Copertina
Autore Lorenzo Del Boca
Titolo Il segreto di Camilla
SottotitoloUn processo per spionaggio davanti al tribunale speciale fascista
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2005, Tracce , pag. 137, cop.fle., dim. 150x230x11 mm , Isbn 978-88-7750-989-5
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia
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Indice


     1  Le superstizioni di Camilla
     9  Un sospetto all'hotel Eden
    19  Fantozzi a caccia di spie
    31  La lotta delle due Camille
    39  La sottoveste di pizzo nero
    49  L'intrigo di Capodanno
    57  La fotografia del bastardino
    65  Faccia da «piccola fiammiferaia»
    75  L'uomo della Magna Grecia
    85  Le lire dello sfregiato
    95  Il re della foresta
   105  Pivoli per metri
   113  La Marina del bel tempo
   121  A morte i Giuda!
   129  Giustizia è fatta


   135  Bibliografia

 

 

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Pagina 35

La sensazione che il pericolo era imminente addentò la prima Camilla, quando la notte del 23 novembre se ne stava già andando e cominciava a spuntare l'alba del 24. Un male fisico alle gambe, uno stordimento alla testa. Fino a quel momento il suo viaggio a Roma era stato tranquillo e, a sprazzi, persino allegro. Aveva visto amici, era stata sull'isola Tiberina, si era arrampicata fin sull'ultimo gradino di Castel Sant'Angelo da dove basta un'occhiata per abbracciare l'intera città. Quella sera si era coricata abbastanza presto per le sue abitudini. Si stava già appisolando quando sentì in lontananza i rintocchi della mezzanotte. Rifletteva sullo shopping del pomeriggio quando correva, quasi sbuffando, per le stradine del centro storico. Le veniva da sorridere di se stessa, ripensando a quando saltava da un tramvai all'altro, cercando di non perdere l'equilibrio sui tacchi a spillo, con le braccia ingombre di pacchetti. Ma già quelle immagini con i guizzi di vitalità che li accompagnavano stavano scolorendo e dileguando nei sogni di un buon riposo.

Proprio un sogno — o la fine di un sogno — la svegliò, poche ore più tardi. Non riuscì a ricordarsi i contorni delle immagini che la ferirono, mentre dormiva e non fu capace di focalizzare la scena che le interruppe il sonno, nemmeno a ripensarci dopo. Strano: perché lei sognava quasi ogni notte e, la mattina, poteva raccontare la trama dei sogni, come se avesse assistito alla proiezione di un film. Sicuramente, non fu una scena normale perché si sentì la schiena spezzata da un brivido di freddo. Paura.

La sensazione inattesa di turbamento si amplificò quando con gli occhi ancora intorpiditi, si accorse che, nella stanza dell'albergo, davanti al suo letto, sopra i suoi piedi, si muoveva una persona che stava recitando strani esorcismi. Braccia leggere che si alzavano per una specie di benedizione blasfema, un'ombra malefica che ondeggiava lasciando cadere dei gesti incomprensibili. Camilla Agliardi riniasc impietrita, più incredula che spaventata. Ma chi poteva essere? E come era riuscito ad entrare? Più tentava di convincersi che era un incubo, più quella presenza si animava d'immagini disgustose.

Riuscì a raggiungere il pomello della luce che pendeva sopra la testiera del letto e, vincendo la riluttanza, pigiò l'interruttore. I quattro bracci del lampadario s'incaricarono di riportare quella scena raccapricciante a dimensioni domestiche.

Accidenti! Era la vestaglia di seta che aveva appeso alla maniglia della finestra. La quale maniglia non era stata agganciata per bene tanto che il battente si era socchiuso sotto la spinta del ponentino. Il vento, infilandosi fra le ante, aveva spinto la stoffa e la faceva muovere come se fosse stata posseduta da qualche spirito infernale.

Non ci rise sopra Camilla Agliardi. Non le piaceva scherzare con quegli argomenti. Al contrario, pensò che un'apparizione così strana non poteva venire solo per renderle inquieto il risveglio. Qualche cosa doveva pur significare. Ma cosa?

Si sollevò piano sui gomiti, spinse le gambe fuori dalle coperte, cercò le pantofole muovendo i piedi a tentoni e si trascinò fino alla finestra. Per chiuderla.

Il campanile in quel momento batté le sei. Sei secondi, non più di un secondo per ogni rintocco, che le dettero il senso di un tempo greve, ipotecato dal destino.

A fine novembre, avrebbe dovuto essere ancora notte e tuttavia le sembrò che, contro le regole della meteorologia, il cielo fosse già troppo chiaro. Livido sopra i tetti ancora opachi. La luna era una palla dí fuoco. Rossa, d'intensità rara. Gli innamorati che l'avessero chiamata per testimoniare dei loro sentimenti, avrebbero avuto motivi di felicità ma a lei, quel colore, fece pensare al sangue e, dunque, alla morte. Tornò a letto e non riuscì a riprendere sonno. Era stanchissima, come svuotata, ma se abbandonava le palpebre rivedeva quel mostro che ballava al fondo del letto e quelle macchie vermiglie che popolavano il cielo. Rantolava.

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Pagina 58

Nella casa di Ugo Traviglia scoprirono nove biglietti della banca d'Italia da mille lire ciascuno, somma rilevante in un paese che di lì a qualche tempo avrebbe cantato «Se potessi avere mille lire al mese». Li teneva fra le pagine di un libro che aveva riposto in un cassetto chiuso a chiave. Era il piccolo tesoro che avrebbe dovuto sistemargli la vita. Non aveva ambizioni che non fossero terraterra. Con quel denaro pensava di estinguere una serie di debiti che il fratello gli aveva lasciato in eredità e impegnare il resto per assicurare un futuro dignitoso alla famiglia.

Occorreva altro per il processo? Il dibattimento fu fissato con sollecitudine. La mattina del 10 maggio, gli imputati furono trasferiti dal carcere a palazzo di Giustizia. Aula numero 6.

Era uno stanzone con un soffitto così alto da sembrare irraggiungibile. Le volte erano state modellate a sesto acuto il che avrà anche aggiunto un elemento d'eleganza, con un danno, però, all'acustica del luogo. Un tentativo di affreschi attorno agli stipiti delle porte. L'immenso rosone per sostenere un lampadario a dieci bracci. Stucchi di gesso agli angoli delle pareti e sulle lesene.

In fondo alla sala d'udienza, i tavoli dei giudici: quello in mezzo leggermente più alto e un po' più largo destinato al presidente. Sulla sinistra, appoggiato su una predella di due spanne, lo scranno del pubblico ministero, voce dell'accusa. Di fronte i banchi per gli avvocati della difesa.

E, ancora più indietro, una balaustra destinata a dividere lo spazio destinato agli addetti ai lavori da quello riservato al pubblico. Di pubblico, in verità, ce n'era sempre poco. Ad assistere ai processi erano, piuttosto, i parenti degli imputati e qualche studente di giurisprudenza mandato dai professori per una specie di lezione dal vivo.

Quella volta non c'era nessuno. La mamma di Camilla Agliardi non era stata informata. I fratelli e i cugini dell'avvocato morivano dalla vergogna. Uno della famiglia era stato coinvolto in una vicenda così compromettente che – pensarono – meglio non farsi vedere, per non rischiare di infangare ancor più il loro buon nome e una reputazione già abbondantemente chiacchierata. La moglie di Ugo Traviglia si sentì male al momento di entrare in aula e fu necessario trasportarla al pronto soccorso dell'ospedale.

L'arredamento dell'aula era di legno di mogano scuro che il tempo e la polvere avevano provveduto ad annerire ancor di più. Mobili fatti senza economia e senza risparmio, con braccioli attorcigliati, intarsi anche preziosi per ingentilire gli spigoli, scanalature elaborate, tutti segni di quando il falegname era un artista e costava poco. Le gambe dei tavoli poggiavano su tre dita di un piede di leone alle quali l'artista non aveva dimenticato di incidere le unghie, in modo così proporzionato, da farle sembrare vere.

Tre pareti erano del tutto spoglie. In quella alle spalle dei giudici era stato appeso un Crocefisso che, visto da lontano, sembrava appeso di sghimbescio, tanto appariva storta la croce rispetto al corpo. In realtà erano soltanto i baffi di fuliggine che avevano sporcato l'intonaco accanto al legno tanto da favorire un effetto ottico sbagliato. Nell'angolo basso, infatti, era sistemata una stufa di ghisa che veniva utilizzata soltanto nei mesi davvero freddi e che, per la verità, a ben poco poteva essere utile, essendo così piccola, in un ambiente così grande. Scaldava giusto la schiena e il sedere dei giudici che le stavano seduti quasi sopra ma lasciava loro fredde le mani e la faccia. Il pubblico ministero che si metteva di lato, girato per novanta gradi, aveva la sinistra intiepidita dalle fiamme e la destra completamente intirizzita. Niente del tutto per gli avvocati: disposti qualche metro più avanti, spesso obbligati dal gelo a discutere le cause con la toga indossata sopra il cappotto e impegnati da queste plausibilissime ragioni meteo-fisiche ad accorciare l'arringa fino al minimo indispensabile, con guadagno (per i giudici) in tempo e in seccature burocratiche.

Nell'insieme, l'aspetto era così serio da sembrare persino severo.

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Pagina 98

Proprio sul treno che sbuffando la allontanava da Francesco Traviglia, conobbe l'avvocato Vittorio Amadeo. Lei era partita da Montecarlo, lui era salito a Imperia. Si trovarono di fronte, nello stesso scompartimento, con un paio di giornali ciascuno e una quantità di tempo a disposizione. Qualche frase di circostanza poi una chiacchierata via via più convinta, fino alle quasi dichiarazioni d'amore, proprio quando la locomotiva si stava accostando alla pensilina della stazione Termini. Camilla Agliardi non perse tempo e realizzò subito che quell'uomo avrebbe potuto entrare degnamente nel suo cuore rimasto vuoto. Perché no? Era noioso ma, proprio per questo, rassicurante. Era più vecchio che anziano ma, per l'appunto, non aveva più tempo da perdere. Era rimasto senza ambizioni professionali e, dunque, le sue ultime energie gliel'avrebbe, tutte, dedicate, senza fare il conto di che cosa costa e quanto rende.

Vittorio Amadeo si era sposato una volta e il destino ci aveva messo una pezza, portandogli la compagna nella tomba. Aveva preso una seconda moglie ma, dopo qualche anno, la convivenza era diventata stantia e ormai pensava di trascinarsi per gli ultimi anni occupandosi d'interessi culturalmente consolatori. Bei libri, qualche lettura ricercata e un girovagare fra le città d'arte.

Era giunto all'autunno della sua vita e si preparava a entrare nell'inverno. Pensava di essere prossimo al capolinea, sull'ultimo tratto di strada, in discesa, senza possibilità di fermarsi o di rallentare la corsa. Infatti, a tutta prima, non si rendeva conto che l'affabilità di quella ragazzina sul treno potesse essere, in qualche modo, interessata. Più probabile - pensava - si trattasse della normale esuberanza giovanile. Ma, poco a poco, quasi con riluttanza e con una sorpresa crescente, dovette accorgersi che quel corteggiamento non era affatto casuale. Possibile? Una donna poteva ancora invaghirsi di un uomo come lui? Il treno camminava spedito ma la sua immaginazione lo sorpassò di slancio. La meraviglia divenne orgoglio e la senile baldanza si trasformò in compiacimento. Cominciò col raddrizzare le spalle già abbandonate su se stesse, alzò con più convinzione il mento, cominciò ad accavallare le gambe, come fanno i maschi che vogliono condire il discorso con un pizzico di civetteria.

Camilla Agliardi, quando era in viaggio, si portava sempre qualche tramezzino e il thermos del tè ma, quella volta, si tenne tutto nella borsa. Non le sembrava un buon approccio presentarsi come una massaia previdente. Piuttosto, si congedò per qualche momento e si avviò verso la toilette per rinfrescarsi.

A quel punto, lui, che non stava più nella pelle, misurò sei volte lo spazio dello scompartimento con passi così felpati che stentavano a toccare terra. Aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e di muoversi per essere certo che non fosse soltanto un sogno. Fra l'appoggiatesta dei sedili e il bagagliaio c'era uno specchio rettangolare. Lì s'infilarono i suoi occhi che - una volta arrivati - indugiarono a lungo. Compiacendosi. Certo che era bello! Aveva il fascino della maturità, l'esperienza di chi può molto raccontare e la saggezza degli errori compiuti che metteva in guardia dal ripeterli. Strano... Ancora a Imperia, pettinandosi prima di uscire da casa, aveva visto in sé un uomo stanco, se non proprio cadente e adesso ritrovava quegli stessi lineamenti tonificati da un vigore che credeva perduto.

Il brutto anatroccolo era diventato un cigno, o, forse, soltanto un tacchino, tenendo conto del fisico già appesantito ma con il petto ancora capace di gonfiarsi d'orgoglio. Avrebbe voluto darsi un atteggiamento più disinibito e mondano ma, se provava, si accorgeva di non essere esente da qualche goffaggine. Meglio fermarsi ai primi danni.

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