoli, ma solo europei». Secondo una valutazione, il compimento dell'idea di Europa si verificò nel 1796 quando Edmund Burke scrisse: «nessun europeo può essere un vero esule in alcuna parte d'Europa». Malgrado ciò, i parametri politici, culturali e geografici della società europea sono sempre stati in discussione. Nel 1794, quando William Blake pubblicò una delle sue poesie più criptiche intitolata Europe: a Prophecy, la illustrò con un'immagine dell'Onnipotente che si sporgeva dal cielo e teneva in mano un compasso.

Le coste disegnano quasi tutto il profilo dell'Europa. Ma il tracciato della frontiera terrestre ha impiegato molto più tempo a delinearsi. La linea divisoria fra Europa e Asia, così com'era stata fissata dagli antichi, andava dall'Ellesponto al fiume Don. Ed era ancora quella nel periodo medievale. Un enciclopedista del XIV secolo ne dette una definizione piuttosto precisa:

Si dice che l'Europa sia un terzo dell'intero mondo, e debba il suo nome a Europa, figlia di Agenore, re della Libia. Giove rapì questa Europa e la portò a Creta e chiamò la maggior parte della terra con il suo nome. [...] L'Europa comincia sul fiume Tanai [Don] e si estende lungo l'Oceano settentrionale sino al limite estremo della Spagna. La parte sudorientale, che inizia dal mare chiamato Ponto [mar Nero], è poi tutta bagnata dal Grande Mare [il Mediterraneo] e finisce all'isola di Cadice [Gibilterra].

Papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) cominciava il suo De Europa (1458) con una descrizione dell'Ungheria, della Transilvania e della Tracia, in quel momento sotto la minaccia dei turchi.

Né gli antichi né gli uomini medievali avevano familiarità con i limiti orientali della pianura europea, molte parti della quale non furono colonizzate sino al XVIII secolo. Così fu solo nel 1730 che un ufficiale svedese al servizio della Russia di nome Strahlenberg, suggerì di spingere il confine dell'Europa dal Don ai monti Urali e al fiume Ural. Verso la fine del XVIII secolo il governo russo mise un posto di frontiera sulla pista tra Sverdlovsk (Jekaterinburg) e Tjumen per segnare la frontiera fra l'Europa e l'Asia. Da allora, i gruppi di esuli zaristi che furono mandati in Siberia in catene inventarono l'usanza di inginocchiarsi presso il posto di frontiera e di raccogliere l'ultima manciata di terra europea. «Non c'è altro posto di frontiera al mondo», scrisse un osservatore, «che ha visto [...] così tanti cuori spezzati.» Verso il 1833, quando l' Handbuch der Geographie di Volger fu pubblicato, l'idea di un'«Europa dall'Atlantico agli Urali» era ormai comunemente accettata.

Tuttavia, non c'è niente di sacro nelle convenzioni dominanti. L'allargamento dell'Europa sino agli Urali fu accettato come risultato dell'ascesa dell'impero russo. Ma è stato ampiamente criticato, specialmente dai geografi analitici. La frontiera degli Urali aveva scarsa validità agli occhi di Halford Mackinder e di Arnold Toynbee, per i quali i fattori ambientali avevano la priorità; o del geografo svizzero J. Reynold che scrisse: «la Russia è geograficamente in antitesi rispetto all'Europa». Il declino della potenza russa potrebbe, a ragione, provocare una revisione di questa convenzione. In tal caso, l'idea di un'«Europa soggetta alle maree», le cui frontiere si ampliano e si restringono, che è poi l'idea di un professore di Oxford nato in Russia, risulterebbe avvalorata.


L'Europa geografica ha sempre dovuto competere con l'idea di Europa come comunità culturale; e in assenza di una struttura politica comune la civiltà europea può essere definita solo secondo criteri culturali. Una particolare enfasi viene di solito posta sul ruolo germinale del cristianesimo, un ruolo che non è cessato quando l'etichetta di "cristianità" fu abbandonata.

Nel 1945, annunciando per radio la sconfitta della Germania, il poeta T.S. Eliot sostenne che la civiltà europea, dopo il ripetuto indebolimento della sua anima cristiana, era di fronte a un pericolo mortale. Descrisse «il graduale chiudersi delle frontiere mentali in Europa» negli anni in cui c'era stata la piena affermazione degli stati-nazione. «A una sorta di autarchia culturale inevitabilmente seguì l'autarchia politica ed economica», disse. Sottolineò la natura organica della cultura: «la cultura è qualcosa che deve crescere; non potete costruire un albero, potete soltanto piantarlo, e curarlo, e attendere che germogli nel tempo dovuto». Sottolineò anche l'interdipendenza delle numerose culture minoritarie nell'ambito europeo. Ciò che chiamò "commercio" culturale era il fluido vitale dell'intero organismo. E mise in rilievo il particolare dovere dei letterati. Soprattutto enfatizzò la centralità della tradizione cristiana che riassume al suo interno l'«eredità [...] della Grecia, di Roma e d'Israele»:

La forza dominante nella creazione d'una cultura comune tra popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione [...]; parlo della comune tradizione cristiana che ha fatto l'Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato seco. [...] Nella cristianità le arti si sono sviluppate. In essa le leggi dell'Europa – fino ai tempi recenti – hanno avuto le loro radici. È contro uno sfondo cristiano che tutto il nostro pensiero acquista significato. Un singolo europeo può non credere che la Fede Cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire ed un Nietzsche. Non credo che la cultura dell'Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della Fede Cristiana.


È, in tutti i sensi, una visione tradizionale. È il criterio di valutazione di tutte le altre varianti, di ogni diramazione e di qualsiasi idea brillante sull'argomento. È il punto di partenza di ciò che Mme de Staél una volta chiamò penser à l'européenne.

Per gli storici della cultura europea, il compito fondamentale è di identificare il gran numero di correnti in competizione fra loro all'interno della tradizione cristiana e di stimare il loro peso in relazione ai vari elementi non cristiani e anti-cristiani. Il pluralismo è de rigueur. Malgrado l'apparente supremazia della fede cristiana sino alla metà del XX secolo, è impossibile negare che gran parte degli stimoli più fecondi dell'età moderna, dalla passione rinascimentale per l'antichità all'ossessione dei romantici per la natura, avessero un carattere sostanzialmente pagano. Analogamente, è difficile sostenere che il culto contemporaneo del modernismo, dell'erotismo, dell'economia e dello sport, o anche la cultura pop, abbiano molto a che fare con l'eredità cristiana. Oggi, il principale problema è capire se le forze centrifughe del XX secolo abbiano ridotto quell'eredità a un guazzabuglio privo di senso oppure no. Pochi potrebbero ora sostenere che la cultura europea sia mai stata monolitica. Una soluzione interessante è vedere l'eredità culturale europea come la somma di quattro o cinque ambiti che si sovrappongono e s'intersecano (vedi Appendice III, p. 1314). Secondo Alberto Moravia l'identità culturale dell'Europa è «un tessuto reversibile: un lato è variegato, [...] l'altro è tinta unita, di un colore ricco e profondo».


Sarebbe comunque sbagliato pensare che l'idea di Europa sia priva di contenuti politici. Al contrario, spesso è stata presa come esempio per esprimere proprio quell'armonia e quell'unità che le mancavano. "L'Europa" è stata un ideale irraggiungibile, il fine per il quale tutti i bravi europei si pensava dovessero lottare.

La visione messianica o utopistica dell'Europa può essere rintracciata sin dal dibattito che precedette la stipula del trattato di Vestfalia. Fu invocata a gran voce da Guglielmo d'Orange e dai suoi alleati quando organizzarono una coalizione contro Luigi XIV e anche da coloro che si opposero a Napoleone. «L'Europa», disse lo zar Alessandro I, «siamo noi.» Era presente sia nella retorica dell'equilibrio di potenza del XVIII secolo che in quella del "concerto europeo" nel XIX. Fu la caratteristica fondamentale della pacifica età dell'imperialismo che, durata sino alla Grande guerra del 1914, vide l'Europa dominare il mondo.

Nel XX secolo, l'ideale europeo fu ripreso dai politici decisi a rimarginare le ferite provocate dalle due guerre mondiali. Negli anni venti, dopo la prima guerra mondiale, quando poteva diffondersi in ogni parte del continente tranne che in Unione Sovietica, trovò espressione nella Società delle nazioni e nel lavoro di Aristide Briand (vedi capitolo XI). Si rivelò particolarmente attraente per i nuovi stati dell'Europa orientale che non erano appesantiti da imperi extraeuropei e che cercavano una comune protezione contro le grandi potenze. Alla fine degli anni quaranta, dopo la creazione della cortina di ferro, fu adottato da tutti coloro che stavano cercando di costruire una piccola Europa a occidente e che immaginavano questa costruzione come una serie di cerchi concentrici a partire dalla Francia e dalla Germania. Ma a oriente servì anche come luce di speranza per coloro che ne erano tagliati fuori a causa degli oppressivi regimi comunisti (vedi p. 15). Il crollo dell'impero sovietico nel 1989-1991 ha offerto la prima fugace apparizione di una comunità paneuropea che poteva aspirare a diffondersi in tutte le parti del continente.

Tuttavia, la fragilità dell'ideale europeo è stata riconosciuta sia dai suoi oppositori che dai suoi difensori. Nel 1876 Bismarck liquidò l'Europa, come una volta aveva già fatto Metternich con l'Italia, dicendo che era una mera "nozione geografica". Settant'anni dopo Jean Monnet, "il padre dell'Europa", vide la forza del disprezzo di Bismarck. «L'Europa non è mai esistita,» ammise «si deve onestamente provare a crearla.»


Per più di cinquecento anni, il problema fondamentale nel definire l'Europa si è incentrato sull'inclusione o l'esclusione della Russia. Nel corso dell'età moderna, la Russia, ortodossa, autocratica, economicamente arretrata anche se in espansione, non aveva le misure giuste. I suoi vicini occidentali hanno sempre trovato delle ragioni per escluderla. I russi stessi non sono mai stati sicuri di voler stare dentro o fuori.

Nel 1517, per esempio, Maciej Miechowita, il rettore dell'università jagellonica a Cracovia, pubblicò un trattato geografico che sosteneva la tradizionale distinzione tolemaica tra Sarmatia europaea e Sarmatia asiatica divise dal Don. Così, la Polonia-Lituania era compresa e la Moscovia esclusa. Tre secoli dopo le cose non erano più tanto chiare. La Polonia-Lituania era stata appena smembrata e la frontiera russa si era drammaticamente spostata verso occidente. Quando il francese Louis-Philippe de Ségur (1753-1830) vi passò, alla vigilia della Rivoluzione francese, non ebbe dubbi: la Polonia non faceva più parte dell'Europa. «On croit sortir entièrement de l'Europe», scrisse dopo essere entrato in Polonia; «tout ferait penser qu'on a reculé de dix siècles» ("si crede di essere completamente usciti dall'Europa; tutto farebbe pensare di essere tornati indietro nel tempo di dieci secoli"). Usando il progresso economico come fondamentale criterio per stabilire l'appartenenza all'Europa, de Ségur era assolutamente all'avanguardia.

Tuttavia questo fu anche il periodo in cui il governo russo sostenne fermamente le sue credenziali europee. Nonostante il fatto che il suo territorio si estendesse senza interruzioni attraverso l'Asia sino all'America settentrionale, nel 1767 l'imperatrice Caterina annunciò in modo categorico che «la Russia è uno stato europeo». Tutti coloro che volevano fare affari con San Pietroburgo ne presero nota. Dopo tutto la Moscovia era stata parte integrante della cristianità dal X secolo; e l'impero russo era un membro stimato della cerchia diplomatica. La paura dell'"orso" non ostacolò la crescita di un generale consenso a favore dell'inclusione della Russia in Europa. Nel XIX secolo questa posizione venne molto rafforzata grazie al ruolo della Russia nella sconfitta di Napoleone e per la magnifica fioritura della cultura russa nel periodo di Tolstoj, Cajkovskij e Cechov.

Gli intellettuali russi, divisi tra filo-occidentali e slavofili, erano incerti sul grado di europeità della Russia (vedi capitolo X). Nel suo Russia ed Europa (1871), lo slavofilo Nikolaj Danilevskij (1822-1885) sosteneva che la Russia possedeva una sua specifica e distintiva civiltà slava, a metà strada tra Europa e Asia. Dostoevskij, al contrario, parlando all'inaugurazione di una statua del poeta Puskin, scelse di lanciarsi in un elogio dell'Europa. «Popoli d'Europa» dichiarò «non sapete quanto ci siete cari.»

Solo il piccolo gruppo di vostochniki o "orientali" sosteneva che la Russia era completamente estranea all'Europa, avendo molto più in comune con la Cina.

Dopo il 1917, il comportamento dei bolscevichi fece rivivere molti dubbi e molte ambiguità di un tempo. All'estero i bolscevichi erano comunemente considerati come barbari – "scimmioni", per usare le parole di Churchill – una banda di asiatici selvaggi che spargevano morte e distruzione come Attila o Gengis Khan. Nella stessa Russia sovietica, i rivoluzionari marxisti venivano spesso denunciati come innesti occidentali, dominati dagli ebrei, sostenuti dai soldi occidentali e manipolati dai servizi segreti tedeschi. Nello stesso tempo, una forte componente della linea ufficiale sosteneva che la rivoluzione aveva tagliato tutti i legami con la "decadente" Europa. Molti russi si sentirono umiliati per il loro isolamento e si vantarono del fatto che una nuova e più forte Russia avrebbe schiacciato l'Occidente privo di fede. All'inizio del 1918, il più importante poeta degli anni rivoluzionari scrisse un'insolente poesia intitolata Gli sciti:

    Voi siete milioni. Noi nugoli, e nugoli, e nugoli.
    Provatevi a combattere con noi!
    Sì, gli Sciti noi siamo! Noi siamo gli Asiatici
    dagli occhi guerci e cupidi!
    [...]
    La Russia è la Sfinge. Esultando e affliggendosi,
    e irrorandosi di sangue nero,
    essa ti guarda, ti guarda, ti guarda
    con esecrazione e con amore!
    [...]
    Per l'ultima volta, vecchio mondo, ravvediti!
    A un festino fraterno di pace e lavoro,
    per l'ultima volta, a un radioso festino
    ti invita la lira barbarica!


Non era la prima volta che i russi si trovavano divisi in due direzioni.

Per quanto riguarda la leadership bolscevica, Lenin e la sua cerchia si sentivano molto vicini all'Europa. Si vedevano come gli eredi della tradizione inaugurata dalla Rivoluzione francese: nel movimento socialista in Germania vedevano le loro origini immediate, e immaginarono di unirsi alle future rivoluzioni nei paesi capitalistici avanzati dell'Occidente. All'inizio degli anni venti il Comintern ventilò la possibilità di creare gli Stati Uniti d'Europa (a guida comunista). Solo con Stalin, che uccise i vecchi bolscevichi, l'Unione Sovietica scelse di prendere le distanze dagli affari europei. In quegli stessi decenni, un influente gruppo di intellettuali russi emigrati, compresi il principe N.S. Trubetzkoj, P.N. Savitskij e G. Vernadskij, scelse di enfatizzare nuovamente gli elementi asiatici del miscuglio culturale russo. Conosciuti come jevrazijtsij o "eurasiatici" erano radicalmente contrari ai bolscevichi e nello stesso tempo mantenevano un certo scetticismo verso le supposte virtù dell'Europa occidentale.

Naturalmente, i settant'anni di dominio autoritario da parte dell'Unione Sovietica crearono, attraverso l'Europa, enormi barriere sia fisiche che mentali. Il volto pubblico del regime sovietico diventò vistosamente xenofobo, un atteggiamento che le esperienze della seconda guerra mondiale incoraggiarono molto e che gli stalinisti continuarono a coltivare. Nel loro cuore, comunque, molti russi seguivano la grande maggioranza dei non russi del blocco sovietico nell'incoraggiare la crescita della loro identità europea. Era l'ancora di salvezza per la loro sopravvivenza spirituale nei confronti del comunismo. Quando le catene del comunismo si spezzarono, poterono salutare, come disse Vaclav Havel, "il ritorno all'Europa".

Ciononostante, lo scetticismo sulle credenziali europee della Russia continuò a circolare sia dentro che fuori la Russia. La posizione dei nazionalisti russi, che odiano mortalmente e allo stesso tempo invidiano "l'Occidente", ha fornito un punto di aggregazione per l'apparato stalinista che si era sentito umiliato dopo il collasso della potenza sovietica e che desiderava solo riavere il proprio impero. Quale nucleo che si opponeva alle speranze di istituire una democrazia post-comunista, l'empia alleanza fra nazionalisti russi e comunisti non riformati ha potuto solo guardare con sospetto al sempre maggiore riavvicinamento fra Mosca, Washington e l'Europa occidentale.

Da parte loro, i leader occidentali erano più interessati al bisogno di stabilità. Visto che non erano riusciti a stabilire una duratura collaborazione con l'umanizzata versione dell'Urss di Gorbacëv, si sono buttati a capofitto per tenere in piedi la Federazione russa. Hanno reagito favorevolmente alle richieste di Mosca, sia di aiuti economici che alla sua volontà di associarsi alla Nato e alla Comunità europea. Ma in seguito alcuni di loro hanno cominciato a scorgere i lati negativi. Dopo tutto, la Federazione russa non era uno stato-nazione coeso o maturo per una democrazia liberale. Era un coacervo di nazionalità che si estendeva attraverso l'Eurasia, ancora estremamente militarizzato, che continuava a manifestare atteggiamenti imperialisti per garantire la propria salvaguardia. Non era chiaramente impegnata a lasciare che i paesi vicini seguissero la propria strada. A meno che non trovasse il modo di abbandonare l'eredità imperiale, come tutti gli altri ex imperi in Europa, non poteva aspettarsi di essere considerata un candidato ideale per alcuna Comunità europea. Questa, almeno, era la decisa opinione di un decano del Parlamento europeo in un discorso pronunciato nel settembre del 1993 [ESTONIA].

Alcuni commentatori hanno insistito sul fatto che le credenziali europee della Gran Bretagna non sono meno ambigue di quelle russe. Dalla conquista normanna alla guerra dei cent'anni, il regno inglese fu profondamente coinvolto negli affari del continente. Ma per quasi tutta l'età moderna l'Inghilterra cercò la sua fortuna altrove. Dopo aver sottomesso e assorbito i loro vicini nelle isole britanniche, gli inglesi salparono per crearsi un impero d'oltremare. Come i russi, erano sicuramente europei, ma i loro primi interessi erano extraeuropei. La loro abitudine di guardare al "continente" come se si trovasse a grande distanza non cominciò a declinare finché il loro impero non scomparve. In più, l'esperienza dell'impero aveva insegnato loro a guardare l'Europa in termini di "grandi potenze", soprattutto a ovest, e di "piccole nazioni", non molto importanti, soprattutto a est. Tra le sculture che circondano l'Albert Memorial (1876) a Londra c'è un gruppo di figure che simboleggiano "l'Europa". Sono solo quattro: Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia. Per tutte queste ragioni gli storici hanno spesso considerato la Gran Bretagna come «un caso a parte». I fondatori del primo movimento paneuropeo negli anni venti del Novecento (vedi capitoli XI e XII) non presero in considerazione né la Gran Bretagna, né la Russia.

Nello stesso tempo, vennero fatti molti tentativi per definire le diverse culture europee. Alla fine del XIX secolo, fu lanciata l'idea di una Mitteleuropa dominata dalla Germania in modo che coincidesse con la sfera d'influenza politica delle potenze centrali. Nel periodo fra le due guerre, fu inventata un'area chiamata "Europa centro-orientale" in modo che coincidesse con gli "stati successori" nuovamente indipendenti, dalla Finlandia e dalla Polonia alla Iugoslavia. L'idea venne fatta rivivere ancora dopo il 1945 come etichetta di comodo per un simile gruppo di paesi nominalmente indipendenti, ma in realtà agganciati al blocco sovietico. In quel periodo la principale divisione tra un'"Europa occidentale" dominata dalla Nato e un'"Europa orientale" dominata dal comunismo sovietico sembrava scolpita nella pietra. Negli anni ottanta, un gruppo di scrittori capeggiato dal romanziere ceco Milan Kundera lanciò una nuova versione dell'idea di "Europa centrale", così da rompere le barriere esistenti. Era ancora un'altra configurazione, un altro "regno dello spirito".

Quella di "cuore d'Europa" è un'idea attraente che ha connotazioni sia geografiche che emotive. Ma è anche particolarmente elusiva. Qualche autore l'ha posto in Belgio, un altro in Polonia, un terzo in Boemia, un quarto in Ungheria e un quinto nel reame della letteratura tedesca. Ovunque esso sia, nel 1991 il primo ministro britannico dichiarò che non intendeva rimanerne lontano. Chi crede che il cuore si trovi nel centro geografico, lo colloca nel comune di Saint Clement (Francia), il centro geografico della Comunità europea, o in un punto che a seconda del metodo usato per calcolarlo cade nei sobborghi di Varsavia o nell'entroterra lituano.


Nei settantacinque anni in cui l'Europa è stata divisa dalla più lunga delle sue guerre civili, l'idea di un'Europa unita poteva essere tenuta viva solo da persone con ampi orizzonti storici e culturali. Specialmente durante i quarant'anni della guerra fredda, ci volle un grande coraggio e una grande forza intellettuale per resistere non solo al persistente nazionalismo, ma anche all'angusta idea di un'Europa basata esclusivamente sul prospero Occidente. Fortunatamente individui della necessaria statura esistevano e hanno lasciato un'eredità di scritti che sarebbero presto apparsi profetici.

Una di queste persone era Hugh Seton-Watson (1916-84), il figlio maggiore di R.W. Seton-Watson (1879-1951), il pioniere degli studi sull'Europa orientale in Gran Bretagna. Da bambino giocava sulle ginocchia di Tomàs Masaryk; parlava il serbo-croato, l'ungherese e il rumeno con la stessa facilità con cui parlava il francese, il tedesco e l'italiano. Nato a Londra, dove divenne professore di storia russa alla School of Slavonic and East European Studies, parlava di sé come di uno scozzese. Non si piegò mai al sapere convenzionale del suo tempo. Il suo testamento spirituale sul concetto di Europa si trova in un saggio pubblicato postumo. La sua tesi sottolineava tre punti fondamentali: il bisogno di un ideale europeo, il ruolo complementare delle nazioni orientali e occidentali e il pluralismo delle tradizioni culturali europee. Ogni punto merita una citazione di una certa lunghezza.

La prima stoccata di Seton-Watson era diretta agli orizzonti ristretti di coloro che si aspettavano che l'unità europea dovesse essere costruita solo sugli interessi difensivi della Nato o su quelli economici della Cee:

Non sottovalutiamo il bisogno di una causa comune per qualcosa di più emozionante del prezzo del burro e di più costruttivo dell'assegnazione degli appalti per la difesa: il bisogno di una mistica europea.

La seconda frecciata era diretta a coloro che cercavano di escludere gli europei orientali in nome della civiltà occidentale:

La comunità culturale europea include i popoli al di là della Germania e dell'Italia, [...] cosa che non viene inficiata in nessun modo dal fatto che oggi essi non possono far parte di una comunità economica o politica interamente europea. [...] In nessun altro luogo al mondo è così diffusa la fede nella realtà e nell'importanza di una comunità culturale europea come nei paesi che si trovano tra la Cee e l'Unione Sovietica. [...] Per questi popoli l'Europa è una comunità di culture a cui appartiene ogni particolare cultura, anche minoritaria. Nessuna di queste può sopravvivere senza l'Europa, né l'Europa senza di esse. Questo naturalmente è un mito [...] una sorta di composto chimico che unisce fantasia e realtà. Le assurdità della fantasia non devono oscurare la realtà.

Il terzo strale era diretto a coloro che condividono una visione semplicista o monolitica della cultura europea:

L'intreccio fra l'idea di Europa e di cristianità è un fatto storico che neppure il più brillante sofisma può negare. [...] Ma è anche vero che esistono correnti della cultura europea che non sono cristiane: quella romana, greca, forse anche persiana e (nei secoli moderni) quella ebraica. Se ci sia o meno anche una corrente musulmana è difficile a dirsi.

La conclusione definisce gli scopi e i valori della cultura europea:

[La cultura europea] non è uno strumento del capitalismo o del socialismo; non è un monopolio degli eurocrati della Cee o di chiunque altro. Farle giustizia non è proclamare la sua superiorità sulle altre culture. [...] L'unità della cultura europea è semplicemente il prodotto finale di 3000 anni di lavoro dei nostri diversi antenati. È un'eredità che disprezziamo a nostro rischio, e di cui sarebbe un crimine privare i giovani e le future generazioni. Piuttosto, il nostro compito è conservarla e rinnovarla.

Seton-Watson faceva parte del ristretto gruppo di corridori solitari che portarono la fiaccola dell'unità europea attraverso la lunga notte dell'Europa. Faceva parte di quella minoranza di studiosi occidentali che scavalcò le barriere tra Oriente e Occidente e che vide il comunismo sovietico per quello che era. È morto alla vigilia di quegli avvenimenti che dovevano convalidare tanti dei suoi giudizi. Questo lavoro si onora di seguire da vicino e di ispirarsi alla sua eredità intellettuale.


Non si poteva iniziare a scrivere una storia d'Europa finché il concetto di Europa non si fosse stabilizzato e la professione storica non avesse preso una svolta analitica. Ma nei primi decenni del XIX secolo si era già certamente a buon punto. Il primo efficace tentativo di sintesi si deve a François Guizot (1787-1874), scrittore e statista francese. La sua Histoire de la civilisation en Europe (1828-1830) si basava su una serie di conferenze tenute alla Sorbona.

A causa dei problemi di definizione, molti studiosi sarebbero d'accordo di concentrare la ricerca sulle esperienze comuni che devono essere rintracciate in ogni grande fase del passato europeo. Molti concordano anche sul fatto che, alla fine dell'età antica, la storia europea cessò di essere un assortimento di eventi non collegati all'interno di una data penisola e cominciò invece ad assumere le caratteristiche di un processo di civilizzazione più coerente. In questo processo fu determinante la fusione del mondo classico e barbarico e la conseguente affermazione di una comunità coscientemente cristiana, in altre parole la fondazione della cristianità. Più tardi ci fu ogni tipo di scisma, ribellione, espansione, trasformazione e scissione, il che favorì la crescita di fenomeni estremamente diversificati e pluralistici: in altri termini l'Europa di oggi. Non si troveranno mai due liste uguali che elenchino gli stessi elementi costitutivi della civiltà europea. Ma molti fattori sono sempre stati in primo piano: dalle radici del mondo cristiano nel giudaismo, in Grecia e a Roma, a fenomeni moderni come l'Illuminismo, la modernizzazione, il Romanticismo, il nazionalismo, il liberalismo, l'imperialismo e il totalitarismo. Né si dovrebbe dimenticare il triste elenco di guerre, conflitti e persecuzioni che hanno imperversato in ogni fase della storia. Forse l'analogia più appropriata è di tipo musicale. Gli storici dell'Europa non stanno semplicemente seguendo la trama di un libretto d'opera. Stanno cercando di ritrovare una complessa partitura, con tutti i suoi suoni cacofonici e il suo inimitabile codice di comunicazione: «l'Europa [...] è stata paragonata a un'orchestra. In alcuni momenti certi strumenti hanno un ruolo minore oppure stanno completamente in silenzio. Ma l' ensemble esiste». E a questo proposito ci sarebbe molto da dire sul linguaggio musicale europeo e sul fatto che abbia rappresentato una delle componenti universali della tradizione europea [MOUSIKE].

Tuttavia, dato che l'Europa non e mai stata politicamente unita, la diversità è stata, evidentemente, una delle sue caratteristiche più stabili. Tale diversità può essere osservata nella grande varietà di reazioni rispetto a ogni esperienza comune. C'è una profonda diversità nelle culture e negli stati nazionali, che persiste nel complesso della civiltà europea. C'è una diversità nei mutevoli ritmi di ascesa e declino. Guizot, il pioniere, non era l'unico a pensare che la diversità fosse la prima caratteristica dell'Europa.

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Eurocentrismo

Una storia europea non può essere accusata di eurocentrismo solo perché focalizza l'attenzione su questioni europee, cioè perché si attiene all'oggetto del suo studio. L'eurocentrismo è una questione di atteggiamenti, non di contenuti. Si manifesta nella tradizionale tendenza degli autori europei a considerare la loro civiltà superiore e autosufficiente e di negare la necessità di prendere in considerazione punti di vista non europei. Né è sorprendente o deplorevole scoprire che la storia europea è stata principalmente scritta da europei per europei. Tutti sentono il bisogno di scoprire le proprie radici. Sfortunatamente gli storici dell'Europa si sono accostati all'oggetto del loro studio come Narciso si è avvicinato allo stagno, cercando solo il riflesso della propria bellezza. Guizot, che identificò la civiltà europea con il volere dell'Onnipotente, ha avuto molti imitatori. «La civiltà europea è entrata [...] nell'eterna verità, nel piano della Provvidenza», rifletteva. «Essa procede secondo le vie di Dio.» Per lui e per molti come lui l'Europa era la terra promessa e gli europei il popolo eletto.

Molti storici hanno continuato nella stessa vena autocelebrativa e hanno sostenuto, spesso piuttosto esplicitamente, che il passato dell'Europa fornisce un modello da seguire per tutti gli altri popoli. Sino a non molto tempo fa, hanno dato una scarsa considerazione all'interazione tra la cultura europea e quella dei suoi vicini in Africa, in India o nell'islam. Un importante studioso americano, scrivendo nel 1898, attribuì la civiltà europea all'opera delle «tribù teutoniche» e dette per scontato che l'Europa fosse un modello universale:

Gli eredi del mondo antico erano le tribù teutoniche che [...] gradualmente crearono una nuova civiltà sulle fondamenta di quella classica; in tempi recenti questa nuova civiltà si è diffusa in tutto il mondo, mettendo in stretto contatto e sotto una comune influenza tutti gli abitanti della terra.

Quando la Oxford University Press infine osò pubblicare una storia d'Europa in un singolo volume, gli autori iniziarono la prefazione usando argomenti simili:

Sebbene molte grandi civiltà siano esistite in vari periodi, è la civiltà europea che ha lasciato l'impronta più ampia e profonda e che ora (dato che si è sviluppata su entrambe le sponde dell Atlantico) costituisce il modello per tutti i popoli della terra.

Questo modo di pensare e questo tipo di presentazione ha completamente perso ogni attrattiva, specialmente per i non europei.

Rudyard Kipling (1865-1936) viene qualche volta considerato come la figura centrale della tradizione eurocentrica, l'apologista della missione civilizzatrice dell'espansione coloniale britannica. La sua famosa Ballad of East and West fu composta pensando all'India:

Oh, East is East, and West is West, and never the twain shall meet
Till Earth and Sky stand presently at God's great Judgement Seat.
But there is neither East nor West, Border, Breed nor Birth,
When two strong men stand face to face, though they came from the
                                                ends of the Earth.

[Oh, l'Oriente è l'Oriente e l'Occidente è l'Occidente e i due non s'incontreranno mai / finché la terra e il cielo non staranno di fronte al grande tribunale di Dio. / Ma non c'è né Oriente né Occidente, né frontiera, razza o stirpe, / quando due uomini forti sono uno di fronte all'altro, anche se provengono dai limiti estremi della Terra.]

Kipling condivideva poco l'atteggiamento arrogante di solito associato agli europei della sua epoca. Non rifuggiva le espressioni comuni del tempo, come per esempio "dominio [britannico] sulle palme e sui pini" o "meno razze senza legge". Tuttavia era molto attratto dalla cultura indiana – da cui il suo splendido Libro della giungla – ed era un uomo profondamente religioso e umile:

The tumult and the shouting dies
The Captains and the Kings depart
Still stands Thine ancient sacrifice,
An humble and a contrite heart.
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget, Test we forget!

[Tumulti e grida muoiono, / capitani e sovrani trapassano / ma il tuo antichissimo sacrificio resta, / un cuore contrito e umile. / Dio, Signore degli eserciti, resta con noi, / perché non dimentichiamo, non dimentichiamo.]

Queste parole sono un perenne monito per chiunque voglia mettere tutti gli "imperialisti occidentali" nella stessa combriccola di arroganti.

Oggi, l'opposizione all'eurocentrismo proviene da quattro fonti principali. Nell'America settentrionale è emersa in una parte della comunità nera e nei suoi simpatizzanti politici che si ribellano contro un sistema educativo dominato da "valori che sostengono la supremazia dei bianchi", in altre parole dalla glorificazione della cultura europea. Ha trovato espressione nel movimento dei musulmani neri e, in ambito culturale, in una varietà di studi sui neri (afrologia) diretti contro il tradizionalismo dell'accademia americana. Nella sua forma più militante vuole sostituire l'afrocentrismo all'eurocentrismo, «la convinzione della centralità degli africani nell'epoca postmoderna». Questa convinzione è basata sull'idea che la civiltà europea abbia privato l'umanità, e gli africani in particolare, del proprio diritto di nascita. Nel mondo islamico, specialmente in Iran, i fondamentalisti religiosi, che vedono l'Occidente come il "regno di Satana", manifestano un'opposizione simile. In altri paesi del Terzo mondo, questa idea è accolta dagli intellettuali, spesso marxisti, che considerano il punto di vista eurocentrico una parte integrante dell'ideologia capitalistica. In Europa tale posizione è diffusa, anche se non sempre ben articolata, in una generazione che, se si ferma a pensare, prova un'assoluta vergogna per molti degli atteggiamenti dei propri antenati.

Un primo passo avanti per gli storici consiste nel dare più attenzione al rapporto fra popoli europei e non europei [GONCALVEZ]. Un altro, nell'uso di fonti non europee per chiarire i problemi europei [RUS]. Un terzo, nell'insistere sulla necessità di un onesto confronto con i paesi vicini all'Europa, un confronto che per molti aspetti e in molti casi non sarà favorevole all'Europa. Soprattutto è essenziale modulare i toni. Non c'è molto da vantare, negli ultimi cento anni, nella condotta di quelle "tribù teutoniche" o di altri europei.

Alla fine, come tutte le attività umane, il passato dell'Europa deve essere giudicato in base ai propri meriti. Non può essere adeguatamente rappresentato da una lista di "grandi libri" che selezionano gli aspetti più geniali e ignorano il resto. Può essere visto con ammirazione o con disgusto, o con una mescolanza dei due. L'opinione di un francese accende una nota ottimistica: «Malgrado tutto, il delitto non è tutta la storia dell'Occidente, e ciò che esso ha portato al mondo supera infinitamente quanto esso ha fatto contro le società o gli individui». Non tutti sarebbero d'accordo.

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Civiltà occidentale

Per quasi 200 anni la storia europea è stata spesso confusa con quella che si considera l'eredità della "civiltà occidentale". Infatti, si ha l'impressione che tutto ciò che è occidentale sia civile e tutto ciò che è civile sia occidentale. Di conseguenza, o semplicemente per un riflesso condizionato, niente di vagamente orientale riesce a non essere considerato arretrato o inferiore e dunque trascurabile. Il meccanismo di questa sindrome è stato abilmente svelato per quanto riguarda l'atteggiamento europeo verso l'islam o il mondo arabo, cioè verso la tradizione del cosiddetto "orientalismo". Ma non è difficile dimostrare che agisce con la stessa intensità nei confronti di alcune aree della stessa Europa, particolarmente quelle orientali. In generale, infatti, non si pensa che la civiltà occidentale comprenda l'intera Europa (anche se l'etichetta va bene per parti del globo molto distanti e ben al di là dell'Europa).

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