Autore Enrico Deaglio
Titolo Storia vera e terribile tra Sicilia e America
EdizioneSellerio, Palermo, 2015, La memoria 1002 , pag. 218, ill., cop.fle., dim. 12x16,8x1,3 cm , Isbn 978-88-389-3320-2
LettoreFlo Bertelli, 2015
Classe storia sociale , lavoro , storia criminale , regioni: Sicilia , paesi: USA , paesi: Italia: 1800 , paesi: Italia: 1900












 

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Indice


Storia vera e terribile tra Sicilia e America

Capitolo uno     Davanti al plotone d'esecuzione       9

Capitolo due     Il quadro di Antonello               19

Capitolo tre     Il sesto uomo                        26

Capitolo quattro La notizia arrivò sui giornali...    42

Capitolo cinque  Schiavi, generali, terra, zucchero
                 e cotone                             55

Capitolo sei     Nel cranio dei dagos                 72

Capitolo sette   Nascita di una razza                 84

Capitolo otto    Strani frutti                       111

Capitolo nove    Sopralluogo e atti relativi         127

Capitolo dieci   La deposizione                      164

Capitolo undici  In missione per conto del Re        177

Capitolo dodici  Epiloghi, spesso inaspettati        194

Thanks to alla frienda                               211


 

 

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Pagina 9

Capitolo uno
Davanti al plotone d'esecuzione



Frank Defatta aveva già il cappio al collo, e gli avevano messo pure un sigaro in bocca. Si rivolse alla folla e gridò, nell'inglese rudimentale proprio dei «dagos»:

«I liva here sixa years. I knowa you all. You alla my friends».

Lo sollevarono con un colpo secco della corda che scivolò sulla corteccia del pioppo e così Frank smise di parlare; il sigaro gli cascò dalla bocca e cominciò a tossire. Ma in quei pochi secondi pensò ancora che l'avrebbero tirato giù: li conosceva tutti, erano tutti suoi amici da sei anni.

Pensò che la storia sua non era finita, che avevano voluto solo fargli paura, a lui e ai suoi fratelli; che sarebbe stato vivo per raccontarla molti anni dopo: di quando lo avevano messo davanti a quell'inaspettato plotone d'esecuzione.

Non avrebbe raccontato di suo padre, del ghiaccio e degli zingari. Avrebbe raccontato come è il mondo visto dall'alto, che poi è come lo aveva visto Cristo dalla croce. Bastava salire un poco e gli uomini diventavano così piccoli, mentre compariva invece tutta la terra, la pianura sterminata, la curva gialla del grande fiume e la lontananza dal mondo, da casa.

Avrebbe raccontato che si era visto in un sogno nel grande antichissimo duomo del paese suo, bambino tenuto per mano da suo padre Nicolò, sotto la faccia immensa del Cristo Pantocratore, composta di milioni di tessere di mosaico, piccoli punti d'oro salvatori di bambini e marinai dalle tempeste. E quella sua mano benedicente, gli sembrò adesso che avesse sempre tenuto un sigaro tra l'indice e il medio.

Ma, da sotto, non mollarono la corda, anzi la strattonarono. E così Frank Defatta morì tossendo e con gli occhi fuori dalle orbite. Poco più in là avevano appena impiccato i suoi fratelli e ora toccava agli ultimi due. Quel grande pioppo, negli anni scorsi, era servito alla stessa bisogna. Vi avevano appeso una dozzina di negri - ribelli, stupratori, ladri - e magari i fratelli Defatta avevano visto la scena da sotto. Ora avevano appeso cinque dagos; dagos era il termine dispregiativo per indicare i siciliani, considerati una specie di negri. I negri, allora come oggi, sono l'80 per cento della popolazione della parrocchia di Madison.


Era una caldissima sera d'estate, il 20 luglio 1899. Ma le notizie vennero battute al telegrafo con molte ore di ritardo, solo quando il telegrafista fu sbendato e slegato. Dicevano che in località Tallulah, contea (o meglio: parrocchia, all'uso francese) di Madison, all'estremo nord-est dello stato della Louisiana, una folla «ordinata e calma, ma molto determinata» aveva provveduto all'impiccagione - secondo la consuetudine del linciaggio - di cinque italiani ivi residenti.

I loro nomi:

    Giuseppe (Joe) Defatta, di anni 34
    Francesco (Frank) Defatta, di anni 30
    Pasquale (Charles) Defatta, di anni 54
    Rosario Fiduccia, 37 anni, detto Sy Defichi
    Giovanni Cirami, 23 anni, detto John Cerano o Cyrano.

I tre Defatta erano tra loro fratelli. Tutti e cinque provenivano dal paese di Cefalù, in Sicilia, ed erano commercianti di frutta e verdura, con due negozi a Tallulah e carretti per la vendita ambulante.

Succinte, ma comunque incredibili, le ragioni dell'impiccagione collettiva. Tutto era cominciato con una capra, di proprietà di uno dei Defatta, che era solita brucare erba nel prato dell'ufficiale sanitario del paese, il dottor J. Ford Hodge. Questi si era lamentato diverse volte, ma non avendo avuto soddisfazione, all'ultima intrusione aveva ucciso la capra con un colpo di pistola. Il gruppo dei siciliani aveva giurato vendetta e uno di loro aveva sparato al dottor Hodge, ferendolo seriamente. Da qui la reazione della cittadinanza, circa duecento persone che avevano iniziato una caccia all'uomo. Due di loro erano stati catturati in prossimità dell'aggressione al dottore; altri tre lontani dal fatto. I cinque, già malvisti in paese per il loro comportamento violento e aggressivo, erano stati giudicati colpevoli di complotto per uccidere il dottore e in procinto di instaurare un regime di terrore nel paese di Tallulah; e quindi impiccati. Dato il buio, né lo sceriffo, né altri erano stati in grado di identificare alcuno dei linciatori. Un Grand Jury immediatamente convocato aveva sancito che nessuno dei cittadini di Tallulah poteva essere accusato di alcunché, in relazione alla faccenda.

I giornali facevano poi riferimento a un sesto italiano, anch'egli siciliano di Cefalù, tale Giuseppe (Joe) Defina, cognato dei fratelli Defatta, che mandava avanti un emporio con i suoi due figli nella vicina frazione di Milliken's Bend, sulla riva occidentale del Mississippi. La folla aveva cercato di punire anche lui, ma Joe Defina era riuscito a fuggire, attraversando il fiume.


La storia, come avrei appreso, era molto più grande di così. Più grande vuol dire più orrenda, più infame, più misteriosa, ma anche più avventurosa e quasi fiabesca.

Ma, per adesso, fermiamoci qui, perché vorrei raccontare ai lettori come ne sono venuto a conoscenza e perché mi ha tanto appassionato.

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In Italia, la notizia arrivò quasi contemporaneamente, a riprova del fatto che la famosa globalizzazione dell'informazione di cui si parla ora, aveva un precedente illustre nel telegrafo. La diffuse l'Agenzia Stefani riprendendola dall'americana Associated Press e trovò immediatamente posto in una breve colonna sulle prime pagine dei quotidiani italiani.

Scarsi i particolari (ma naturalmente l'assurdità di cinque omicidi per una capra saltava agli occhi), mentre immediata era la condanna dell'inciviltà americana e la gestione politica dell'avvenimento. I giornali italiani, tutti condannando la brutalità della cosiddetta «legge di Lynch», chiesero che il governo si facesse sentire con la massima efficacia perché i nostri lavoratori emigrati in America fossero tutelati. La «giustizia per i lavoratori di Tallulah» divenne — per poco tempo, peraltro — un retorico banco di prova per la forza e l'attaccamento al suo popolo del giovane Regno d'Italia, del suo governo e del suo monarca. Rimbalzò addirittura in parlamento, ma senza troppa convinzione.

Alla fine del secolo, il Regno d'Italia unificato da appena quarant'anni, con capitale a Roma da meno di trenta, aveva altro cui pensare, che non a un linciaggio in America.

Al nord, insieme alle prime industrie di grandi dimensioni, aveva preso forza il movimento socialista ed anarchico che manifestava nelle piazze. Il sud, annesso con plebiscito trent'anni prima, continuava ad essere «terra incognita», sede di rivolte a scoppio continuo, oggetto di campagne militari feroci e coperte dalla censura sotto il nome di «repressione del brigantaggio». Piccola potenza tra le altre europee, il Regno d'Italia cercava di costruire anch'esso un proprio impero coloniale. Sentiva di averne diritto, in nome del suo passato, della sua storia, dell'antica Roma che risuonava. Un primo tentativo di sottomettere l'Abissinia era finito tre anni prima ad Adua, che gli etiopi chiamavano Abba Garima. In una farsa tragica di generali incompetenti e boriosi, migliaia di soldati italiani erano stati massacrati dalle truppe del sovrano Menelik. Per la prima volta, c'erano state, in tutta la penisola, manifestazioni di protesta contro la leva; contro i carabinieri mandati a reprimerle, i manifestanti avevano gridato «Viva Menelik», inneggiando con sarcasmo all'imperatore etiope che aveva sconfitto il generale Barattieri. Per domare una rivolta per il pane a Milano, l'esercito piemontese aveva fatto duecento morti; il governo, affidato dal Re a uno dei tanti ottusi generali a disposizione, il piemontese Luigi Pelloux, aveva stilato un elenco di soppressioni di libertà per colpire i socialisti ed era poi caduto in parlamento su una teatrale e surreale vicenda di spionaggio internazionale. L'Italia non aveva avuto dalla Cina la concessione della baia di San Mun, perché la nostra diplomazia si era troppo fidata di quella inglese, per raggiungere lo scopo, ed era stata da questa beffata. Orgoglio nazionale ferito. In patria, lo stato d'assedio permaneva in molte parti della Sicilia, dopo la grande prova di forza contro i Fasci Siciliani, il movimento popolare che, per la prima volta, chiedeva la terra.

Forse una cosa sola accomunava gli italiani, allora: la disperazione, che spingeva milioni di persone ad imbarcarsi per il Nuovo Mondo. L'Italia povera, l'Italia sconfitta dalle politiche della monarchia, quella pellagrosa del nord, così come le moltitudini sconosciute della Calabria, della Sicilia, della Sardegna, saliva sui bastimenti per ricostruire se stessa in Argentina, in Brasile e negli Stati Uniti d'America. I prefetti e i preti incoraggiavano l'emigrazione, spesso la istigavano. Meno rivolte in patria, meno bocche da sfamare. La burocrazia statale conteggiava con orgoglio la quantità delle rimesse per le famiglie rimaste a casa. L'Italia scopriva il proprio, particolare, modello di sviluppo.


A Cefalù, il paese a cui appartenevano i cinque linciati, la notizia arrivò il 22 luglio. Il Giornale di Sicilia la incastonò, in prima pagina, tra la cronaca del processo al capitano Dreyfus a Parigi, le nozze dei reali di Grecia e la partenza del transatlantico Nord America da Genova per Montevideo.


ATROCITÀ AMERICANE
CINQUE ITALIANI LINCIATI

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Capitolo cinque
Schiavi, generali, terra, zucchero e cotone



I Defatta partirono da Palermo su una nave a vapore, fecero tappa a Genova e poi di lì, in venti giorni, raggiunsero la grande Novorlenza. Erano parte di una massa che varcava l'oceano dalla Sicilia verso il Nuovo Mondo a causa di una bizzarra coincidenza storica. Illusi e poi delusi dal generale Garibaldi, che aveva loro promesso la terra, andavano in America perché là avevano bisogno di nuovi schiavi, perché un generale come Garibaldi aveva liberato quelli negri; servivano braccia per la «zuccarata», perché i negri non ci stavano più a stare sotto padrone, si ribellavano e non avevano voglia di lavorare e chiedevano troppi quattrini. I padroni americani erano venuti fino in Sicilia per tastargli i muscoli, a controllare che la razza era buona. Cercavano gente forte e ubbidiente, perché la fatica da fare era tanta. Il taglio della canna era considerato, da un secolo, il lavoro più faticoso del pianeta.

I giornali di New Orleans raccontavano questi arrivi come degli spettacoli e descrivevano gli uomini bassi, ma muscolosi, i più ricchi con berretti di pelo, pantaloni di lana stretti alle caviglie, scialli verdi, gialli e rossi e per tutti, orecchini: al lobo per i maschi, pendenti fino alle spalle per le donne, le quali erano «senza copricapo, con capelli spartiti in mezzo alla testa, dalle facce dure e poco invitanti».

Avvenuta senza fanfare e poco compresa, allora come oggi, quella siciliana verso la Louisiana e il Mississippi fu una deportazione di esseri umani concepita tra governi, allo scopo di realizzare uno dei più foschi progetti dell'era moderna.

La Sicilia aveva aumentato di un milione e mezzo i suoi abitanti dai tempi dell'Unità d'Italia. I siciliani erano troppi, circolavano strane idee, volevano la terra, si ribellavano. I padroni americani si trovavano alle prese con un problema analogo. La guerra aveva affrancato quattro milioni di schiavi che ora non volevano più lavorare sotto la frusta. Bisognava liberarsene, trovare nuovi schiavi. Gli americani chiamarono quel progetto «push and pull», spingi e tira. L'Italia li spingeva via, e niente era più convincente che ridurli in miseria e fargli sparare addosso dai carabinieri. La Louisiana e il Mississippi li attiravano, come unica speranza loro rimasta. I due contraenti concordavano che non si dovevano avere con loro troppi riguardi, perché era gente capace di stare sotto un padrone, ma infida.

Prefetti, militari, latifondisti scelsero i posti in cui operare con cura, paese per paese. E così svuotarono Contessa Entellina, Ustica, Bisacquino, Poggioreale, Corleone, Cefalù, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani, Trabia, Caccamo, Gibellina, Vallelunga Pratameno, Roccamena, Sambuca, Salaparuta, Alia. E altri li raccolsero a Palermo, a Termini Imerese, a Trapani, a Salemi.

Si calcola che dal 1880 al 1900 partirono per New Orleans in centomila siciliani. Zolfatari, ex garibaldini, piccoli contadini falliti perché troppo tassati, renitenti alla leva, ex detenuti, braccianti, scarpari, muratori, contadini d'esperienza, famiglie intere. Tutti cercavano terra, ma era una grande truffa. A quei tempi, però, era la terra a far girare il mondo; quello che poi diventarono le fabbriche e il petrolio, allora erano lo zucchero e il cotone.

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Le piantagioni di canna da zucchero erano state, a partire dalla metà del Settecento, l'essenza del mondo coloniale; ma lo divennero anche della nuova democrazia americana. Cuba, Haiti, la Martinica e la Guadalupa, la Louisiana e il Mississippi stentavano a produrre il fabbisogno di zucchero che improvvisamente aveva drogato l'Europa. Lo zucchero, che nel Settecento era considerato una stravaganza, ora era diventato essenziale come nutrimento e nella cucina di piatti fino allora sconosciuti. Dapprima capriccio dell'aristocrazia, lo zucchero era penetrato nelle abitudini della classe operaia inglese e poi tedesca e francese, insieme al tè, al liquore fermentato, ai dolci, alle marmellate, ai biscotti. L'Europa, nel giro di pochi decenni, aveva cambiato le proprie abitudini alimentari, si era «dolcificata». E tutto questo lo avevano reso possibile gli schiavi, come la Sfinge Sugar Baby.

Negli stessi tempi, il cotone invece aveva cambiato il paesaggio urbano. Le camicie, le divise militari, le lenzuola, le mutande, i fazzoletti, i pantaloni da fatica; tutte le immagini improvvisamente rimandavano a qualcosa di filato, cucito, cardato nelle grandi fabbriche su cui si era sviluppata la rivoluzione industriale.

Come per lo zucchero, anche per il cotone alla base c'era la schiavitù. Milioni di uomini, donne, bambini deportati dall'Africa verso le colonie erano il fondamento dello sviluppo industriale europeo. Per dirla con le parole di Karl Marx: «La schiavitù velata dei lavoratori salariati dell'Europa aveva bisogno, per il suo piedestallo, della schiavitù pura e semplice nel Nuovo Mondo».

La schiavitù, progressivamente abolita in Europa a partire dall'inizio dell'Ottocento, era il terribile scheletro nell'armadio degli Stati Uniti: metà del paese, la sua parte meridionale, prosperava grazie all'economia schiavista. Nel 1861, prima sette poi altri quattro stati del sud si riunirono in una Confederazione e dichiararono la loro volontà di staccarsi dall'Unione costitutiva degli Stati Uniti. La loro forza era notevole. La Confederazione possedeva molto territorio e le esportazioni di tabacco, cotone, zucchero, grano garantivano ad un'élite dominante un eccezionale potere economico e finanziario. Le grandi città del sud rivaleggiavano, in accumulo finanziario, con New York, Boston e Filadelfia; la foce del Mississippi, con il porto di New Orleans, era un punto obbligato per il commercio internazionale. Nel giro di cinquant'anni, le esigenze della produzione avevano fatto decuplicare la popolazione schiava, arrivata alla cifra di 4 milioni, e queste dimensioni di massa avevano creato un'ideologia. L'idea di poter usare degli esseri umani come «proprietà» si presentava nel mondo moderno come una opzione non solo possibile, ma legittima. La possibilità che questo modello si espandesse era nei fatti e nei propositi. Spedizioni militari per schiavizzare il Centro America e Cuba erano state avviate o ipotizzate. La rivoluzione industriale portata dal «cotton gin», la macchina che separava il seme dal fiore del cotone e permetteva di decuplicare la produzione, invece di creare fabbriche come in Europa, e con loro lavoratori salariati e città, in America aveva invece creato l'opposto: sempre più ingenti quantità di terra vennero messe a coltura e milioni di schiavi vennero importati dall'Africa.

Il motivo della secessione degli stati confederati era l'opposizione alla politica «abolizionista» (della schiavitù) del nuovo presidente, il repubblicano Abraham Lincoln. La spaventosa guerra civile che ne seguì (intorno ai 700.000 morti), finì con la sconfitta del sud, la distruzione (momentanea) della sua economia e con una legge costituzionale che aboliva la schiavitù ed emancipava quattro milioni di negri che vivevano negli stati del sud.

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Nel 2014 il professor David Brion Davis, all'età di novant'anni, ha dato alle stampe l'ultimo suo libro sulla schiavitù, il tema che l'ha accompagnato per tutta la vita e ne ha fatto il suo più importante studioso. È un libro scarno, essenziale. Il professore racconta che l'impulso a capire gli venne quando, ragazzo nel 1945, fu arruolato in previsione di un attacco di truppe americane in Giappone (un evento che non si rese necessario perché la bomba atomica convinse i giapponesi alla resa). Era imbarcato su una grossa nave da guerra e il suo capo gli mise in mano uno sfollagente: «Scendi sotto e mena quelli che stanno giocando a soldi». David scese - era la prima volta che scendeva - e vide una stiva ribollente di uomini neri, marinai. Uno gli fece: «Ehi! Che ci fai qui, ragazzino biondo?». David ricorda che vide improvvisamente davanti a sé l'immagine di una stiva di una nave dell'Ottocento che portava schiavi nel Nuovo Mondo. La razza inferiore; nel 1945 l'America ancora faceva questo. Negli stessi anni in cui Hitler aveva messo in pratica la schiavitù, con le teorie razziali, i campi di concentramento e quelli di sterminio. Negli stessi anni in cui Stalin aveva introdotto il lavoro forzato per milioni di oppositori politici. A distanza di duecento anni, l'idea di schiavitù nel mondo non sembrava affatto essere stata sconfitta.


Il professor Brion Davis nel suo ultimo libro distilla alcune verità tremende. Gli uomini, in particolare i bianchi americani dell'Ottocento, erano razionalmente convinti che fosse un loro diritto tenere in schiavitù i negri, considerarli una loro proprietà, un bene mobile, perché la storia dimostrava che gli africani non erano dei veri e propri esseri umani, ma una specie di razza animale, che l'uomo evoluto aveva il compito di addomesticare, come era successo con gli altri animali domestici. Trovavano conforto nella Bibbia, che ammetteva la schiavitù; in Aristotele, che la considerava un fatto naturale; nella scienza, che, fin dai tempi antichi, continuamente portava argomenti in favore di una differenza tra gli esseri umani. Avevano imparato a classificarli e a valutarli dalle ossa, dalle labbra, dalla dentatura; ne conoscevano le pulsioni sessuali e la resistenza al dolore.

Ma questa era la superficie. Sotto, era la paura collettiva a dominare le loro vite. I padri imponevano ai figli di «vedere» la punizione dello schiavo, e sapevano che in quell'educazione stava la loro maledizione. Vivevano nel terrore di una rivolta, come quella che era successa ad Haiti, dove l'esercito degli schiavi aveva addirittura sconfitto cinquantamila soldati di esperienza, mandati da Napoleone Bonaparte. Il paesaggio delle campagne immense era dominato dai loro incubi. Avevano messo ovunque campane, che avrebbero dovuto dare l'allarme, che sarebbe arrivato da messaggi trasmessi attraverso i tamburi. Fu questo intimo senso di colpa e la vaga sensazione che sarebbe arrivato il giorno della punizione a condurre il mondo dei bianchi alle peggiori aberrazioni, e infine alla distruzione.

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Questa nuova scienza - cresciuta nell'alveo del positivismo - cercava di definire le ragioni scientifiche della criminalità, e non le trovò, come ci si sarebbe potuti aspettare, nell'ambiente, nella miseria, nell'ignoranza, quanto piuttosto nel «corpo» del criminale. Secondo Cesare Lombroso , che di questa nuova scienza diventò la star internazionalmente acclamata, «il corpo del criminale mostrava i segni di un'anomalia, in parte patologica, in parte atavistica, che lo rendevano simile al selvaggio primitivo». Lombroso era un giovane medico ebreo di Verona, patriota, socialista, autore di importanti scoperte sulla genesi della pellagra, già ufficiale nella lotta contro il brigantaggio in Calabria e professore universitario di medicina legale a Torino. La sua «intuizione» ebbe un colpo di fortuna, quando gli capitò tra le mani il cranio di un tale Giuseppe Villella, un vecchio detenuto morto nel carcere di Pavia che, secondo le scarne indicazioni biografiche fornite dall'istituto di pena, era stato un importante brigante a Motta Santa Lucia in Calabria. Si può immaginare lo stato di esaltazione di Lombroso quando esaminò la superficie interna del suo reperto, tastandone con le dita la zona occipitale. Qui, dove il cranio della razza umana presenta una sottile cresta, che anatomicamente divide i due lobi di cui è composto il cervelletto, il Villella presentava invece una fossetta, come se quella parte del cranio avesse ospitato un terzo lobo del cervelletto. Una configurazione propria di stadi precedenti dell'evoluzione animale, per esempio visibile nel cranio dei lemuri della Tanzania. Villella, un criminale, portava con sé le stigmate di un'evoluzione primitiva, arcaica, interrotta.

Se adesso tutto ciò vi può sembrare una cattiva barzelletta, considerate che nel 1876 il cranio di Villella fu lo scoop che diede a Lombroso la notorietà internazionale. La sua scuola venne finanziata e fornita di laboratori, schiere di medici abbracciarono la sua teoria. La criminalità che il neonato Regno d'Italia si trovava di fronte aveva una spiegazione, che divenne una scienza ufficiale, così come venne definito incontestabile l'anelito dei veneti ad essere italiani. Il sovrano stava scegliendosi il suo popolo.


Le teorie della scienza criminale si applicarono subito alla definizione della «questione meridionale»; Lombroso spiegò di aver incontrato le stesse caratteristiche di atavismo in intere popolazioni della Calabria, parlò, per il Meridione, di una «civiltà inferiore», marcata da una «criminalità del sangue». Lombroso poi si accinse a una classificazione delle razze e mise i meridionali italiani nella razza bianca, biologicamente ed eticamente superiore a quella negra. Aggiunse però che la transizione dal nero al bianco era vaga. Descrivendo egizi, berberi, abissini e somali, Lombroso notò che la «trasformazione della razza nera in bianca» era passata «attraverso le razze semitiche e camitiche», che erano «bianche o quasi bianche», anche queste riscontrate nel Sud Italia.

Se Lombroso era stato un po' vago, Giuseppe Sergi (messinese, combattente con Garibaldi), professore di anatomia comparata e linguaggi indoeuropei, fu più specifico. A lui si deve una complicata teoria della differenziazione razziale basata sulla forma del cranio. Spiegava il Sergi che in una serie di colorazioni e decolorazioni, l'uomo avrebbe dato origine alla razza eurafricana, attaccata poi, dall'Asia, da quella ariana (celti, germani e slavi). Gli ariani, veri selvaggi, distrussero quel modello di civilizzazione superiore rappresentato dalle culture greche e latine. Ma poi Sergi cambiò idea e spiegò che la razza mediterranea era degenerata in un arresto di sviluppo sociale, che nel Mezzogiorno aveva dato origine a camorra e mafia. A mettere d'accordo ariani e mediterranei, ci pensò un terzo luminare, il professor Alfredo Niceforo di Castiglione in Sicilia, anche lui socialista, che tracciò confini sprezzanti tra Nord e Sud Italia. Il sud, disse, è formato da una «razza violenta, brutale, individualistica, la mafia siciliana essendo una sopravvivenza atavica dello spirito feudale arabo, contrapposto a quello dei cavalieri del nord». L'Italia, concluse Niceforo, non è stata affatto unificata e il Mezzogiorno, in particolare la Sicilia, è abitato da «una razza maledetta». Appassionato di politica, Niceforo faceva sentire le sue analisi in parlamento, attraverso la voce del deputato socialista Enrico Ferri; questi, che si professava marxista e darwiniano, aveva fama di grande oratore. L'inferiorità razziale dei meridionali era il suo pezzo forte.

Queste posizioni, di fatto, dominavano tutta la scena politica italiana e accompagnarono la grande emigrazione dei siciliani verso le Americhe. C'era da andare a cercare fortuna altrove, visto che a casa godevano di così cattiva reputazione. Ce ne fu uno solo, che va ricordato. Era una nobile figura di medico e deputato, il siciliano Napoleone Colajanni, che - quasi sempre in assoluta solitudine - condannò le teorie dei suoi colleghi, mise in luce la nequizia del latifondo, lo scandalo del lavoro minorile, l'economia di rapina operata dal governo centrale. Ma l'idea della «razza maledetta» risultò essere molto più popolare.

Che farne, di quella razza? Venderla agli americani sembrò essere una buona idea.

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Pagina 200

Cefalù in Louisiana


Il contributo di un piccolo paese come Cefalù alla storia della Louisiana è stato drammatico ed enormemente importante. Il dramma si riferisce al fatto che ben sette cefalutani (cinque a Tallulah e due a Erwin, nel confinante Mississippi) vennero linciati; l'importanza economica si riferisce soprattutto al grande successo commerciale della famiglia Vaccaro D'Antoni che divenne quasi monopolista dell'importazione di frutta dal Centroamerica, fondando la «Standard Fruit», allestendo una flotta mercantile moderna e addirittura fondando una piccola città in Honduras, chiamata appunto Cefalù. La Standard Fruit subì poi la concorrenza vincente della «United Fruits», passata alla storia per l'appoggio ai dittatori delle «repubbliche delle banane», e per il marchio «Chiquita». Cefalutani sono anche Angelo Brocato (che introdusse il gelato di frutta a New Orleans) e Vincenzo Muffoletto, inventore del panino che porta il suo nome (salsiccia, peperone, pomodoro, provolone pressati in una focaccia) e che forniva un pasto completo agli operai, da consumare durante il viaggio verso il lavoro invece che nelle mense. A New Orleans venne fondata nel 1887 una Società Italiana di Mutua Beneficenza Cefalutana, che nel 1908 contribuì alla costruzione di una Italian Hall, grande edificio usato per manifestazioni pubbliche. Durante la prima guerra mondiale la Società raccolse denaro per «la difesa della città di Cefalù», compreso l'acquisto di un cannone. Nell'anno seguente all'eccidio di Tallulah, gli emigranti da Cefalù verso la Louisiana furono addirittura 620.

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Il rapporto sulla Sicilia di Booker Taliaferro Washington


Una domanda frequente dei discendenti di emigrati italiani che ho intervistato, riguardava le condizioni di vita della Sicilia a quei tempi. I miei interlocutori non riuscivano a capacitarsi che qualcuno potesse emigrare verso l'inferno delle piantagioni americane. Ed in effetti non c'è molta materia, in Italia, a questo proposito. Paradossalmente, uno degli studi più approfonditi sulla miseria siciliana è stato scritto da un ex schiavo americano.

Booker Taliaferro Washington era nato, figlio di una schiava e di un uomo bianco, nel 1856 in Virginia. Venne affrancato dalla schiavitù dalla legge di Lincoln ed ebbe la possibilità di studiare. Divenne prima studente e poi professore e infine rettore della prima università per afroamericani, la Tuskegee University, in Alabama. Booker T. Washington divenne un famoso educatore, scrittore ed oratore per la causa dell'istruzione dei neri e della riforma agraria nel sud. Nel 1909 intraprese un viaggio in Europa per documentarsi, far conoscere le condizioni di lavoro nel vecchio continente e individuare le soluzioni adottate per l'emancipazione di contadini ed operai. Il suo fu, sotto molti versi, il contraltare del viaggio di Alexis de Tocqueville in America. Come Tocqueville, un nobile francese, voleva far conoscere che cos'era e come funzionava la nuova democrazia americana; così un ex schiavo cercava idee di progresso sociale in un continente che da molto tempo aveva abolito la schiavitù. Booker T. Washington, a proposito della Sicilia (isola cui teneva molto, essendo la culla del pensiero greco), scrisse:


Il Negro non è l'essere umano al più basso gradino. La condizione del contadino di colore nelle parti più arretrate degli Stati Uniti d'America, anche là dove riceve la minima istruzione e ha i minori incoraggiamenti a migliorare, è incomparabilmente la migliore delle condizioni e delle opportunità offerte alla popolazione agricola della Sicilia.

Gli balzò subito all'occhio la forza generatrice di ricchezza della campagna siciliana e l'iniquo sistema di divisione dei raccolti, di cui compilò una precisa tabella, con tutte le voci a vantaggio del padrone e le pochissime a vantaggio del contadino; fu colpito dalla superbia dei palazzi dei proprietari terrieri assenteisti, come in Irlanda, fu «annichilito» dal vedere le condizioni in cui i bambini lavoravano nelle miniere di zolfo di Campofiorito e si informò dettagliatamente sul ricatto che portava le famiglie a far lavorare bambini di otto anni per dodici ore al giorno. Booker T. Washington vide quello che non videro i nostri scrittori, i nostri giornalisti e i nostri politici. Scrisse di non aver mai visto un luogo così pervaso dalla fatica fisica di masse di poveri (e soprattutto di bambini). E si diede quindi una spiegazione della massiccia emigrazione siciliana: qualsiasi inferno sarebbe stato meglio di quello in cui vivevano.

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