Copertina
Autore Jesús del Campo
Titolo Le ultime volontà del cavalier Hawkins
Edizionenottetempo, Roma, 2003, , pag. 280, cop.fle., dim. 140x200x16 mm , Isbn 978-88-7452-015-2
OriginaleLas últimas voluntades del caballero Hawkins [2002]
PrefazioneLuis Sepúlveda
TraduttoreAlessandra Riccio
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa spagnola
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Pagina 13

Adesso che non sono ancora vecchio e, seduto qui davanti al mare, impugno la penna per la seconda e ultima volta nella mia vita, ho deciso di mettere per iscritto quel che non voglio dimenticare, quel che dev'essere salvato dalle bufere del tempo. Poiché è lui a stabilire le frontiere dell'età; è la morte a decidere a suo capriccio di potare gli alberi del bosco che noi tutti attraversiamo fugacemente una sola volta e di sostituirli con altri nuovi e sconosciuti, a sloggiare dalla scena nobili personaggi che un tempo applaudivamo con fervore per ridurli a ombre. Sul campo di Minden cadde il dottor Livesey, con dieci pallottole francesi in corpo e la sua valigetta ancora saldamente in mano, mentre correva a prestare aiuto ad alcuni soldati feriti. Il capitano Smollett, per parte sua, aveva noleggiato la propria nave e un bel giorno era salpato da Liverpool alla ricerca del passaggio a nordovest, con una dotta compagnia di botanici e cartografi, per non far piú ritorno, perché in qualche punto della loro rotta furono inghiottiti dai ghiacci. Quanto allo squire Trelawnev, che aveva pensato di andare a Napoli e da lí Imbarcarsi per Minorca, col solito pretesto di cercare un clima soleggiato che gli facesse dimenticare l'umidità dell'Inghilterra e lo rimettesse in salute, fu assassinato dai banditi mentre attraversava le Alpi. Ora che questo secolo luminoso giunge alla fine, magari per vedersi oscurato dalla torva sagoma del còrso, di cui tanto si parla, e che presto o tardi cercherà di proiettarsi anche sulla nostra isola, è un buon momento per raccogliere i ricordi che altrimenti potrebbero disperdersi per sempre; perché alla fin fine, non sapere né il giorno né l'ora, come dice la Bibbia, non è un buon motivo per stare in allarme, anzi. Oggi è un giorno come un altro per scrivere quello che voglio scrivere.

Mi sembra inutile raccontare i particolari di un certo viaggio che non mi proverò a ricordare, e al ritorno dal quale mi scoprii in possesso di una considerevole fortuna e, forse proprio per questo, troppo indisciplinato per sopportare i rigori di scuole, banchi e maestri. All'epoca ero solo un ragazzo con la testa piena di dubbi che mi tennero inchiodato per anni alla mia pigrizia, e forse sarebbero durati anche di piú se certe febbri maligne non si fossero portate via la mia buona madre, lasciandomi completamente orfano e solo nella grande casa che un tempo era stata la locanda dell'Ammiraglio Benbow. Decisi ora di riaprirla. È vero che non avevo bisogno di lavorare per vivere nell'abbondanza, ma mi sentivo a disagio a non fare nulla. E poi, ora che non c'era piú la guerra, arrivavano dall'altra parte del canale notizie di un nuovo sapere che stava fermentando in Francia e poteva trasformare radicalmente il pensiero degli uomini. Decisi allora che il mio primo ospite sarebbe stato francese. Ma devo spiegarmi meglio. Ero stato a Oxford, mosso dalla curiosità crescente e disordinata che mi ribolliva in testa, per assistere a una conferenza sui farmaci contro lo scorbuto. Lí avevo fatto la conoscenza di un giovane entusiasta, figlio di un notaio bordolese, che, apparentemente, si trovava nel nostro paese per studiare il diritto. Ma il suo vero scopo era di osservare il modo di vivere degli inglesi, convinto che il nostro spirito fosse o avrebbe dovuto essere la guida dei nuovi tempi. Lui voleva prolungare il suo soggiorno in questo paese e io volevo imparare il francese e magari allargare i confini del mio ingegno. Si chiamava Louis Guillaume Brossac.

Il nostro patto era semplice: lui mi avrebbe insegnato la sua lingua e io gli avrei offerto alloggio gratuito nella locanda. Era di due o tre anni maggiore di me e aveva una faccia gentile, modi delicati e un passo veloce al quale mi costava adeguarmi, quando insisteva che le nostre prime lezioni non dovessero svolgersi fra quattro mura ma all'aria aperta. Durante le lunghe passeggiate sulla riva del mare ruggente, gli piaceva soffermarsi a contemplarlo. Apriva le braccia e allargava i polmoni con un gesto di candida soddisfazione, provocato, secondo me, non solo dal godimento spontaneo della bellezza della costa inglese, ma anche dalla coscienza di obbedire a un comandamento di conio recente, secondo il quale agli uomini spettava l'eroico impegno di affratellarsi con i paesaggi del mondo. E cosí imparai a dire in francese scogliera, tormenta e palma. Qui devo spiegare che al mio ritorno dal viaggio, che non voglio rievocare e che adesso però sto rievocando, avevo portato con me una svelta palma, che piantai davanti alla locanda e che è cresciuta in fretta fino a nascondere parte del mare grigio e tenace che guardo dalla mia finestra. Ma ho imparato anche parole per me piú difficili, perché il mio giovane tutore aveva fatto di me un sottoscrittore del Grande Dizionario dei signori Diderot e D'Alembert, i cui primi volumi cominciarono presto ad arrivare tramite un libraio di Bristol. Cosí imparai a dire cittadino, filosofo e legislatore, e a discutere metà in francese, metà in inglese, il diritto dell'uomo a essere felice sulla terra, l'autorità che il principe riceve dai sudditi, e l'importanza del fatto che un governo cerchi di essere armonico piuttosto che perenne. Lei è un alunno molto speciale, signor Hawkins, dico sul serio, era solito dirmi il signor Brossac quando tornavamo dalla nostra passeggiata quotidiana. Parlando con lei si ha l'impressione che sia stato costretto a tenere gli occhi ben aperti fin da piccolo. E poi, senza cambiare espressione, prendeva la sua scacchiera, la appoggiava sul tavolo e giocavamo una partita che di solito perdevo; perché anche quella è un'arte in cui lui era l'istruttore e io l'istruito. Una sera, di punto in bianco, si congratulò affettuosamente con me per essermi difeso bene, mentre in verità mi ero limitato a pareggiare, e mi disse che quella scacchiera era stata la scena di importanti battaglie famigliari che adesso meritano un capitolo a parte.

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Pagina 73

Avevo già notato che, da quando aveva imparato a leggere e scrivere, Geoffrey si era particolarmente affezionato all'arte della conversazione, e si mostrava piú sicuro e convincente al momento di mostrare le sue opinioni. Parlare è molto importante, signor Hawkins, mi disse una sera mentre spaccavamo la legna in cortile sotto un vasto cielo color prugna. Sí, molto importante. È il modo migliore per conoscere gli uomini. Dovremmo parlarci tutti di piú, e raccontare quel che sappiamo. Mi viene in mente che lei potrebbe collocare un cartello alla porta della locanda, esigendo che il viaggiatore sia in grado di raccontare una storia, e cosí convertirebbe l'Ammiraglio Benbow in qualcosa di simile a un club, come quelli di Londra. Nel sentire questo, mi appoggiai al manico della mia ascia per ribattere, ridendo, che la tolleranza del nostro tempo doveva proteggere anche coloro che mancavano d'immaginazione e preservare il salutare spirito commerciale che rende utile il denaro di tutti. Ma il signor McLairg, che era seduto vicino a noi e stava ingrassando i suoi stivali, dovette pensare che Geoffrey gli rimproverasse la sua scarsa socievolezza e, signor Anderson, disse serio, interrompendo il suo lavoro, io non so, signore, se lei ha navigato con degli scozzesi delle Lowlands. Quello che so è che a noi uomini delle Highlands nessuno dà lezioni su come raccontare una storia, anche una storia vera, come quella che adesso voi mi farete l'onore di ascoltare. E il signor McLairg si alzò in piedi, andò in cucina, prese tre bicchieri e una bottiglia di whisky dalla credenza e tornò a sedersi con noi.


Sapete che. dopo la sconfitta di Culloden, i soldati di Cumberland per cinque mesi cercarono di seguire, invano, le tracce del buon principe Carlo, che finí con l'imbarcarsi per la Francia senza che le giubbe rosse riuscissero ad acciuffarlo. Quel che molta gente non sa è che, durante il lungo e complicato inseguimento, successero cose che i vincitori cercarono di mantenere segrete, ma fallirono anche in questo.

Comincerò col dirvi che Angus Archibald McCùirn era un uomo del mio clan che cadde ferito gravemente non appena cominciammo a caricare gli inglesi. La battaglia fu breve, e quando tutto fu terminato per causa nostra, venne il momento in cui i soldati del macellaio si occuparono di finire i vinti che giacevano sul campo. So che si avvicinarono ad Angus Archibald McCùirn e si burlarono della sua debolezza e della sua agonia, e uno degli inglesi gli strappò la spada e, adesso non la puoi piú usare, gli disse, no davvero, ed è un peccato che un'arma cosí ben temprata non possa piú compiere la sua funzione, è veramente un peccato che i suoi giorni di gloria siano finiti. Angus Archibald McCùirn lo guardava fisso negli occhi, steso lí nel fango e coperto di sangue, e indovinò quel che l'inglese stava per fare. Indovinò che stava per dirgli, allora, facciamo in modo che questa spada cosí pesante e temibile esegua la sua ultima azione di guerra. E fu proprio quel che l'inglese disse, e colpi immediatamente il mio parente in maniera cosí terribile e crudele da staccargli il collo dalle spalle, e poi gettò la spada sul cadavere con grande disprezzo e si allontanò.

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Pagina 110

Non so se le storie raccontate dal signor Schwertfeld contribuirono a migliorare il mio animo, ma è certo che conquistarono la simpatia di Geoffrey e del signor McLairg, e nei giorni seguenti non era raro vederli uscire insieme, diretti al villaggio, per tornare ore dopo, visibilmente rafforzati nello spirito di cameratismo dall'azione combinata di diverse bevande alcoliche che alzavano il tono delle loro voci e li portavano a raccontare fra le risate le burle di ogni sera. Per esempio, quella che fece il signor McLairg quando, dopo essersi alzato in piedi sulla sedia e aver orinato con mira precisa e grande controllo nel suo bicchiere di acquavite, chiamò il taverniere e tra le bestemmie ordinò di rimettere quel liquore nella sua bottiglia e di portarne uno piú zuccherato, per diavolo, e forse in Inghilterra un uomo non può bere senza destare sospetti!? Qui il signor Schhwertfeld si affrettò a esprimere il suo dissenso, perché l'azione del signor McLairg non avrebbe dovuto essere clandestina ma formulata in un atto legale che autorizzasse il nostro amico scozzese a ripartire i suoi piú grandi sforzi fra le boccette dei profumieri di Bristol e di Londra, per cui offrirgli da bere gratis a suo piacimento non sarebbe stata carità ma al contrario intuito commerciale; e Geoffrey dichiarò a conclusione che prima della cosmetica veniva la salute pubblica, e il signor McLairg avrebbe dovuto annaffiare a turno tutti i pozzi del villaggio cosí che l'acqua, che non era mai insipida in questi tempi di frodi nei quali il té veniva scurito con il piombo e il latte ispessito col gesso, cambiasse almeno la qualità; migliorandola. E mentre i miei ospiti raddoppiavano la loro allegria, in verità io ero infastidito da quegli scherzi da ubriachi, e non perché la mia vocazione alla tolleranza fosse diminuita, ma perché il ricordo di Edna Ambergate mi batteva in testa con una forza sconosciuta, e posso dire che mi sentivo particolarmente disgraziato. Salivo continuamente in soffitta a maledire la precisione dei ragni che tessevano le loro tele secondo leggi immutabili, più decifrabili del disordine che regolava l'esistenza umana, in perenne attesa di qualcosa, che veniva poi sostituita da un'altra attesa piú veemente e che richiedeva ancor più pazienza. Maledissi anche la mia ingenuità per aver pensato che i misteri della vita mi sarebbero stati svelati un giorno, almeno quel tanto da lasciarmi sperare di essere diventato un po' piú saggio del giorno precedente; adesso ogni sforzo mentale mi sembrava condannato ad annegare in un mare di pene, e le leggi della mia testa, fragili lance di carta che si mutavano in cenere avvicinandosi al mio cuore.

Una mattina, mentre abbracciavo il guanciale del letto sognando da sveglio baci che non potevo piú dare, mi fece piacere sentire dei rumori al piano di sotto che annunciavano l'arrivo di un nuovo ospite e mi distraevano da un sentimento che mi induceva a cercare dolcezza nell'amaro della malinconia e cominciava a farmi paura. Mi vestii in fretta, scesi le scale e mi trovai davanti un cavaliere smilzo e dal portamento arrogante, labbra sottili, naso affilato, occhi sfuggenti e pelle esangue, non so se come quella di un malato, in realtà non lo sembrava a causa dei suoi gracili movimenti, ma come quella di chi ha evitato per qualche ragione la luce del sole. Non parlava bene l'inglese, e mi fece piacere potermi servire del francese con qualcuno a cui riusciva utile; egli ne sembrò sorpreso e sollevato, e mi parve di scorgere sul suo volto un accenno di sorriso con cui volesse farmi intendere che mi considerava un uomo educato al nuovo pensiero, un fratello iniziato nei lumi del secolo.

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Pagina 169

Quanto sto per raccontarvi, disse il signor Schwertfeld, l'ho udito non molto tempo fa a Brema; fra poco vi spiegherò come. Ma prima dovete sapere che il cavalier Sven Luneberg, della nobiltà norvegese, è il protagonista di una delle storie piú straordinarie e meno conosciute del nostro secolo, una storia che comincia il giorno in cui, durante un viaggio a Christiana, il cavalier Luneberg s'innamorò di una giovane il cui nome non è stato serbato. Il cavalier Luneberg raramente usciva dalle proprietà di suo padre, un anziano che, feroce nemico della dominazione danese, se ne restava isolato a casa sua, amministrando le rendite dei boschi, vigilando sull'educazione dei figli e pregando per la libertà del suo paese. Ma come vi ho detto, venne il giorno in cui il cavalier Luneberg si recò a Christiania e incontrò la donna dei suoi sogni. Forse andò cosí o forse l'aveva sognata ed ebbe un sussulto nel vederla trasformata in realtà mentre camminava fra i moli del porto in compagnia del padre, un armatore di Bergen in affari con i commercianti della Lega anseatica. Forse, ma questa non è un'idea mia bensí di chi mi ha raccontato la storia, il cavaliere e lei si erano visti quando erano bambini in qualche parte del paese e lui non l'aveva dimenticata. Fatto sta che a partire da allora il cavalier Luneberg non ebbe altro pensiero che il suo amore. Venne a sapere che si accingeva a intraprendere un lungo viaggio in Europa in compagnia di suo padre e, senza perdere tempo, tornò a casa, chiese a suo fratello un prestito segreto sulla parte dell'eredità paterna che gli spettava e, pochi giorni dopo, parti all'inseguimento della sua amata.

La incontrò a Praga, dove il padre della giovane aveva deciso di recarsi non per motivi professionali ma per il semplice desiderio di viaggiare secondo la moda dei tempi, escludendo l'attraversamento delle Alpi. Un luterano convinto come lui non aveva la minima intenzione di visitare la capitale papista. Dunque Praga fu la sua prima meta, o per lo meno la prima città in cui il cavalier Luneberg riuscí a vedere la sua dama. Devo chiarire che si limitò a vederla. Prima, passeggiando nei dintorni del castello; poi, seguendo i suoi passi a prudente distanza, fino alle strade di Mala Strana. Quando la vide entrare nella locanda e scomparirvi, il cavalier Luneberg camminò molto frastornato verso il ponte Carlo e se ne restò a contemplare il fiume non si sa per quanto tempo.

L'incontro seguente, per cosí dire, ebbe luogo a Colonia, dove il cavaliere riuscí a farsi invitare a un banchetto offerto nella Festhaus dai commercianti della città e al quale sapeva che sarebbe intervenuta anche lei, al seguito di suo padre. Non si sa come, il cavalier Luneberg s'ingegnò sempre in modo da sapere dov'era diretta la donna che amava, forse lasciando qualche moneta nelle mani dei locandieri che, senza offesa, herr Hawkins, in alcune terre sono assai sensibili alla persuasione del denaro. La verità è che nemmeno a Colonia il cavalier Luneberg volle parlare con la dama, anzi, abbandonò il banchetto prima che terminasse, montò a cavallo, cercò velocemente l'uscita dalla città e attraversò al galoppo la Eigelsteintor.

Il padre della ragazza decise di passare le acque a Spa, e presto lo si vide passeggiare al braccio della figlia nei giardini delle terme, salutando qua e là distinti membri di varie corti europee che, come sapete, hanno reso alla moda la città e le hanno dato una fama che prima non aveva. Il cavalier Luneberg non si lasciava impressionare dallo sfarzo, che considerava un difetto estremamente antipatico, e non si sentiva inferiore a nessuno di quegli zerbinotti imparruccati che dilapidavano fortune al tavolo da gioco; il che ci fa pensare che la sua timidezza avesse come unico limite quello che gli imponeva l'amore. Per questo si senti sfidato quando vide la giovane oggetto delle attenzioni di un danaroso gioielliere di Bruxelles, che si comportava come se essere padrone di una rendita giustificasse ogni sfrontatezza. Il cavalier Luneberg credeva che una dea potesse solo respingere un mortale, soprattutto uno il cui presuntuoso abbigliamento rivelava il desiderio di emulare i modi degli aristocratici, ma si sbagliò, e dovette sopportare la disgrazia definitiva di constatare, passeggiando una notte in giardino, che oltre a non respingerlo, la giovane dava segni evidenti, e molto dolorosi a vedersi, di accettarlo. E questo fu più di quanto il cavalier Luneberg potesse sopportare.

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