Autore Mathijs Deen
Titolo Per antiche strade
SottotitoloUn viaggio nella storia d'Europa
EdizioneIperborea, Milano, 2020, n. 321 , pag. 462, cop.fle., dim. 10x20x3,3 cm , Isbn 978-88-7091-621-8
OriginaleOver oude wegen
EdizioneThomas Rap, Amsterdam, 2018
TraduttoreElisabetta Svaluto Moreolo
LettoreGiorgio Crepe, 2020
Classe narrativa olandese , viaggi , storia sociale , storia: Europa












 

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Indice


La fantasia
Boekelo - Leersum (1968)                             11

L'ideale
Ginevra, ufficio centrale (2015)                     17

Il precursore
Il primo europeo
Dmanisi - Atapuerca - Happisburgh (800.000 a.C.)     33

Il profugo
Il calderone di Obelix
Elba - Danubio (101 a.C.)                            70

Il brigante
Bulla Felix
Bisanzio-Roma (207 d.C.)                            123

Il pellegrino
La pace dell'anima di Guðríður Þorbjarnardóttir
Laugarbrekka - Roma (1025)                          155

Il cercatore di fortuna
I camuffamenti di Ester
Portogallo - Amsterdam - Stoccolma (1653)           223

Il conquistatore
Il coscritto Coenraad Nell
Wassenaar - Smolensk (1812                          300

Il corridore
L'ultimo traguardo di Charles Jarrott
Parigi - Vienna (1902)                              371

Il figliol prodigo
Mohamed Sayem ritorna in Africa
Leida - Aounout (2016)                              417

La realtà
Boekelo - Leersum (2017)                            441


Ringraziamenti                                      449


 

 

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Pagina 17

L'ideale


Ginevra, ufficio centrale (2015)


                        E8 London - Colchester - Harwich (ferry to Hook of
                        Holland and to Antwerp, boat to Esbjerg) Hook of Holland
                        - The Hague - Gouda - Utrecht - Amersfoort - Oldenzaal -
                        Osnasbrück - Oeynhausen - Hanover - Magdeburg - Berlin -
                        Poznan - Krośniewice -Łowicz - Warsaw - (URSS).

                        Dalla "Declaration on the Construction of Main
                        International Traffic Arteries", ONU, Ginevra 1950



Che esista una rete interconnessa di strade europee regolata a livello centrale, strade che attraversano per migliaia di chilometri l'intero continente europeo fino al cuore dell'Asia, collegando tra loro i territori di clan confinanti, partner commerciali, amici temporanei, nemici giurati e famiglie linguistiche, non appartiene a una coscienza europea condivisa. Solo pochi eccentrici sanno a chi si debba l'esistenza di questa rete. Chi è colto da un desiderio di mezza età di percorrere in solitudine una considerevole distanza preferisce di gran lunga guardare all'America e fare la Route 66 o la Pan American Highway da un capo all'altro. Un eventuale proposito di domare la E30 a scopo purificatorio o per migliorarsi non è destinato a incontrare grande consenso. Le strade europee non sono protagoniste di una narrazione nazionale come quelle degli Stati Uniti. Non esiste un Furore europeo, un'idea europea della costruzione della nazione lungo le strade che hanno dischiuso il continente, o un'idea della conquista del paesaggio lungo la spina dorsale di vie di transito.

Le ragioni non mancano. Le strade d'Europa esistono da migliaia di anni, sono state battute da migrazioni, commerci e conquiste. Non appartengono a nessuno in particolare. Conducono attraverso un continente frammentato, tradizionalmente abitato da clan che spesso si odiano a morte. Le vie di transito attraversano il podere dei vicini ed è tutto da vedere che quelli siano ben disposti nei tuoi confronti. I visionari che più o meno a ragione hanno voluto legare il loro nome a strade che sconfinavano in territori altrui (i romani, Napoleone, Hitler) l'hanno fatto per sottomettere quei territori, dislocare e rifornire le loro truppe. Dove arrivavano le strade, seguivano gli eserciti. Raramente le vie di transito portavano qualcosa di buono.

Gli uomini non hanno fatto in tempo a insediarsi in Europa che hanno cominciato a massacrarsi a vicenda. I siti archeologici riservano a studiosi pacifisti l'immancabile, amara scoperta di reperti che testimoniano come l'essere umano e i suoi parenti più prossimi abbiano sempre fatto fatica a tenere le mani a posto, come teschi sfondati e ossa rosicchiate. «La guerra è sempre esistita», titolano allora i giornali, o «Anche l'uomo cacciatore-raccoglitore andava in guerra». Queste scoperte fanno piazza pulita dell'idea che la guerra sia stata inventata da uomini che si erano insediati stabilmente in terre di cui si erano impadroniti, e che avevano quindi un posto da perdere. «È interessante notare l'entità della violenza», può capitare che osservi un giornalista citando l'archeologo di turno e alludendo a ossa intenzionalmente rotte o frantumate rinvenute in un sito.

Dal momento in cui gli uomini vi si sono stabiliti, l'Europa è diventata un continente litigioso, in cui neanche per i cacciatori nomadi era facile evitarsi a lungo. L'Europa è una penisola percorsa da sentieri a fondo cieco, che finiscono in mari, fiumi, o a ridosso di catene montuose. Clan isolati o tagliati fuori dai cambiamenti climatici si aggiravano come lenti cicloni nei loro territori di caccia. Sui bassipiani settentrionali il mondo si apriva a est a perdita d'occhio, non fosse che anche lì i fiumi che scorrevano verso nord ostacolavano il passaggio.

Quando gli europei incontravano i loro simili erano botte ben assestate. Fosse comuni piene di uomini dell'età della pietra spediti con ferocia al creatore, tribù germaniche sterminate da Cesare, o figli di contadini strappati da Napoleone alla loro vita di villaggio e sospinti su strade innevate - tutto questo non sorprende nessuno. È perciò quasi commovente pensare che si possano ridurre i conflitti in Europa, o addirittura bandirli, favorendo l'accesso ai diversi territori nazionali grazie a strade facilmente percorribili.




Eppure fu proprio questo lo scenario che nel 1947, ovvero poco dopo la più grande carneficina che avesse mai avuto luogo in territorio europeo, indusse i rappresentanti dei diversi clan del vecchio continente a riunirsi per riflettere su una rete di strade che avrebbe dovuto collegare tra loro i territori di ex nemici. I progetti furono messi a punto nel Palazzo delle Nazioni di Ginevra, la sede europea delle neonate Nazioni Unite. A un tiro di lancia dalla città dove nel 58 a.C. Cesare si imbatté in un ponte sul Reno che gli allora abitanti del luogo, gli allobrogi, difendevano con le unghie e con i denti da qualunque tribù vicina ne volesse fare uso.


Tra il 1947 e il 1950, sempre a Ginevra, su diversi tavoli della Commissione economica per l'Europa, sarebbero state srotolate grandi carte geografiche. I delegati - diplomatici, ingegneri, funzionari governativi - che chini sul tavolo studiavano le coste, i fiumi, le catene montuose e i confini a loro familiari partivano dall'idea che ci fosse un solo modo per passare da una catastrofe a un futuro di prosperità: che i Paesi fossero collegati tra loro. Cercarono quindi di individuare, nel groviglio di strade che percorrevano l'Europa, un modello più ampio, un network di collegamenti tra i quattro punti cardinali, come una rete che, in un unico lancio, potesse catturare l'intero continente.

Da qualche parte bisogna cominciare, ma in queste cose non esiste l'arbitrio. Già il primo dei percorsi proposti comprendeva un tratto di mare (Southampton - Le Havre) ma, pur volendo essere imparziali, era difficile immaginare che la prima strada europea del futuro, la E1, non passasse per le capitali alleate di Londra e Parigi. Considerando la storia del continente, poi, la commissione non si fermò a questo ma ne prolungò il percorso fino al punto di partenza e di arrivo storici di tutte le strade europee: Roma. E alla luce dell'ideale onnicomprensivo che univa gli artefici di quel progetto, la strada proseguiva addirittura fino al confine naturale del continente: il Mar Mediterraneo. La scelta del punto d'arrivo cadde su Palermo, forse perché i siciliani avevano affiancato gli Alleati nella loro avanzata in Italia. L'opzione più ovvia di Brindisi, da duemila anni tappa finale della via Appia, divenne il punto d'arrivo della E2, che iniziava anch'essa a Londra ma passava da Reims e Milano.

I primi tracciati si profilavano sulla carta secondo un disegno logico e visionario. Seguivano quasi tutti le antiche vie romane. Sul suolo europeo ogni passo ne ricalca uno precedente. Sotto ogni strada c'è un sentiero, una traccia percorsa nel tempo da migranti, mercanti e conquistatori.

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Il precursore


IL PRIMO EUROPEO

Dmanisi Atapuerca Happisburgh (800.000 a.C.)


                     Fin dove giungeva l'occhio, una distesa d'erba
                     Fiaccata dal vento, sotto un tetto di cielo senza nubi.
                     Un'aquila in volo librato lontano, un punto nell'aria alta.
                     Nient'altro.
                                                       H. Hesketh-Prichard, 1902



Qualsiasi cosa possiamo immaginare è già accaduta una volta.

Molto prima che i primi viaggiatori calcassero il suolo dell'Europa, il mare aveva già deposto naufraghi sulle sue spiagge: cacciatori che abitavano sulla costa settentrionale dell'Africa quando l'uomo non aveva ancora messo piede nel nostro continente. Sarà sicuramente successo che un homo erectus sia scivolato in mare da una roccia, o che dopo un magro inverno si sia avventurato nello Stretto di Gibilterra con l'intento di raggiungere la sponda opposta, spingendo un tronco d'albero. La corrente avrà portato quel pescatore scivolato in acqua o quel cacciatore a cavalcioni di un tronco dolcemente ma irrimediabilmente lontano dalla terraferma verso il mare aperto. L'acqua fredda lo ha avvolto, gli ha risucchiato la vita dalle gambe e dalle braccia, poi dai polmoni, dal cervello, dal cuore. E dove prima c'erano paura e terrore è dilagato l'abbandono della preda che non si oppone più alla fine. Il gelo lo ha sopraffatto come una visione, un ricordo chiaro del caldo, della luce, che a poco a poco svaniva in una morte indolore.

La corrente ha trascinato i loro corpi come alghe fluttuanti verso l'oceano e lungo la piovigginosa costa occidentale d'Europa verso nord, per poi deporli sui ciottoli di una baia o alla foce sabbiosa di un fiume. Corvi e gabbiani si sono posati su di loro e si sono rialzati in volo. Per giorni la pioggia fine ha lavato via la pelle putrefatta dalle ossa.

Nessun essere umano li trova. L'Europa è solo degli animali.

Anche se incidenti simili fossero accaduti solo poche volte in migliaia di anni, tutti gli infelici portati dal mare sulle coste di quell'Europa deserta avrebbero riempito un ossario di resti di migliaia di annegati: crani che, se allineati nell'ordine giusto, sarebbero apparsi via via un po' più simili al nostro, ma mai del tutto.


Il primo gruppo di viaggiatori destinati a raggiungere vivi la costa non venne dal mare, ma via terra. Arrivarono a piedi, da est, lungo il litorale. Non avevano fretta. Non avevano una meta.

Passarono vivi e vegeti dove un tempo le onde deponevano gli annegati. In serene giornate di primavera, per esempio, con il sole sulla schiena e il mondo che si apriva verso nord. Il loro sguardo si volgeva a turno al limitare del bosco nell'interno, alle piccole pozze tra gli scogli ai loro piedi o all'orizzonte davanti a loro: la linea di costa deserta che si protendeva all'infinito. Il vento di mare faceva increspare la pelle e drizzare i peli sulla schiena. Se spirava da terra, dai boschi di conifere si levavano nuvole di polline. Ne sentivano il sapore sulle labbra, respiravano il profumo di resina, l'odore di sterco e di pelli stese ad asciugare. Al loro avvicinarsi uno stormo di piovanelli si alzava in volo per poi posarsi di nuovo alle loro spalle, la risacca cancellava le impronte sulla sabbia.

Erano i primi, ma poiché non lo sapevano, erano sul chi vive. Così si diressero verso nord.

[...]


D'accordo, alcuni uomini erano arrivati in Europa, e d'accordo, avevano raggiunto il Nord molto prima di quanto si pensasse. Ma allora c'erano interi periodi di clima temperato. Se il clima fosse cambiato all'improvviso, per loro sarebbe stata la fine.

Quest'ultima ipotesi si dissolse come una bolla di sapone quando Ashton e Bates scoprirono sulla spiaggia di Happisburgh impronte di un gruppo di uomini che avevano bivaccato su quel litorale 100.000 anni prima. Perché a quell'epoca faceva freddo in Inghilterra, le temperature erano paragonabili a quelle odierne della Scandinavia meridionale. Le rive del Tamigi erano ricoperte di terreni erbosi dove d'estate pascolavano mandrie di cavalli, cervi e bovini, ma dove gli inverni rigidi facevano strage di animali. Un po' più in alto il prato cedeva il posto alla brughiera con qualche raro ontano o betulla. E oltre la brughiera si ergevano cupi boschi di pini immersi nell'oscurità e in un silenzio sepolcrale, dove solo di tanto in tanto si aggiravano alci a rosicchiare i tronchi. In estate il suolo si ricopriva di bacche, la stagione fertile era breve.

E in questo mondo ostile si scopriva adesso la presenza di passi spensierati, alcuni dei quali simili a quelli trotterellanti di bambini molto piccoli. Non si trattava quindi di cacciatori di passaggio, che arrivavano in primavera e alle prime piogge d'autunno ripartivano per svernare oltre mille chilometri più a sud. Era gente che viveva qui, qui aveva avuto figli e si procurava il cibo insieme al resto della famiglia.


Quelle che seguirono la scoperta furono giornate di vento e pioggia. Ashton, Bates e i colleghi da loro mobilitati per l'occasione le trascorsero tremando di freddo avvolti in poncho e pantaloni impermeabili, chini sulla spiaggia con nastro metrico, macchine fotografiche, pennelli e lenti appannate, a censire e immortalare le impronte prima che scomparissero di nuovo. Il saliscendi della marea cominciava a eroderne i contorni. Nel giro di pochi giorni, delle impronte umane più antiche rinvenute fuori dall'Africa sarebbero rimasti solo i dati salvati su un computer e il ricordo della pioggia, del disagio e del freddo.

Le datazioni confermarono l'età delle impronte e, dalla loro profondità e reciproca distanza, i ricercatori conclusero che fossero appartenute a due bambini e tre adulti. Con un'altezza di un metro e settantatré e una misura di piede tra il 37 e il 43, gli adulti erano appena più piccoli di noi.

Per l'ennesima volta nel giro di poco tempo tutte le conoscenze acquisite fino ad allora potevano essere gettate a mare e l'archeologia doveva dire addio a una certa idea del passato. E questo grazie alla scoperta casuale delle impronte di un gruppo di uomini alla ricerca di molluschi e granchi nel delta del Tamigi, in grado di sopravvivere, contro ogni teoria, senza la protezione di vestiti e del fuoco, nel freddo e nella pioggia.




La risposta alla domanda su chi fossero gli uomini preistorici giunti in Europa va cercata ancora più indietro nel tempo e, soprattutto, altrove. Si tratta sempre di storie di viaggio.

Tutti gli europei, se andiamo abbastanza a ritroso nel tempo, sono arrivati da altri luoghi. Non solo quelli che hanno lasciato le loro impronte sulla spiaggia di Happisburgh, ma anche gli heidelbergensis, i neandertaliani e gli uomini moderni. Sono approdati in Europa perché i loro predecessori si erano messi in viaggio.

L'intera storia, in teoria, va ricondotta a due esodi dall'Africa. Quello più «recente» dell'uomo moderno risale a circa centocinquantamila anni fa. Ma il primo, cui hanno preso parte gli antenati degli uomini di Happisburgh, è avvenuto più di dieci volte prima, cioè quasi due milioni di anni fa.

La testimonianza più antica di una presenza umana al di fuori dell'Africa si trova in sedimentazioni lacustri nei pressi della località di Dmanisi, vicino al confine armeno. Lì giacciono resti di uomini che vi si erano stanziati all'incirca 1.800.000 anni fa. Avevano un cranio di piccole dimensioni. La sua capacità di 600 centimetri cubi non era neanche la metà di quella del successivo heidelbergensis e poco più di un terzo di quella del futuro uomo di Neanderthal. Ciononostante era riuscito a trovare il modo di lasciare l'Africa.

C'è chi sostiene che gli uomini di Dmanisi siano arrivati correndo, perché quella era la loro tecnica di caccia: rincorrere un animale ferito nel momento più caldo della giornata fino a sfiancarlo. Erano discendenti di ominidi glabri e tenaci che un tempo avevano imparato a correre veloci nella savana. All'inizio precedevano le iene per arrivare per primi alle carcasse, ma poi cominciarono a rincorrere prede ancora vive. Fu il bisogno di cibo a insegnare loro a viaggiare, le prede in fuga indicarono la via.

Chi correva più forte del suo rivale aveva più cibo. Chi correva più forte, sudava anche. Perché chi nell'ora più calda della giornata riusciva a smaltire il calore, e quindi a continuare a correre sotto il sole cocente, guadagnava terreno rispetto ai quadrupedi ansanti, che erano più agili nello scatto ma dovevano sostare spesso all'ombra delle piante per non surriscaldarsi. Correre in posizione eretta riduceva l'assorbimento dei raggi solari e la protezione dei capelli sul capo evitava i colpi di calore.

Così gli ominidi rincorrevano i quadrupedi che si lanciavano in uno sprint dopo l'altro, finché, a furia di essere inseguiti, perdevano colpi come motori in ebollizione, inciampavano e si accasciavano al sole per poi morire sotto una pioggia di pietre.

Questi primi uomini impararono con l'immaginazione a sostituire la preda visibile con la promessa che le sue tracce lasciavano sul terreno. Impararono a interpretare i segni, impararono che un'impronta poteva comunicare qualcosa, indicare le condizioni in cui si trovava l'animale. Impararono a prevedere che cosa sarebbe potuto succedere se avessero continuato a inseguirlo. Impararono a trovare la pista giusta sulla base di indicazioni astratte. L'immediatezza di ciò che vedevano o fiutavano lasciò il posto all'attesa, al desiderio famelico di ciò che si sottraeva alla loro vista.

Chi crede che le cose siano andate in questo modo è convinto che, grazie alla loro abilità di corridori, questi uomini siano sopravvissuti, abbiano trionfato e viaggiato contemporaneamente. Le strade erano tracce, il mondo un orizzonte che si allargava progressivamente e oltre il quale si nascondeva la loro preda. Correndo poggiavano i piedi per terra, ma se ne staccavano anche. Come semidei.

[...]


Le grotte sorgono nei pressi di Burgos, nella comunità autonoma di Castilla e León, sul Passo di Bureba: un passo di modesta altitudine, che branchi di animali attraversavano migrando dall'entroterra della penisola iberica verso la costa settentrionale, meno arida. Questa transumanza dovette esercitare un'enorme attrattiva sui primi ominidi. In seguito anche l' heidelbergensis si sarebbe stabilito lì, e poi l'uomo di Neanderthal e infine il sapiens. E quando la presenza di animali diminuì e l'agricoltura soppiantò la caccia, il passo continuò a essere molto frequentato. Allora non era più percorso da mandrie, ma solo da viaggiatori: romani, mercanti, pellegrini diretti a Santiago. Oggi vi confluiscono la E5 e la E80. La E80 parte dal confine armeno, attraversa la Turchia, l'Italia, risale la costa tirrenica e poi quella francese. La E5 sale lungo la litoranea francese e poi attraversa la Francia fino alla Manica, sopra la Normandia, dove, all'epoca degli uomini di Happisburgh, una lingua di terra univa il territorio transalpino all'Inghilterra. Le strade europee coincidono più o meno con le vie battute dai primi pionieri. Le grotte sono state scoperte nell'Ottocento durante la posa di una linea ferroviaria su cui sono effettivamente passati dei trenini minerari ma che è stata dismessa da tempo. Oggi dei binari non vi è più traccia. Quello che invece è visibile sulle pareti a destra e a sinistra dell'apertura scavata nella collina sono le grotte venute alla luce grazie a quei lavori.

Alcune sono abbastanza grandi da consentire a una famiglia allargata un'ampia libertà di movimento. Sono anche collegate tra loro, ma con il tempo i corridoi si sono riempiti di sabbia e massi caduti dal soffitto. Quando gli archeologi cominciarono a rimuovere uno dopo l'altro gli strati di sedimenti depositati sul pavimento, si imbatterono dapprima in resti di neandertaliani di diverse epoche, poi, a un livello più profondo, tra cervi, bisonti e martore, in quelli degli europei più antichi. Erano puzzle incompleti, e privi di un'immagine di riferimento, di costole, vertebre, incisivi e molari, di falangi, frammenti d'anca e di scapole.

Dagli studi effettuati è emerso che appartenevano a un nucleo di bambini, adolescenti e giovani adulti. Alla fine l'adolescente più vecchio avrebbe acquisito un volto, grazie al ritrovamento di una parte della sommità del suo cranio e di una mandibola con due incisivi e un molare.

La ricostruzione dell'uomo, esposta al Museo di Storia naturale di Londra nel 2013, era stata dotata dall'artista di lineamenti interscambiabili, e quindi impersonali. Ciononostante la testa, adagiata su un panno di velluto nero nella vetrina illuminata di luce soffusa, era sbalorditiva perché, pur avendo ancora una dentatura primitiva, con grandi denti arcaici, quell'adolescente ci assomigliava, soprattutto nella forma del viso.

Era un connubio di mandibola di homo erectus e tratti somatici curiosamente moderni. Una fronte diritta, non da homo erectus, quella di qualcuno con cui avresti potuto scambiare uno sguardo di intesa. Se avesse avuto un corpo intero, avresti potuto, per così dire, tendergli la mano. Il cranio rinvenuto aveva una capienza di 1000 centimetri cubi: un bicchiere di birra in meno rispetto al nostro, d'accordo, ma pur sempre superiore ai 600 centimetri cubi di quello dell' homo erectus georgiano.

I ricercatori spagnoli presentarono così le loro scoperte come i resti di una nuova specie di uomo. Lo chiamarono antecessor, dal nome dei soldati romani inviati a perlustrare territori ancora sconosciuti. Precursori, quindi, pionieri. La maggior parte delle ossa aveva 900.000 anni. Ma le più antiche risalivano a oltre un milione di anni fa. All'epoca, dunque, quegli uomini erano già lì.

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Pagina 223

Il cercatore di fortuna


I CAMUFFAMENTI DI ESTER

Portogallo - Amsterdam - Stoccolma (1653)


                        Padre Santo, guidatemi e conducetemi in questo viaggio
                        attraverso la protezione dei vostri amati Angeli,
                        affinché sia al sicuro dagli Assassini e dai Briganti,
                        dall'aria venefica e dalle malattie perniciose, dalle
                        mischie e da ogni pericolo. Donatemi, o Signore, cibo e
                        vestiti, indicatemi la retta via che io percorrerò e
                        benedite i miei propositi affinché tutto sia fatto per
                        la vostra gloria, per il bene comune e anche per il mio
                        bene terreno ed eterno. Preservate e custodite nel
                        frattempo tutto ciò che possiedo e che mi avete donato,
                        e fate che possiamo rivederci in salute e con gioia.

                                         Preghiera del viaggiatore, XVII secolo



La casa di Jacques e Amélie non è facile da raggiungere. Si trova a novecento metri di altezza, sulle propaggini orientali dei Pirenei. Non ha allacciamento all'acqua, alla luce e al telefono. Il più delle volte manca la copertura per il cellulare, la posta non arriva. E non c'è una strada che porti fin lassù.

La casa sorge su uno spuntone di roccia alcune decine di metri sopra un ruscello d'acqua trasparente che scende nella valle sottostante. Metà diroccata, l'altra metà è stata restaurata poco alla volta da Jacques e Amélie nel corso degli anni, con materiali portati su dal loro asino.

L'asino si chiama César.

Adesso la parte abitata della casa ha il tetto impermeabilizzato, i doppi vetri e una porta che ruota agilmente sui cardini. La finestra della cucina offre una vista mozzafiato sulla stretta valle fluviale che dalla catena montuosa scende verso il resto del mondo. Ci sono solo boschi e montagne a perdita d'occhio. E un mare scosceso di foglie che trascolorano al mutare delle stagioni.

Lì non arrivano altri suoni se non quello del vento che rinforza, fa scricchiolare i rami e muore, e quello delle piogge che alzano tutt'intorno muri fruscianti. Con l'arrivo della primavera si levano le strida degli uccelli, all'imbrunire risuonano i belati degli stambecchi e sotto la casa gorgoglia sempre il ruscello.

La valle che scende verso il mondo abitato fa molte curve. Il paese è a venticinque chilometri di distanza. Non ci sono lampioni né si vedono fari d'auto o la cupola luminosa di una città. Nelle notti di cielo sereno solo il riflesso delle stelle e della luna immerge la casa in una luce argentata. Nell'assoluta oscurità tra gli alberi baluginano le lucciole.

Chi vuole andare a trovare Jacques e Amélie deve salire dal paese lungo una tortuosa stradina di montagna. A un certo punto l'asfalto cede il posto a un sentiero accidentato, che alla lunga viene inghiottito dagli alberi.


C'è voluto un po' per trovare l'indicazione affissa da Amélie a uno di quegli alberi, ma una volta individuata, la mulattiera che da lì si inerpica attraverso il bosco è abbastanza chiara. La salita dura un'oretta. Non ho incontrato case lungo il percorso, solo alberi, ruscelli e pareti di roccia.

Amélie è nata a Parigi, ma siccome suo padre era un vagabondo e sua madre la trascurava, sono stati i nonni a prendersi cura di lei. Aveva cinque anni quando la nonna andò a prelevarla in città per portarla alla sua fattoria, nel cuore della Francia. Era un'azienda ormai in declino, circondata da chilometri di campagna deserta con case e poderi abbandonati.

«La France profonde», dice Amélie. «E mio nonno era un uomo pieno di rabbia, una furia sul suo trattore. Non faceva altro che imprecare e urlare. Ma mai contro di me.»

Siamo seduti in una cucina nel bosco, accanto alla casa. E una capanna fatta di tronchi scortecciati aperta su tutti i lati.

«E con chi ce l'aveva, allora?»

Amélie gonfia le guance, sbuffa e fa un gesto in direzione del tetto di frasche sopra di noi: «Con il cancello rimasto aperto, con il vento che lo sbatteva... con quelle stupide mucche... con le oche che gli soffiavano contro... con la terra riarsa... con la terra intrisa d'acqua...»

Amélie ha esaurito gli esempi e si stringe nelle spalle. «E io ero lì seduta accanto a lui, sopra le grandi ruote del trattore.»

«Non avevi paura?»

Lei scuote la testa. «Mi tenevo alle sue bretelle.»

Beviamo il tè in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri.

«E tua nonna?» le chiedo.

«Mia nonna mi ha salvato. Era una donna forte, con i piedi per terra.» le, vide tremare, vacillare e finalmente cadere il primo albero. E un'ora dopo il secondo e poi il terzo. Così, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, guardando le chiome degli alberi annegare nel mare verde del bosco, poté seguire i progressi di Jacques. Le chiome scosse da un tremito che sprofondavano, apren- do un varco su cui il bosco si richiudeva im- mediatamente, le ricordavano la prima volta in cui, nel salone, gli aveva separato i capelli con le dita, e le ciocche si aprivano docilmente per poi richiudersi subito.

[...]


Il giorno dopo César si trascina su per la mulattiera davanti a me. È vecchio e ha delle chiazze di pelle consumata sulla schiena. Adesso non deve più portare pesi, solo mangiare e dormire. Mi precede lungo il torrente, oltre i ruderi di un edificio, attraverso una via di castagni e poi fino al bosco. Ogni tanto si ferma a brucare l'erba, poi gli do una spinta e lui si rimette in moto con il suo ritmo. A mezz'ora di cammino dal rudere, il pendio si spiana e davanti a noi si apre un pascolo montano. César si mette a brucare e non c'è più verso di farlo muovere. Lo lego a un piccolo albero e proseguo da solo. C'è un grande silenzio adesso, anche gli uccelli tacciono. Jacques aveva ragione: quale sentiero debba prendere è chiaro, quello che sale. Il bosco si è diradato, restano solo macchie d'alberi finché scompaiono anche quelle. Le ultime decine di metri attraversano un'area aperta. Mi guardo intorno e mi sento molto esposto. Poi, arrivato in cima, vedo che dall'altra parte la montagna scende ripida. Mi fermo a prendere fiato e guardo verso sud, dove la Spagna si estende fino all'orizzonte come una terra promessa. È una pianura con qualche collina. Tutti paesini e, in lontananza, la vaga linea blu del mare. Resisto all'impulso di scendere verso quella distesa dove ci sono di nuovo strade, villaggi e città. Dove la vita è diversa. Non posso abbandonare César. Perciò resto a guardare al di sopra del muro che separa i due mondi.


Sono venuto qui per vedere questo, la barriera oltrepassata da tutti quelli che non volevano essere visti, che erano in cerca di fortuna o di salvezza, e per i quali le strade erano pericolose. Non solo contrabbandieri, ma anche persone che, per le loro convinzioni o per le loro origini, erano costrette ad andarsene dal posto in cui erano nate. L'immagine della valle sotto di me o, se mi volto, dei boschi che scendono verso nord, è carica di emozioni. Mi aspettavo di provare sollievo e speranza, invece sono sopraffatto da un sentimento opposto. Sento soprattutto l'addio.


Anche il protagonista di questo capitolo, il converso ebreo Jacob Barocas, sfuggì all'Inquisizione spagnola all'inizio del Seicento attraverso questo passo? Potrebbe essere, naturalmente, anche se ci sono molti altri valichi e vie di fuga, per cui le probabilità sono scarse. La casa di Jacques e Amélie, nel caso, sarebbe stata la prima in cui si sarebbe imbattuto, perché esisteva già allora. E i contadini che l'abitavano sapevano che gli uomini e le donne che dal passo scendevano lungo il torrente erano fuggiaschi. Il dialetto catalano era abbastanza comprensibile. Molti di loro parlavano francese. Erano vestiti di scuro, nel modo più elegante compatibile con la situazione.

Forse a Jacob furono offerte delle castagne, un bicchiere di latte e un pezzo di salame. Forse avrà avuto l'aria sollevata, ma la sua era una felicità effimera.

Mi chiedo che cosa l'abbia tenuto in piedi quando è stato costretto a scavalcare quel muro e a cominciare una nuova vita. Ciò che aveva in comune con i compagni fuggitivi era il segreto che aveva mantenuto sulla sua vera identità fino a quando non era stato al sicuro. Ma che cosa significava al sicuro? Indossava una maschera, come in un'opera teatrale, aveva recitato una parte, si era diviso in tante persone, una per ogni evenienza, una per il palcoscenico e una per la sua anima.




Negli anni trenta del Seicento Jacob Barocas era un ragazzo, o meglio, ancora un bambino. I suoi antenati erano ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo. In apparenza, e forse anche nel suo intimo, aveva ricevuto una solida educazione cattolica, ma era costretto a convivere con l'eterno sospetto di essere rimasto segretamente ebreo. In seguito, a domande sulla sua famiglia, avrebbe risposto che quando era fuggito i suoi genitori erano già morti, il che può significare a buon titolo che erano stati vittime dell'Inquisizione.

Judeoconversos, si chiamavano ufficialmente. Maiali, li chiamava l'Inquisizione.

Ma non si è mai una cosa sola e non ci si libera mai del tutto di ciò che si è visto da bambini. Nel cuore di Jacob covava la nostalgia, nella sua coscienza fiammeggiava l'inferno cristiano e sotto il cappotto custodiva le antologie di Lope de Vega.

Le aveva con sé la notte senza luna in cui salì in montagna seguendo piste e ruscelli, le nascondeva sotto il cappotto mentre con il fiato sospeso scivolava lungo cascinali addormentati, diretto verso il limite della vegetazione arborea, verso i pascoli dove la luce delle stelle rischiarava la neve eterna.

E quando, a metà dell'ultima tappa prima della cima, fu abbandonato dalla sua guida e cominciò a vagare tutto solo sulla montagna senza niente tra sé e le stelle, e a est il cielo cominciava a colorarsi e lui valicava il passo alla cieca, quando, in breve, stava lasciando il suo paese, il suo passato e la sua gente per scendere incontro a un futuro incerto, ebbene stringeva ancora a sé quei cinque libri. I versi di Lope de Vega, il cattolico peccatore, brillante autore di commedie, di cui si mormorava che si mostrasse tanto devoto perché nessuno venisse a sapere che nella sua famiglia c'era anche un converso.

Jacob aveva visto compagnie itineranti recitare le sue opere senza riuscire a trattenere i brividi e le lacrime. Per quanto la vita fosse incerta e piena di pericoli, e lui fosse in fuga verso il freddo Nord, era entusiasmante conoscere la lingua spagnola e vedere gli attori parlare, lottare, amare e morire. Avevano sempre qualcosa da nascondere, ogni volta venivano smascherati e ogni volta c'era chi la scampava per miracolo mentre un altro soccombeva.

Il ricordo di quelle ore di tensione, di superbia, di destino e di soddisfazione, quella era la patria di Jacob. La portava sempre con sé ed era confortante poter vivere lì, anche se tutto intorno a lui cadeva a pezzi.

[...]


«Bem-vindo», disse la sua guida, indicando con un gesto del braccio la Breestraat. Jacob si fermò un istante a guardare e ciò che vide fu un'incantevole mescolanza di immagini nuove e familiari. Le case, i mattoni, le facciate, le barche che dondolavano sull'acqua, le chiatte cariche di legname, gli alberi abbassati e le spade sulle fiancate: un esotico scenario olandese. Ma le comparse che vi si aggiravano erano varianti di figure a lui conosciute: uomini e donne in abiti spagnoli che parlavano portoghese. E anche altri vestiti meno bene, di cui non capiva la lingua. Quasi tutti palesemente e apertamente ebrei, così, per strada.




Se aveva dei parenti. E, di fronte alla sua esitazione: se aveva dei parenti ad Amsterdam, lì in città. Jacob era davanti a una scrivania, dalla quale lo fissava un parnàs, cui dichiarò, come avrebbe ripetuto in seguito, che i suoi genitori erano morti e che era successo in Portogallo. Non era l'unico, non era l'unico in niente. La sua era una delle tante varianti della stessa storia. La comunità sefardita sembrava composta da una moltitudine di lupi solitari tutti uguali, anche quelli che avevano parenti, che erano arrivati per mano a un genitore, perfino i più benestanti, che prima di partire avevano spedito i loro beni e fatto costruire case sui nuovi canali. Condividevano il ricordo di persecuzioni e violenze, di identità negate e ipocrisie, di paura. Ovunque si trovassero, Spagna e Portogallo non erano mai lontani, erano figli ripudiati, dopo poche frasi ogni discorso cadeva lì, tutto era intriso di nostalgia.

Ma che cosa fosse successo di preciso laggiù, che cosa avessero visto o subito era un argomento toccato di rado. I profughi non si tormentavano, né gravavano sul prossimo con il racconto di interrogatori, carcerazioni, esecuzioni pubbliche, roghi, fughe e freddo sulle montagne, di guide sui sentieri nel bosco, tradimenti e paure. Esperienze spaventose ossessivamente presenti nel ricordo, quella prigione solitaria. Jacob era appena arrivato e non amava essere sottoposto a domande, la cosa lo confondeva e lo impauriva.

Chi era suo padre... se era circonciso.

«No», rispose, scuotendo la testa. E no, non si era preso la briga di farsi circoncidere. Neanche a Rouen. Alla domanda «perché no?» non diede risposta.

Se desiderava farlo adesso, allora. Solo gli uomini circoncisi potevano fare parte della comunità.

Jacob vacillò e annuì, afferrandosi al bordo del tavolo. Non era il solo, si sentì dire per l'ennesima volta. Il mahamad, il consiglio direttivo della comunità, avrebbe dato il consenso. Come aveva detto che si chiamava? Chi era suo padre? E sua madre? C'era qualcuno ad Amsterdam che poteva testimoniare la sua appartenenza al popolo di Israele?

«Siamo stranieri in questa città, Barocas», si sentì dire. «Stiamo bene, siamo liberi di pregare, ma siamo stranieri. Le cose possono cambiare da un momento all'altro.»

La circoncisione non sarebbe stata piacevole, ma motivo di grande gioia, aggiunse il parnàs. Jacob non capì che volevano essere parole di conforto.

Farsi circoncidere significava rassegnarsi all'idea di restare uno straniero. Si era sempre trascinato dietro nome e provenienza in silenzio, ma questo non lo aveva salvato da niente. Aveva dovuto camuffarsi così a lungo e così nel profondo che quel camuffamento aveva finito per aderirgli come una seconda pelle. Era uno straniero che aveva pregato di poter appartenere alla società, ma che continuava a sentirsi gli occhi dell'Inquisizione puntati addosso.

D'ora in poi avrebbe fatto parte della comunità sefardita di Amsterdam. E avrebbe dovuto imparare di nuovo a pregare. Per altre cose.

«Qui siamo un'unica grande comunità», si sentì dire. «Impara dal rabbi, vivi secondo le regole e ubbidisci al mahamad.»

Una settimana dopo fu circonciso. La gioia prospettata non si fece sentire subito.

[...]


Bastava vederlo una volta per capire come mai a Isaac Vos venissero assegnate sempre parti comiche a teatro e perché nelle recite serie dovesse accontentarsi di fare la comparsa. La sua voce era ora rauca e ora esplosiva, e il collo corto e contratto gli impediva di ruotare la testa a meno che non girasse contemporaneamente anche il busto tarchiato. La gotta aveva peggiorato la sua andatura arrancante per via delle gambe storpie. Solo una volta gli affidarono un ruolo drammatico, quello dello sciancato Mefiboset nei Fratelli di Vondel. Isaac lo sapeva, tutti lo sapevano: non aveva avuto quella parte per le sue doti di attore ma per la sua minorazione fisica.

Aveva cercato di trasformare il suo destino in un'opportunità e scritto una serie di opere comiche sugli immigrati tedeschi e le loro caratteristiche: commedie in cui i protagonisti, con la loro intemperanza, finivano per trovarsi in situazioni oscene o sconvenienti. Così si era guadagnato anche fama di autore comico che, per quanto strano, non era riuscito a sfruttare. Né La farsa del crucco La farsa della crucca gli fruttarono un soldo, nonostante avessero ottenuto entrambe un grande successo al botteghino e suo cugino Jan Vos fosse uno dei direttori del teatro.

Quando incontrò Jacob Barocas al magazzino, aveva appena finito di scrivere una nuova pièce, intitolata, sulla falsa riga inglese, Qualcuno e Nessuno. Era una commedia allegorica, piena di capovolgimenti ed equivoci, in cui cercava di portare alla ribalta qualcosa che andasse oltre la solita sfilza di intrighi xenofobi e volgari. Jan Vos l'aveva accolta con un po' di titubanza e senza sbilanciarsi troppo. Era segretamente contento di suo cugino, ma d'altra parte non voleva farsi vedere troppo spesso insieme a lui. In poche parole, alla sua tarda età Isaac era ancora alla ricerca di una profondità spirituale e di riconoscimento.

E poi vide per la prima volta Lope de Vega, messo in scena da immigrati ebrei sotto un tetto spiovente all'ultimo piano di un magazzino arredato in modo provvisorio. E ciò che vide lo colpì come un fulmine a ciel sereno. Non che capisse lo spagnolo, ma conosceva il racconto biblico di Ester. La donna ebrea in esilio che per la sua bellezza smagliante viene scelta come regina dall'imperatore Assuero di Persia. Ester non rivela di essere ebrea, perché nel regno di Assuero gli ebrei sono perseguitati. Ad aver architettato la persecuzione è Aman, il consigliere del re, che nell'opera farà una brutta fine.

Da quando Isaac aveva memoria, lo spagnolo era la lingua del nemico, la lingua dei saccheggi, dei massacri e dei roghi. Ma lì, tra quegli immigrati, questo richiamo immediato al tragico andava a toccare qualcosa di diverso, un'eredità lontana sepolta nell'intimo. Forse, nel profondo della sua anima era rimasta aperta una porticina per la lingua dell'Inquisizione e delle truppe d'assalto della madre Chiesa. Il tedesco era la lingua del re e della birra, lo spagnolo quella di paradiso e inferno. Non sentiva più la panca di legno su cui era seduto. Tra lui e la rappresentazione era caduta ogni distanza. Lì, nella capitale della fredda provincia ribelle, risuonava la voce spagnola di Lope de Vega, il defunto drammaturgo che aveva avuto cento donne, ma era morto come sacerdote consacrato al celibato. Interpretato da ebrei fuggiti dalle segrete dell'Inquisizione, per i quali il re spagnolo era l'adirato padre errante che li aveva ripudiati con la spada e con il fuoco.

Non erano più immigrati travestiti quelli che parlavano sotto quel tetto spiovente, erano Aman, Assuero ed Ester. I quali, a loro volta, erano l'ombra di persone che tutti i presenti conoscevano o avevano conosciuto nella loro vita. Tutti avevano il loro Aman, il loro Assuero e la loro Ester, che avevano lasciato, da cui erano stati strappati o erano fuggiti, che avevano amato.

E tutti sapevano come sarebbe andata a finire, che cosa sarebbe successo al re errante Assuero e alla sua regina Ester, segretamente ebrea. In un momento di alterazione mentale, Assuero aveva dato la sua benedizione al piano di Aman, che voleva sterminare tutti gli ebrei del regno. Ed Ester non gliel'aveva impedito. Gli aveva chiesto invece un favore: di banchettare insieme, non solo loro due, ma anche Aman come ospite. E si arriva così alla fine della storia. I profughi ebrei e l'attore comico di Amsterdam conoscono l'epilogo, ma ci sono ancora due persone ignare di quello che sta per succedere: il re Assuero e il suo segretario Aman. Ed eccoli seduti a tavola. Mangiano insieme, conversano e, per la sola presenza di Ester con i suoi intenti segreti, tutto ciò che dicono assume un doppio significato.

È sceso il silenzio, i tre sono un tutt'uno. E poi accade quel che nessuno può impedire. Ester rivela al re e ad Aman la sua vera identità: che è ebrea, che Aman sta per sterminare il suo popolo. Non un popolo qualunque, ma il popolo della regina, la famiglia acquisita del re.

Basta questa frase a mutare il destino. Poche parole che rivelano chi è lei veramente. E la frase che tutti i presenti hanno pronunciato davanti a se stessi e al mondo quando sono arrivati ad Amsterdam, con cui hanno compiuto un passo senza ritorno.

Poche parole che capovolgono il mondo.

Il re e Aman hanno bisogno di un momento per mettere a fuoco la verità e le conseguenze che avrà per loro. E in quei secondi di silenzio, in cui il mondo gira e cambia, in quei secondi che precedono l'esplosione di rabbia di Assuero, l'incantesimo dell'illusione raggiunge il culmine.

E poi ecco esplodere la rabbia del re. Un'ondata di emozioni trattenute per anni dilaga tra il pubblico. Aman capisce che il suo destino è segnato, che non sopravvivrà a questa rivelazione, che il patibolo che ha fatto erigere per gli ebrei alla porta della città diventerà il mezzo della sua fine.

Il pubblico esulta, ride e grida e Isaac fissa Ester, che segue con lo sguardo Aman mentre viene portato via dalle guardie di palazzo. È grandiosa, è splendida, è una donna: una donna sul palcoscenico.

«È così che deve essere», mormora. «È così che deve essere.» E poi ride. E poi grida.

La recita è finita e i protagonisti escono di nuovo sul palco. Tutti si alzano in piedi e pubblico e attori intonano insieme un canto che Isaac non conosce.

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Il corridore


L'ULTIMO TRAGUARDO DI CHARLES JARROTT

Parigi - Vienna (1902)


                        Lunghi viali di alberi sovraccarichi di chiome frondose
                        e scarni nella nudità dei tronchi; un infinito nastro
                        bianco che si allungava all'orizzonte; la traiettoria di
                        un proiettile diretto verso quel punto dove terra e
                        cielo si incontravano; scorci fugaci di città e fitte
                        masse di gente - gente impazzita, delirante,
                        incosciente, ferma di fronte al proiettile, pronta a
                        farsi investire, dilaniare, annientare e, soprattutto,
                        quell'orribile sensazione di essere braccato.

                                                           Charles Jarrott, 1906



È l'estate del 2015 e in una caffetteria di Vienna lo storico Philipp Blom legge in tutta tranquillità uno dei molti giornali messi a disposizione dei clienti. Fuori passa una carrozza trainata da due cavalli. Piove, il cocchiere avvolto nella sua mantella tiene in mano una frusta grondante, le ruote sollevano l'acqua dal manto stradale. Il cameriere, bianco e nero come un pinguino e con un papillon stretto al collo, chiede se tra poco il Signor Blom desidera pranzare. Sì, il Signor Blom vuole pranzare, e ora che mi sono seduto di fronte a lui e mi sono rilassato un po', ne ho voglia anch'io. In fondo, che fretta c'è. La giornata è ancora lunga. Mescolo il caffè e cerco di neutralizzare la frenesia dei giorni passati.

Sono venuto in macchina da Parigi a Vienna per parlare con Blom di velocità. Le strade che ho percorso sono le stesse su cui, nel 1902, ha gareggiato un gruppo internazionale di corridori. Erano piloti britannici, tedeschi, italiani, belgi, olandesi, americani, ma soprattutto francesi, per la maggior parte industriali e aristocratici benestanti, che sfrecciavano per le strade d'Europa con le loro auto dal motore potenziato.

Nel suo libro The Vertigo Years: Change and Culture in the West, 1900-1914, Blom parla delle gare automobilistiche per spiegare come negli anni precedenti la Prima guerra mondiale il progresso e la tecnologia esercitassero un grande fascino sull'élite europea. Gli racconto che ho provato senza successo a eguagliare i loro tempi di percorrenza e che ora, seduto qui di fronte a lui, continuo a essere avvinto da un senso di ammirazione per quei corridori del 1902.

«Quanto ci hai messo?» chiede Blom.

«In totale quasi 25 ore», gli rispondo imbarazzato.

«E quale fu il tempo con cui vinse Marcel Renault nel 1902?»

«Finì la gara in 15 ore e 47 minuti. Ma senza semafori. E non contando la Svizzera. Penso. Spero.»

Blom sorride. Il cameriere ci porta il pranzo.

«Quelle persone giocavano con la vita», dice Blom. «Era anche tipico dell'epoca: il progresso tecnologico era così entusiasmante. Tieni conto che in quegli anni il mondo cambiava radicalmente nell'arco di una sola generazione. Credo che pensassero di essere immortali.»

Nel suo libro, Blom spiega come la tecnologia, la velocità e i record che venivano battuti ogni giorno diventarono i simboli del progresso. «Tutti i maggiori quotidiani davano sempre più spazio agli articoli che parlavano di sport», dice. «Soprattutto quelli che riguardavano le gare. I corridori erano gli eroi della modernità, gli eroi della velocità.»

Guardo nel piatto, infilo la forchetta nel purè.

«Ho già fatto parecchi viaggi in Europa», dico, «e ho capito che, prima di allora, quando oltrepassava un confine, la gente aveva sempre grosso modo, a torto o a ragione, l'idea che avventurandosi nel territorio dei vicini avrebbe corso dei rischi. Di solito aveva delle buone ragioni per affrontare quei viaggi: chi perché era stato espulso dal proprio Paese, chi perché cercava di costruirsi una nuova vita, chi ancora perché ne andava della salvezza della sua anima. Ma non ho mai incontrato persone spensierate come quelle che sul finire del secolo scorso sfrecciavano in auto superando i confini dei vari Paesi convinti che il mondo gli appartenesse. Non c'erano anche vecchi nemici che gareggiavano tra loro? La Guerra franco-prussiana del 1870 era un ricordo ancora vivido. Eppure le sbarre delle frontiere si alzavano ovunque.»

«Tutto questo era ricollegabile alla tecnologia», spiega Blom. «Il regno del progresso, ecco che cos'era diventato il nuovo mondo, in cui tutt'a un tratto emergevano possibilità illimitate. Tutti erano convinti che i benefici portati dal progresso tecnologico avrebbero bandito per sempre i conflitti. Era la poesia dell'entusiasmo per la nuova era.»

Penso a Evert Louwman, uno dei più grandi importatori di automobili dei Paesi Bassi, che quando mi mostrò la sua macchina da corsa del 1903 era emozionato come un bambino. Mi aveva spiegato la procedura complicatissima per far partire quel mostro. Una sequenza di manovre con così tanti possibili intoppi che presto mi persi. «Ma poi, quando finalmente si mette in moto...» disse Louwman. Cercò le parole giuste, mi guardò dritto negli occhi e concluse: «Il rombo del motore lo senti in tutto il corpo. Ti sembrerà strano, ma a me ricorda Čajkovskij.»

Rido mentre racconto questo episodio, ma Blom non è affatto sorpreso.

«Penso che i corridori del 1902 abbiano vissuto quei momenti proprio così», dice. «Il progresso era il grande feticcio dell'epoca. Gli scettici erano pochi. Allora come adesso non ci si chiedeva se gli esseri umani o la società sarebbero stati in grado di assimilare tanti cambiamenti. L'attenzione era tutta per l'avventura e le inedite possibilità offerte dal progresso. Ma le conseguenze di una tecnologia onnipresente non si erano ancora manifestate. Mancavano quindici anni alla catastrofe chiamata Guerra mondiale.»

«Fu un breve intervallo di felicità, si direbbe. Molto poco europeo.»

«C'era chi pensava che la tecnologia avrebbe risolto tutti i problemi», prosegue Blom. «Ma le cose sarebbero cambiate in fretta. La gente ancora non se ne rendeva conto.»

Finiamo il pranzo. Ci salutiamo con una stretta di mano. Fuori la pioggia scende impietosa sulle carrozze aperte e sui cavalli che, con le orecchie abbassate, continuano a cambiare la zampa d'appoggio.

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Pagina 440

La realtà


Boekelo - Leersum (2017)


«Può essere che papà ne abbia parlato, di quella strada tra Londra e Mosca», dice mio fratello Peter. «Anch'io mi ricordo qualcosa del genere, ma non può essere stato andando dai nonni. Perché per andare da loro non prendevamo l'E8.»

Guarda altrove e aggiunge: «Ognuno ha la sua verità.»

Mi sento come se mi avessero rimesso sul sedile posteriore della Due Cavalli, Peter alla mia sinistra, dietro a nostro padre, il posto migliore da dove si vedeva il tachimetro, e alla mia destra dietro a nostra madre, Jan Willem, il più grande di noi tre, che spesso dormicchiava per far sembrare il viaggio meno lungo. Io sono il più piccolo e sono sveglio come un grillo. La differenza d'età è infinita: ho quattro anni meno di Peter e sei meno di Jan Willem.

«La strada per andare dai nonni non era un viaggio qualunque», dice Peter. «Era tutto un concatenarsi di storie, avvenimenti e pietre miliari. Non ti ricordi il cannone di Lochem?»

No, non lo ricordo.

«E la fattoria fantasma abbandonata dei Brummen? Con l'albero dove si era impiccato il figlio dei contadini?»

Comincio a ricordare qualcosa.

«Il ponte vicino a Zutphen», interviene Jan Willem, «con le assi che ballavano sotto le ruote.»

So a quale ponte si riferisce, ma non ricordo le assi. Immagino che Jan Willem fosse solito svegliarsi lì per il rumore.

«E quella volta che ad Arnhem la Due Cavalli doveva risalire quel pendio e il papà spingeva sul volante come se così potesse farla andare avanti? Era talmente arrabbiato che gli cadde il sigaro di bocca.»

«Muoviti, carogna!» esclama Peter imitando nostro padre.

«Papà fermò la macchina a bordo strada», prosegue Jan Willem, «lungo la corsia di accelerazione, e si infilò sotto il sedile per cercare il sigaro acceso.»

«E i tumuli preistorici che vedevamo lungo la strada?» dice mia madre.

I miei fratelli tacciono. Questo non lo ricordano neanche loro.

«A vostro padre interessavano sempre molto.»

«E dov'erano?» chiedo io.

«Non ricordo esattamente. Da qualche parte sulla Heuvelrug.»

Il silenzio si fa più profondo, forse per l'associazione tra il ricordo di papà e i tumuli funerari.


Penso alle storie che ho scovato per questo libro. I viaggi dell' homo antecessor, di Boiorix, Bulla, Guðríð, Jacob e Susanna, Coenraad, Jarrott e Mohamed. A volte li ho descritti fin nei particolari, mentre adesso non sono nemmeno in grado di ricostruire in modo accurato un viaggio che ho fatto di persona.

«Quell'E8...» dico.

«Non prendevamo l'E8 per andare dai nonni», mi interrompono i miei fratelli.

«Quindi non è vero quello che ho scritto?»

Il fratellino piccolo, con quell'insaziabile desiderio di approvazione.

«Gli avvenimenti del passato si evolvono e si sviluppano in tutte le direzioni quando sono fissati solo nella memoria», risponde Peter con calma, «seguendo le linee della nostra personale prospettiva.»

«E la stradina uhu!!» aggiunge mia madre.

«Sì!» gridiamo in coro. È come se in mezzo a noi fosse piombata dal nulla una scatola dimenticata, colma di felicità. A volte ci sembra di aver scordato qualcosa, finché non ci accorgiamo che è sempre stato lì, che l'abbiamo sempre avuto con noi.

Vedo la strada che costeggia la ferrovia, i cespugli che crescono sul ciglio, i binari sopra l'argine. E davanti a noi i dossi simili a enormi dissuasori, alti come persone.


Siamo a metà degli anni Sessanta. I miei hanno appena comprato la loro prima auto, una Due Cavalli antracite, una Citroën col tettuccio telonato e gli ammortizzatori alti e flessibili, praticamente un ombrello con le ruote. Con quell'auto hanno acquistato libertà di movimento, comodità, benessere.

Stiamo andando dai nonni. Mia madre non ha la patente, alla guida c'è mio padre. I figli, tre maschi, sono seduti dietro, e da Twente lui sta tornando nel mondo della sua infanzia, tra i boschi che conosce così bene, le fattorie davanti alle quali è passato centinaia di volte in bici, gli alberi che gli frusciano sopra la testa fin da quando è piccolo. Twente è lontano dal villaggio che, con grande sollievo, ha lasciato dopo la guerra, ma che continua ad attirarlo e, a ogni uscita e a ogni svolta lungo la strada per andare a trovare il padre e i suoceri si avvicina sempre più. Il paesaggio si riempie di significati, a breve incontrerà le prime fattorie di cui ricorda i proprietari di vent'anni prima.

Vicino ad Arnhem spinge forte sul volante in un tratto in salita in direzione dell'Hazepad, l'autostrada Utrecht-Arnhem attraverso cui i tedeschi lasciarono i Paesi Bassi quando aveva diciotto anni. È di buon umore, quindi prende l'uscita per Veenendaal. Conosce la strada e anche noialtri in macchina sappiamo quello che sta per succedere. Stiamo raggiungendo la stradina «uhu!!»

È la strada tra Veenendaal e Overberg, che corre parallela ai binari della ferrovia, piena di dossi altissimi, perfino più alti dell'auto, un succedersi di ripide collinette.

Mio padre supera Veenendaal, attraversa i binari e poi ci siamo. Spuntano le prime collinette, lui accelera, il motore Boxer a 2 cilindri romba, prendiamo la rincorsa, la tensione sale, e mia madre si aggrappa alla maniglia della portiera. «Wim!» esclama, in un tentativo poco credibile di tenerlo a bada.

Perché non c'è più niente da fare. Improvvisamente il manto stradale si impenna, la massa lenta della Citroën ci trascina con sé, la salita ci spinge contro i sedili, fino in cima e poi... poi il nulla. L'asfalto sparisce sotto le ruote, le gomme cercano il fondo stradale, ma la carrozzeria è proiettata verso il cielo. Per un attimo ci stacchiamo da terra, è un volo di un secondo, poi la caduta. Sobbalziamo sul sedile posteriore e gridiamo «uhu!!». Mia madre lancia un urlo, la Citroën atterra e ondeggia sulle sospensioni. Dopo la discesa prendiamo più velocità, pronti ad affrontare il dosso successivo, che è ancora più alto. Mio padre canta: O Veenendaal, o Veenendaal, wat is je boerenkool lekker. E voliamo di nuovo. Voliamo dai nonni.


Quei pochi secondi in cui volavamo, mia madre urlava, mio padre cantava e noi fratelli potevamo gridare fortissimo «uhu!!»: quella combinazione di audacia, fiducia e condivisione che, ora lo so, avrei custodito dentro di me per tutta la vita.

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