Autore Don DeLillo
Titolo End zone
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Supercoralli , pag. 244, cop.ril.sov., dim. 14x22,2x2 cm , Isbn 978-88-06-19847-3
OriginaleEnd Zone [1972]
TraduttoreFederica Aceto
LettoreGiorgio Crepe, 2014
Classe narrativa statunitense , sport












 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

Capitolo primo


Taft Robinson fu il primo studente di colore a iscriversi al Logos College, nel Texas occidentale. Lo presero perché era veloce.

Alla fine di quella prima stagione risultò di gran lunga uno dei migliori running back nella storia del Sudovest. Presto, magari, avremmo potuto vederlo anche sugli schermi televisivi di tutta la nazione a sponsorizzare automobili da ottomila dollari o schiume da barba al profumo di avocado. Il suo nome su una catena di fast food. La sua vita sul retro delle confezioni di cereali. Si potrebbe scrivere un soporifero saggio monografico solo su questo tema: l'atleta moderno come mito commerciale, con tanto di note a piè di pagina. Ma le cose sono andate diversamente. Quell'anno ebbe altre modulazioni, almeno per me: il fenomeno dell'anti-applauso, parole disarticolate in versi belluini, e conseguentemente un silenzio di una consistenza metallica. Quindi Taft Robinson, per giusto o sbagliato che sia, è una mera presenza che aleggia in questo libro. E io, in un certo senso, penso che sia giusto cosí. Il palazzo è da tempo infestato dalla presenza (ed ecco che arriva la doppia metafora) dell'uomo invisibile.

Ma rimaniamo sul semplice. I giocatori di football sono persone semplici. Le complessità, le oscure trame della mente o del cuore umano sono cose cui si presta attenzione soltanto all'interno delle righe di gesso che segnano i confini del campo da gioco. A volte capita che l'erba sintetica sia increspata da strane visioni, si assiste a volte a qualche fuoriuscita di follia. Ma per raggiungere un posto qualsiasi, il giocatore di football segue sempre la via piú dritta possibile. I suoi pensieri sono improntati a una sana ovvietà, le sue azioni non sono gravate dalla storia, dall'enigma, dall'olocausto o dal sogno.

Nel corso di quell'intensa estate, i nostri giorni e le nostre notti vibrarono di passione per la semplicità, per le cose vere di un tempo, come i ragazzini in bicicletta che consegnavano giornali porta a porta. Ci allenavamo nel caldo tremulo, aggrappati alla sola certezza che qui le cose erano semplici. Colpire o essere colpiti, aggirare il bloccatore, travolgere l'avversario, succhiare cubetti di ghiaccio e riassumere la three-point stance. Avevamo una rosa ridotta all'osso, ma sotto la guida di un head coach famelico e dei suoi sette tirannici assistenti ci sentivamo tutti motivatissimi. Alcuni di noi erano persone molto semplici, altri si potevano definire reietti o esuli; tre o quattro, come capita in ogni squadra di football, erano pazzi. Ma eravamo tutti - persino io -, eravamo tutti motivatissimi.

Facevamo i drill sull'erba a quaranta gradi sotto il sole. Aggredivamo le slitte per i bloccaggi e facevamo le skip tra le corde incrociate. Andavamo in una zona di campo che chiamavamo lo scivolo (una stretta striscia di terra costeggiata ai due lati da una serie di sacconi) e giocavamo uno contro uno, bloccatore e difensore, ci atterravamo a vicenda combattendo corpo a corpo. Ci prendevamo a testate, graffi, calci. Spesso volavano pugni. Una volta ci fu una zuffa scomposta che gli allenatori tollerarono per piú o meno cinque minuti guardandoci da bordo campo con un'espressione amichevolmente annoiata, mentre noi ci sferravamo calci negli stinchi e tiravamo destri e sinistri muti contro facce ingabbiate. I piú impulsivi arrivarono a togliersi il casco agitandolo contro qualsiasi cosa gli passasse davanti. Di sera pregavamo.

Io ero uno degli esuli. Molte volte, credetemi, mi sono chiesto cosa ci facessi in quel luogo sperduto e denutrito, in quella tundra estiva, a farmi gonfiare di botte da due texani imbufaliti di centotto chili. Arrivando a sera cosí stanco e indolenzito da non riuscire nemmeno ad alzare un braccio per lavarmi i denti. Forzato a obbedire agli ordini atroci di uomini irragionevoli. Lontano da tutte le forme di civiltà che conoscevo, per averle studiate o per esperienza diretta. Accompagnato a pregare ogni sera, con il resto della squadra, dal nostro allenatore, stregone e patriarca vendicatore. Costretto a condurre una vita semplice.

Poi un giorno ci dissero che Taft Robinson avrebbe frequentato la nostra università. Aspettai il suo arrivo con ansia: finalmente, dopo un periodo di eventi spiacevoli e piccole disperazioni, succedeva qualcosa. Ma nell'apprendere questa notizia i miei compagni di squadra si incupirono. Era un'interruzione della semplicità, l'angolo stregato di un sogno, un pezzo di bosco magico che mirava solo a spaventarli di notte.

Taft veniva dalla Columbia University. Su di lui si sentivano in giro solo cose positive. (1) Correva le cento yard in 9,3 secondi. (2) Si muoveva bene e aveva mani buone. 3) Era forte e raramente faceva fumble. (4) Rompeva i placcaggi come se passasse per un tornello. (5) Quando era in buona se la cavava anche come bloccatore.

Ma soprattutto era capace di volare: 9,3 secondi cronometrati sulle cento yard. La velocità. Aveva la velocità di uno sprinter. La velocità è l'ultima emozione forte che ci rimane, la sola cosa che non abbiamo ancora esaurito, la sola che conserva tutto il suo potenziale, il misterioso dono dei neri in grado di entusiasmare milioni di persone.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 113

Capitolo diciannovesimo


Gli special team entrarono in collisione, corpi intercambiabili che sciamavano e cozzavano, piccole guerre che scoppiavano un po' ovunque, esaltazione e primi spargimenti di sangue, caschi luccicanti che rimbalzavano sull'erba splendente, l'impatto spasmodico di due masse distruttive, uno spettacolo bello da guardare.


(Lo spettatore, a questo punto, si starà senz'altro chiedendo se gli toccherà sorbirsi una partita di football per iscritto — uno stratagemma dell'autore per aggiungere la sua personale tacca sull'arma scalfita della scrittura di guerra. In fin dei conti, si sa che il tema dominante di questo gioco è la tecnologia d'assalto e si conoscono vari casi di commentatori disposti a fare doppi salti mortali nelle loro discussioni in pubblico per dimostrare l'esistenza di un parallelo tra il football e la guerra. Ma tutto ciò è di scarso interesse per lo spettatore esemplare. Come dirà piú in là Alan Zapalac: «Io rifiuto il parallelismo tra football e guerra. La guerra è guerra. Non abbiamo bisogno di succedanei dal momento che abbiamo l'originale». Lo spettatore esemplare è una persona che capisce che lo sport è un'illusione benigna, l'illusione che l'ordine sia possibile. È una forma di società senza topi e senza rischi per i neonati, organizzata in modo che tutti seguano le stesse identiche regole; una società controllata elettronicamente, in modo da ridurre l'incidenza dell'errore umano a vantaggio dell'industria. Tutto ciò esclude gli inefficienti e punisce i colpevoli. Una società che tende sempre alla perfezione. Lo spettatore esemplare ogni tanto trova soddisfazione, ma non attraverso la guerra, no no, anzi. Lo spettatore ha bisogno di dettagli: impressioni, colori, statistiche, schemi, misteri, numeri, espressioni idiomatiche, simboli. Il football, piú di altri sport, è in grado di soddisfare questi bisogni. È per eccellenza uno sport basato sul linguaggio, sulle parole dei segnali, sui numeri degli snap, sul codice dei colori, sui nomi delle giocate. Il piacere dello spettatore, quando non nasce da un'azione, deriva dal concetto della singolare natura organica del gioco. Non si tratta solo di ordine, ma di civiltà. E in parte lo spettatore ha bisogno di riordinare i vari livelli di materiale: ripartire, comprimere, catalogare. Questo bisogno va avanti di campionato in campionato, divorando la passione e la serenità dello spettatore, il quale cerca di non farsi prendere dal panico quando sente l'ultimo colpo di pistola dell'ultima partita della stagione. Sa che deve fare le provviste, mettere via un po' di cibo per l'inverno dell'estate. Avverte il flebile bisogno di sopravvivere alla fine del girone di ritorno. Per cui, forse, quel che segue ora è una forma di sostentamento, un gioco su carta su cui concentrarsi nei giorni tediosi che separano un evento dall'altro, qualcosa da appoggiare a un sostegno e guardare - il libro che si fa televisore - per trovarci termini, schemi, numeri. O forse no. È probabile che ci siano ragioni piú profonde dietro questa telecronaca minuto per minuto. La cosa migliore è che lo spettatore prosegua, immergendosi, tramite la lettura, nel cuore di questa benigna illusione. L'autore, sempre leggermente corrotto nelle sue vanità e nelle sue invenzioni, ha cercato di ridurre la gara a unità basilari di linguaggio e azioni. È noto che ogni inizio deve essere marcato da un vistoso segnale di pericolo, e perciò è bene che le nonnine, le femminucce, i lepidotterologhi e compagnia bella sappiano che la nomenclatura che segue sarà spesso e volentieri indecifrabile. Ma al contrario di quanto potrebbe sembrare, ciò non rappresenta un problema. Gran parte del fascino di questo sport deriva dal suo essere basato su un elegante gergo incomprensibile. E naturalmente rimane dovere dell'autore tirare il lessico fuori dalla sua confezione per mostrarlo a tutti: un criptico meccanismo a orologeria in cerca di una rivoluzione).


Blue turk destra, doppio slot, zero snag delay.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 162

Attraversammo il campus insieme. Io avevo una lezione di esobiologia e non volevo fare tardi. Ma per quanto mi affrettassi, facevo fatica a tenere il passo del maggiore. Alla fine ci salutammo, e quando lui si girò per avviarsi verso la caserma, ebbe un improvviso cedimento alla gamba destra e per poco non cadde. Lo osservai mentre ritrovava l'equilibrio e cercava di continuare per la sua strada, senza girarsi a guardarmi, zoppicando vistosamente nel tentativo di adattarsi al peso del suo corpo. Mi girai e una cinquantina di metri piú avanti vidi Myna Corbett. Mi misi a correre per raggiungerla, guadagnai velocità negli ultimi dieci metri e mi fermai di colpo per farle paura. Lo scherzo mi riuscí alla perfezione: il suo corpo sobbalzò e si sollevò di qualche centimetro dal terreno.

Mentre parlava, Zapalac girava attorno alla cattedra.

- Sarebbe interessante chiedersi in che cosa la nostra vita sulla Terra sia in debito con tutte le comete che negli anni formativi della nostra storia, gli anni in cui siamo cresciuti, sono venute a cozzare contro il pianeta depositando milioni e milioni di tonnellate di materiali chimici; e probabilmente non è un'esagerazione poeticizzante sostenere che noi abbiamo ricevuto il nostro nutrimento dal cielo, siamo stati sostenuti e accompagnati per i nostri primi due miliardi di anni o comunque finché non abbiamo raggiunto la capacità di provvedere a noi stessi da soli, sintetizzando sostanze di base, facendo il primo passo per ricambiare il favore, avventurandoci nello spazio con confezioni di chow mein appena scongelate per la cena. Ma se proprio devo essere sincero, a me non interessa poi tanto il contenuto di carbonio dei meteoriti, né discutere su quando con esattezza siano comparsi i primi organismi viventi sulla Terra. Personalmente penso che sia stato nel duecentodiciassette a.C. a Kearney, nel Nebraska. Ma cosa dire invece degli ultimi organismi viventi, delle spore e gli idrozoi che rimarranno dopo che i nostri protettori ci avranno spinto nell'oblio? Diventeremo corpuscoli di astroplancton, nubi di materia polverosa che vaga nello spazio. Permettetemi di farvi questa domanda. Qual è la cosa piú strana di questo paese? Ecco la risposta: che quando mi sveglierò domani mattina, una mattina come tutte le altre, il primo pensiero spaventoso non saranno i nemici della nostra nazione, i nemici storici contro i quali combattiamo la nostra guerra fredda o la guerra comesichiama. Quella gente lí non mi fa affatto paura. E allora di chi ho paura io, perché non c'è dubbio che abbia paura di qualcosa. Ve lo dico subito. È il mio stesso paese a farmi paura. Io ho paura degli Stati Uniti d'America. È ridicolo, non è vero? Ma è cosí. Prendiamo il Pentagono, per esempio. Se mai qualcuno ci ucciderà su vasta scala, questo sarà il Pentagono. Su piccola scala invece dovete stare in guardia dalla polizia locale. Dovreste vedere le facce che state facendo in questo momento, perlomeno alcuni di voi. Domanda. Può capitare che due agenti gentili, laureati e garbati, della squadra che si occupa del lavaggio del cervello vengano a bussare a casa mia alle tre di notte? Voi vedete il mio sorriso accattivante e contagioso e capite che questo pensiero non mi provoca alcuna ansia. Dopotutto siamo in America. Possiamo parlare liberamente. Potrei andare avanti tutto il giorno, citando con precisione tutte le fonti. Ma quando verrà il giorno fatidico, con tutta probabilità io correrò difilato da un parrucchiere, ammesso che ce ne siano in questo angolo sperduto del pianeta, e mi farò tingere i capelli di biondo, in modo che tutti mi scambino per uno di quei ragazzetti biondi con lo sguardo lontano che andavano per la maggiore sulla Himmelplatz tre o quattro decenni fa. Nella lezione di oggi dovremmo parlare del potenziale biotico di organismi in ambienti lontanissimi, ben oltre le strade maestre e gli anfratti del nostro sistema solare. Il potenziale biotico dell'uomo diminuisce, mentre tutto il resto cresce. Questa concisa formuletta potrebbe benissimo farmi vincere una borsa di studio per analizzare le modalità di sopravvivenza dall'altra parte dell'atmosfera. La prima borsa di studio in orbita nello spazio. E ora eccovi un pensiero profondo. La fantascienza sta cominciando solo ora a mettersi in pari con il Vecchio Testamento. Guardate per esempio i nitrati artificiali che finiscono nei fiumi e negli oceani. Guardate l'anidride carbonica che scioglie le calotte glaciali. Guardate come diminuiscono le riserve minerali di tutto il pianeta. Guardate le guerre, le carestie, le epidemie di peste. Guardate le orde barbariche che profanano il tempio delle vergini. Guardate gli stalloni imbizzarriti che montano i cani delle praterie. Ho detto fantascienza, ma probabilmente in realtà intendevo dire scienza e basta. Ad ogni modo, stiamo parlando della chiusura di una specie di cerchio mitico e/o storico. Ma io non smetto certo di sorridere. Non smetto di dirmi che non ho motivo di preoccuparmi finché la gioventú americana sarà consapevole di quello che le succede attorno. Cervello, muscoli, denti buoni, altezza. Guardo le vostre facce e non posso trattenere un controverso sorrisetto. Alcuni con la loro bella uniforme azzurra, venuti qui per studiare lo spazio e imparare a difenderlo. Uniformi, bandiere, inni di battaglia. Vi sto per regalare la mia unica frase degna di nota dell'intero semestre. Una nazione non è mai piú ridicola delle sue manifestazioni patriottiche. Perché dovrei aver paura del governo del mio stesso paese? C'è qualcosa che non torna in questo ragionamento. Ma io non mi preoccupo. Per fortuna sono bravo a schivare i colpi. Sono un campione quando si tratta di rimbalzare e intrufolarmi. Guardate che non è facile fermare un uomo piccolo. E ora apriamo il libro a pagina settantotto. L'ipotesi della panspermia e le sue emozionanti implicazioni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 168

- Fantastico, - disse Zapalac. - Cosa non darei per essere un quarterback per i Denver Broncos. Io adoro lo sport. Adoro il football. Io rifiuto il parallelismo tra football e guerra. La guerra è guerra. Non abbiamo bisogno di succedanei dal momento che abbiamo l'originale. Il football è disciplina. È amore per la squadra. È ragione e passione insieme. I tifosi sono eccezionali. Saltano e urlano. L'hockey, io adoro l'hockey. La pallacanestro, troppo sudore in posti che non riesci nemmeno a vedere. È uno sport dove si suda, uno sport da ascelle. Il football, però: io lo adoro, il football. Mi fa impazzire. Ci vado pazzo.

- I bisogni basilari di un uomo, - dissi.

- Fantastico, - disse lui.

- Prendi un'arancia, - disse Myna.

- Tornando a quello che dicevi prima, le cose che ti fanno paura. Dove sono annidati i veri pericoli. Qualcosa sulle manifestazioni di patriottismo.

- Permettetemi un breve accenno allo sventolio di bandiere e al folle e ripetitivo rito che entra in gioco ogni volta che si innalza una bandiera su un pennone o che dei veterani di Gettysburg arrivano zoppicando con le loro medaglie, le loro spillette, i loro papaveri, le loro bandiere, i loro cappelli, i loro stendardi, i loro adesivi, o in occasione di un normalissimo evento sportivo in cui alzi lo sguardo e all'improvviso ecco che vedi sedicimila tra Nobili del Mistico Velo e Massoni che, con in testa quei buffi copricapi turchi, occupano ogni centimetro del campo da gioco mescolati a trecentottantacinque ragazzine delle superiori vestite di rosso, bianco e blu che si prostrano a terra, nonostante il freddo, a formare una bandiera americana che viene trascinata nello sterco di yak da studenti stranieri affetti da sifilide, mentre da un lato c'è un qualche personaggio televisivo paralitico in carrozzella, tenuto su con la carrucola, che canta l'inno nazionale, mentre il bambino fibrocistico del mese posa nudo per la copertina di «Life». Di solito questo genere di spettacoli mi preoccupa molto.

- Una mattina sono uscito a fare una passeggiata nella mia città e ovunque andassi vedevo sempre la stessa parola. Sulle vetrine dei negozi. Sui volantini per strada. Sugli spazi pubblicitari sui muri. L'ho vista per un paio di settimane. MILITARIZZAZIONE. Era ovunque: stampata, scritta a mano, scarabocchiata col gesso sui muri. Non capivo di cosa si trattasse.

- Io mi sarei dato alla macchia, - disse Zapalac. - Davanti a una parola del genere, io avrei fatto scorte di cibo e acqua e me ne sarei andato sulle montagne.

- Io sarei andata in Messico, - disse Myna. - Tieni, Zap, mangia quest'arancia.

- Davanti a una parola del genere, io non è che rimango per capire cosa sta succedendo. Io sono piccoletto. Dalla faccia posso sembrare un orientale. Mi possono scambiare per un messicano. Sono stato preso per iracheno e per ebreo. Non mi fido di un posto dove compaiono parole che finiscono in -izzazione. Queste parole mi fanno venire l'ansia. Io vado a rifugiarmi sotto terra. Vado a rifugiarmi sulle montagne.

- Io me ne andrei di corsa in Canada o in Messico, - disse Myna. - Mi comprerei una grande casa e ospiterei tutti quelli che scappano da quelli dell'-izzazione. Mangeremmo chili con carne e mandarini. Ci prenderemmo cura gli uni degli altri.

- Ma se volete sapere la verità, - disse Zapalac, - la mia stazza non mi preoccupa, se non per il fatto che mi impedisce di diventare un quarterback per i Denver Broncos. Mi piacerebbe tanto. Ci penso spessissimo.

[...]

- Questo libro è davvero incredibile. Non so come altro descriverlo. Vuoi sentire di cosa parla?

- Direi di no.

- È l'ultima parte di una trilogia scritta da Tudev Nemkhu, quell'autore mongolo di cui dicevo. È un'esperienza totale, Gary. Ti voglio raccontare solo un paio di cosine su questo libro.

- Quanto ine?

- Ci sono questi esseri per metà molluschi chiamati nautiloidi che abitano su un minuscolo pianeta di una galassia non molto distante dalla nostra. Il pianeta ha un solo oceano. Un grosso cerchio di liquidi e gas. È li che vivono i nautiloidi. Il resto del pianeta è arido a eccezione di una bassa montagna. In superficie non c'è alcuna forma di vita. Ci sono solo i nautiloidi nell'oceano. Questi nautiloidi, che sono grandi piú o meno due volte un essere umano, comunicano tra di loro per mezzo di un complesso sistema numerico extrasensoriale che l'autore descrive per quasi due capitoli, anche se per me alla fine rimane arabo. Ma è comunque una lettura pazzesca perché è davvero incredibile che una persona sia riuscita a inventarsi una cosa del genere. C'è un particolare che ho dimenticato di dirti, Gary. Il pianeta è circondato da un denso strato di schiuma, a un'ottantina di chilometri dalla superficie. Comunque, un giorno, all'improvviso, c'è un guasto nel sistema di comunicazione dei nautiloidi. Il loro linguaggio numerico diventa tutto confuso. Non riescono a comunicare in modo efficace, sono disorientatissimi, in preda al panico. Alcuni salgono sulla superficie dall'oceano ed escono. Altri cominciano a seguirli. Si avventurano strisciando sulla terraferma. Sono tutti in preda al panico. A un certo punto a uno di loro viene una specie di attacco incredibile e alla fine si libera del guscio. Nell'istante preciso in cui succede questa cosa, si spacca anche lo spesso strato di schiuma che circonda il pianeta. E poi ogni cosa piomba nel silenzio. Ah, ho dimenticato di dirti. La montagna non ha mai subito un processo di erosione. È triangolare. È per via di questa sua strana forma, se uno ci cammina attorno vede sempre la stessa superficie piatta e triangolare. Comunque, alla fine i nautiloidi ritornano nell'oceano. A eccezione di quello che si è liberato del guscio. Lui rimane sulla terraferma, e a un certo punto, dalla fessura nella crosta esterna del pianeta, comincia a penetrare qualcosa. Si tratta di una luce nera e polverosa. È una forma di radiazione elettromagnetica in parte nera, di una consistenza stranissima. L'autore dedica decine di pagine a questa cosa qui. A un certo punto, la luce si instilla, diciamo cosí, nel complesso apparato cerebrale del nautiloide. La creatura comincia a cambiare forma. La luce nera continua a riversarsi sulla creatura per un periodo che corrisponde a vari secoli, anche se secondo i parametri cosmici equivale a un semplice battito di ciglia. Il corpo della creatura diventa qualcosa di pazzesco. Sembra quasi che Tudev Nemkhu non voglia descriverlo. Alla fine lo fa, ma solo in termini di formule chimiche, equazioni matematiche e asserzioni derivanti dalla logica formale, e per quanto ne so io non è roba che lui si è inventato cosí di sana pianta, ma si tratta di cose verissime e documentate. E insomma, c'è questa creatura, formata dal paesaggio stesso per mezzo del potere di questa luce nera. È quasi un essere astratto. È privo di lineamenti o di qualsiasi genere di caratteristiche distintive. Direi che è difficile, per esseri dotati di braccia e gambe, concepire qualcosa del genere. È visibile, ma indescrivibile in realtà, se non in termini scientifici. Non è però un semplice essere informe, o un ammasso di protoni. È un insieme di equazioni e formule tramutate in una sorta di forma tangibile. La forma di questo essere cambia un milione di volte ogni milionesimo di secondo. Tanto per darti un'idea. E il suo cervello si evolve lentamente in fasi di luce e non-luce.

— Cosa significa?

— Non lo so, — disse lei. — Ma comunque a un certo punto ogni cosa diventa doppia. All'interno del meccanismo cerebrale di questo essere ci sono due paesaggi percepiti da due meccanismi. La creatura vede se stessa che vede ciò che è fuori da essa nel momento in cui l'osserva. Tudev Nemkhu spiega che questo sdoppiamento ha come conseguenza la creazione delle parole. Ogni riflesso, piú che una cosa, è una parola. Quando la parola è impressa nel meccanismo originale di questo essere, il riflesso che era l'immagine della parola scompare all'istante. Il cervello dell'essere continua a produrre riflessi e invia parole nel suo stesso complesso di circuiti. La creatura percepisce ogni cosa all'interno di se stessa. Duplica le percezioni e poi riduplica i risultati. Alla fine l'autore dà un nome a questo essere. Lo chiama il monadanom: la cosa che è ogni cosa. Che continua a produrre riflessi allo scopo di produrre parole. Le parole non hanno alcun significato. Sono solo frammenti di un linguaggio cosmico. E quindi ogni cosa si trova a esistere all'interno di questo complesso apparato cerebrale che un tempo era basato su un sistema numerico e che ora invece è guidato da fasi di luce e non-luce, o qualcosa del genere. Questa duplicazione va avanti per quelli che noi chiameremmo millenni, finché all'improvviso succede che una parola viene cancellata. Il cervello non ha dato alcun input di questo tipo e non capisce cosa stia succedendo. La parola si è cancellata da sola. Non esiste piú. Non ne resta traccia.

- E della montagna triangolare cosa mi dici? - chiesi.

- Io sono arrivata solo fin qui. Immagino che a un certo punto la montagna salterà fuori di nuovo. Ho dimenticato di dirti un'altra cosa. La spessa nebbia che circonda il pianeta consiste di una sostanza organica in grado di guarire da sola. E pian piano infatti la crepa si rimargina.

- Monadanom, - dissi.

- Esatto.

- E questo tizio è mongolo.

- Esatto, Gary. Solo che però non scrive in mongolo, ma in tedesco. La traduzione lascia molto a desiderare. Ah, a proposito. Vera vuole un campione della tua calligrafia.

- Per farci cosa?

- Vera è appassionata di psicografologia e analisi della personalità. Tutte cose che hanno a che fare con forme di astrologia degli antichi Maya. Esther invece ha la passione dell'acqua in bottiglia.

- Mi è venuta in mente una cosa, - dissi.

- Che cosa, Gary?

- Quella parola che continuavo a vedere ovunque nella mia città. Rappresentava una sorta di apoteosi. Ne sono piú che sicuro. Una forma di apoteosi, in un certo senso. Che impregnava l'aria.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 200

- Accomodati, Gary.

- Sí signore.

- Mi è stato riferito che c'è quasi una tempesta di neve là fuori.

- Ci abbiamo dato dentro, - dissi. - È stata una vera e propria partita. Ci abbiamo dato dentro seriamente, infischiandocene delle condizioni atmosferiche.

- Cosí mi è stato riferito.

- Come sta, coach? Diversi giocatori hanno provato a venirla a trovare. Sono sicuro che sarebbero contenti se gli portassi un messaggio da parte sua.

- Tutto procede secondo le previsioni.

- Sí signore. Molto bene. So che saranno contenti di saperlo.

- Una specie di tormenta, mi hanno detto.

- Sta nevicando forte, - dissi. - Una nevicata fitta e costante. La visibilità è ridotta a zero.

- Forse avremmo avuto bisogno di questo tipo di condizioni atmosferiche contro il Centrex.

- E chi se la dimentica quella partita, coach.

- Su quel campo abbiamo appreso una lezione di umiltà.

- È stata dura da accettare. Avevamo lavorato sodo e non potevamo perdere, avevamo cominciato in estate, con gli scrimmage sotto il sole. Avevamo lavorato sodo. Non era possibile credere che qualcun altro avesse lavorato meglio di noi. Ci eravamo sacrificati. Avevamo superato una serie di prove faticosissime. Per poi scendere in campo ed essere travolti in quel modo.

- Per vincere ci vuole carattere, - disse. - Non è solo una questione di yard. Le ingiurie al corpo. L'umiliazione e la paura. È una questione di dedizione, di carattere, di orgoglio. Ne abbiamo ancora di strada da fare se vogliamo sviluppare queste qualità a livello di squadra.

- Sí signore.

- Non ho mai visto un bravo giocatore di football che non conoscesse il valore dell'abnegazione.

- Sí signore.

- Non ho mai visto un bravo giocatore di football che si fosse messo in testa di studiare una lingua straniera.

- Sí.

- Io mi sono sposato tre volte, ma non ho mai avuto la fortuna di avere figli. Un figlio maschio. E quindi forse di ragazzi ne so meno di quello che credo. Ma nel corso degli anni sono riuscito a ottenere dei buoni risultati. Ho cercato di cavare il massimo impegno da ogni singolo ragazzo che mi è capitato di allenare. Per quanto possibile. Il football è un complesso di sistemi. Non somiglia a nessun altro sport. Quando si gioca nel modo giusto, consiste nel collegamento reciproco di un certo numero di sistemi. L'individuo. Il piccolo gruppo di cui fa parte. L'unità piú grande, gli undici giocatori. Si fa un gran parlare di quanto questo sport sia violento. Questa è la parte meno importante, in realtà. Il football è uno sport brutale solo per chi lo osserva da lontano. Al centro c'è un nucleo di calma, di tranquillità. I giocatori accettano il dolore. C'è una sensazione di ordine persino alla fine di un'azione di corsa con corpi di giocatori buttati a terra tutto attorno. Quando i sistemi sono collegati, questo gioco dà un tipo di soddisfazione che non può essere riprodotta. Possiede una forma di armonia.

- Verissimo, - dissi.

- Ma non era mia intenzione discutere di questo. Sono cose che già sai. Non c'è bisogno di dire a un ragazzo intelligente come te in cosa consiste questo sport.

- Grazie, - dissi.

- Nessuno dei miei ragazzi ha mai infranto due volte la stessa regola.

- Sí signore.

- Nessun ragazzo in tutti i miei anni da allenatore ha mai messo il suo benessere personale davanti a quello del gruppo.

- Sí signore.

- La nostra vita interiore sta andando a pezzi. Stiamo perdendo il controllo di tutto. Abbiamo bisogno di maggiore abnegazione, maggiore disciplina. La nostra vita interiore si sta sgretolando. Abbiamo bisogno di rinunciare a tutto quello che ci distrae dalla conoscenza di noi stessi. Ci stiamo allontanando troppo dai nostri presupposti iniziali. Vaghiamo senza meta. Abbiamo bisogno di ricostruirci mentalmente e spiritualmente. Se lo facciamo, il corpo si prenderà cura di sé. È una cosa che ho imparato da bambino. Ero cagionevole, un bambino molto cagionevole. Mi venivano tutte le malattie. Avevo grosse carenze alimentari. Avevo le gambe secche come quelle di una sedia. Ma ho ricostruito me stesso con determinazione e sacrificio. Prima la mente e poi il corpo. Era una vita solitaria per un ragazzo. Non avevo amici. Vivevo nel mio mondo interiore fatto di determinazione e silenzio. Risolutezza mentale. Tutto questo mi ha dato forza, mi ha preparato. Le cose ritornano al loro punto d'origine. Il percorso per arrivare fin qui è stato lungo. Ma alla fine tutte le lezioni hanno la loro utilità. La vita interiore va sottoposta a una disciplina, proprio come le mani o gli occhi. La solitudine è forza. I Sioux si purificavano tramite il digiuno e la solitudine. Quattro giorni senza cibo in una capanna sudatoria. Prima di poter eseguire il lamento per la propria nazione bisognava purificarsi. Digiuno e solitudine. Se riesci a sopravvivere alla solitudine, significa che sei dotato di una forza interiore in grado di farti arrivare ovunque. Quattro giorni. Con addosso soltanto una tunica fatta di pelle di bisonte. Secondo me lo spirito di rinuncia è la cosa migliore che possa esistere. È l'unico modo per raggiungere la perfezione morale. Ho viaggiato tanto. Ho commesso tanti errori. Ma ora sono tornato, per sempre. Una nazione coraggiosa ha bisogno di disciplina. Di purificare la propria volontà. Apprendere cos'è l'umiltà. Restringere il raggio della vita sensoriale. Il dolore è parte dell'armonia del sistema nervoso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 216

Bloomberg si schiarí la gola.

— Io sono un fisico angosciato. Faccio lunghe passeggiate in campagna. Ogni tanto ho dei ripensamenti sulla supermega boccetta di insetticida capace di uccidere qualsiasi essere vivente sulla faccia della Terra in una frazione di microsecondo. L'ho inventata e messa in commercio io stesso. Mentre cammino per i tranquilli viottoli di campagna dell'Istituto per la Speculazione Astratta e gli Attacchi a Sorpresa in un luogo non riportato sulle cartine, da qualche parte nel Nordest dell'oceano Pacifico, una troupe televisiva riprende ogni mio passo. Il regista mi chiede di alzare lo sguardo verso la cima degli alberi e di strizzare leggermente gli occhi per il sole del tardo pomeriggio. In momenti simili penso al mio insetticida e mi riempio di un senso di profonda umiltà e anche della sensazione di un fantastico potere che consente di succhiare il sangue. E mi tornano in mente le consolanti parole della famosa canzone celestiale degli indú. «Cos'è questo crimine che sto tramando, o Krishna?» Per cui vedete, amici miei, non mi manca certo il senso della storia né quello della responsabilità personale. Ho un mio lato umano, amo i classici. Mentre fumo la pipa e mi faccio una partita a scacchi con la mia adorata mogliettina, madre di tre bei ragazzi nati da un precedente matrimonio, mi piace riflettere sulla natura dell'uomo. Che cosa ha fatto sí che nascessimo dalla melma primordiale? Dove stiamo andando? Qual è il grande piano? E pensando a queste enormi questioni, mentre mangio formaggio e bevo del porto, alla fine mi rendo conto che una bomba capace di distruggere il pianeta in piú o in meno non è poi una grande differenza in questo nostro universo in continua espansione.

— Mi passate il sale sí o no? — disse Bing.

— Mi interessano l'uomo violento e l'uomo ascetico. Sto quasi per trarre la conclusione che la capacità di violenza dell'individuo è strettamente connessa con le sue tendenze ascetiche. Stiamo per riscoprire che l'austerità è il nostro vero modo di essere. Nelle nostre future meditazioni potremmo decidere di cercare la morte del diavolo. Nel nostro silenzio e nel nostro terrore potremmo indirizzare la nostra tecnologia verso il metafisico, verso la creazione di un'arma inimmaginabile capace di squarciare le barriere spirituali, di mutilare o uccidere qualsiasi presenza oscura che avvolge il mondo. Mi direte che tali questioni non sono all'altezza dei talenti di un uomo super-razionale. Ma è precisamente questa tipologia di uomo a essersi confrontato con l'irreale, il paradossale, l'ironico, il satanico. Dopotutto, la vera genialità delle armi moderne, da un punto di vista puramente teorico, consiste nella loro capacità di distruggere gli esseri viventi. Da qui potremmo formulare un numero infinito di dichiarazioni provocatorie, ma resisteremo alla tentazione. Tutti sappiamo che la vita, la felicità, la realizzazione scaturiscono da particolari forme di distruttività. Il sistema morale è arricchito dalla violenza adoperata per scopi positivi. Ma man mano che la capacità di violenza cresce nel mondo, gli effetti rigeneranti di specifici atti di violenza diventano sempre meno significativi. La capacità travolge ogni cosa. Il mero potenziale di una forma di violenza eclissa la realtà di altre forme. Mi interessano queste cose. Mi interessa anche il punto di interruzione nelle forme contratte. Anche le lettere mediane vanno benissimo. Ho già cominciato a rivedere i miei schemi di eloquio a tale scopo.

Scoppiammo tutti a ridere, senza sapere esattamente perché. Forse pensavamo che Bloomberg fosse pazzo. O forse ridevamo perché era l'unica reazione sulla quale potevamo fare affidamento, l'unica che potesse tenerci a una distanza di sicurezza. Anatole, in risposta alle risate, picchiettò il cucchiaio sul vassoio di plastica alla sua destra. Io finii i miei corn flakes e mi diressi, come d'accordo, verso la biblioteca.

Myna era seduta da sola in una delle sale del pian terreno. Il suo tavolo era coperto di libri, abbandonati lí, molti rimasti aperti (una violazione della loro solennità), tomi enormi fitti di caratteri minuscoli. Oltre il tavolo c'erano lunghe e alte cataste, che esalavano un vago puzzo di sudore (presumibilmente umano), la fila delle grammatiche «900», la storia nella sua bardatura piú maleodorante, e in ogni buio corridoio le trappole nascoste: uno o due sgabelli di metallo. Era un luogo alquanto piacevole, la biblioteca come utero, fluorescente rifugio dal caos o dalla pioggia. Myna leggeva un numero di «Zap Comix». Andai a sedermi vicino a lei, poi mi allungai sul tavolo e tirai un libro verso di me. Era un dizionario, aperto su due pagine: cominciava con «Kaaba» e finiva con «kef». Myna aveva qualcosa di diverso. Non la vedevo da piú o meno una settimana e mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che aveva la faccia molto piú pulita, quasi del tutto priva di macchie. Si chinò sul dizionario. Per un po' ci leggemmo a vicenda le definizioni. Alcune erano davvero spassose. Poi scegliemmo alcune parole da leggere ad alta voce. Le leggevamo lentamente, sillaba dopo sillaba, a turno, imitando accenti stranieri o regionali, poi sostituendo i fonemi, a volte andando a ritroso, a volte cominciando con una sillaba centrale e infine leggendo la parola in quanto parola, pronunciandola con una certa enfasi, col naso sulla pagina come se cercassimo tracce protomorfe. Alcune parole spinsero Myna verso uno stato di leggero delirio: le trovava di una bellezza quasi insopportabile. Continuammo a leggere per una mezz'oretta. Le parole rappresentavano un modo di entrare in contatto e ci fecero venir voglia di parlare con le mani. Andammo in uno degli angoli opposti rispetto alle alte cataste di libri. Lí cominciai a sfilarle il vestito. I cumolonembi dei suoi seni uscirono rotolando dall'azzurro del velluto vittoriano tempestato di perline cucite a mano. Ridemmo rumorosamente, poi cercammo di zittirci a vicenda dandoci dei piccoli pugni sulle braccia. Un bottone cadde a terra e rotolò verso un angolo lontano. Facevo versi gorgoglianti strofinando la faccia tra i suoi seni, grattandomi con il suo capezzolo sinistro un prurito appena sotto l'occhio. Insieme tirammo giú il vestito oltre i fianchi, picchiandoci piano a vicenda per intimarci di non ridere, poi mi misi in ginocchio ai suoi piedi. Cominciai a fare strani versi pregustando quello che stava per succedere (guà, guà), al che lei mi picchiò con tutte e due le mani, ma senza forza per via della risata che la scuoteva da dentro. Sentimmo un rumore sulla soglia e ci guardammo facendoci smorfie, esagerate maschere di paura. Guardai alle sue spalle e oltre le file di libri leggermente inclinate, inclinazioni e controinclinazioni, angoli che commentavano altri angoli, secoli messi nel posto sbagliato da mani sonnolente, una massa contraddittoria che si stagliava ironica sopra i seni della mia amata. Non c'era nessuno sulla soglia. Suonai un paio di accordi sull'elastico teso delle sue mutande iridescenti. Piccoli segni di creste rosa, forme di onde all'altezza della sua esuberante vita. Ci scambiammo qualche bacio. Mi solleticò certi punti vulnerabili sotto le costole. Ci toccammo, ci accarezzammo, ci leccammo. Forse è impossibile spiegare il motivo per cui sembrava importantissimo che lei fosse completamente nuda. Con le mani arrotolammo le mutande giú per i fianchi e lungo le cosce. Per sottolineare l'evento introdussi nella sala nuovi versi, fatti perlopiú di suoni vocalici. Con un passo Myna si allontanò dai vestiti, consapevole della dinamica di quel momento, mettendosi nella posizione del verbo conoscibile, il sospiro e la sillaba fatti di carne. Era bellissima, ampia come una bagnante cubista ritratta da varie angolazioni, concettualmente nuova, dai seni di nuvola, definitiva. Essere amati per sempre in modi non degni. Nel giro di pochi secondi saremmo stati uniti, un ammasso di capelli e arti, totalmente concentrati, che si rincorrevano a vicenda nella caverna.

| << |  <  |