Copertina
Autore Enrico Deaglio
Titolo La banalità del bene
SottotitoloStoria di Giorgio Perlasca
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1998 [1991], Universale 1233 , Isbn 978-88-07-81233-0
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe storia , politica
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Indice


Pag.
 9  Ringraziamenti

13     I "Lei, che cosa avrebbe fatto
         al mio posto?'

24    II La memoria è donna

33   III "Hungaria Felix"

45    IV Sotto gli occhi distratti
         del mondo

58     V Il falso console spagnolo

70    VI Il diario di Jorge Perlasca

92   VII Cantine, carbone e un numero di
         telefono sul braccio

109 VIII Lo scalo merci

119 Appendice.
    Notizie sparse dal dopoguerra

    Sommersi e salvati in Ungheria -
    Ostjuden - Le fonti - Che fine hanno
    fatto - Wallenberg - Il vero console -
    Monsignori - Francisco Franco, il
    salvatore laconico - Il destino della
    via Pál - Proprietà - Football magiaro
    - Leggi razziali - Coincidenze -
    Hannah Arendt - Budapest a Hollywood -
    Hollywood a Budapest.  Una
    conversazione con Tony Curtis.

133 Epilogo

 

 

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Pagina

I
"LEI, CHE COSA AVREBBE FATTO AL MIO POSTO?"


"Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?"

Una di quelle domande pesanti in cui viene richiesta la complicità dell'interlocutore. Un quesito breve che supplica comprensione, fa balenare la fragilità e la debolezza umana, non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta. "Avevo paura, sono scappato... Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?" "Nessuno mi vedeva, l'ho fatto... Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?"

Ma il vecchio signore che me la poneva, non cercava comprensione o scusanti. Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale, avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui.

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Pagina 16

E che tipo era, signor Perlasca? Per caso, non era anche lei ebreo e per questo motivo si adoperò tánto?

"No, io sono nato da una famiglia cattolica, a Como, secondo di cinque fratelli. Mio padre era laureato in legge, funzionario regio in diversi comuni del padovano. Mio nonno era stato un giudice militare. L'educazione che ho ricevuto in famiglia diceva le cose semplici, che tutti gli uomini erano da considerarsi uguali." Ci pensa un attimo. "Più o meno uguali, perché io francamente non vedo che cosa mi unifichi a uno stupratore di donne o ad uno che fa di mestiere lo sfruttatore di donne..."

La famiglia Perlasca da Como si trasferì a Trieste e il ragazzo fu entusiasta aderente al fascismo, versione dannunziana. Per D'Annunzio litigò pesantemente con un professore che aveva condannato l'impresa di Fiume. "Mi costò cara, venni espulso per un anno da tutte le scuole del Regnò. A dire il vero, non ero il tipo dello sgobbone e infatti non finii neppure l'istituto tecnico. Ero uno a cui piaceva divertirsi, stare con gli amici, giocare al pallone. Un ragazzo come tanti, leggevo Salgari e sognavo avventure."

Se ne andò volontario in Abissinia, "Camicie Nere della 28 Ottobre". Nel dicembre del 1936 partì volontario per la Spagna, artigliere. "Perché lo feci? Le motivazioni politiche erano che anch'io volevo impedire che il Mediterraneo diventasse un lago comunista. Ma ci fu anche un altro aspetto. Se non fossi andato in Spagna, avrei dovuto cominciare a lavorare, allo zuccherificio di Pontelungo. E l'idea di stare in un ufficio, proprio non mi piaceva. Così partii per la Spagna, uno dei settantamila volontari, e ci rimasi fino alla fine. La Spagna mi è rimasta nel cuore. Degli spagnoli, ancora oggi, amo tutto: il loro idealismo furioso, la loro fierezza, il loro senso della tradizione, la lingua. La imparai subito. A Budapest mi dicevano che parlavo un castigliano perfetto, con un leggero accento gallego."

Perlasca prese uno degli astucci con una medaglia. "Vede questa? Una medaglia che mi ha dato l'Anpi di Padova. Io l'ho presa volentieri perché conosco i membri dell'associazione e sono brave persone. Ma la cosa buffa, però, è che io non sono un antifascista. Ho smesso di essere fascista, ma non sono diventato dopo la guerra un antifascista. La mia storia è diversa. A me, per esempio, diedero molto fastidio le leggi razziali. E non ero il solo: mi ricordo guanto se ne parlava al ritorno dalla Spagna. Non capivo le discriminazioni nei confronti degli ebrei. Tanti ebrei erano miei amici, a Padova, a Trieste, a Fiume. In Spagna il comandante di una batteria del mio reggimento di artiglieria era un ebreo, di Roma, si chiamava Vita Finzi. Qui, a Padova era un sottoscrittore per il fascismo uno degli uomini più ricchi della città, il barone Treves de' Bonfili. Franco, come tutti sanno, non era un antisemita. Questo era il mio atteggiamento. E poi non mi piacque l'alleanza con la Germania di Hitier, e non fui d'accordo con un'altra guerra. Di Mussolini avevo avuto stima, ma in quegli anni la persi."

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Pagina 18

Il popolo italiano, poi, si era sempre dimostrato immune dall'antisemitismo. Tra i numerosissimi aneddoti, uno è fulminante per la sua naturalezza e ingenuità. Raccontò Arturo Carlo Jemolo che un suo amico ebreo, mandato al confino in un paese del sud Italia per attività antifasciste, suscitò la curiosità locale perché non assisteva mai alla messa. La donna che gli dava ospitalità gli chiese perché e lui rispose che era ebreo. Al che lei rispose, stupefatta: "Macché ebreo! Lei è bianco come me."

Eppure le improvvise leggi razziali presero immediatamente a macinare progressiva discriminazione. Attraverso decreti sfornati a getto continuo, gli ebrei stranieri vennero espulsi e gli ebrei italiani furono banditi dalle scuole, dall'esercito, dalle professioni. Vennero impediti i matrimoni misti, vennero confiscate parti sempre più grandi del patrimonio. Fu una persecuzione aggressiva, nutrita dì decreti burocratici e di attacchi sempre più violenti sui giornali che condusse gli ebrei italiani ad essere persone prive di diritti quando, a partire dal settembre 1943 cominciò la loro deportazione verso i campi di concentramento.

Non si oppose la Chiesa cattolica né la monarchia, rarissimi casi di protesta individuale vi furono nel mondo della scuola, della magistratura, dell'università, dei giornali. Persino nel mondo dell'antifascismo, non venne compresa la portata di quello stillicidio di persecuzione e tra gli ebrei italiani solo cinquemila furono quelli che, avvertito il pericolo, riuscirono a lasciare il paese: molti verso la Svizzera, molti con i piroscafi del Lloyd Triestino per ogni tipo di destinazione.

Il disagio che invece ebbe il nostro reduce dalla Spagna non fu solitario, ma gli storici hanno finora dato solo cenni fugaci di "casi di coscienza" tra tesserati fascisti e di dimissioni dal partito, bollate da Mussolini sotto il nome di "pietismo". Finita la guerra, la "vulgata" della storia italiana prese i binari della retorica e della reticenza. Risultò difficile raccontare di una opposizione alle leggi razziali che in realtà non c'era stata. E di quello che fecero i vinti, o gli anonimi, o gli isolati, non ci fu particolare interesse a mantenere traccia.

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Pagina 40

Ma negli Anni trenta, dagli Stati Uniti arrivarono anche il grande crollo finanziario e la Depressione. Il grande paese mise le quote: quasi impossibile essere accettati come emigranti, sempre più difficile trovare un impiego a casa. In Ungheria cominciarono ad agitarsi i militari e si agitava la bassa nobiltà. Lì vicino era andato al governo un caporale austriaco che diceva che la colpa di tutto era degli ebrei. Il suo libro, Mein Kampf, era a Budapest un best seller come in tutto il resto dell'Europa. Dall'establishment governativo emerse un oscuro capitano, Gyula Gömbös, che fondò il "Partito della Difesa della Razza", con l'obiettivo primo di espropriare tutti i beni degli ebrei. Ebbe seguito. Incominciavano a sorgere, oltre a quella dei "Laureati Disoccupati", organizzazioni culturali e sportive che esigevano l'allontanamento degli ebrei dalle cariche pubbliche, la confisca delle loro terre e la lotta al "capitalismo senza anima".

Velocemente, tutta l'Europa si dimostrò pronta ad ascoltare le idee del caporale austriaco arrivato al potere a Berlino: i "giudei" sono la corruzione e governano il mondo, l'Europa deve risolvere la "questione ebraica". Il capitano Gömbös vantava i successi dei nazisti: lì facevano sul serio, attaccavano. Lì li cacciavano, gli ebrei, ma prima facevano loro versare tutte le loro ricchezze. E così si sarebbe dovuto fare in Ungheria. Fu il trionfo della statistica antisemita. Conti minuziosi informavano quotidianamente dei metri quadri che gli ebrei occupavano, degli ettari di terra che possedevano, delle proprietà che avevano acquisito.

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Pagina 44

La legge infine passò. Per molti, in Ungheria, essa significò l'abbassamento della soglia della moralità, il bilancio passivo del popolo ungherese. Ma quei prelati e quei nobili della Camera dei Signori che si opposero, furono gli unici che lo fecero pubblicamente, in tutta l'Europa. Forse per rimorso, forse per impossibilità di applicazione, la legge che equiparava gli ebrei al bacillo di Koch venne sì approvata, ma si convenne di farla entrare in vigore solo dopo due anni.

Quando Perlasca arrivò in Ungheria, si era nel mezzo di quella dilazione. Quella incerta sospensione in cui si agitavano odio, imbarazzo, inconsapevolezza, precipitò un anno dopo. Proprio quando la guerra stava per finire, proprio quando il nazismo aveva le settimane contate. La città di Budapest smise allora di essere una città, nessuno ebbe più l'autorità di farsi ascoltare. Tutti videro quello che stava succedendo, ma nessuno intervenne. A scrivere appelli, ad agire per impedire massacri, a procurare cibo, rimasero una decina di "estranei", diplomatici di nazioni neutrali nella guerra.

Giorgio Perlasca, che a Budapest era arrivato dopo un lungo viaggio di allontanamento dalla guerra, se ne trovò nel vortice. Ebbe l'occasione di fuggire e non lo fece. Divenne invece uno di quei diplomatici. Uno dei più efficaci.

Con una differenza: che nessuno gli aveva dato quel mandato. Non era un ambasciatore, né un console, né un incaricato di affari. Era semplicemente un impiegato della ditta SAIB lontano da casa.

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Pagina 110

Tutte le volte che gli hanno chiesto quale fosse l'episodio che più era rimasto nella sua memoria, Perlasca ha sempre citato "il caso dei due ragazzi gemelli".

I vagoni partivano dallo scalo merci di Budapest. Erano carri merci, in ognuno dei quali era stato steso uno strato di paglia ed era stato collocato un bidone per raccogliere gli escrementi. Gli ebrei venivano caricati in circa ottanta per ogni vagone. Poi la porta veniva sigillata.

Gli ebrei arrivavano sulla banchina in fila, spinti dai gendarmi ungheresi e controllati dalle SS tedesche. Il carico avveniva rapidamente.

Allo scalo merci andavano i rappresentanti diplomatici delle nazioni neutrali. Pochi uomini che tentavano di strappare ancora qualcuno al carico della morte. Gridavano tutti. "Chi ha un salvacondotto svizzero, alzi la mano! "Chi di voi è protetto dal governo spagnolo?" "C'è qualcuno che ha dimenticato il proprio salvacondotto svedese?" Era una questione di attimi. Una lotta di sguardi, di implorazione, una questione di prontezza di riflessi e di distrazione dei soldati. Si poteva salvare ancora qualcuno, prima che i vagoni venissero sigillati.

La storia rimasta impressa a Perlasca avvenne una di quelle mattine. "C'era una fila che veniva avanti e in mezzo vidi due ragazzi. Avranno avuto dodici o tredici anni ed erano identici. Due gemelli, soli. Io avevo la Buik della legazione parcheggiata di fianco alla banchina, con tanto dì bandiera spagnola sul parafango. Non so perché, ma quei due ragazzi mi colpirono. Erano bruni, con i riccioli. Mi apparivano come la stessa persona moltiplicata per due. Quando mi passarono davanti nella fila, mi sporsi e li afferrai. Li presi dalla fila e li sbattei dentro la macchina. Gridavo: 'Queste due persone sono protette dal governo di Spagna!' Si avvicinò un maggiore tedesco, che li voleva riprendere. Io lo fermai e gli dissi: 'Lei non può farlo! Questa macchina è territorio spagnolo! Questa è una zona extraterritoriale!' Il maggiore tedesco estrasse la pistola e ci fu un parapiglia. L'autista e io tenevamo chiusa la portiera e lui cercava di aprirla. Vicino a me c'era Raul Wallenberg. Si rivolse al maggiore con tono deciso: 'Lei non sa che cosa sta facendo! Lei sta assalendo il territorio di un paese neutrale! Lei deve fare molta attenzione alle conseguenze del suo gesto!'

Il maggiore non cedeva. Mi agitava la pistola sotto la faccia. Mi disse: 'Mi renda quei due ragazzi, lei sta disturbando il mio lavoro.' Io gli dissi: 'E questo, lei lo chiama lavoro?'

Arrivò un colonnello. Il maggiore posò la pistola e gli spiegò la situazione. Io feci altrettanto. Ripetei che quei due ragazzi erano sotto la protezione del governo di Spagna e che l'automobile era zona extraterritoriale. Il colonnello, con la mano, fece segno al maggiore di desistere. Poi si voltò verso di me e mi disse, con calma: 'Li tenga. Verrà il loro momento. Verrà anche per loro'.

Così li tenemmo. Ce l'avevamo fatta. Quando i tedeschi si allontanarono, Wallenberg, sottovoce, mi fece: 'Lei ha capito chi era quello, vero?' 'No,' dissi io. 'Quello è Eichmann."

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Pagina 114

Tra i famosi inviati che seguirono il processo ad Adolf Eichmann, ci fu anche Hannah Arendt, la filosofa allieva di Heidegger, che aveva scritto Le origini del totalitarismo. Chiese, e ovviamente ottenne, al settimanale "The New Yorker" di essere inviata al processo. Le interessava vedere Eichmann "in carne e ossa", l'uomo che era indicato come l'artefice della "soluzione finale", l'uomo che aveva stabilito gli orari dei treni, le quote dei deportati, il simbolo vivente della malvagità, l'essere umano responsabile dell'assassinio programmato di cinque milioni di altri esseri umani.

Hannah Arendt lo osservò scrupolosamente per mesi. Figlio di un funzionario delle tranvie di Solingen, studente di scarsissima levatura, entrato nelle SS per bisogno di carriera che nella vita civile non sarebbe riuscito a fare, un uomo che diceva che l' "Amtsprache", il gergo burocratico militare, era la sua unica lingua conosciuta, un uomo che credeva negli ordini superiori, nella trasmissione gerarchica delle consegne... I puntuali resoconti del processo che Hannah Arendt mandò al "New Yorker" suscitarono una polemica che durò anni, perché l'autrice criticò la gestione che il Pubblico Ministero faceva del processo e non passò sotto silenzio il ruolo di passiva collaborazione che gli Judenräte avevano avuto nella "soluzione finale". Se ne erano avute prove nel dibattimento. Un episodio che riguardava proprio l'Ungheria - le forti proteste da parte del pubblico, composto da sopravvissuti di Budapest nei confronti di chi non aveva dato loro le informazioni necessarie che avrebbero permesso a molti di salvarsi - fu occasione di una riflessione più profonda sul comportamento dei Consigli Ebraici.

Ma fu soprattutto l'interpretazione che Hannah Arendt diede della figura di Eichmann a suscitare la controversia. Per la Arendt, a differenza della versione corrente che voleva Eichmann come prodotto mostruoso, l'imputato nella gabbia di vetro era invece un uomo "normale"; semplicemente "un uomo incapace di pensare". Ma che cos'era, si domandava, che aveva fatto sì che quell'uomo smettesse di pensare?

Nella sua più importante dichiarazione al processo, Eichmann ammise di essere stato a conoscenza della decisione di Hitler di procedere allo sterminio fisico degli ebrei e dichiarò di pensare di trovarsi di fronte a "qualcosa di orrendo, di illegale". Disse che la vista di ebrei uccisi gli "scosse i nervi", ma poi aggiunse: "Sfortunatamente io ero costretto ad agire così, come risultato del mio giuramento di fedeltà e lealtà. Io dovevo affrontare gli aspetti tecnici del problema". E infine: "Quando il capo dello Stato lo ordinò e i miei superiori mi trasferirono quell'ordine, io trovai una sorta di copertura, trovai una pace mentale, perché trasferii la responsabilità sui miei superiori. Non voglio dire che trasferii di fatto la responsabilità a loro, ma lo feci nei miei pensieri; nel profondo del mio cuore, io trasferii questo pensiero a loro, al ruolo che avevano il loro potere e la loro attività e così, per quanto riguardava i miei sentimenti intimi, trovai almeno un po' di tranquillità. Non mi consideravo colpevole e sono stato contento di non aver avuto parte diretta nello sterminio fisico degli ebrei. La parte che dovetti giocare fu comunque abbastanza".

Quando Eichmann si esprimeva in questo modo, tutti erano portati a pensare che fosse un bugiardo, i giudici per primi. Hannah Arendt invece scrisse:

"I giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, "normale", non svanita, né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di "distinguere il bene dal male...".

Scoprì poi un uomo la cui coscienza aveva "cessato di funzionare", un uomo che, lungi dall'essere mostruosamente dedito al male, era diventato "assolutamente incapace di distinguere il bene dal male".

Così scrisse della sua esecuzione:

"Adolf Eichmann andò alla forca con gran dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l'assistenza del pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita e perciò 'non aveva tempo da perdere'. Percorse i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell'esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. 'Non c'è bisogno,' disse quando gli offersero un cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò con il dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: 'Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania! Viva l'Argentina! Viva l'Austria! Non le dimenticherò'. Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l'orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l'ultimo scherzo: si sentì 'esaltato' dimenticando che quello era il suo funerale.

Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato, 'la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male'."

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Pagina 118

Giorgio Periasca, nel 1961, non andò a testimoniare a Gerusalemme e in Italia, l'articolo che raccontava quanto aveva fatto, passò del tutto inosservato. Ma se si fosse presentato al banco dei testimoni e il pubblico ministero gli avesse domandato: "Signor Perlasca. Lei era un commerciante italiano. Lei non era parte in causa. Lei avrebbe potuto scappare da Budapest. Perchè ha fatto tutto quello che ha fatto?," Perlasca avrebbe risposto allora con le poche parole che ripete adesso. "Vedevo delle persone che venivano uccise e, semplicemente, non potevo sopportarlo. Ho avuto la possibilità di fare, e ho fatto, Tutti, al mio posto, si sarebbero comportati come me." Avrebbe forse aggiunto, con la sua lenta cadenza veneta: "Si dice in Italia: l'occasione fa l'uomo ladro, di me ha fatto un'altra cosa". E avrebbe dato la prova che anche nella più impenetrabile nebbia, esiste - perché è propria dell'animo umano - una tentazione irriducibile, indicibile, fiabesca alla "banalità del bene".

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Pagina 135

La storia di Giorgio Perlasca è stata "acciuffata per un pelo". Pochi anni, e sarebbe rimasta sepolta o non creduta. Pochi anni e, oltre al protagonista-testimone, non sarebbero più stati in vita i sopravvissuti che hanno confermato quelle vicende. Il "ghetto internazionale", la legazione di Spagna, le rive del Danubio, le case protette sarebbero svanite. O peggio, sarebbero state dichiarate "mai esistite", cosi come oggi, negando Auschwitz e sfregiando tombe, si cerca di cancellare dall'Europa di fine secolo le tracce degli undici milioni di ebrei che vi vivevano appena mezzo secolo fa.

Giorgio Perlasca avrà strade e scuole intitolate a suo nome e a Budapest un monumento nel giardino della Sinagoga di via Dohany. Agli studenti delle scuole medie è dedicata un'altra versione di questo libro, a cura delle edizioni scolastiche Feltrinelli Loescher.

I tempi che viviamo, purtroppo, non permettono di concordare con Perlasca che diceva "quello che è successo allora non può ripetersi"; troppa memoria viene calpestata e troppi sintomi ricompaiono ad annunciare la possibilità di un nuovo orrore. Ma un episodio di spontanea reazione fa piacere ricordarlo. Dopo una serie di aggressioni e scritte murali, su diversi negozi di un quartiere romano sono stati apposti adesivi gialli a forma di stella con la scritta "Via i sionisti dall'Italia". Due giorni dopo - era il 9 novembre, anniversario della "notte dei cristalli" nella Germania nazista del 1938 - diverse decine di migliaia di studenti sono sfilati in corteo per protesta. Spontaneamente, moltissimi ragazzi hanno apposta sui vestiti, o disegnata con un pennarello sulla faccia, una stella gialla con la scritta "siamo tutti ebrei".

novembre 1992                       E.D.

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