Copertina
Autore Norman Davies
CoautoreRoger Moorhouse
Titolo Microcosmo
SottotitoloL'Europa centrale nella storia di una città
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2005, Sintesi , pag. XVIII+558, ill., cop.ril.sov., dim. 175x227x35 mm , Isbn 978-88-424-9253-5
OriginaleMicrocosm. Portrait of a Central European City [2003]
TraduttoreGabriella Agrati, Maria Letizia Magini, Matteo Sammartino
LettoreLuca Vita, 2005
Classe storia , storia: Europa , citta' , paesi: Germania
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Indice

VIII Indice delle illustrazioni
XI   Indice delle cartine
XII  Indice delle tavole in appendice
XIII Prefazione

  1  Introduzione
 13  Prologo
     Götterdämmerung. L'annientamento della fortezza Breslau, 1945
 41  1. La Città-Isola: archeologia e preistoria fino al 1000 d.C.
 65  2. Wrotizla tra le corone polacca, ceca e germanica, 1000-1335
111  3. Vretslav nel regno di Boemia, 1335-1526
157  4. Presslaw sotto la monarchia asburgica, 1526-1741
207  5. Bresslau nel regno di Prussia, 1741-1871
275  6. Breslau nell'impero germanico, 1871-1918
335  7. Breslau prima e durante la seconda guerra mondiale, 1918-1945
417  8. Wroclaw: la fenice risorge dalle proprie ceneri, 1945-2000

509  Appendice
535  Elenco dei luoghi
541  Indice dei nomi

 

 

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Pagina XIII

Prefazione


                                        A tutti i vratislavi,
                                  passati, presenti e futuri,
                                                    e a Oscar



Il progetto di quest'opera risale agli inizi del 1996, cioè alla data del mio incontro con il presidente della città di Wroclaw, signor Bogdan Zdrojewski, quando avevo da poco completato la stesura della mia Storia d'Europa (Europe: A History). In quell'occasione mi capitò di parlare dei miei prolungati tentativi di andare oltre la divisione artificiale della storia europea tra Est e Ovest. Secondo la mia concezione, la tendenza dominante a guardare al passato europeo esclusivamente con gli occhi dell'Occidente, e a trattare qualsiasi cosa fosse a est dell'Elba come estranea e aliena, aveva innalzato una forte barriera nei confronti delle odierne aspirazioni a un'Europa unita dopo il periodo della guerra fredda. Da parte sua, il presidente mi parlò dei problemi inerenti alla storia e all'identità della sua Wroclaw. Era a capo dell'esecutivo di una città che da cinquant'anni era ormai compiutamente polacca, ma che per secoli, fino al 1945, era stata prevalentemente tedesca per cultura e composizione. Parlò dei numerosi visitatori tedeschi, tra cui molti ex cittadini di Breslau, ai quali egli dava regolarmente il benvenuto in città, ma la cui visione del passato differiva in modo radicale da quella degli abitanti attuali. Disse poi che una nuova indagine storica sarebbe stata estremamente auspicabile per promuovere sempre più l'attuale clima di riconciliazione e aggiunse – forse un po' inaspettatamente — che «né un tedesco, né un polacco» avrebbe potuto farsene carico. Per finire, suggerì che fossi io stesso a tradurla in un libro.

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Pagina 1

Introduzione


Nessuno può dire con certezza quando sia nata l'idea di Europa centrale. La data del 1897, tuttavia, è valida quanto ogni altra. In quell'anno Sir Halford Mackinder, fondatore della Oxford Geography School e "padre della geopolitica", designava l'autore che avrebbe dovuto curare un volume chiave della collana "Regioni d'Europa" di cui egli era direttore. Il volume, intitolato Central Europe, fu pubblicato a Londra nel 1903. L'autore era Joseph Partsch.

In tempi precedenti, le aree centrali del subcontinente europeo non erano state oggetto di particolare attenzione. Le generazioni che si erano formate sugli studi classici avevano guardato prevalentemente alla divisione che separava il Sud dal Nord: l'antico mondo mediterraneo dal mondo barbarico oltre il limes romano. Altre avevano posto in primo piano l'annosa distinzione tra l'Occidente civilizzato e il presunto meno civilizzato Oriente. I due spartiacque Nord-Sud e Est-Ovest coincidevano entrambi con frontiere culturali importanti: tra protestanti e cattolici, e tra cattolici e ortodossi. Entrambi delegittimavano il concetto che le terre del Centro avessero avuto molto in comune. Come è ovvio, c'erano state diverse entità politiche di lunga durata, per esempio il Sacro romano impero e la monarchia asburgica che avevano dominato l'area, e con quella stessa area erano state conseguentemente identificate. E al cancelliere austriaco Klemens Metternich era piaciuto parlare dello "spazio danubiano". Ma il Centro Europa non era un concetto affermato. I testi di riferimento dell'Ottocento contengono voci sull'America centrale, l'Asia centrale e persino l'Africa centrale, ma non sull'Europa centrale.

Entro l'ultimo decennio di quel secolo, però, la recente entrata in scena di un impero germanico unitario straordinariamente dinamico costringeva a un ripensamento. La ritrovata potenza culturale, economica e politica della Germania percorreva in tanti ruscelli l'intera mappa dell'Europa. Perché la Germania non apparteneva né all'Occidente, che era stato dominato a lungo dalla Francia, né all'Oriente, per buona parte diventato il capro espiatorio dell'appetito insaziabile della Russia. Non apparteneva neppure alla Scandinavia più di quanto fosse parte dell'Italia o dei Balcani. Appariva sempre di più l'elemento chiave di una regione centrale distinta da tutte le altre.

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Pagina 6

Entro il penultimo decennio del Novecento, la memoria di un'unità europea stava dunque impallidendo rapidamente. In molte regioni si cominciava a pensare che lo status quo fosse una condizione perpetua. A Ovest, sempre più sovente la parola "Europa" era applicata dai membri della Comunità economica europea (e, in seguito, dall'Unione europea) come marchio esclusivo riservato a se stessi, sottintendendo con ciò che il resto d'Europa non fosse in qualche modo veramente europeo. A Est, le autorità comuniste impiegavano una terminologia ideologica, come per esempio "campo socialista" oppure "blocco sovietico", quasi a suggerire che i paesi europei sotto il governo sovietico avessero elementi in comune più con la Cina o con Cuba che con i vicini europei dell'Ovest.

Fu questo il contesto altamente deprimente in cui un gruppo di scrittori e di intellettuali indipendenti all'interno del blocco sovietico risuscitò il Centro Europa a proprio uso e consumo. Guidati dal romanziere ceco Milan Kundera, erano una compagine diversissima ed esprimevano una varietà di punti di vista e di motivazioni. Ma li accomunava l'apprensione per la cultura tradizionale delle rispettive patrie; tutti detestavano l'identità ideologica artificiale che il governo comunista aveva loro imposto, e tutti, infine, ambivano a riallacciare stretti legami con la vita culturale dell'Occidente. Con i loro scritti, Kundera, il compagno ceco Vàclav Havel, l'ungherese Georgy Konràd, il polacco Adam Michnik e altri crearono un'area spirituale che non era rintracciabile sulle cartine geografiche, ma che attingeva a tutte le precedenti varianti di Europa centrale per affermare una propria visione del passato, il rifiuto del presente e la speranza nel futuro. Le opere più note videro la luce negli anni ottanta del Novecento, ma le idee non erano necessariamente nuove. Alcune avevano circolato per decenni con il sistema dello samizdat sotto forma di barzellette e di aneddoti semiseri. «Al di sopra dell'Europa centrale», proclamava una simile miscellanea ceca che circolava dagli anni settanta, «si levano un forte odore di cavolo bollito e di birra rancida e le zaffate saponacee dei cocomeri troppo maturi [...]. Le frontiere sono vaghe e irrazionali; e soltanto l'odore ci permette di identificare [la regione] con certezza assoluta.»

Nel mondo esterno, crebbe un'attività intellettuale su base artigianale domestica che cercava di definire le nuove frontiere del fenomeno e i suoi valori sconnessi. «L'Europa centrale è tornata», scrisse il suo più importante analista. «Per tre decenni dopo il 1945 [...] è stata una cosa tutt'uno con Ninive e Tiro [...] ma negli ultimi pochi anni abbiamo ricominciato a parlare di Europa centrale, e a coniugare i verbi al presente.» Eppure quella "cosa" sfidava ogni definizione. Nessun suo estimatore avrebbe saputo descriverne la geografia, e nessuno avrebbe potuto sottoscriverne il contenuto. C'era un sentimento tangibile di nostalgia; un attaccamento alla nuova forma di politica dissenziente o di "antipolitica", che privilegiava il ruolo della cultura, disprezzava lo Stato e predicava la non violenza; e c'era il rifiuto risoluto ad accettare il mondo così com'era. Oltre a questo, ogni discussione si apriva e si chiudeva con la domanda: «L'Europa centrale esiste?».

Nel 1989, infine, con il crollo della cortina di ferro le divisioni dialettiche dell'Europa si dissolsero, e l'Europa centrale fu libera di riemergere ancora una volta in carne e ossa. In questo lasso di tempo, la rete di rapporti incrociati e di linee divisorie fu tutt'altro che semplice. L'Ovest, che per quattro decenni si era fortemente identificato con l'appartenenza alla Nato e all'Unione europea, allungò i propri tentacoli verso l'Est. L'Unione europea, per esempio, aggregò la Finlandia e stabilì una lunga frontiera direttamente con la Russia. La Nato accolse la Polonia, la Repubblica ceca e l'Ungheria, insieme con una lunga lista di stati aspiranti ancora più lontani. L'Est, che era stato a lungo dominato dall'Urss, scoprì che quella potenza si era dissolta. In effetti si era ridotta al cosiddetto Cis, vale a dire alla Federazione russa e alla cerchia di riottose repubbliche ex sovietiche, che la Russia considerava come un proprio "estero vicino". Il Centro, collocato come sempre tra l'Est e l'Ovest, abbracciava una compagine di nazioni che andava dalla Polonia alla Bulgaria ed era libera di scegliere la propria identità. Anche se conservavano molti sogni e ideali degli anni ottanta che avevano tanto screditato il monolito sovietico, queste nazioni possedevano ormai sistemi democratici, programmi economici di libero mercato e prospettive ottimistiche, che le distinguevano dai precedenti partner sovietici e dai vicini jugoslavi lacerati dalla guerra. L'ex Repubblica democratica tedesca, un tempo patria di un rigido regime comunista, nel 1990 entrò nell'Unione europea nel contesto della Germania riunificata. Sulla stessa scia, nel 1995 l'Austria neutrale si unì alla Svezia e alla Finlandia. La Polonia e la Repubblica ceca, l'Ungheria e la Slovenia guidarono la coda dei candidati con intenti analoghi. Secondo la famosa frase del presidente ceco Vàclav Havel, l'impegno comune era il "ritorno all'Europa". Poiché gli europei del Centro non erano soltanto centrali nei piani per il futuro: per la prima volta nel corso di due o tre generazioni, essi erano liberi di essere fieri del proprio condiviso retaggio europeo.


A parte le bizzarrie dei confini mutevoli e delle concezioni contrastanti, l'Europa centrale possiede un certo numero di caratteristiche che sono il prodotto naturale delle condizioni di una regione di passaggio tra Est e Ovest. Innanzitutto, da sempre è stata dotata di una ricca varietà di migranti e di coloni. Nel corso di tutta la storia documentata, e probabilmente anche prima, si è ripetuto lo scenario delle invasioni nomadi, degli insediamenti misti e delle conquiste militari. Tra le popolazioni nomadi si possono comprendere gli sciti, i sarmati, gli unni, i magiari e i mongoli. Tra i colonizzatori più stabili si notano numerose popolazioni con connessioni celtiche, germaniche, slave e semitiche. Tra i conquistatori passeggeri si elencano, tra gli altri, Gustavo Adolfo, Jan Sobieski, Carlo XII, Pietro il Grande, Federico il Grande, Napoleone, Hitler e Stalin. Come risultato, la popolazione dell'Europa centrale è stata testimone di una profusione di linguaggi, culture, religioni e nazionalità. Da tempi immemorabili il caleidoscopio etnico è stato la norma. Ma fu scomodissimo nell'età del nazionalismo, quando ogni nazione moderna rivendicò il diritto esclusivo al proprio appezzamento. Come era inevitabile, l'Europa centrale divenne la patria di storie nazionali concorrenti e perverse, ciascuna delle quali rivendicava "l'aborigeneità".

In secondo luogo, tra i tanti flussi e riflussi, due ondate colonizzatrici furono particolarmente importanti. Nel Medioevo, dopo un'era di migrazioni verso occidente, i colonizzatori germanici si riversarono verso oriente attraverso l'Oder e l'Elba, compiendo massicce incursioni in terre, come per esempio la Polonia e la Boemia, che per qualche tempo erano state proprietà territoriale degli slavi. Questo Drang nach Osten, o "spinta verso l'Est", non fu affatto esclusiva. Dopo tutto, nello stesso periodo i polacchi penetrarono a fondo in Lituania e in Ucraina, mentre un po' più tardi i russi "spinsero" il proprio cammino oltre l'Eurasia fino alla costa del Pacifico, all'Alaska e persino alla California. Per diversi secoli la marea della colonizzazione umana continuò a scorrere verso est. In seguito, però, nel XIX e nel XX secolo, si fermò e invertì il corso. Le popolazioni slave si riaffermarono sia separatamente sia, sotto l'influenza del panslavismo, a livello collettivo. Dopo la prima guerra mondiale, sull'onda della sconfitta tedesca e austriaca, i polacchi, i cecoslovacchi e gli jugoslavi instaurarono tutti degli stati sovrani. Dopo la seconda guerra mondiale, i governi alleati vittoriosi decisero di espellere tutti i tedeschi che vivevano a est delle frontiere ridefinite della Germania e dell'Austria.

In terzo luogo, l'Europa centrale divenne il grande asilo della comunità ebraica europea. Nel corso dei secoli, deportati dall'Inghilterra, perseguitati in Germania ed esclusi dalla Russia, gli ebrei si erano naturalmente raggruppati nelle "Terre intermedie". Un movimento piuttosto esile vide gli ebrei di origine chàzara spostarsi in Europa centrale da sud e da est. Un movimento molto più consistente, che raggiunse il culmine durante le persecuzioni motivate dalla Morte nera alla metà del XIV secolo, indusse gli ebrei ashkenaziti a fuggire dall'Ovest e a cercare rifugio in Boemia, in Ungheria e soprattutto in Polonia-Lituania. Questi ebrei di lingua yiddish sostentarono comunità fiorenti non soltanto nelle città, come per esempio Vilna, Cracovia, Praga e Budapest, ma anche in innumerevoli shtetls, o "piccoli centri rurali", in cui emersero quale componente vitale della classe media e, sovente, come il gruppo etnico dominante. In tempi più recenti, migrarono numerosi ancora più lontano, prima a Vienna, a Berlino, a Mosca, e in seguito in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. In tutti i paesi in cui si spostarono, formarono un'intellighènzia e un'élite commerciale fortemente assimilate. Ma la vita tradizionale ebraica continuò nella patria centro europea fino alla terribile Shoah degli anni 1941-1945. Secondo alcuni, l'ebraicità dell'Europa centrale è stata uno dei fattori della sua definizione.

In quarto luogo, la geografia aperta dell'Europa centrale si sommò al caleidoscopio etnico per formare un'arena politica in cui gli stati nazionali erano inevitabilmente piccoli e deboli e gli imperi dinastici erano, al contrario, grandi e potenti. Già nel XV secolo i regni degli Jagelloni, che includevano la Boemia e l'Ungheria come anche la Polonia e la Lituania, offrirono una lettura degli eventi futuri. Dopo lo sfortunato destino toccato a Luigi II Jagellone nel 1526, gli Jagelloni furono rimpiazzati dagli Asburgo, che controllarono congiuntamente il Sacro romano impero e i vasti territori dinastici del bacino centrale del Danubio. Come alfieri della Controriforma, gli Asburgo dettero un'impronta peculiare alla civiltà cattolica romana che in alcuni ambienti fu considerata l'essenza stessa dell'Europa centrale. Nel XVIII e nel XIX secolo il loro dominio fu tuttavia sfidato da due nuovi contendenti. Gli Hohenzollern della Prussia-Brandeburgo, la cui originaria base di potere a est si collocava al di fuori del Sacro romano impero, riuscirono a diventare la forza egemone in Germania. I Romanov moscoviti, che avevano iniziato come autoproclamati zar di un unico principato russo, collezionarono territori a un ritmo che è stato calcolato in 142 chilometri quadrati al giorno per un arco di 150 anni. Entro il 1900, governavano un impero che si estendeva per più di 8000 chilometri dallo stretto di Bering fino ai confini della Germania e dell'Austria. A Myslowitz (Myslowice), in Slesia, c'erano le tre famose frontiere chiamate Dreikaiserreichsecke, ovvero "Angolo dei tre imperi", dove i turisti potevano tenere un piede nel regno degli Hohenzollern, l'altro nel regno degli Asburgo, e le dita nel regno dei Romanov. La rivalità di vecchia data di queste tre dinastie giunse alla sua brusca conclusione nel 1917-1918, quando i tre imperi furono tutti rovesciati.

Nel XX secolo, infine, l'Europa centrale ebbe il poco piacevole onore di sottostare a una duplice dose di totalitarismo. A differenza dell'Europa occidentale, che sperimentò solo un breve interludio di fascismo, e diversamente dalla Russia, che visse una soggezione più lunga sotto il comunismo, tutte le "Terre intermedie" subirono in successione il fascismo e il comunismo. Da Berlino agli stati baltici, da Vienna all'Ucraina orientale, da Zagabria e da Tirana al mar Nero, una sterminata porzione d'Europa fu invasa prima dal fascismo dell'una o dell'altra forma e in seguito dal comunismo dell'uno o dell'altro tipo. Tutte le nazionalità e tutti i gruppi sociali finirono nel tritacarne di una parte o dell'altra. Genocidi, uccisioni di massa, "pulizia etnica", lavoro forzato e ingegneria sociale furono praticati su larga scala. I coraggiosi che osarono proclamare «né Hitler né Stalin» furono spazzati via. Il martirio durò in media cinquant'anni — nel caso della Germania dell'Est, cinquantasette anni. La ferita inferta alla vita e alla libertà fu incalcolabile. E la guarigione avrebbe necessariamente richiesto tempi lunghi.


La storia dell'Europa centrale è, dunque, tutt'altro che semplice. In realtà è una storia estremamente complessa; e non è neppure facile spiegarla a un pubblico generico di lettori. Gli studi specialistici e settoriali abbondano, ma le indagini che riescono a restituire il sapore complessivo sono, a detta dei polacchi, "corvi bianchi", ovvero uccelli rari.

Un metodo, naturalmente, è studiare la storia delle singole città e, attraverso il quadro locale, presentare un compendio del panorama più allargato. La gran parte delle maggiori città centro europee — Vienna, Praga, Berlino, Cracovia, Budapest ecc. — possiede storie simili ben documentate. Le pecche sono comunque numerose. Da un lato le storie locali hanno avuto la tendenza a essere scritte da un'angolazione fortemente nazionalista, che si distacca in modo artificiale dal contesto pluri-nazionale di fondo. Dall'altro lato, il filone tradizionale delle Stadtgeschichte assume di norma un punto focale intimo e campanilistico che ignora tutti gli eventi e tutte le connessioni che superano l'immediata circonferenza delle mura cittadine.

C'è anche il dubbio che le grandi capitali siano scarsamente rappresentative della globalità. Non si potrebbe, per esempio, studiare la sola Vienna per indagare l'enorme sfera d'influenza asburgica che attraversò molti paesi. In questo senso, sarebbe più fruttuoso guardare ai luoghi che si sono trovati in genere dalla parte del sottomesso piuttosto che dalla parte del dominante.

Per tutte queste ragioni, il ritratto storico di un centro provinciale di medio rango è fortemente consigliabile. La storia della città principale della Slesia può essere naturalmente vista come un racconto affascinante di per sé, soprattutto per coloro che vi abitano nel presente e vi hanno vissuto nel passato. Ma non è tutto. Un tale ritratto contiene una silloge condensata di tutte le esperienze che hanno fatto dell'Europa centrale quella che è: una ricca mescolanza di nazionalità e di culture; il Drang nach Osten tedesco e il riflusso degli slavi; una presenza ebraica di straordinaria eccellenza; una turbolenta successione di governi imperiali; e, in epoca moderna, una sconvolgente esposizione tanto al nazismo quanto allo stalinismo. In breve, è un microcosmo centro europeo.


Questo volume ha tre obiettivi. In primo luogo, si propone di superare la rivalità storica scaturita dalle due visioni contrapposte della "Breslau tedesca" e della "Wroclaw polacca". A questo scopo, dà spazio non solo ai temi cechi, austriaci e tedeschi, ma anche a una vivace galleria di personaggi: da Mattia Corvino e Lennert Torstenson a Elisabetta Stuart, John Quincy Adams, Winston Churchill e il maresciallo Koniev, tutte figure che non appartengono a nessuna delle due componenti della dicotomia tedesco-polacca. In secondo luogo, intende dimostrare in quale modo le connessioni politiche e culturali della città si sono trasformate nel corso del tempo. In terzo luogo, si sforza di evitare il punto di vista campanilistico e di collegare, di conseguenza, gli eventi e le personalità della storia cittadina allo scenario regionale o continentale.

Si potrebbe ridurre questi tre obiettivi a un unico scopo sovrapposto: combattere le diverse forme di amnesia selettiva che hanno spesso offuscato le descrizioni storiche. A un certo punto gli storici tedeschi hanno regolarmente ignorato le connessioni polacche della città o le hanno relegate al periodo più remoto della dinastia dei Piasti. A partire dal 1945 si direbbe che abbiano fatto esattamente l'opposto, cancellando virtualmente Breslau da ogni indagine significativa sul passato del proprio paese. Negli ultimi anni, quanto meno, non è esagerato chiamare Breslau "la città perduta della storia tedesca".

Da parte loro, gli storici polacchi hanno ceduto troppo spesso alle richieste del regime comunista postbellico di minimizzare o addirittura di eliminare il lato tedesco. Dopo il 1945, un'implacabile propaganda ufficiale ha cercato di consolidare l'immagine di una città polacca aborigena che era stata più volte brutalmente "occupata", oscenamente "usurpata" o subdolamente "infiltrata" da ignobili stranieri. Nelle condizioni che si sono venute a creare con la caduta del comunismo, quest'immagine falsa e xenofoba non è né auspicabile né necessaria. Ai giorni nostri, finalmente, ognuno è libero di compiacersi dei successi di ogni altro e di piangere le catastrofi comuni. E molti storici polacchi dell'ultimissima generazione stanno facendo proprio questo.

Come avviene per la maggioranza delle città centro europee, la nomenclatura è una questione spinosa. Quando una città ha un nome diverso per ogni nazionalità che la rivendica, preferire una versione a un'altra significa fare una dichiarazione politica e rischiare di commettere un torto. Ciononostante, una soluzione già pronta è a portata di mano quando ci si renda conto che la scelta non risiede tanto tra due alternative assolute — Breslau o Wroclaw — quanto tra le decine di varianti tramandate dalle fonti storiche. In realtà, lo storico può scegliere almeno tra cinquanta nomi. Essere imparziale non è dunque troppo difficile. La cosa ovvia da fare è usare un nome diverso ma appropriato per ogni periodo della storia della città. In questo modo possiamo evidenziare la lezione più fondamentale della storia: il passato non è lo stesso del presente. Per il periodo preistorico, per esempio, quando è ignoto a tutti quale fosse di fatto il nome o i nomi della città, noi la chiamiamo "Città-Isola". Per il primo periodo medievale dei Piasti, la chiamiamo "Wrotizla"; per il periodo boemo, "Vretslav"; per il periodo austriaco, "Presslaw"; e per il periodo prussiano, "Bresslau". "Breslau" è riservato invece al periodo imperiale e a quello del Terzo Reich, e "Wroclaw" alla Polonia dopo il 1945. Questo non significa negare sia l'esistenza di una varietà ancora più ampia di nomi e di grafie, sia l'indubbio utilizzo di forme moderne in circostanze particolari in tempi precedenti. La nostra scelta non vuole neppure elevarsi al di sopra di ogni critica. Suo solo compito è sottolineare una verità lapalissiana: i tempi cambiano. Ogni volta che ci troviamo di fronte a un dilemma, usiamo il nome che più di un migliaio di anni fa è stato introdotto per la prima volta dal clero erudito latinofono, e che è ancora tra noi: Vratislavia.

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Pagina 397

I primi campi di concentramento nazisti furono progettati secondo le linee guida del prototipo di Dachau e servivano a togliere dalla circolazione i criminali politici. Gli internati non godevano di alcun diritto né potevano sperare di essere rilasciati. Ricevevano razioni alimentari da fame, vestivano sbrindellate uniformi a strisce, vivevano in baracche, erano pieni di pidocchi e vittime di abusi fisici e psicologici di ogni genere. Provenivano da tutte le nazioni dell'Europa occupata dai tedeschi ed erano le vittime della politica, ben nota alla loro controparte dei gulag sovietici, di "sterminio mediante il lavoro". Erano il simbolo di quell'ideologia nazista che non si vergognava di affermare che la "razza padrona" aveva il diritto assoluto di vita e di morte sulle razze inferiori. Groß Rosen, vicino a Schweidnitz, fu il campo di concentramento più importante della zona di Breslau. Costruito nel 1940, si stima che nel corso della sua esistenza abbia ospitato circa 160000 detenuti, 100000 dei quali vi morirono. Era rifornito da un gran numero di sottocampi, tra cui diversi campi di lavoro (Al) ospitati nella città di Breslau. Al Breslau I serviva a rifornire di manodopera la Famo, AL Breslau II a rifornire la Linke-Hofmann. AL Breslau-Hundsfeld (Psie Pole) era un campo per prigioniere che lavoravano come operaie nelle officine Rheinmetall-Borsig. Nel gennaio del 1945 a Groß Rosen arrivarono i superstiti della "marcia della morte" dei prigionieri evacuati da Auschwitz, e subito dopo il campo spedì a propria volta delle colonne di evacuati in un'altra marcia della morte diretta a Buchenwald. Wojciech Dzieduszycki (nato nel 1912), che nel dopoguerra sarebbe diventato un personaggio importante nella vita di Breslau/Wroclaw, fu l'internato n. 7821 di Groß Rosen. Una volta fu lasciato in piedi davanti a un plotone di esecuzione durante uno degli eccidi quotidiani e fu salvato dal direttore tedesco dell'orchestra del campo che gridò: «Non uccidete il mio violinista migliore!».

Il gruppo di campi di concentramento di Auschwitz (Oswiécim) era il più grande e il più famigerato complesso del genere nel Reich. Progettato dallo Sicherheitsdienst di Breslau Arpand Wigand, si trovava sulla vecchia frontiera tra la Slesia e la Galizia, ai margini di una cittadina in cui facevano sosta i treni della linea ferroviaria Breslau-Cracovia. Negli anni del dopoguerra, quando ancora non si avevano informazioni precise, si credette che fosse un campo di sterminio per gli ebrei dove, a quanto si diceva, ne erano morti quattro milioni. In realtà era formato da tre tipi di campi diversi. Kz Auschwitz I, aperto nell'estate del 1940 per i polacchi indesiderabili, era un campo di concentramento standard. Kz Auschwitz III-Monowitz era essenzialmente un campo di lavoro e di punizione al servizio dell'adiacente stabilimento per la produzione di carburante. Kz Auschwitz II-Birkenau era un grande ibrido; aperto come ampliamento del campo di concentramento originario, con il tempo era stato dotato di installazioni, finalizzate esclusivamente allo sterminio, più simili a quelle dei campi di sterminio specializzati di Treblinka, Belzec e Sobibor. Tra gli internati, i gruppi più numerosi erano formati da polacchi cattolici, ebrei e Pow sovietici; ma la maggioranza assoluta dei suoi 1,5-1,7 milioni di morti era formata da ebrei che non misero mai piede nel campo e andarono direttamente dalla banchina di arrivo alle camere a gas.

Per una singolare coincidenza il destino del primo internato di Auschwitz fu di sopravvivere alla guerra nella città in cui l'idea stessa di campo era stata concepita. Nel 1940 il polacco Stanislaw Ryniak aveva venticinque anni ed era apprendista nella scuola per lavoratori edili di Jaroslaw. Fu arrestato dalla Gestapo perché sospettato di cospirazione clandestina. Fu tradotto ad Auschwitz dalla prigione di Tarnów il 10 giugno del 1940 con il primissimo trasporto ferroviario di prigionieri e gli fu tatuato sul braccio il numero "31" (i numeri da 1 a 30 erano stati attribuiti ai condannati tedeschi che lavoravano come ausiliari per il gruppo originario di guardiani delle Ss). Ryniak fece parte della squadra di lavoro che costruì le prime baracche ed eresse il muro perimetrale. Sopravvisse a tutto, dalle fustigazioni al tifo all'inedia, a un lungo periodo nelle cave sotterranee. Uscì libero dopo un record di 1691 giorni e attribuì la propria incredibile sopravvivenza a «fortuna, resistenza mentale e fisica e [al]l'aiuto dei compagni».

"Olocausto" è un termine non storico che viene impiegato per un episodio anche troppo storico, e precisamente il genocidio sistematico da parte dei nazisti tedeschi di circa sei milioni di ebrei d'Europa. Il termine fu inventato dopo la guerra per sostituire l'unica alternativa esistente, "soluzione finale del problema ebraico", l'eufemismo coniato dagli stessi nazisti. L'Olocausto fu il prodotto della decisione deliberata di uccidere tutti gli uomini, le donne e i bambini che rispondessero al criterio nazista di ebraismo. La campagna di genocidio, qualitativamente diversa dalle varie forme di persecuzione inflitte in precedenza, fu realizzata tra il 1941 e il 1945 soprattutto nei campi delle Ss costruiti nella Polonia occupata dai tedeschi. L'Olocausto è giustamente considerato il punto più basso della storia della violenza dell'uomo contro l'uomo.

Il grado di coinvolgimento di Breslau nell'Olocausto tu relativamente ridotto per la semplice ragione che più o meno il 75 per cento degli ebrei della città era fuggito prima che la strage avesse inizio. Eppure l'orrore sfiora l'indescrivibile.

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L'ultimo trasporto, tuttavia, non segnò la fine. La Gestapo non era ancora soddisfatta di quello che aveva fatto. Sapeva che la documentazione di cui disponeva non era completa e che alcuni ebrei erano ancora vivi e nascosti, perciò continuò a lavorare fino all'ultimo giorno di guerra. La giovane infermiera Karla Wolff fu una delle persone che la Gestapo non riuscì a catturare. Non aveva aspettato l'arresto e, fuggita via di casa nel cuore della notte, scomparve fino al maggio del 1945. Fu una dei 160 ebrei di Breslau sopravvissuti.

Breslau ebbe una parte anche in un'altra raccapricciante scelta politica del razzismo nazista, cioè il rapimento di massa dei bambini polacchi per la riproduzione pianificata. Nella sua prima visita nella Polonia occupata, nel 1939, Himmler aveva notato un gran numero di ragazzi e ragazze con i capelli biondi e gli occhi azzurri e aveva messo immediatamente in piedi un sistema per impadronirsi di quel bottino umano. In tutta la Polonia gli orfanotrofi furono setacciati alla ricerca dei candidati più idonei. Squadre di donne in divisa bruna dell'organizzazione dei servizi sociali nazisti appositamente addestrate, le National Sozialistische Volkswohlfahrtsamt (Nsv), le temute "sorelle brune", girarono per città e villaggi per allettare i giovani con dolci e con promesse. Furono messi all'opera anche gruppi di sequestratori della Gestapo. Esperti di questioni razziali aspettavano nei centri di raccolta per scegliere le vittime. Furono preparati nomi tedeschi e biografie false per i bambini che superavano i test pseudoscientifici e che venivano quindi trasferiti nelle agenzie tedesche per l'adozione o nei bordelli per la riproduzione dell'organizzazione Lebensborn delle Ss. I giovani non "utilizzabili" non vennero mai restituiti ai genitori: furono fucilati sommariamente, deportati nei campi di concentramento o, se furono fortunati, costretti a lavorare nelle fattorie tedesche. È impossibile calcolare il numero di questi ragazzi, ma una commissione internazionale ricercò per diversi anni circa 200000 giovani polacchi scomparsi che si pensava potessero essere ancora vivi nella Germania postbellica. Se questa stima è corretta e se, come è stato calcolato, solo il 10 per cento dei rapiti fu giudicato "utilizzabile", il numero totale delle vittime deve essersi avvicinato ai due milioni.

Uno dei centri di raccolta più importanti fu un campo situato vicino alla stazione di Brockau (Brochów), alla periferia di Breslau. Il suo periodo di maggiore attività fu il 1940, quando fu "ripulito" il Warthegau, e di nuovo il 1943, quando fu ripulita la regione di Zamosc per lasciare il posto a un insediamento tedesco. In un periodo di sei settimane dell'estate del 1943, 12000 bambini furono caricati sui camion e trasferiti da Lublino a Brockau. A pieno regime il campo poteva occuparsi di diverse centinaia di bambini al giorno:

Ai bambini venivano misurati la testa, il corpo, le braccia e le gambe, e anche il bacino alle femmine e il pene ai maschi, poi venivano divisi in tre gruppi: a) quelli che rappresentavano un'aggiunta desiderabile alla popolazione germanica; b) quelli che rappresentavano un'aggiunta accettabile alla stessa popolazione; e, c), gli indesiderabili.

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Durante la guerra la vita religiosa di Breslau continuò all'ombra cupa delle atrocità naziste. In genere, dopo il 1939 i dirigenti cristiani non furono inclini a schierarsi più di quanto lo fossero stati prima. Ma non bisogna giudicare precipitosamente persone che vivevano sotto la pressione del totalitarismo. Il Partito nazista nominò dei funzionari perché soprintendessero alle questioni ecclesiastiche. Ciò nonostante le occasioni si presentarono quando le coscienze furono stimolate all'azione. Nel 1939-1940, per esempio, il cardinale Bertram, arcivescovo di Breslau, fu informato delle repressioni di massa esercitate nella vicina Warthegau, anche nei confronti del clero cattolico polacco. Nelle cittadine e nelle città come Poznan le chiese venivano chiuse con la forza e i preti arrestati, torturati e uccisi a frotte: nella sola Dachau furono deportati 4000 preti polacchi. Nella sua posizione di presidente dell'episcopato cattolico tedesco di Fulda, Bertram chiese protezione al Vaticano. L'appello fu ignorato. Per qualche motivo papa Pio XII non volle intervenire. Il Vaticano non si adoperò mai in soccorso dei tre milioni di cattolici polacchi che furono uccisi durante la guerra. Un paio di anni dopo, quando il papa ignorò analoghi appelli a intervenire contro l'Olocausto, si attirò l'accusa di antisemitismo. Ma era sbagliato accusarlo di questo, perché allora il Vaticano andrebbe messo sotto accusa anche per tutte le altre categorie di vittime che aveva ignorato. Papa Pio XII non considerò proprio dovere di cristiano condannare i nazisti per le loro azioni e nemmeno esprimere pubblicamente compassione per le vittime.

A tempo debito il cardinale Bertram sarebbe stato informato di tutti i particolari dell'Olocausto. Nell'agosto del 1943 ricevette una lettera da un ebreo non identificato e sorprendentemente ben informato. La lettera sosteneva che erano già stati uccisi quattro milioni di ebrei. Raccontava in dettaglio le attività degli Einsatz-gruppen nella Polonia occupata e l'istituzione e la liquidazione dei ghetti, in particolare di quello di Cracovia, da dove, a quanto sembra, la lettera stessa proveniva. Lo scrivente sapeva perfino dell'esistenza del campo di sterminio di Belzec. E concludeva: «Il popolo tedesco, che ha dato la vita a un diavolo, morirà per suo». Non si conosce la reazione del cardinale, ma né Bertram né la sua cerchia avrebbero potuto giustificarsi sostenendo di non sapere nulla.

Il clero protestante e cattolico di Breslau rimase al proprio posto fino all'evacuazione, nel gennaio del 1945, e anche allora una delegazione di sacerdoti convinse il Gauleiter a lasciare che alcuni restassero. Tra quelli che rimasero c'erano Ernst Hornig e il dottor Joachim Konrad, le cui suppliche avrebbero infine indotto alla capitolazione il comandante della Festung. Ma Paul Peikert (1884-1949) avrebbe ottenuto una fama più duratura. Prete della parrocchia cattolica di San Maurizio di Breslau dal 1932, era stato arrestato dalla Gestapo nell'agosto del 1937. Ma era riuscito a ritornare al proprio posto e anche a rimanere durante l'assedio. Fin dall'inizio cominciò a registrare per i posteri la morte di Breslau. Rischiò la vita per raccogliere i volantini propagandistici tedeschi e sovietici; annotò le opinioni dei parrocchiani e mise per iscritto gli avvenimenti quotidiani nella sua Chronik über die Belagerung Breslaus ("Cronaca dell'assedio di Breslau"). Sempre più amaramente critico verso il regime nazista, Peikert scrisse un finale onorevole a un periodo altrimenti non edificante della storia dei propri correligionari. E concluse: «Possa questo diario far sapere alle future generazioni che cosa abbiamo dovuto sopportare, e possa Dio nella sua misericordia tenerle lontane da un destino del genere».


Il passaggio dal Blitzkrieg alla "guerra totale" richiese all'economia tedesca uno sforzo crescente. La Slesia dovette fare fronte alla pressione dei bombardamenti alleati nel Reich occidentale. Nel marzo del 1942 Hitler decise di insediare a Breslau una fabbrica di armi che si sarebbe trovata quindi oltre il raggio di azione anche dei più audaci piloti alleati. Più tardi, in quello stesso mese, entrò in azione il dipartimento edilizio dell'immenso impero di Albert Speer che usò il lavoro coatto degli ebrei per costruire quello che sarebbe stato chiamato il "Berthawerk" della Krupp vicino a Markstädt. Con un'area di 120000 metri quadrati e sette grandi padiglioni, il "Berthawerk" doveva produrre pezzi di artiglieria e cannoni anticarro con l'acciaio delle acciaierie di Markstàdt e con gli operai del campo di concentramento di Fünfteichen. Nel momento di maggiore produzione, nel 1944, occupava poco meno di 10000 lavoratori quasi tutti cechi e produceva più di 400 cannoni da campo Le F.H. 18/40 al mese. Ironicamente, data la disoccupazione endemica dei decenni precedenti, i suoi dirigenti maledicevano la mancanza di manodopera tedesca e il fatto di dover fare necessariamente affidamento sugli internati del campo di concentramento, meno produttivi. La mancanza di entusiasmo di questi ultimi era comprensibile. Al loro arrivo nel campo di concentramento di Fünfteichen ricevevano un abito e un paio di zoccoli di legno. La mattina venivano radunati alle 4,30 per una marcia forzata di cinque chilometri fino alla fabbrica, dove li aspettava una media di dodici ore al giorno ai torni, alle fresatrici e alle mole. Spesso inzuppati d'olio e ustionati dalle schegge metalliche roventi, dovevano poi ritornare nel campo dove il cibo era una zuppa brodosa e irriconoscibile. Le cure mediche erano rudimentali e la brutalità arbitraria. Soltanto i più giovani e i più forti sarebbero potuti sopravvivere.

Secondo le stime prudenziali del Ministero britannico per l'economia di guerra, i quarantuno obiettivi industriali dell'area di Breslau occupavano quasi 60000 lavoratori. La Linke-Hofmann nel periodo del massimo splendore aveva quasi 5000 operai e, oltre ai vagoni ferroviari base, produceva i sistemi di propulsione per il razzo V2. La Famo aveva un numero di operai più o meno equivalente addetti alla costruzione di carri armati, pezzi semoventi e motori per sottomarini e per aeroplani. La Junkers di Gandau assemblava, tra l'altro, gli aerei da combattimento in picchiata Ju 87 "Stuka". E, con una tecnologia d'avanguardia, la fabbrica di condizionatori d'aria di Hundsfeld, la Rheinmetall-Borsig, impiegava 2000 operai nella costruzione di componenti per bombe. Uno dei suoi prodotti più sinistri era la cosiddetta "Y", progettata appositamente per uccidere gli ufficiali alleati addetti al disinnesco delle bombe. Adattata per trovare posto nelle bombe tradizionali, era formata da una catena di timer e di interruttori a mercurio che impedivano alle bombe di esplodere finché non colpivano il suolo, si fermavano e venivano fatte rinvenire. Per frustrare ulteriormente i tentativi di neutralizzarla, vi venivano apposte delle etichette fuorvianti.

Con l'avanzata della guerra, però, né le nuove industrie né gli operai schiavi né le delocalizzazioni poterono mettere l'economia tedesca al passo con quella nemica. Dopo le difficoltà iniziali, la produzione militare sovietica si riprese fino a superare la rivale tedesca. E, negli Stati Uniti, Hitler doveva vedersela con una superpotenza industriale che faceva storia a parte. I bombardamenti alleati azzerarono i pochi progressi compiuti. La Raf e l'Usaaf si dimostrarono regolarmente più forti della Luftwaffe. Con il 1944 le bombe sganciate sul Reich toccarono il record di 663000 tonnellate, eclissando la quantità totalizzata quell'anno dalla Luftwaffe, che era di 9334 tonnellate. In realtà la media mensile alleata del 1944 (77743) superò il tonnellaggio totale sganciato dalla Luftwaffe sul Regno Unito durante tutti e sei gli anni di guerra (75655).

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In realtà, talvolta i sovietici furono pronti ad assistere i civili tedeschi. Alcuni articoli riferiscono che per rifocillare la popolazione affamata furono allestite cucine da campo. Un ragazzo tedesco di dodici anni ricorda di quando cantava e ballava per i soldati per ricevere un po' delle loro razioni:

Ero solito unirmi ai soldati. Certi mi urlavano dietro o mi scacciavano. Ma qualcuno mi accettava, forse ripensando ai suoi figli. Io mi sedevo in mezzo al gruppo dei soldati e cantavo canzoni popolari tedesche. Dopo ogni canzone, allungavo la mano e poi infilavo velocemente il bottino nel mio zaino. I russi sembravano divertirsi. Mi facevano richieste, e si passavano la bottiglia di vodka. Io barcollavo come un orso ballerino, roteando al suono della balalaica [...]. Alla fine crollavo, semplicemente stremato. Il mio zaino era pieno di pane nero e di un tocco di pancetta che era appartenuto ai russi. Con le mie ultime forze mi trascinavo a casa, pieno di orgoglio. Ma non riuscivo a capire perché mia madre scoppiasse a piangere.

Anche i polacchi erano stupiti dal servilismo di alcuni tedeschi. Peraltro, sapevano anche essere molto critici verso i propri compatrioti. Tempo dopo, un giovane testimone oculare polacco avrebbe così rievocato i suoi sentimenti:

I nuovi arrivati polacchi schernivano e depredavano i tedeschi rimasti nel modo più turpe. Facevano leva sulla miseria dei locali [...] ricordando loro con spietata chiarezza quanto i propri compatrioti avessero sofferto per mano dei nazisti tedeschi. All'epoca ero un giovane pieno di rancore, ma capivo quale [orrore] potesse divenire una colpa collettiva, perfino se attribuita per crimini molto concreti.

La drammatica situazione raggiunse il culmine nell'estate-autunno del 1945. Il nuovo sistema di razionamento assegnava ai tedeschi dosi di cibo inferiori (da metà a un terzo) a quelle distribuite agli altri; e i tedeschi dovevano aspettare in fondo alla coda in tutti i centri di distribuzione. A luglio lo zloty sostituì il Reichsmark, a un cambio punitivo di 1 zl = 2 RM. Ma molti tedeschi venivano fatti lavorare senza alcuna paga, il che provocava scioperi, proteste e un crescente ricorso, per sopravvivere, all'elemosina, alla vendita dei propri beni, alla prostituzione e al crimine. Spesso i nuovi arrivati polacchi sfrattavano brutalmente le famiglie tedesche dalle loro abitazioni. In seguito a ciò le autorità ricollocarono i senzatetto in quartieri contrassegnati, creando così un modello informale di ghetto. Due o tre famiglie tedesche venivano obbligate a condividere un unico appartamento. Il sovraffollamento generava malattie; si moltiplicavano le vittime di tifo e difterite e i suicidi. I bambini erano i primi a soccombere. I polacchi ricevevano gratuitamente i vaccini, mentre i tedeschi dovevano pagare 100 zloty. Le famiglie con casi di malattie contagiose dovevano esporre una bandiera nera alla finestra. Secondo alcuni resoconti, i tedeschi avevano l'obbligo di indossare una fascia bianca con la lettera "N" di Niemiec ("tedesco") sul braccio sinistro. La partenza del primo treno con gli espulsi tedeschi era in programma dalla stazione Centrale il 1° ottobre. Era un evento atteso con ansia. Priorità fu data agli "antifascisti".

In un universo così desolante, spicca l'espulsione del drammaturgo Gerhart Hauptmann (1862-1946). Questi risiedeva dal 1902 ad Haus Wiesenstein, in località Jagnigtów (Agnetendorf), dove aveva trascorso gli ultimi anni in un "esilio interno" mal tollerato dal regime nazista. Nel 1945, sentendo approssimarsi la fine, espresse la volontà di essere sepolto nella nativa Slesia. Ma la nuova Slesia non era in grado di esaudire il suo desiderio. Nella primavera del 1946 gli fu offerta una nuova e comoda sistemazione a Dresda. Egli rifiutò. In aprile le autorità sovietiche gli fecero nuovamente visita, esortandolo ad allontanarsi «per la sua sicurezza». Hauptmann si oppose. Voleva rivolgere un ultimo appello alla nazione tedesca - un richiamo all'ottimismo, all'ardimento, all'unità - ma dopo una ricaduta perse conoscenza. Il 3 giugno mormorò le sue ultime parole: non un solenne appello all'umanità, ma un sommesso «Bin - ich - noch - in - meinem - Haus?» («Sono ancora in casa mia?»). Tre giorni dopo il drammaturgo morì. Lasciava un epitaffio perfetto per la tragedia del suo popolo. Nella bara in cui il vincitore del Nobel veniva ora espulso, deposero una zolla di terreno della Slesia. Alla fine, Hauptmann trovò l'ultimo riposo a Hiddensee, presso Riigen.

I trasferimenti forzati a ovest richiedevano generalmente tre o quattro tappe. Di solito gli espulsi erano radunati con scarso preavviso nella piazza del paese o del quartiere. Erano autorizzati a portare con sé solo quanto riuscivano a trasportare. Di qui erano condotti in un'area di transito, che nel caso di Wroclaw era la stazione Swiebodzki (Freiburg) o la stazione Wéglowice (Kohlfurt). Quindi venivano stipati su carri merci piombati e trasferiti in una delle zone della Germania occupata sotto il controllo alleato. Ciascuna tappa aveva i suoi tratti specifici di terrore.

Ecco la prima tappa nella descrizione di un espulso proveniente da Brochów (Brockau), villaggio nei dintorni di Wroclaw:

Una mattina presto, ai primi di gennaio [...] ci ordinarono di metterci in fila accanto all'edificio del Comune. Nonostante la temperatura gelida, ci lasciarono ad aspettare [...] fino a tardo pomeriggio, [quando] diedero l'ordine di partire [...]. Nel tempo di arrivare a Breslau si era fatto buio, ed eravamo completamente esausti. Poi ci portarono in un centro di raccolta, di fatto un edificio sudicio che era stato una scuola [...]. Passammo la notte in cortile, a far la guardia ai bagagli [...]. Un paio di giorni dopo i polacchi ci "registrarono". Durante questa operazione i doganieri polacchi si presero la maggior parte delle nostre cose e del nostro denaro. Alla fine, dopo un'attesa che sembrò durare una vita, ci accompagnarono alla stazione Freiburg di Breslau. Durante il tragitto la marmaglia ci aggredì e derubò più volte. Verso mezzanotte ci caricarono su dei carri bestiame, freddi e bui. Poi il treno si mise in marcia verso ovest [...].

I militari polacchi confessavano candidamente di non essere in grado di proteggere le persone loro affidate. Di solito gli espulsi erano fatti muovere di notte, così da non attirare attenzione, ma a sorvegliare gruppi di centinaia di persone erano in solo due o tre guardie. Nelle stazioni anche il personale ferroviario si lasciava andare ai furti, ma erano tempi in cui anche i ferrovieri spesso mancavano di cibo o alloggio.

Un prete tedesco che assistette all'arrivo in Germania degli espulsi descrisse quanto vide:

La gente – uomini, donne e bambini mischiati tutti insieme – era ammassata nei vagoni, che erano poi carri bestiame sbarrati dall'esterno. Viaggiavano in questo modo per giorni e giorni, e i vagoni si aprivano per la prima volta a Görlitz. Con i miei occhi ho visto che da una sola carrozza tiravano fuori dieci cadaveri e li depositavano in bare già a portata di mano. Ho anche visto che molti erano usciti di senno [...]. Le persone erano coperte di escrementi; questo mi ha fatto capire che erano così stipate da non aver più la possibilità di liberarsi in un luogo acconcio.

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Ci sono ottime ragioni per spiegare come mai il movimento di Solidarnosc sia nato nell'ex tedesca Danzica anziché nell'ex tedesca Wroclaw. Wroclaw non aveva gli stessi collegamenti d'oltremare garantiti dai moli di Danzica, e non aveva sperimentato le stesse sanguinose e traumatiche repressioni del 1970 contro gli scioperi nelle città baltiche. Nel 1968 e poi nel 1976 c'era stato qualche tafferuglio, ma i militari mandati dal partito non avevano dovuto faticare molto per sedare il malcontento di "sionisti" e "dissidenti". Il vero momento di scontro arrivò nell'estate 1980, allorché Wroclaw si schierò fianco a fianco con gli uomini di Walesa a Danzica. A luglio c'era stato qualche piccolo sciopero a Wroclaw, per protesta contro la penuria di generi alimentari e l'impennata dei prezzi, balzati a livelli mai visti dalla "guerra del dettaglio" del 1949. Ma il 26 agosto al deposito VII degli autobus di via Grabiszyn, il conducente Tomasz Surowiec e il meccanico Czeslaw Slawicki diedero ordine di «uscire e restare fuori» finché tutte le legittime richieste dei lavoratori di Danzica non fossero state soddisfatte. Nel giro di tre giorni, Wroclaw e dintorni si unirono alla protesta con un centinaio di comitati. In località Grabiszyn (Gräbschen) fu celebrata un'enorme messa all'aperto. Le pubblicazioni clandestine proliferarono. Le autorità vacillarono e a Danzica capitolarono. Su iniziativa dello storico Karol Modzelewski, un delegato di Wroclaw, il 17 settembre il movimento nazionale di protesta si diede il nome di Solidarnosc (Solidarietà).

Per i sedici mesi a cavallo fra il 1980 e il 1981 in cui Solidarnosc operò legalmente, Wroclaw fu elettrizzata da uno spirito di libertà. Le componenti intellettuale e proletaria del movimento agivano con perfetta armonia, e i comitati di Solidarnosc dilagavano e assumevano il comando sia nelle istituzioni culturali sia nelle fabbriche più importanti. A Wroclaw si iscrissero in 250000 persone, fra le quali l'86% di tutta la popolazione attiva. Un terzo dell' actif del Pzpr fece altrettanto, paralizzando i centri locali di potere. Salivano sulla scena i leader locali: il ventiseienne Wladyslaw Frasyniuk, Jerzy Piórkowski, Piotr Bednarz, Józef Pinior, Marek Muszyríski, Tomasz Wojcik e lo storico Adolf Juzwenko, primo delegato di Wroclaw al Congresso nazionale di Solidarnosc di Danzica. In un periodo di profonda crisi economica, che si traduceva in code e scarsità di ogni bene, Solidarnosc divenne l'arbitro sociale riconosciuto. Wroclaw, sede del movimento per la Slesia inferiore, organizzò messe e marce di protesta (anche contro il fallito attentato al papa). Ma presto Solidarnosc si rese conto dei limiti. Nell'ottobre 1981 i dipendenti delle officine Fadroma votarono un referendum che chiedeva libere elezioni al Sejm e la fine del "ruolo guida" per legge del partito. Il presidente del comitato di fabbrica di Solidarnosc fu immediatamente arrestato. I limiti della tolleranza ufficiale erano stati infranti.

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E nell'autunno 1987 apparve il più originale contributo di Wroclaw alla causa popolare: l'Alternativa arancione. In una città già celebre per il teatro dell'assurdo, Waldemar Frydrych (n. 1953), un audace studente di storia dell'arte autoproclamatosi "Major", puntò sull'idea di intaccare l'autorità del regime mettendola in ridicolo. Suo era il Manifesto del surrealismo socialista (1981), titolo scelto con molta cura. Con i suoi primi happening (illegali), Frydrych riempì il centro città di giovani travestiti da pentole rotte o da nani da giardino. In un'altra rappresentazione, gli attori sventolarono dei quadratini del bene di consumo più ambito del momento, la carta igienica. Nella giornata delle forze armate apparve una fila di carri allegorici guidata da un carro armato di stoffa con la scritta «Hitler Kaput», seguita da una corazzata Potèmkin e da una troupe impegnata a rievocare la presa del Palazzo d'inverno. Su tutto dominava lo striscione «Il patto di Varsavia, avanguardia di pace». I comandi di polizia erano gremiti di "marinai sovietici" e di "rossi cosacchi". Alla festa di San Nicola la città fu invasa da un esercito di "Babbi Natale". Questa volta le centrali di polizia non si riempirono solo di giacconi rossi e di renne, ma di ogni genere di persona vestita di rosso o avente un sacco con sé. Nella Giornata del fanciullo, migliaia di persone giravano indossando pannolini. La fine era davvero prossima. Poco tempo dopo, il comitato regionale di Solidarnosc, diretto da Frydrych (rilasciato di fresco), riprese a operare nella legalità.

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I premi Nobel di Breslavia

1902 Letteratura Theodor Mommsen (1817-1903), per gli scritti storici, con particolare riferimento alla monumentale opera Storia di Roma.

1905 Fisica Philipp Lenard (1862-1947), per il lavoro sui raggi catodici.

1907 Chimica Eduard Buchner (1860-1917), per le ricerche biochimiche e la scoperta della fermentazione acellulare.

1908 Medicina Patti Ehrlich (1854-1915), in riconoscimento della ricerca sul sistema immunitario (premiato congiuntamente con Ilja Miecznikowem).

1912 Letteratura Gerhart Hauptmann (1862-1946), in riconoscimento dell'eccelsa, variegata e ricca produzione nel campo dell'arte drammatica.

1918 Chimica Fritz Haber (1868-1934), per la sintesi diretta dell'ammoniaca dagli elementi.

1931 Chimica Friedrich Bergius (1884-1949), in riconoscimento dei contributi all'invenzione e sviluppo dei processi chimici ad alta pressione (premiato congiuntamente con Carl Bosch).

1943 Fisica Otto Stern (1888-1969), per i contributi allo sviluppo del metodo a raggi molecolari e alla scoperta del momento magnetico del protone.

1954 Fisica Max Born (1882-1978), per la fondamentale ricerca nella meccanica dei quanti, specie per l'interpretazione statistica della funzione ondulatoria.

1994 Economia Reinhard Selten (n. 1930), per la pionieristica analisi degli equilibri nella teoria dei giochi non cooperativi (premiato congiuntamente con John C. Harsanyi e John F. Nash).

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