Copertina
Autore Max Delbrück
Titolo La materia e la mente
SottotitoloLezioni di epistemologia evolutiva
EdizioneEinaudi, Torino, 1993, PBE 591 , Isbn 978-88-06-13280-4
OriginaleMind from Matter? An essay on evolutionary epistemology
EdizioneBlackwell Scientific Publishing, Oxford, 1986
TraduttoreClaudio Bartocci
LettoreRenato di Stefano, 1994
Classe epistemologia , biologia , evoluzione , scienze cognitive , fisica , matematica , psicologia , scienze umane
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Indice


p. VIII Premessa
     XI Introduzione di Gunther S. Stent
   XXXV Nota del traduttore

        La materia e la mente

    3 I.      L'evoluzione del cosmo
   15 II.     L'evoluzione della vita
   28 III.    Le origini della percezione;
              le specie
   39 IV.     L'evoluzione del genoma
   55 V.      L'evoluzione dell'uomo
   69 VI.     L'evoluzione del cervello
   87 VII.    La visione
  106 VIII.   La percezione
  121 IX.     La cognizione
  137 X.      Causalità, tempo e spazio
  158 XI.     I numeri
  174 XII.    L'infinito e i paradossi logici
  188 XIII.   La decidibilità
  192 XIV.    Geometria, astronomia e
              meccanica newtoniana
  216 XV.     La teoria della relatività
  237 XVI.    La teoria dei quanti
  254 XVII.   La complementarietà
  273 XVIII.  La dicotomia cartesiana
  288 XIX.    Il linguaggio
  311 XX.     Conclusioni:
              la mente deriva dalla materia?

 

 

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Pagina 10 [ universo primordiale, evoluzione dell'universo, Big Bang/Big Crunch ]

Nell'universo primordiale la materia atomica costituiva probabilmente una enorme massa gassosa di densità uniforme. Nel corso dell'espansione l'attrazione gravitazionale provocò fenomeni di condensazione all'interno di questa primitiva nube di gas. Le grandi masse che vennero in tal modo a formarsi, in seguito, subirono anch'esse condensazioni interne, che produssero masse piú piccole; queste, a loro volta, costituirono galassie, nelle quali ulteriori condensazioni diedero luogo ad ammassi stellari e infine a stelle.

L'evoluzione dell'universo è solo parzialmente deterministica, cioè non ammette una spiegazione attraverso leggi in accordo alle quali un dato insieme di condizioni iniziali conduca a un unico stato finale. Esiste difatti anche una componente non deterministica, o stocastica, che si può attribuire al fatto che le forze gravitazionali cui è soggetta una nube di gas amplificano enormemente le fluttuazioni infinitesimali della densità locale di materia. (In base a una legge non deterministica, un dato insieme di condizioni iniziali può condurre a parecchi stati finali). Una simile situazione stocastica si verifica, ad esempio, in metereologia, in quanto le fluttuazioni infinitesimali delle condizioni atmosferiche iniziali possono ingigantirsi in pochi giornifino a diventare fenomeni su vasta scala, rendendo in tal modo praticamente irrealizzabile ogni previsione meteorologica a lungo termine. ...

Il futuro dell'universo è indeterminato tanto quanto il suo passato. È possibile immaginare che nell'universo sia presente una quantità di materia sufficiente a far sí che l'attrazione gravitazionale rallenti il processo di espansione iniziato col Big Bang. In tal caso, l'espansione arriverebbe ad arrestarsi e sarebbe seguita da una fase di contrazione, o implosione: si avrebbe cosí un Big Crunch, cui forse potrebbe fare seguito un altro Big Bang, con una nuova creazione dell'universo. Ciononostante, le stime migliori oggi disponibili indicano che nell'universo non c'è sufficiente materia per un Big Crunch, il che significa che l'espansione può continuare indefinitamente.

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Pagina 88 [ visione ]

L'assorbimento della luce da parte di un fotorecettore produce un segnale elettrico, la cui intensità aumenta con l'intensità della luce che colpisce il fotorecettore. In tal modo, la visione, a questo primo livello, consiste nel trasformate lo schema ("pattern") luce-oscurità dell'immagine visiva in un "pattern" bidimensionale di attività elettrica nel mosaico dei recettori retinici. L'elaborazione di questo "pattern" di attività elettrica inizia con la trasmissione (attraverso le sinapsi) dei segnali generati da parecchi fotorecettori adiacenti a un altro tipo di cellule, le "cellule bipolari", che sono situate nello starto intermedio della retina. Ogni cellula bipolare riceve cosí input sensoriali soltanto da parte di una piccola frazione dell'area totale del mosaico dei recettori retinici e vi risponde generando un altro "pattern" di segnali elettrici. Successivamente, i segnali generati da parecchie cellule bipolari adiacenti sono trasmessi (nuovamente attraverso le sinapsi) a un terzo tipo di cellule, le "cellule gangliari della retina", che sono situate nello strato piú interno della retina (cioè il primo a essere colpito dalla luce che penetra nell'occhio attraverso il cristallino).

Dato che le cellule gangliari sono circa un milione, ciascuna di esse deve raccogliere l'input sensoriale rirultante da circa cento dei 100 milioni di fotorecettori retinici. L'insieme dei fotorecettori il cui input converge su una singola cellula gangliare (denominato "campo recettivo" di quella cellula) occupa un'area circolare nel mosaico dei recettori retinici. Come dimostrano alcune analisi sulla funzione delle cellule gangliari - le prime delle quali furono svolte da Stephen Kuffler all'inizio degli anni cinquanta - il ruolo di queste non consiste tanto nell'effettuare una "somma" dell'intensità della luce che colpisce ogni campo ricettivo, quanto di calcolare il "contrasto" di luminosità che esiste fra due regioni concentriche del campo, un'area centrale circolare e un'area periferica che la circonda. Ci imbattiamo qui nel primo esempio di «astrazione» nel processo di elaborazione dell'input sensoriale: l'informazione raccolta dai fotorecettori sulla distribuzione di intensità luminosa in 100 milioni di punti dell'immagine retinica viene ridotta dalle cellule gangliari a informazione sul contrasto di luce presente in un milione di piccole aree circolari dell'immagine stessa.

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Pagina 111 [ percezione ]

Va osservato che tutti i processi che abbiamo menzionato come responsabili dei fenomeni di costanza percettiva comportano operazioni di tipo preconscio; sensazioni di tale genere quindi, si potrebbe dire, non hanno accesso alla coscienza. I processi di astrazione dei percetti dagli input sensoriali non sono suscettibili di introspezione da parte del soggetto della percezione. Questo punto essenziale è spesso trascurato quando i fisici discutono la natura della realtà, dato che essi hanno la tendenza a considerare sullo stesso piano le sensazioni presenti negli organi di senso e ciò che si mostra alla coscienza. La mente conscia non ha accesso ai dati bruti; riceve soltanto una porzione dell'input che ha subito un lungo processo di elaborazione. Dal punto di vista evolutivo questa elaborazione ha un enorme valore adattativo, consentendo alla mente di fronteggiare il mondo reale. Donald McKay suggerisce, ad esempio, che i movimenti volontari degli occhi siano vere e proprie domande preconscie sul mondo: se dopo aver mosso gli occhi le immagini degli oggetti si muovono, l'apparato percettivo ne inferisce che gli oggetti sono in realtà stazionari.

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Pagina 116 [ Hume, Kant, Darwin, Lorenz, esperienza-conoscenza ]

Fino a poco tempo fa, una delle idee fondamentalmente sbagliate dei filosofi era che la mente avesse a che fare con le impressioni primarie dei sensi e che l'individuo arrivasse a eseguire le astrazioni che costituiscono la base della percezione attraverso un processo di apprendimento. Per esempio, secondo l'empirismo settecentesco, cosí come formulato soprattutto da David Hume e dagli enciclopedisti francesi, la mente alla nascita è una "tabula rasa" sulla quale viene a mano a mano abbozzata una rappresentazione del mondo reale, costruita in base all'accumularsi dell'esperienza. Questa rappresentazione è ordinata, o strutturate, giacché, grazie ai principi del ragionamento induttivo, possiamo riconoscere nella nostra esperienza delle caratteristiche regolari e quindi inferire l'esistenza di connessioni causali fra eventi che avvengono solitamente insieme. Questa concezione respinge come logicamente assurda la possibilità che si abbia una qualche conoscenza del mondo innata o a priori, conoscenza, cioè, posseduta prima di aver avuto esperienza del mondo, il che era invece uno degli assunti principali del razionalismo cartesiano. Negli ultimi anni del XVIII secolo, tuttavia Immanuel Kant mostrò che la filosofia empirista e il suo rifiuto della possibilità di conoscenza a priori si fondavano su una comprensione inadeguata della mente e delle sue relazioni con la realtà. Kant fece rilevare che le impressioni sensoriali possono diventare esperienza, cioè assumere significato, soltanto dopo che esse siano state interpretate in termini di categorie a priori - quali quelle di tempo, di spazio e di oggetto - che noi adduciamo a sostegno dell'esperienza, piuttosto che derivarle da questa. L'implicito ricorso a proposizioni la cui validità è analogamente accettata a priori, quali «alcuni A sono B; quindi tutti gli A sono B» (induzione), oppure «Il verificarsi di un insieme di condizioni A è necessario e sufficiente perchè si verifichi B» (relazione di causa ed effetto fra A e B), permette alla mente di costruire la realtà da quella esperienza. Kant designa queste categorie a priori e queste asserzioni cognitive col termine «trascendentali», in quanto esse trascendono l'esperienza e si situano, come ritiene Kant, al di là dell'ambito della ricerca scientifica.

Ma se, come sostiene Kant, tali categorie, come quelle di tempo, di spazio e di oggetto, nonchè la nozione di causa, sono a priori da ogni sensazione, non è strano che esse risultino cosí ben adeguate al mondo reale? Se teniamo conto di tutte le idee strampalate che possiamo aver avuto prima dell'esperienza, pare senz'altro un miracolo che le nostre idee a priori siano proprio quelle che vanno bene. Il modo di risolvere questo dilemma si dischiuse soltanto quando, a metà del XIX secolo, Charles Darwin avanzò la sua teoria della selezione naturale. Ma pochi filosofi o scienzati parvero accorgersene, fino a che negli anni quaranta Konrad Lorenz non richiamò l'attenzione su questa possibilità. Lorenza feve notare che l'argomentazione empirista secondo la quale la conoscenza del mondo può penetrare nella mente soltanto attraverso l'esperienza è valida soltanto considerando lo sviluppo "ontogenetico" dell'uomo, dalla cellula uovo decondata dino all'individuo adulto. Ma, una volta che si prenda in considerazione lo sviluppo filogenetico del cervello umano attraverso la storia evolutiva, diviene evidente che un individuo può avere qualche conoscenza innata del mondo, precedente e indipendente dalla sua propria esperienza. In effetti, non c'è nessuna ragione biologica per la quale un tale genere di conoscenza non possa essere trasmessa di generazione in generazione a opera dell'insieme di geni che determina la struttura e le funzioni del nostro cervello; questo insieme genico si è difatti formato attraverso il processo di selezione naturale che ha agito sui nostri antichi progenitori. ...

Appare dunque chiaro che le nostre relazioni con il mondo implicano due tipi di apprendimento. Il primo è l'apprendimento "filogenetico", nel senso che durante l'evoluzione abbiamo sviluppato complessi meccanismi per percepire un mondo reale e fare deduzioni su di esso, meccanismi dei quali i processi neurofisiologici di astrazione che agiscono a livello preconscio sull'input visivo, i fenomeni di costanza percettiva connessi con la visione, l'accordo interemisferico fra le nostre due menti che si stabilisce tramite il corpo calloso costituiscono solo alcuni esempi. Questi esempi dimostrano che, nel suo complesso e attraverso la sua storia, la specie umana ha appreso come trattare segnali provenienti dal mondo esterno costruendo un modello di quest'ultimo. In altri termini, mentre sulla base delle moderne conoscenze dei processi evolutivi possiamo asserire che l'approccio dell'individuo alla percezione è a priori, ciò non è assolutamente vero se consideriamo la storia dell'umanità nel suo complesso. Quel che è a priori per l'individuo è a posteriori per la specie. Il secondo tipo di apprendimento implicato nella relazione fra noi e il mondo è l'apprendimento "ontogenetico", cioè l'acquisizione, che si protrae per tutta la durata della vita, di conoscenza culturale, linguistica e scientifica.

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Pagina 121 [ cognizione, apprendimento ]

L'interpretazione in chiave evolutiva della concezione kantiana, in base alla quale il carattere a priori di categorie fondamentali come quelle di spazio, di tempo, di oggetto e di causalità sarebbe il risultato di un apprendimento filogenetico, non significa necessariamente che l'apparato percettivo e cognitivo di cui sono frutto questi strumenti epistemologici sia già presente nella mente, completamente sviluppato, fin dalla nascita. Al contrario, si può dire che esso non sia quasi presente al momento della nascita, dato che il cervello umano, com'è ovvio, va incontro a un considerevole sviluppo postnatale, durante il quale si creano nuove connessioni e si modifica la rete nervosa. Questo sviluppo postnatale, inoltre, è il risultato di una interazione costruttiva fra l'ambiente e i processi di sintesi proteica, sotto controllo genico, che riguardano la formazione del sistema nervoso (l'informazione necessaria per i quali viene effettivamente trasmessa per via ereditaria). In altri termini, la distinzione fra apprendimento filogenetico e ontogenetico non è cosí evidente come avevamo forse lasciato intendere alla fine del capitolo precedente. Apprendere qualcosa per via filogenetica non equivale a fare ingresso nel mondo con concetti preconfezionati provvisti di valore adattativo, bensí a possedere un cervello capace di interagire con il mondo prima, durante e dopo la nascita in modo da sviluppare categorie di pensiero che abbiano valore adattativo positivo, piuttosto che negativo.

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Pagina 158 [ numeri ]

Secondo il punto di vista che abbiamo adottato per portare avanti la nostra indagine sulla natura della verità e della realtà, la cognizione costituisce un adattamento evolutivo della specie umana al fine di affrontare il mondo reale. Abbiamo visto che i concetti tramite i quali strutturiamo la nostra esperienza e arriviamo quindi a conoscere il mondo derivano in pari misura tanto dai geni di cui l'evoluzione ha dotato la nostra specie, quanto dalla nostra personale esperienza umana. Vogliamo ora esaminare piú da vicino questi concetti adattativi, che sono inestricabilmente interconnessi, per cercare di comprendere quale sia la loro relazione epistemologica con il mondo reale. Inizieremo con i numeri, che rappresentano la chiave di volta di tutto l'edificio della matematica.

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Pagina 173 [ Peano ]

L'insieme minimo di regole per le operazioni sui numeri, che costituiscono la base dell'aritmetica che studiano i bambini nelle scuole elementari (ma presumibilmente difficile da concepire nel mondo dei pesci o topi), furono codificate nel 1889 da Giuseppe Peano nei cinque postulati che seguono:

1. Zero è un numero.

2. Il successore di ogni numero è ancora un numero.

3. Non esistono due numeri con lo stesso successore.

4. Zero non è il successore di nessun numero.

5. Ogni proprietà dello zero che vale anche per il successore di ogni numero che gode di tale proprietà, vale per tutti i numeri.

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Pagina 184

Quali conclusioni dobbiamo trarre da questi paradossi e antinomie in relazione alla natura, o anche alla certezza, delle verità matematiche? Questo interrogativo ci pone di fronte a due punti di vista piuttosto differenti sulle connessioni fra la teoria dei numeri, o piú in generale la matematica, e il mondo reale. Da una parte, si ritiene che le verità matematiche non abbiano attinenza con la realtà - ossia non siano empiriche - bensí abbiano il carattere di tautologie, sebbene ciò possa essere talvolta difficile da riconoscere. Le verità matematiche derivano dalle definizioni, esattamente come accade per la verità demografica «tutti gli scapoli non sono sposati». Potremmo cercare di verificare questa verità in maniera empirica, chiedendo a 10000 scapoli se siano o meno sposati, ma è certo piú semplice limitarsi ad analizzare la definizione di «scapolo», scoprendo che essa implica la condizione di essere celibe. Similmente, la verità della commutatività dell'addizione - cioè l'enunciato che, per ogni coppia di numeri a e b, è vero che a+b=b+a - potrebbe essere verificato empiricamente, ma è piú semplice osservare che la commutatività deriva logicamente dalla definizione stessa di numeri naturali, secondo la quale, quando si stabilisce una corrispondenza biunivoca fra gli elementi di due insiemi, occorre ignorare tutte le loro caratteristiche accessorie limitandosi ad accertare che esista la possibilità di accoppiarli due a due. Considerazioni simili valgono nel caso delle dimostrazioni dei teoremi matematici, la cui verità discende dalle definizioni, tra le quali si annoverano appunto anche gli assiomi. Secondo questo primo punto di vista, dunque, sia i numeri, sia le relazioni matematiche che da essi derivano, sono creazioni del pensiero umano. Di conseguenza, alla domanda se la definizione dell'insieme dei numeri reali è autoreferenziale, questi matematici «creazionisti», ritenendo che i numeri reali siano costruiti a partire dai numeri razionali, dovranno rispondere affermativamente. Kant fu un esponente di questa concenzione creazionista, la quale conduce all'idea che la mente del matematico, mentre ricava le leggi della teoria dei numeri, non fa altro che approfondire la comprensione dei suoi propri meccanismi di funzionamento. In tal modo, per il creazionista l'imbattersi in insolubili antinomie e paradossi matematici costituirà una profonda scoperta riguardo alla natura della mente.

Un punto di vista differente sostiene che i numeri e le relazioni matematiche che essi implicano facciano parte del mondo reale, e abbiano quindi un'esistenza indipendente dalla mente. Cosí, un matematico «realista» negherà che i numeri reali costituiscano un insieme definito in maniera autoreferenziale, dato che, dopo tutto, essi esistono realmente. Platone fu un esponente di questa concenzione realista, la quale conduce all'idea che il matematico. mentre ricava le leggi della teoria dei numeri, sta approfondendo la sua comprensione della realtà. Se un realista si imbatte in antinomie o paradossi insolubili, concluderà che c'è qualcosa che non va nella sua intuizione della natura dei numeri e/o che i cinque postulati di Peano, o qualche altro insieme di assiomi, non sono abbastanza significativi per cogliere tutti gli aspetti della realtà. ...

È istruttivo esaminare quali differenti prospettive si aprono per l'ipotesi del continuo di Cantor alla luce della consezione creazionista e di quella realista. Le dimostrazioni di Gödel e di Cohen, in base alle quali sia questa ipotesi sia la sua negazione sono coerenti con gli altri assiomi della teoria degli insiemi, implicano che siamo liberi di aggiungere indifferentemente l'ipotesi o la sua negazione all'assiomatica, ottenendo cosí due differenti teorie degli insiemi, l'una «cantoriana», l'altra «non cantoriana»? I realisti direbbero di no, mentre i creazionisti di sí.

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Pagina 197 [ decidibilità, Gödel ]

Nella dimostrazione di Gödel del fatto che la formalizzazione della matematica non dà luogo a un sistema chiuso vi sono due aspetti assai insoddisfacenti da un punto di vista psicologico: la palese autoreferenzialità contenuta nella proposizione indecidibile e la complessità della dimostrazione stessa. All'autoreferenzialità non si può muovere, comunque, nessuna obiezione logica, dato che l'enunciato di Gödel non fa riferimento a se stesso, bensí al proprio numero di Gödel. Ma la complessità della dimostrazione è davvero terribile, come indicano le numerose esposizioni divulgative della dimostrazione di Gödel, alcune delle quali contengono errori tecnici, mentre altre non riescono a semplificare granché. Perché i matematici non sono riusciti a ottenere un teorema piú semplice del quale sia possibile dimostrare l'indecidibilità? Tutto quello che ci hanno dato è soltanto un'altra dimostrazione che frustra i nostri desideri: come ha provato Alonzo Church, non esiste alcun algoritmo "generale" che permetta di scoprire, dato un "qualunque" enunciato, se questo sia o meno decidibile. In altre parole, non esiste alcuna «procedura generale di decisione».

Il teorema di Gödel prova che la matematica è "incompleta" (e quindi, tutto sommato, non completamente tautologica), nel senso che lascia aperta la verità o la falsità di un sottoinsieme delle proposizioni matematiche che si possono derivare legittimamente dagli assiomi della teoria dei numeri.

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Pagina 200 [ Hilbert, decidibilità, consistenza ]

Il fatto che Hilbert credesse nella coerenza e nella completezza della matematica ha una qualche rassomiglianza con la convinzione dei Greci che fosse possibile costruire tutte le figure geometriche usando soltanto riga e compasso. Quest'ultima convinzione equivale ad affermare che tutti i numeri reali si possono ottenere risolvendo una successione finita di equazioni "quadratiche" a coefficienti interi. I Greci si sbagliavano, giacché risulta impossibile in questo modo trisecare un angolo arbitrario oppure costruire un cubo che abbia volume doppio di un cubo assegnato (il che equivale difatti a risolvere equazioni cubiche). E quando C.L.F. Lindemann dimostrò nel 1882 che Ò appartiene a quella sottoclasse dei numeri reali (detti «trascendenti») che non si possono ottenere come soluzioni di alcun polinomio a coefficienti interi, venne definitivamente esclusa anche la possibilità di ottenere la «quadratura del cerchio». È verosimile che le generalizzazioni avvenire considereranno la concenzione pre-gödeliana della decidibilità di «tutti i teoremi» altrettanto ingenua della concezione dei Greci della possibilità di costruire «tutte le figure geometriche».

Per concludere, quali implicazioni epistemologiche ha avuto la fine della fede nella consistenza e completezza della matematica sulle due concezioni rivali - creazionista e realista - delle relazioni fra la matematica e il mondo reale? La dimostrazione di proposizioni indecidibili all'interno di un sistema assiomatico sufficientemente ricco pare convalidare il punto di vista creazionista che la matematica rifletta qualche aspetto profondo della mente umana. Se i numeri e le loro relazioni matematiche "fossero" componenti del mondo reale, indipendentemente dalla mente umana, allora ogni proposizione a loro riguardo dovrebbe asserire se "è" o "non è" cosí. Il teorema di Gödel mostra perciò che, anche se i numeri fossero «reali», la nostra mente non potrebbe afferrare in modo adeguato le definizioni e gli assiomi che rifletterebbero la loro «vera» natura. L'argomentazione di Hasse (che è irrilevante chi abbia creato i numeri, dato che essi a ogni modo esistono e ci sono ben noti) - lo concedo - appare assai ragionevole, non soltanto per quanto riguarda le applicazioni quotidiane in economia o in ingegneria, ma anche per procedere abbastanza avanti nei domini dell'aritmetica e dell'analisi superiore. Tuttavia, quando tentiamo di estendere l'uso dei numeri a campi che trascendono la nostra esperienza, oppure tentiamo di seguire le loro implicazioni troppo lontano, fino a imbatterci in paradossi e contraddizioni, allora non è irrilevante domandarsi se è la mente oppure il mondo a non essere consistente.

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Pagina 254 [ teoria dei quanti ]

Ripercorriamo il percorso tormentato lungo il quale si è sviluppata la teoria dei quanti. Ebbe inizio nel 1900, quando Plank introdusse il concetto di quanto d'azione nelle sue ricerche sulla distribuzione di energia in un campo di radiazione in equilibrio con la materia a una data temperatura. Successivamente, Einstein avanzò l'idea che la luce, oltre a propagarsi come un'onda elettromagnetica, è anche assorbita ed emessa sotto forma di fotoni, o quanti, aventi energia E = hv. Seguì quindi il modello atomico di Bohr, secondo il quale gli elettroni ruotano attorno al nucleo in orbite discrete di tipo planetario, saltando però da un'orbita all'altra in modo discontinuo, a seguito dell'emissione o dell'assorbimento di quanti di energia. La scoperta del dualismo onda-corpuscolo avvenne in concomitanza con i progressi teorici costituiti dall'equazione d'onda di Schrödinger e dell'algebra matriciale di osservabili non commutative di Heisenberg e Dirac. Per ultimo, si comprese che il significato piú profondo della teoria quantistica sta nel principio di indeterminazione di Heisenberg e nella nozione di complementarietà elaborata da Bohr.

Le conseguenze epistemologiche del principio di indeterminazione e della nozione di complementarietà si possono così sintetizzare: i fenomeni quantistici sono espressione di una «cospirazione della natura» che ci impedisce di raggiungere una descrizione completamente deterministica dei fenomeni fisici. Ogni atto di osservazione comporta un elemento di soggettività, in quanto si deve scegliere come e dove operare la separazione concettuale fra strumenti di misura e oggetti osservati. In ogni caso, gli strumenti mediante i quali si compiono le osservazioni devono essere descritti nel contesto della fisica classica (cioè, non quantistica), in modo che l'osservatore possa riferire agli altri (e anche chiarire a se stesso), in maniera precisa ed esente da ambiguità, di quale apparato sperimentale si è servito e quali risultati ha ottenuto. Ma, come abbiamo visto, alcune di queste scelte si escludono reciprocamente.

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Pagina 256

Einstein era restio ad ammettere l'esistenza di una tale cospirazione della natura e rifiutava di accettare la meccanica quantistica come descrizione completa della realtà fisica. La sua impressione era invece che la meccanica quantistica fosse incompleta, nel senso che non riusciva a dare conto di alcune grandezze «fisicamente reali», e credeva che fosse possibile sviluppare una teoria piú soddisfacente, capace di fornire una spiegazione completamente deterministica, quindi "completa", di tutti i fenomeni reali. Per dimostrare che malgrado il principio di indeterminazione le grandezze complementari "p" e "q" hanno una loro realtà fisica, Einstein, Podolsky e Rosen effettuarono nel 1935 il seguente esperimento mentale. Si considerino due particelle che collidono e quindi si separano. Dopo l'urto, una particella avrà posizione q1 e quantità di moto p1, mentre l'altra avrà posizione q2 e quantità di moto p2. Sebbene secondo la meccanica quantistica le grandezze complementari q1 e p1, o q2 e p2, non possono essere determinate entrambe con un grado arbitrario di precisione, si può dimostrare che cosí non è per combinazioni lineari di queste grandezze, quali la differenza q1 - q2 o la somma p1 + p2. Misurando, quindi, con qualunque grado di precisione si voglia, il valore di q1 o di p1, per la prima particella, è possibile determinare l'esatto valore di q2 o di p2 senza perturbare minimamente la seconda, cioè senza interagire fisicamente con essa. Einstein sostenne di conseguenza che le grandezze p2 e q2 devono essere fisicamente reali. Più precisamente, egli propose il seguente criterio di «realtà fisica»: «Se, senza interferire in nessun modo con un sistema, si può predire con certezza (cioè, con probabilità uguale a uno) il valore di una grandezza fisica, allora esiste un elemento della realtà fisica che corrisponde a questa grandezza fisica». Dato che la meccanica quantistica non dà un metodo per poter predire tutte le grandezze fisiche reale, la meccanica quantistica deve essere incompleta.

Bohr replicò a questa argomentazione osservando che il criterio di realtà fisica di Einstein presenta un'ambiguità che è conseguenza dell'espressione «senza interferire in nessun modo con il sistema». ... Pertanto, la descrizione dello stato di un sistema fisico, anziché essere limitata alla particella che si trova sotto osservzione, esprime piuttosto una relazione fra la particella e tutti i dispositivi di misura presenti. In altre parole, anche se nel ragionamento di Einstein non si eseguono misure dirette su di essa, lo stato della seconda particella, e quindi la realtà fisica di cui fa parte, non sono indipendenti dalla presenza dell'apparato con cui si eseguono le misure sulla prima particella. Il ragionamento di Einstein non regge.

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Pagina 276

Vogliamo ora tornare brevemente alla nostra asserzione che i progressi della scienza siano riusciti a snaturare i vecchi concetti di oggetto, numero, tempo, spazio topologico, spazio proiettivo, spazio metrico e causalità. Che cosa ne é stato di tutti questi concetti che costituivano la nostra immagine ingenua della realtà? Che cosa ne è stato di queste acquisizioni evolutive, dotate di enorme valore adattativo, che ci rendono capaci di fronteggiare con successo il mondo esterno? È un'ironia che proprio la scienza abbia messo in crisi questa struttura concettuale. La teoria della relatività speciale ha sostituito lo spazio-tempo concreto con uno spazio-tempo astratto, nel quale può accadere che un gemello parta per un viaggio e al ritorno si ritrovi piú giovane del gemello che è rimasto a casa - un'affermazione del tutto incompatibile con le nostre operazioni mentali concrete sullo spazio-tempo. La teoria della relatività generale ci parla di «singolarità dello spazio», buchi neri con un «orizzonte degli eventi» da quale non può uscire nessun segnale, spazi finiti ma non limitati - tutti concetti che è possibile imparare a manipolare formalmente, ma non a visualizzare. La teoria dei quanti, la maggior colpevole, abolisce le nozioni di identità di oggetti e traiettoria di un oggetto (gli elettroni infatti non percorrono delle orbite); asserisce inoltre l'esistenza di una vera e propria cospirazione della natura che ci impone una scelta, un "aut aut", per cui dobbiamo decidere fra vari aspetti della realtà che si escludono reciprocamente in ogni atto osservativo. È forse questa una nozione kierkegaardiana, diventando ogni osservazione un atto esistenziale? I fisici sono diventati pensatori religiosi? Einstein era restio ad accettare questa cospirazione, come testimoniano alcune sue osservazioni, quali «sottile è il Signore, ma non malizioso» e «Dio non gioca a dadi con l'universo». Che Dio sia malizioso o no, non è stata finora scoperta nessuna alternativa soddisfacente mediante la quale compiere un'operazione di assimilazione e accomodamento (nel senso di Piaget) nei confronti di questa cospirazione della natura, e l'analisi di Bohr ha messo in luce che ben difficilmente se ne potrà trovare una.

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Pagina 286

Ricapitolando, la distinzione cartesiana fra osservatore e osservato, fra realtà interna ed esterna, fra mente e corpo, si fonda sull'illusione che il mondo fisico non possegga alcuna componente soggettiva, illusione che ha le sue radici nell'elevato grado di affidabilità quantitativa che hanno gli enunciati scientifici riguardo al mondo fisico esterno. Questo carattere di affidabilità quantitativa ci fa dimenticare che anche questi enunciati, al pari di quelli riguardanti il mondo mentale interno, sono connessi a esperienze soggettive.

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Pagina 309

Insomma, il linguaggio umano costituisce una facoltà unica, le cui caratteristiche piú primitive e rudimentali si possono, al massimo, osservare fra i nostri parenti piú prossimi del regno animale, le scimmie antropomorfe. Il linguaggio assolve due funzioni biologiche: è un supporto per il pensiero rappresentativo e analitico (un fatto personale) e un mezzo di comunicazione (un fatto sociale). La combinazione di questi due aspetti ha consentito al linguaggio di divenire "il" veicolo del progresso culturale, che realizza la trasmissione di complessi sistemi di conoscenza da una generazione all'altra (e con la traduzione si possono superare anche le barrirere linguistiche) e che, in definitiva, rende possibile l'impresa scientifica.

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In questo saggio - troppo lungo e anche troppo breve - ho tentato di affrontare i piú antichi problemi dell'epistemologia - che cos'è la verità e che cos'è la realtà - per dare una risposta all'accenno di scetticismo implicito nell'interrogativo: la mente deriva dalla materia? Iniziamo con la domanda ingenua: com'è possibile che la mente abbia origine dalla materia inanimata come risultato di processi puramente fisici? La mente allora si volge indietro a esaminare se stessa, esclamando: «Ah! ecco che cosa mi è accaduto» (simile al barone di Münchhausen, che si tira fuori dalla palude afferrandosi per i capelli). Spero di essere riuscito ad evitare il linguaggio della scuola della cosidetta «evoluzione emergente» fondata negli anni venti da Teilhard de Chardin, che attribuiva la comparsa della mente e della «noosfera» (nella quale si affermava avesse sede la mente) a una «legge di complessificazione» che governa l'evoluzione sia della materia inanimata sia di quella animata. I teorici dell'evoluzione emergente, a mio avviso, non hanno dato alcun contributo costruttivo alla risoluzione del problema, anzi, al contrario, hanno camuffato la questione sotto il velo di seducenti metafore poetiche. Io ho invece cercato di affrontare il problema come scienzato piuttosto che come poeta, come studioso di evoluzione nell'accezione piú ampia: evoluzione dell'universo, evoluzione della vita, evoluzione della mente, evoluzione della cultura.

Assumendo il punto di vista evoluzionista siamo costretti a considerare la mente nel contesto degli altri aspetti dell'evoluzione, tracciando paralleli anche con forme di adattamento ben piú terrene, quali gli organi di locomozione o di digestione. Nel contesto dell'evoluzione la mente di un essere umano adulto - l'oggetto di tanti secoli di speculazioni filosofiche - cessa di essere un fenomeno misterioso, un qualcosa a sé stante; essa appare, al contrario, come una risposta adattativa a un certo insieme di pressioni selettive, al pari di quanto accade per quasi tutto ciò che appartiene al mondo vivente.

Per cercare di rispondere alla nostra ingenua domanda abbiamo iniziato a esaminare brevemente l'evoluzione dell'universo, dal Big Bang, alla nascita delle galassie e delle stelle, fino alla formazione del pianeta Terra. Lo scopo di questa concisa panoramica era di dare un'idea di come fosse l'universo prima della comparsa della vita e della mente, anche se la descrizione e la comprensione di questa prima parte prebiotica dell'evoluzione può essere soltanto parzialmente deterministica, dato che in molti casi l'amplificazione di fluttuazioni statistiche introduce elementi di indeterminazione nello svolgersi degli eventi. Siamo quindi passati a considerare l'origine della vita dal cosiddetto «brodo primordiale», la quale si può far risalire a un periodo ben determinato della storia della Terra. Ma, mentre la conoscenza degli aspetti fisici dell'evoluzione terrestre consente di accertare la datazione dell'epoca d'origine con ragionevole sicurezza, tutti gli altri aspetti dell'origine della vita sono invece avvolti nel mistero. Tutte le forme di vita attuali, dai piú modesti procarioti fino all'uomo, possiedono un'organizzazione chimica di base straordinariamente unitaria. Un abisso, al contrario, separa tutti gli esseri viventi, grandi o piccoli che siano, dalla materia inanimata, un abisso che oggi pare piú profondo di quanto non si credesse fino a soltanto pochi decenni fa. L'unità della materia vivente risulta evidente negli acidi nucleici, che fungono da depositi dell'informazione genetica, e nelle proteine, che sono gli esecutori dell'interpretazione dell'informazione genetica, ricevendo segnali sia dall'interno che dall'esterno dell'organismo e producendo reazioni appropriate a tali segnali.

Nel metabolismo energetico sono esemplificate due caratteristiche generali dell'evoluzione: la tendenza conservativa e l'opportunismo. Se un dato metabolita, ossia un prodotto intermedio di una reazione biochimica, si è rivelato atto ad assolvere una funzione essenziale, gli organismi preferiscono mantenerlo, adattandolo e perfezionandolo per renderlo adeguato a molte altre situazioni, piuttosto che elaborare da zero nuove soluzioni per ogni nuova situazione. Perciò, contrariamente a quanto spesso si pensa, le caratteristiche anatomiche e fisiologiche delle forme di vita attuali non rappresentano necessariamente soluzioni ottimali dal punto di vista "sincronico", secondo il quale ha importanza soltanto la situazione presente. Quando si valutano queste caratteristiche dal punto di vista "diacronico" - tenendo cioè conto della successione delle varie situazioni storiche - appare chiaro invece che l'evoluzione si è avvalsa non di ciò che era teoricamente ottimale, bensí di qualunque cosa capitasse a disposizione e fosse adeguata a svolgere una funzione necessaria. Il processo evolutivo, nella concezione darwiniana, è in qualche senso analogo alla termodinamica statistica, in quanto i singoli passi dipendono da eventi casuali che non si possono prevedere con certezza, mentre non è escluso che i processi e i comportamenti che risultano dall'insieme di questi passi siano al contrario prevedibili.

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Il senso di assurdità evocata dalla domanda «la mente deriva dalla materia?» è forse analoga al senso di assurdità che abbiamo imparato a superare quando consentiamo che la teoria della relatività alteri i nostri concetti intuitivi di spazio e di tempo e che la teoria dei quanti stravolga i nostri concetti intuitivi di oggetto e di causalità. Se impareremo ad accettare anche quest'ultima, estrema assurdità, rimarrà forse la speranza di riuscire a sviluppare un approccio formale che permetta di realizzare una grande sintesi.

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