Copertina
Autore Alain De Botton
Titolo L'arte di viaggiare
EdizioneGuanda, Parma, 2002, Biblioteca della Fenice , pag. 256, dim. 140x220x22 mm , Isbn 978-88-8246-423-3
OriginaleThe Art of Travel [2002]
TraduttoreAnna Rusconi
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe viaggi , arte , storia sociale
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Indice

PARTENZA                              5

    I. SULL'ASPETTATIVA               7
   II. SUI LUOGHI DI TRANSITO E
       I MEZZI DI TRASPORTO          31

MOTIVAZIONI                          65

  III. SUL SENSO DELL'ESOTICO        67
   IV. SULLA CURIOSITÀ              101

PAESAGGIO                           127

    V. SULLA CITTÀ E LA CAMPAGNA    129
   VI. SUL SUBLIME                  155

ARTE                                177

  VII. SULL'ARTE CHE APRE GLI OCCHI 179
 VIII. SUL POSSEDERE LA BELLEZZA    211

RITORNO                             235

   IX. SULL'ABITUDINE               237
 

 

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Pagina 58

Hopper era affascinato anche dai treni. Ad attirarlo era l'atmosfera delle carrozze semivuote che si fanno strada nel paesaggio: il silenzio che regna al loro interno mentre fuori le ruote sferragliano ritmicamente sui binari e lo stato di trasognamento indotto dal rumore e dal panorama esterno, un trasognamento che pare quasi strapparci a noi stessi e indicarci la via d'accesso a pensieri e ricordi che non riuscirebbero a emergere in circostanze più ordinarie. La donna di Scompartimento C, Vettura 293 (1938), che legge e fa vagare lo sguardo tra carrozza e paesaggio, sembra trovarsi proprio in questo stato mentale.

I viaggi sono le levatrici del pensiero. Pochi luoghi risultano più favorevoli di un aereo, una nave o un treno in movimento al conversare interiore. Tra ciò che abbiamo davanti agli occhi e i pensieri che coltiviamo nella mente esiste una correlazione singolare: spesso i grandi pensieri hanno bisogno di grandi panorami, quelli nuovi di nuove geografie, e le riflessioni introspettive che rischiano di impantanarsi traggono vantaggio dal fluire del paesaggio. Proprio quando da lei non ci aspettiamo altro, la nostra mente può rivelarsi alquanto riluttante a pensare in maniera efficace - compito paralizzante come raccontare una barzelletta o imitare un accento su richiesta. Pensare riesce meglio quando parti della mente hanno obiettivi diversi, come ascoltare della musica o seguire un filare di alberi. Per un po' la musica o la vista distraggono infatti la parte più nervosa, censoria e concreta della mente, quella incline ad arrendersi alle prime difficoltà che emergono dalla coscienza e a darsela a gambe davanti ai ricordi, ai desideri, alle idee originali o introspettive; la parte che preferisce insomma dedicarsi a compiti impersonali e di routine.

Tra tutti i mezzi di trasporto, il treno costituisce forse l'ausilio migliore per il pensiero: i suoi panorami non hanno nulla della potenziale monotonia di quelli tipici della nave o dell'aereo, si muovono con la rapidità sufficiente a scongiurare la nostra esasperazione e con la lentezza necessaria per consentirci di distinguere gli oggetti. Ci offrono spaccati brevi ma stimolanti di regni privati, mostrandoci una donna nell'atto di prendere una tazza da un ripiano della cucina e subito dopo un patio con un uomo addormentato, e poi ancora un giardino dove un bimbo afferra la palla lanciatagli da una figura invisibile.

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Pagina 111

Un concetto peraltro già espresso da Nietzsche. Nell'autunno del 1873, il filosofo tedesco compose un saggio in cui distingueva la raccolta di dati a fini esplorativi o di studio dall'utilizzo di fatti già noti per obiettivi di arricchimento interiore e psicologico. Cosa strana per un professore universitario, egli denigrava il primo tipo di attività per elogiare invece il secondo. Il saggio si intitolava Sull'utilità e il danno della storia per la vita e si apriva con la straordinaria affermazione che raccogliere fatti in maniera pseudoscientifica significava perseguire un obiettivo sterile. La vera sfida era semmai usare i fatti per migliorare «la vita». A questo proposito Nietzsche citava una frase di Goethe: «Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività».

Ma in cosa consisteva la ricerca di una conoscenza utile alla «vita» in relazione a un viaggio? Nietzsche offriva qualche suggerimento in merito. Faceva l'esempio di un individuo depresso per lo stato della cultura tedesca che decideva di recarsi in una città italiana, Siena o Firenze, per migliorare il proprio umore; e lì scopriva che il fenomeno ampiamente conosciuto come «il Rinascimento italiano» era opera solo di un pugno di italiani che, con un po' di fortuna, perseveranza e sostegno da parte dei mecenati giusti, erano riusciti a cambiare il sentire e i valori di un'intera società. Il turista in questione avrebbe così imparato a cercare nelle culture straniere «ciò che una volta poté estendere oltre e adempiere in modo più bello l'idea 'uomo'». «E tuttavia sempre di nuovo si destano alcuni che, guardando alla grandezza passata e rafforzati dalla contemplazione di essa, si sentono pieni di felicità, come se la vita umana fosse una cosa magnifica.»

Nietzsche suggeriva poi un altro tipo di turismo, dove è possibile apprendere in che modo il passato ha forgiato le nostre società e identità e l'uomo «guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe e della città». Turisti siffatti possono allora guardare antichi edifici e provare «la felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza».

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Pagina 124

Viaggiando corriamo il rischio di vedere le cose giuste al momento sbagliato, prima cioè di aver avuto modo di elaborare la necessaria ricettività nei loro confronti e quando ogni informazione risulta ancora inutile e sconnessa come la perla di una collana senza filo.

Il rischio è aumentato dai fattori geografici, dal modo in cui, per esempio, le città accostano nello spazio edifici o monumenti lontanissimi in termini di valenza e significato. Visitando un luogo che forse non rivedremo mai ci sentiamo in dovere di ammirare una quantità di cose assolutamente indipendenti tra loro se non per la comune ubicazione, e la cui reale comprensione richiederebbe qualità difficilmente riscontrabili in un unico individuo: in una via ci viene chiesto di provare curiosità per l'architettura gotica, in quella immediatamente successiva per l'archeologia etrusca.

A Madrid il turista dovrebbe dunque palpitare per il Palacio Real, residenza settecentesca nota per le sue sale decorate con ricche cineserie rococò dal progettista napoletano Gasparini, e un attimo dopo per il Centro de Arte Reina Sofia, galleria dalle lineari pareti bianche dedicata all'arte del Novecento il cui fiore all'occhiello è Guernica di Picasso. Mossa assai più naturale per colui che stesse assaporando il fascino dell'architettura reale settecentesca sarebbe invece saltare a piè pari la galleria e partire alla volta di Praga e San Pietroburgo.

Il viaggio distorce insomma la nostra curiosità in base a una logica geografica così superficiale da essere paragonabile a quella di un corso universitario in cui i testi venissero scelti in base alle dimensioni anziché all'argomento.


10

Verso la fine della sua vita, le esplorazioni in Sudamerica essendo ormai un ricordo lontano, Humboldt si lamentava in preda a un misto di autocompatimento e di orgoglio: «Sovente dicono che nutro curiosità per troppe cose contemporaneamente: botanica, astronomia, anatomia comparata. Ma si può forse impedire a un uomo di provare il desiderio di conoscere e di abbracciare tutto quanto lo circonda?»

Certo che no - forse una pacca sulla spalla sarebbe cosa più appropriata. Ma il fatto che oggi ammiriamo le sue imprese non ci impedisce di provare una certa simpatia per chi, trovandosi in qualche affascinante città, sia occasionalmente caduto in preda a un'irresistibile voglia di starsene a letto e di salire sul primo aereo diretto a casa.

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Pagina 164

Alba, Sinai meridionale: che emozione è mai questa? A suscitarla sono una valle antica quattrocento milioni di anni, una montagna di granito alta duemilatrecento metri e il segno lasciato dall'erosione dei millenni sulle pareti di una successione di ripidi canyon. Davanti a tutto ciò l'uomo non è che futura polvere: il sublime come incontro - piacevole e addirittura esaltante - con la nostra debolezza, dinanzi alla forza, all'età e alla vastità dell'universo.

Nello zaino ho una torcia elettrica, un cappellino ed Edmund Burke. A ventiquattro anni, dopo aver abbandonato gli studi di giurisprudenza a Londra, Burke scrisse Inchiesta sul bello e il sublime e dichiarò, in maniera assolutamente categorica, che il sublime è sempre legato a una sensazione di debolezza. I paesaggi belli erano moltissimi: i campi a primavera, le morbide vallate, le querce, le macchie di fiori sulle rive dei ruscelli (di margherite, soprattutto). Ma ciò non significava che fossero sublimi. «Se le qualità del sublime e del bello si trovano talvolta unite, ciò prova forse che siano la stessa cosa?... il bello e il sublime sono davvero idee di natura diversa... ma gli uomini sono abituati a parlare della bellezza in un modo figurato, cioè... estremamente incerto e indetenninato» lamentava il giovane filosofo, e tradiva così un filo di irritazione verso coloro che, ammirando il Tamigi da Kew, erano capaci di sospirare e chiamarlo sublime. Un paesaggio poteva invece evocare il senso del sublime solo se evocava quello di potenza, di una potenza superiore alla forza degli uomini e in grado perciò di minacciarli. I luoghi sublimi incarnavano una sfida alla nostra volontà, e Burke illustrava la sua tesi ricorrendo a un'analogia tra i buoi e i tori: «Un bue è un essere di grande forza, ma è una creatura innocente, estremamente servizievole, e per nulla pericolosa; per questa ragione l'idea di un bue non è affatto sublime. Un toro è pure forte; ma la sua forza è di altro genere; sovente capace di distruggere... perciò l'idea di un toro è grandiosa, ed esso si trova sovente posto in descrizioni sublimi e in nobili paragoni».

Esistevano dunque paesaggi simili ai buoi: innocenti e «per nulla pericolosi», malleabili dalla volontà umana. In uno di questi Burke aveva trascorso la sua giovinezza, per la precisione in un collegio quacchero nel villaggio di Ballitore, nella contea di Kildare, una cinquantina di chilometri a sud-ovest di Dublino, tra fattorie, orti, siepi, fiumi e giardini. Ma esistevano anche paesaggi simili ai tori, di cui Burke enumerava le caratteristiche salienti: la vastità, il vuoto, spesso l'oscurità e l'apparente infinitezza dovuta all'uniformità e successione degli elementi costitutivi. A questa seconda categoria apparteneva il Sinai.

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Pagina 214

Al cospetto della bellezza veniamo innanzitutto colti dall'impulso di afferrarla e possederla per darle maggiore spazio nella nostra vita. È come se volessimo disperatamente dire: «Sono stato qui, ho visto tutto questo ed è stata un'esperienza fondamentale per me».

Ma la bellezza è sfuggente, e spesso la incontriamo in luoghi dove non torneremo mai, oppure è frutto di rare combinazioni di stagione, luce e meteorologia. Come arrivare a possederla, dunque? Come aggrapparsi al treno in fuga, ai mattoni di halwa, al manto verde di una vallata inglese?

La macchina fotografica potrebbe essere una soluzione. Scattare fotografie può placare la sete di possesso accesa in noi dalla bellezza di un luogo, e così a ogni clic dell'otturatore sentiamo scemare l'ansia di perdere per sempre una scena preziosa. Un'altra possibilità è scolpirci fisicamente in un luogo di bellezza, nella speranza di renderlo più presente in noi rendendoci in realtà più presenti noi in esso. Ad Alessandria d'Egitto potremmo per esempio incidere il nostro nome nel granito della Colonna di Pompeo, così come fece Thompson di Sunderland, amico di Flaubert («Impossibile guardare la Colonna senza vedere anche il nome di Thompson e, per conseguenza, senza pensare a Thompson. Questo cretino è diventato parte integrante del monumento, e con esso si perpetua... Tutti gli imbecilli sono in varia misura dei Thompson di Sunderland»). Un'iniziativa più modesta potrebbe invece esser quella di acquistare un oggetto - una ciotola, una scatoletta laccata, un paio di sandali (al Cairo Flaubert comprò tre tappeti) - in grado di ricordarci quanto abbiamo perduto, come una ciocca di capelli recisa dalla criniera dell'amante in partenza.

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Pagina 215

John Ruskin nacque a Londra nel febbraio del 1819, e una parte cruciale del suo lavoro ruotò proprio intorno alla questione del possesso della bellezza dei luoghi.

Fin da piccolissimo mostrò un'insolita sensibilità verso i tratti più minuti del mondo delle immagini, e infatti a tre o quattro anni «ero capace di trascorrere le giornate percorrendo i riquadri e confrontando i colori del mio tappeto - studiando i nodi del legno del pavimento, o contando i mattoni delle case dirimpetto in preda ad attacchi di estatico piacere». I genitori incoraggiarono la sua sensibilità innata e la madre lo avvicinò alla natura, mentre il padre, un ricco importatore di sherry, gli leggeva i classici ogni giorno dopo il tè e lo portava al museo tutti i sabati. In occasione delle vacanze estive, la famiglia visitava le isole britanniche e i paesi europei, non per svago o come diversivo, ma in cerca di una bellezza che ritrovava soprattutto nei paesaggi alpini e nelle città medievali della Francia del Nord e dell'Italia, in particolare ad Amiens e a Venezia. Si spostavano con calma a bordo di un carro, senza mai percorrere più di una settantina di chilometri al giorno e fermandosi spesso ad ammirare il panorama - un modo di viaggiare che Ruskin avrebbe continuato a praticare per tutta la vita.

Partendo dunque dall'interesse per la bellezza e il tema del suo possesso, egli pervenne a cinque conclusioni fondamentali: primo, che la bellezza è il risultato di un complesso numero di fattori in grado di condizionare la mente a livello psicologico e visivo. Secondo, che gli esseri umani hanno una tendenza innata a reagire alla bellezza con il desiderio di possederla. Terzo, che esistono molte espressioni di basso livello di questo medesimo desiderio, compresa la voglia di acquistare souvenir e tappeti, di incidere il proprio nome su antiche colonne romane e di scattare interi rullini di foto. Quarto, che esiste un solo modo giusto di possedere la bellezza, e cioè capirla per mezzo della consapevolezza dei fattori (psicologici e visivi) che concorrono a crearla. E, quinto e ultimo punto, che il modo più efficace per giungere a una comprensione cosciente della bellezza passa per il tentativo - indipendente dal nostro talento - di descriverla attraverso la pittura e la scrittura.

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Pagina 239

Dal 1799 al 1804 Alexander von Humboldt esplorò il continente sudamericano, e in seguito intitolò la cronaca delle sue imprese Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente.

Nove anni prima, nella primavera del 1790, un ventisettenne francese di nome Xavier de Maistre aveva intrapreso un viaggio esplorativo nella propria stanza, per intitolare poi la cronaca della sua impresa Viaggio intorno alla mia camera. Uscito soddisfatto dall'esperienza, nel 1798 l'autore aveva quindi deciso di intraprendere un secondo viaggio, stavolta di notte, spingendosi fino al davanzale della finestra e intitolando il resoconto delle sue avventure Spedizione notturna intorno alla mia camera.

Ecco qui due diversi approcci al viaggio: Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente e Viaggio intorno alla mia camera. Per il primo erano serviti dieci muli, trenta colli di bagaglio, quattro interpreti, un cronometro, un sestante, due telescopi, un teodolite Borda, un barometro, una bussola, un igrometro, alcune lettere di presentazione del re di Spagna e un fucile. Per il secondo, un pigiama di cotone rosa e azzurro.

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Pagina 242

Ciononostante, l'opera di De Maistre nasce da un'intuizione profonda e suggestiva: che il piacere del viaggio dipenda forse più dall'atteggiamento mentale con cui partiamo che non dalla destinazione scelta. Se solo riuscissimo a vivere il nostro ambiente quotidiano con lo spirito del viaggiatore, dunque, potremmo scoprire che esso non è affatto meno interessante degli alti passi montani e delle giungle popolate di farfalle del Sudamerica di Humboldt.

Ma in cosa consiste lo spirito del viaggiatore? Potremmo dire che il suo tratto principale è la ricettività. Viaggiando ci avviciniamo a luoghi sconosciuti con umiltà, senza idee preconcette su cosa è interessante e cosa non lo è. Spesso irritiamo la popolazione locale piazzandoci su uno spartitraffico o in mezzo a un vicolo già angusto per ammirare quelli che sembrano particolari strani e di poco conto, e per colpa del tetto di un certo edificio governativo o di un'iscrizione su un muro rischiamo di farci investire dalle auto di passaggio. Lontano da casa persino un supermercato o un negozio di parrucchiere acquistano un fascino insospettabile. Contempliamo a lungo la grafica di un menu o la mise dell'annunciatrice televisiva, ci risvegliamo al senso della storia, prendiamo appunti e scattiamo fotografie.

A casa, invece, le nostre aspettative si atrofizzano. Siamo certi di aver già scoperto tutto quello che c'era da scoprire di un certo quartiere: è inconcepibile che un posto dove abbiamo vissuto per più di dieci anni possa offrirci alcunché di nuovo, no? In poche parole, l'abitudine ci ha resi ciechi.

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