Autore Peppe Dell'Acqua
Titolo Non ho l'arma che uccide il leone
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008 [2007], Eretica speciale , pag. 336, ill., cop.fle., dim. 15x21x2 cm , Isbn 978-88-7226-986-2
PrefazioneFranco Basaglia, Pier Aldo Rovatti
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe psichiatria , citta': Trieste












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


L'inedita presentazione
di Franco Basaglia                                        3

Prefazione
Storia e favola di San Giovanni
di Pier Aldo Rovatti                                      7


Parte prima
I matti di San Giovanni                                  13

Parte seconda
La fine del manicomio                                   113


Voglio amore! L'Isola dell'utopia
di Roberto Mezzina                                      298

L'Istituzione inventata
di Franco Rotelli                                       307

Nota introduttiva alla prima edizione
di Franco Rotelli                                       316

Testimonianze del teatro accanto alla psichiatria
di Giuliano Scabia                                      318

Bibliografia                                            327


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

L'inedita presentazione

di Franco Basaglia


Alcune storie della prima parte di questo libro erano state oggetto della mia tesi di specializzazione in psichiatria, all'Università di Parma dove Basaglia insegnava.

Qualche anno dopo cominciai a mettere insieme quelle storie, più altre che intanto avevo cominciato ad appuntare. Dopo la stagione del cantastorie, soprattutto, il desiderio di mettere insieme quanto stava accadendo e raccontarlo, sostenne la composizione del libro.

Chiesi a Franco Basaglia di scrivere la presentazione del libro e lui si disse disponibile.

Doveva essere il giugno del '79.

Di cose belle o complicate ne accadevano e Basaglia aveva sempre qualcos'altro da fare. C'era la lotta degli infermieri per il quinto livello eppoi stava per partire per Roma. Insomma il tempo per scrivere non lo trovava.

Gli dissi allora che sarei passato a trovarlo con un registratore. Ma anche così di tempo ne passò.

Doveva essere di ottobre quando mi telefonò per dirmi che aveva qualche ora, in quel momento. Ma subito!

Fu un pomeriggio inaspettatamente complicato. Parlò diffusamente con me del libro, si interrogò e mi interrogò sul senso di quelle storie mettendomi non poco in crisi, chiedendomi insistentemente perché scrivevo quelle storie, chi ero io per raccontare un altro?

Finalmente, in pratica di getto, cominciò a dire, come in un dettato, la presentazione.

Il libro volevo che uscisse per dicembre e gli dissi che avrei trascritto la registrazione e che gliela avrei fatta avere. Gli chiesi di far presto, che di tempo oramai ce n'era poco visti gli accordi con l'editore. Mi rassicurò.

Di lì a qualche giorno partì per Roma, divenne più difficile per me contattarlo.

Rinunciai alla pubblicazione per dicembre.

Doveva essere gennaio quando, per caso, venni a sapere che parte di quello scritto Basaglia l'aveva usato per un altro lavoro.

Ci rimasi proprio male e gliene volli. Avrei voluto dirglielo. A marzo seppi della grave malattia.

Ho rimosso tutto. Di questa cosa non ne ho più parlato e non me ne sono più ricordato per tutti questi anni. Ventotto.

Questo marzo ho cominciato a scrivere e ho tirato fuori vecchi libri, vecchi quaderni, appunti, fotografie.

È stata un'emozione grande quando ho scoperto che un testo, scritto da me e a me stesso quasi illeggibile, era la prima trascrizione di quella intervista.

Trieste, marzo 2007

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 4

È sempre stato un luogo comune che non è una buona cosa mettersi nelle mani di uno psichiatra. Questo luogo comune sembra essere la vera storia della psichiatria e dello psichiatra. Visti i risultati ottenuti dalle istituzioni psichiatriche, fuori dai luoghi comuni, non è proprio il caso di mettersi nelle mani dello psichiatra.

Diceva il grande scrittore tedesco Ernst Toller che essere nelle mani di uno psichiatra è come essere in balia di un uomo che ha gli orecchi sordi e gli occhi ciechi.

Penso che avesse proprio ragione.

Lo psichiatra è sempre stato un uomo che non riusciva a cogliere la voce del suo paziente e non riusciva a vederlo perché non era capace. Forse sapeva cogliere la voce di un amico o di qualche altro, ma quella del "suo pazzo" non la poteva cogliere, perché per definizione l'irrazionalità della follia è la razionalità della malattia. Perciò il suo malato è una persona inesistente, invisibile; o visibile come un oggetto tra i tanti che popolano il manicomio. Che adesso per legge è abolito, ma per ora soltanto per legge! È quasi una farsa questa storia! Perché di manicomi, in realtà, ce ne sono tanti, tanti e poi tanti e di malati di mente non se ne parla. Si sa per certo, ne abbiamo parlato in una recente riunione dell'OMS a Parigi, che in Europa sono internati, o pardon, ricoverati più di un milione di matti, o pardon, malati di mente. Il fare ironia su tutto questo per noi, qui da Trieste, è oggi molto facile. È molto facile perché abbiamo capito il gioco che sta sotto alla pazzia, la malattia mentale. Abbiamo capito che il manicomio è il teatro della follia dove ognuno è costretto a giocare una parte che è la sua parte. In manicomio non c'è mai una sera in cui si recita a soggetto. Tutti gli attori di questo strano teatro hanno un canovaccio fisso, "i quadri viventi" della follia, dove le parti e il copione sono sempre gli stessi. Non mutano mai le battute; anche le parole e i toni sono sempre uguali. Il mio amico Goffman mi diceva che uno psichiatra può recarsi senza alcun disagio, anche senza conoscere la lingua, in qualunque manicomio del mondo perché la scena e le quinte non cambiano mai. Si troverà sempre col suo schizofrenico, col suo infermiere, col suo assistente o col suo direttore.

I quadri viventi sono paradossalmente connotati da una immobilità mortale; sono delle sacre rappresentazioni che di sacro hanno soltanto la falsa profezia. Ebbene proprio questo teatro della follia, di una falsa follia, la follia della malattia mentale, è stato il campo della nostra lotta. Dico che è stato, per dire che è ancora, perché fin quando ci sarà un manicomio, uno solo, ci sarà sempre questo teatro dove l'animazione, la rappresentazione può ridursi a tragica follia istituzionalizzata. Ripetendo, oggi, in una presunta modernità gli stereotipi riciclati dei meccanismi manicomiali.

Una disperazione, dunque!

Quello che voglio dire è che per noi la follia è vita, tragedia, tensione. È una cosa seria. La malattia mentale invece è il vuoto, il ridicolo, la mistificazione di una cosa che non c'è, la costruzione a posteriori per tenere celata, nascosta l'irrazionalità. Chi può parlare è solo la Ragione, la ragione del più forte, la ragione dello Stato e mai quella del diseredato, dell'emarginato, di chi non ha.

Forse il libro di Beppe è bello per questo ma se invece da tutto questo sta fuori, allora è molto brutto e va ad aggiungersi a tutta la cartaccia che in questi ultimi anni è apparsa nell'editoria nazionale e internazionale sotto la voce nuova psichiatria, antipsichiatria, non psichiatria, psichiatria critica e così avanti. Beppe non ha voluto fare un libro di psichiatria, né nuovo, né critico. Almeno a suo dire non ha voluto fare niente di tutto questo, e lo credo sincero. Ha voluto raccontarci delle storie come le ha vissute da psichiatra che fortunatamente non capiva cosa volesse dire essere psichiatra, e probabilmente l'internato che gliele raccontava non capiva cosa volesse dire essere internato. Questo livello tendenzialmente paritetico ha permesso ai due di fare finalmente un discorso. Allora Beppe ha capito che Giovanni Doz non era uno di Trieste, ma uno che era venuto dall'Istria negli anni del dopo la guerra. Questo lo aveva già letto nella cartella clinica. Ma leggerlo o non leggerlo era lo stesso. Doz restava uno schizofrenico, semmai sarebbe diventato uno schizofrenico istriano.

Il fatto poi che Doz fosse andato con Beppe in Jugoslavia, significava che Doz aveva accompagnato Beppe nella sua casa e così erano cadute le mura di Gerico del manicomio della città di Trieste.

"Come vedete – direbbe il capocomico a questo punto della rappresentazione – la cosa è molto facile, fatelo da voi!!".

Franco Basaglia

Trieste, ottobre 1979

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Prefazione

Storia e favola di San Giovanni

di Pier Aldo Rovatti


Cominciamo dalla fine. Del libro di Peppe Dell'Acqua. Del manicomio di Trieste: dal 1971 al 1979, anno per anno, dove gli eventi e le storie si mescolano in un crescendo.

E da quella prima lezione tenuta da Franco Basaglia, nel settembre del 1979, al nuovo corso per "operatori", viatico per chi restava e atto di ricomposizione di un conflitto interno che a tratti era sembrato insanabile...

È uno dei materiali di cronaca e riflessione che Dell'Acqua ha aggiunto in questa rinnovata edizione del suo libro. La "Storia del manicomio", che faceva da pendant alle "Storie dei matti di San Giovanni" nella edizione del 1980 (un libro che è stato strumento prezioso per tanti), diventa ora la parte più ampia, si arricchisce attraverso uno sforzo rilevante di documentazione grazie alla memoria e ai taccuini dell'autore, e si intitola appunto "La fine del manicomio". E cambia anche volto, come vedremo tra poco.

Basaglia sta lasciando Trieste. Si rivolge agli infermieri. Cosa abbiamo da insegnarvi? "Ciò che è avvenuto in questi anni, noi stessi non lo comprendiamo bene. Non comprendiamo per quale ragione prima c'erano mille persone in ospedale e oggi non ci sono più. Come mai questa istituzione ha cambiato la sua cultura, i suoi limiti. Come mai il manicomio, che era chiuso e ben delimitato dalle sue mura, oggi non ci sia più e al suo posto ci sia un nuovo tipo di rapporto tra chi ha bisogno e chi risponde ai bisogni". Adesso inizia un'altra storia, aveva esordito Basaglia, e a un certo punto dice anche: "Se noi pensiamo alla storia che ha portato al superamento del manicomio, vediamo che questo non è avvenuto per l'opera dello spirito santo!".

Qualche settimana dopo Dell'Acqua e gli altri dello staff si ritrovano con lui per una serata di commiato: hanno preparato un videotape scherzoso e un po' irriverente. C'è disagio, ma tutti sono allegri. "Ridiamo", ricorda Dell'Acqua.

Una nota ironica è percepibile anche nella presentazione al libro, fin qui rimasta inedita, e che Dell'Acqua ha rintracciato tra le proprie carte. Scrive Basaglia: "Dell'Acqua ha voluto raccontarci delle storie come le ha vissute da psichiatra che fortunatamente non capiva cosa volesse dire essere psichiatra". C'è un'affermazione, poco prima nella stessa presentazione, che dà la chiave del pensiero di Basaglia: "La follia è vita, tragedia, tensione. È una cosa seria. La malattia mentale, invece, è il vuoto, il ridicolo". Chiave limpidissima (personalmente, mentre leggo queste righe, non posso non ripensare alla chiarezza della Storia della follia di Michel Foucault) entro cui risuonano le pagine del libro di Dell'Acqua, ma che, al tempo stesso, ci permettono di leggerle per differenza, poiché nelle "storie" di Dell'Acqua follia è anche, oltre che buco agghiacciante, amore, nostalgia, favola, canto, e un sommesso suono di risa.

Dunque Giuseppe Dell'Acqua, autore del libro Non ho l'arma che uccide il leone... Storie del manicomio di Trieste, scritto alla fine degli anni Settanta, quando aveva trentatré anni, dopo il "Reseau" internazionale a San Giovanni, dopo le lotte interne, quando la "180" è varata e Basaglia sta andandosene (quel libro che Franco Rotelli nella sua nota aveva definito un misto di "fantasie e realtà"), diventa nel 2007 Peppe Dell'Acqua, quel "Peppe" che moltissimi hanno incontrato e imparato a conoscere. E ora il lungo sottotitolo recita: "Trent'anni dopo, la vera storia dei protagonisti del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni".

Non so se per fortuna o per disgrazia, io non sono uno psichiatra. Sono arrivato a Trieste a insegnare filosofia negli ultimi anni Settanta. Ho lambito gli eventi epocali della fine del manicomio. Ho sfiorato Franco Basaglia. Poi mi sono sempre più avvicinato alla questione della follia e ho avuto modo di conoscere da vicino Peppe Dell'Acqua. Ho anche assistito, negli ultimi mesi, alla passione con cui si è immerso nel suo "vecchio" libro. E forse mi trovo nella posizione giusta (una specie di fuori-dentro) per tentare una piccola riflessione su quello che è certamente il cuore di questo appassionato lavoro.

Già "Giuseppe" che diventa "Peppe" — una sorta di abbassamento del tono autoriale — ci potrebbe mettere sulla strada. Che significa "storie"? Come si relazionano le sue storie con la storia al singolare del grande evento di cui stiamo parlando? Con la "vera" storia che si annuncia nel sottotitolo? Come stanno insieme – cosa che non mi pare così ovvia – la "verità" della storia della fine del manicomio di San Giovanni e il carattere di "favola" di tutte le storie, anche terribili, che qui vengono raccontate, da quella "esemplare" di Giovanni Doz, che apre il libro, a quella (più normale?) di Boris che lo chiude?

Intanto, sgomberiamo la scena dal possibile equivoco di un supplemento di poesia applicato alla scabrosità delle pratiche quotidiane. Niente di più lontano dalle intenzioni di Dell'Acqua, che consistono nello stanare quell'insieme di elementi che chiamiamo "favola" nelle pieghe della realtà, nel farci infine toccare con mano che questa operazione non è poi così impossibile, se solo riusciamo a snebbiarci un poco gli occhi dalle pur motivate caligini delle pratiche defatiganti, e foriamo gli involucri già stabiliti e già attesi entro cui, spesso inconsapevolmente, tendiamo ad avvolgerle. Basaglia si chiedeva, fin dal suo giovanile soggiorno inglese, che cos'è un'istituzione. Dell'Acqua vuole ricordarci che l'istituzione riguarda anche i discorsi che facciamo sui soggetti e l'ascolto che prestiamo loro. E anzi che, magari meno visibilmente, riguarda soprattutto l'ascolto e che dunque le sue "storie" possono essere molto più politiche di quel che sembrano, purché riusciamo a forzare le retoriche di questo ascolto, dimenticando la cartella clinica o facendo diventare anch'essa parte della favola.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

La caposala


Sono passati più di otto anni da quando per la prima volta sono entrato nel manicomio di San Giovanni.

Al padiglione "Q" Maria Jelercich, la caposala, mi ha accolto con una certa diffidenza: "Sono qui da trentacinque anni" ripeteva continuamente servendomi il caffè "quando io ho cominciato a lavorare, lei, dottore, non era ancora nato":

E ancora terribili storie di matti, di violenze, di ordine, di cure, di gabbie. Devo confessare che quelle parole mi mettevano soggezione, una certa indefinibile paura.

Nel manicomio non ci sono oggetti d'uso personali. I pochi mobili resistenti sono per tutti. Ci sono tavoli, sedie, panche, letti e solo qualche robusto armadio. E poi ci sono gli internati.

I mobili e gli internati abitano il manicomio. I mobili vanno conservati puliti, ordinati, non devono essere mai spostati, creerebbero troppa confusione. Maria Jelercich era attentissima a queste cose. Erano state la sua formazione, il suo lavoro, la sua vita per quaranta anni. E ora cercava di farmele capire, di insegnarmele, servendomi il caffe.

"I malati anche non vanno spostati, bisogna lasciarli in pace" mi diceva. Mobili e internati a testimonianza della fissità, dell'immobilità reale e simbolica dell'istituzione. I mobili sono corpi, sono uomini in piedi, rigidi, fissi; sono seduti come fossero sedie. Gli internati sono sedie, il corpo perduto diventa panca, sedia e l'istituzione perpetua con l'internato il rapporto di manutenzione che ha con gli altri oggetti del manicomio.

Le storie che racconto cominciano da qui.

Trieste, 1980

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

Quarant'anni di manicomio


Ondina dal manicomio non usciva dal 1933, quando si era innamorata del bel capitano di una nave che partiva per l'Oriente. Partito il capitano, Ondina abbandonata, disperata e incompresa fu portata in manicomio. Da quella volta mai più fuori, nemmeno per una sola domenica, mai un permesso. Dicevano che era molto pericolosa. Ogni martedì, venerdì e domenica, per un'ora, l'ora della visita, venivano a turno le sorelle. Alle sorelle non diceva mai niente. Qualche volta, quando era più "agitata", la visita dei parenti veniva vietata. Ora, a settant'anni, ha ricominciato a uscire. Racconta un mondo e una città ormai inesistenti o rintracciabili solo attraverso i segni consunti e alterati dal tempo. Cerca le rotaie del tram, il porto con le navi, i luoghi della sua giovinezza.

Trieste, 1973

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

La storia esemplare di Giovanni Doz


Ho conosciuto Giovanni al reparto "P"; nel camerone, mentre, come al solito negli ultimi vent'anni, era occupato a rifare i letti. Con poche parole dette sottovoce si è presentato e si è mostrato ossequioso nei miei confronti perché ero il medico. Nei mesi successivi rivedevo raramente Giovanni perché occupato al suo lavoro e dovevo essere io, quando me ne ricordavo, ad andare a cercarlo per salutarlo. La sua cartella clinica, come tutte, riduceva a poche parole, a una definizione — schizofrenia — tutto il travaglio che Giovanni aveva vissuto dal 1945 al 1949, anno in cui era stato ricoverato per la prima volta in ospedale psichiatrico.

In quegli anni, come tanti istriani, Giovanni aveva inseguito l'illusione di trovare a Trieste, o meglio nel Territorio Libero di Trieste, la soluzione ai suoi problemi di vita.

Giovanni periodicamente mi scriveva una lettera con allegate lire 500 dove, con linguaggio frammentario e a tratti incomprensibile, mi chiedeva un pezzo di terra in ospedale; se era il tempo della semina per seminare il grano, se era il tempo delle patate per raccoglierle. Le 500 lire erano il prezzo che voleva pagare perché io mi interessassi al suo caso. Gli infermieri del reparto mi raccontavano come oramai da anni, non ricordavano più quanti, Giovanni scriveva lettere in tal senso e, a loro dire e dei medici che mi avevano preceduto, quello scrivere così strampalato, incomprensibile e il voler pagare la terra con 500 lire era il segno inconfutabile della sua malattia.

Giovanni era e sarebbe rimasto "schizofrenico". Aveva circa cinquant'anni quando l'ho conosciuto; metà della sua vita l'aveva passata in manicomio.

Tentavo a volte di capire di più parlando a lungo con lui e ascoltando pazientemente i suoi lunghissimi silenzi. Ma i miei tentativi rimanevano frustrati; il racconto di Giovanni si perdeva in una quantità di nomi di parenti, amici, di gente che prima del suo ricovero in manicomio doveva essere stata importante per lui.

E rimanevano vani i miei sforzi, perché Giovanni continuava a parlare sottovoce, alitando le parole, dimostrando in questa maniera, secondo me, tutto il rispetto e il terrore che egli aveva del medico e di tutti coloro che avevano potere su di lui. L'istituzione era riuscita a "guarire" Giovanni Doz: era diventato un oggetto che riusciva ad avere un buon rapporto solo con altri oggetti, i letti che tutte le mattine ricomponeva. Avevo capito che Giovanni esprimeva desideri, esprimeva tutta la sua giovinezza, probabilmente felice, trascorsa nei campi dell'Istria, ma non riuscivamo ad arrivare a un minimo progetto comune.

Siamo usciti una volta insieme in macchina e, per fare questo, ho dovuto insistere per una settimana. Dopo quella passeggiata e dopo esserci fermati in un bar, Giovanni, che non riusciva a capacitarsi di come un medico e un infermiere potessero andare fuori con lui e con altri degenti, parlare insieme, stare seduti allo stesso tavolo, voleva ricompensarmi come al solito con una lettera con allegate le 500 lire.

Nel gennaio '73, il reparto "P" era rimasto vuoto. I degenti che lo occupavano erano andati ad abitare nel reparto "Q donne". Si era costituito così il primo reparto misto dell'ospedale. Si era dato inizio a una singolare esperienza di animazione. Un gruppo di artisti, attori, pittori, studenti, con i numerosi degenti avevano cominciato a lavorare con materiali semplicissimi: carta, legno, colori, stoffa. Dalle singole esperienze creative si arrivò qualche mese dopo alla costruzione del grande cavallo, Marco Cavallo. Si ebbe un variopinto fiorire di storie, di testimonianze e di esperienze personali. Per due mesi, specie per i lungodegenti, si creò una feconda alternativa al tempo servo e immobile del reparto. Il reparto venne ribattezzato "Laboratorio P". Sono venuti dunque gli "artisti" e, dopo altre insistenze, perché Giovanni non voleva venire, Giovanni e io, insieme a tanti altri, siamo andati al Laboratorio P. Davanti a un grande foglio ho cercato con lui di raffigurare la storia frammentaria che mi raccontava. Questa volta eravamo io e Giovanni e tanti altri che ci guardavano e partecipavano alle nostre azioni, a dover insieme comprendere e tentare di ricostruire un pezzo di vita passata. Abbiamo disegnato una barca e finalmente ho capito che Messina, nome tante volte ripetuto, era il nome della barca e il capobarca si chiamava Giovanni ed era suo padre. E in barca a pescare c'erano Giovanni, Antonio e Guerrino. Antonio e Guerrino erano i suoi fratelli.

Quel giorno abbiamo pescato e abbiamo disegnato dei pesci: pesci larghi, lunghi, grandi e piccoli e Giovanni li ha nominati tutti: saraghi e gronghi, orate e branzini, riboni e scarpene, sgombri e sardoni.

Lo stimolo che ho ricevuto da questa esperienza è stato quello di poter rendere immediatamente reali i desideri che andavano prendendo corpo sul foglio. Nei giorni successivi, in una situazione in cui più immediato era il contatto fra le persone, Giovanni mi ha parlato dei fratelli che erano a Trieste. Ho ritrovato i fratelli e, per la prima volta dopo vent'anni, Giovanni è stato in visita dal fratello. Da questo primo incontro ne sono scaturiti altri e abbiamo progettato una rimpatriata a San Giovanni di Umago, oggi territorio jugoslavo. Abbiamo chiesto al Comune il certificato di residenza e di nascita e subito dopo il lasciapassare. Giorno dopo giorno anche l'identità giuridica di Giovanni si andava ricostruendo. A metà febbraio siamo andati a Umago.

Giovanni ha incontrato fratelli, cugini, compari, amici, nipoti conosciuti in fasce o mai conosciuti prima. Tutti hanno avuto con lui un rapporto immediato: l'immediatezza di chi vive in paese. Giovanni continuava a parlare sottovoce, ma comunque a parlare con tutti e a salutare tutti. Siamo stati in paese, tra le case dei vari conoscenti, parenti e amici dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio; in queste sei ore già altre facce dell'identità di Giovanni andavano ricomponendosi. I parenti mi chiamavano in disparte e, un po' colpevoli, mi chiedevano se era ancora "pericoloso", come avevano sempre detto i dottori del manicomio, come quando lo vedevano fuggire in campagna, passare le notti insonni seduto sulla barca del padre. Come quando lo videro fuggire risoluto e impressionante a Trieste, ma anche, mi chiedevano, se era stato giusto tenerlo in manicomio per tanti anni.

Il fratello Antonio e sua moglie, dopo un paio d'ore di conversazione, sempre chiamandomi in disparte, mi hanno chiesto se era possibile che, "per prova", Giovanni rimanesse a casa per qualche giorno durante la prossima primavera. Siamo ripartiti con la promessa che saremmo ritornati di lì a poco e con la sicurezza che Giovanni cominciava finalmente a concretizzare i suoi desideri "incomprensibili" che tante volte aveva cercato di esprimere.

Appena giunti in ospedale — erano le cinque del pomeriggio — siamo andati al Laboratorio P. C'erano tutti. Dalla pedana che in quei giorni era stata costruita, come da un palcoscenico, abbiamo raccontato la nostra esperienza. Giovanni e io. Credo che la gioia degli altri nel sentire quelle cose abbia dato a Giovanni il senso, la consapevolezza che quel ritorno, il ritorno al paese poteva significare questa volta il principio della sua liberazione.

Giovanni, il 22 marzo del 1973, con la primavera, è tornato a San Giovanni di Umago. Lavora nella terra rossa, la terra di cui parlava nelle lettere, va a pescare di notte con il fratello Antonio e con i nipoti. Al pomeriggio ripara le reti. Ha un suo posto e una sua dignità. Ogni domenica, dopo il pranzo, gioca a tressette e briscola. In coppia con il nipote Pietro mette sotto molti paesani.

Giovanni, dal marzo '73, è stato sempre a Umago e, a poco a poco, ha recuperato sempre più spazio nella sua casa tra suo fratello e sua cognata. È accaduta anche una cosa che merita di essere raccontata: un capovolgimento delle parti. Antonio, da buon contadino istriano, fa un'ottima malvasia e ne beve anche abbastanza. Nel giugno '75 Antonio ha cominciato a star male, le gambe si sono fermate, la memoria lo aiutava poco, dormiva male e vedeva bacoli, scarafaggi. Pensando che il manicomio aveva guarito Giovanni, la moglie e i figli, e lo stesso Giovanni, mi hanno chiesto di ricoverare anche Antonio. È venuto a ricoverarsi nel reparto dove il fratello era stato per tanti anni e, mentre era lì, Giovanni lavorava la terra, governava la barca, badava alla casa. Settimanalmente, con la corriera, tornava in manicomio e attraversava il confine col suo documento di identità, il lasciapassare provvisorio.

Il 22 novembre 1977 Giovanni è morto di infarto mentre era in barca a pescare col nipote. Pietro è venuto a Trieste a darmi la notizia qualche giorno dopo. L'ho trovato ad aspettarmi sulla porta del Centro di salute mentale di Barcola dove ora lavoravo. "Zio Giovanni è morto" mi ha detto.

Trieste, 1973/1978


Umago si trova in Istria, oggi Croazia, in procinto di diventare regione europea. All'epoca della storia era un altro mondo. Il confine che si attraversava non era un confine tra due paesi ma tra due culture, due modi diversi di intendere. La guerra fredda, allora, segnava in modo particolare il territorio e le popolazioni di Trieste e dell'Istria. Lo stesso ospedale psichiatrico, come si vedrà in altri racconti, conteneva al suo interno il segno drammatico di quella storia. Tanti internati provenivano dai territori istriani e dalmati, con percorsi simili avevano lasciato il loro paese tra il '44 e il '64, in condizioni e con tribolazioni differenti, avevano trovato ospitalità nei campi profughi a Trieste, erano partiti per il Canada, l'Australia e gli Stati Uniti dopo il Memorandum di Londra del 1954. Altri avevano accettato di restare trovando casa in villaggi, i borghi istriani, costruiti dal niente alla fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta: Borgo San Mauro, Borgo San Quirico, il villaggio del pescatore. Alcuni, come annientati dalla nostalgia, erano rimasti sospesi in un'attesa senza fine. Erano restati nei campi e di qui in ospedale psichiatrico. Altri, forse i più sfortunati di tutti, sembrava fossero sfuggiti al dolore della lontananza, erano riusciti a imbarcarsi. Dal transatlantico "Saturnia" come tutti avevano salutato la folla dei triestini accorsi alla stazione marittima. Si erano ammalati nei paesi di emigrazione e di lì erano tornati. Destinazione Trieste. Manicomio di San Giovanni.

Trieste, marzo 2007

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 242

1

C'era una volta la città dei matti
in via S. Cilino a S. Giovanni
voi triestini conoscete i fatti
e tutte le storie coi loro affanni

ma finalmente in questa città
qualcosa di nuovo succedendo sta:
il manicomio viene serrato
e tutti i matti abbiam scarcerato

(ritornello)
Con questo cielo
sora 'sto mar
te vol la zente
dentro serar?
no sta bazilar, no sta bazilar,


2

e allora i centri abbiamo preparati
per fare uscire tutta la gente,
belli e grandi e un po' decentrati
dove escluso nessun più si sente

non ci sarà più la prigione
fine dei letti di contenzione:
coloriamo le case di verde e di giallo
e per andarci un azzurro cavallo.

(ritornello)
Con questo cielo
sora 'sto mar
...


3

Benvenuti nuovi dottori
e schizofrenici e psicopatici
e vecchi matti buttati fuori
anche se sono un po' lunatici;

varda quel vecio mezo disfà
quel che camina tuto imberlà
quel xè un mato, te pol star sicuro,
mi no lo vojo visavì, de sicuro

(ritornello)
Con questo cielo
sora 'sto mar
...


4

Un episodio vi raccontiamo
successo a Barcola, in via Miramar;
scritto persino sul quotidiano:
là non si può più circolar;

donne impaurite, bambini piangenti,
strade deserte, solo degenti;
voi del centro cosa ne dite?
ma li curate, ci proteggete, li custodite?

(ritornello)
Con questo cielo
sora 'sto mar
...


5

Se ho un leone che mi mangia il cuor
se ho una bissa che me magna i pi'e
se zerco el mar de Shangai e Hong Kong
o se una volta mi innamoro di te, tu cosa fai?

Non ho l'arma che uccide il leone
e per la biscia non ho il bastone
verso Hong Kong non possiamo volare
se risposta c'è non è controllare

(ritornello)
Con questo cielo
sora 'sto mar
...


6

gente ci ha preso una brutta malattia
e con voi la vorremmo curare:
questo male si chiama utopia
cioè una cosa che si può solo sognare;

utopia è che il ghetto più non ci sia
che reti e schemi buttiamo via
ma per far questo c'è molto da fare
non ci vogliamo tutti insieme provare?

(ritornello)
Con questo cielo
sora 'sto mar
...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 307

L'Istituzione Inventata

di Franco Rotelli [Trieste, 22/24 settembre 1986]


Bisognerà ripetere qualcosa per noi ovvio, da molti disconosciuto: l'istituzione da noi messa in questione da vent'anni a questa parte non fu il manicomio ma la follia. Dissenso a fronte di chi divide i due periodi: quello manicomiale dall'attuale, non solo per quel che è ovviamente diverso (surplus di violenza, ruolo della pericolosità sociale, totalizzazione delle persone) ma anche per quel che per noi è immutato: l'essenza stessa della questione psichiatrica.

Così mi è accaduto in recenti dibattiti di sentire esporre una concettualizzazione della critica istituzionale tutta riferita all'era del manicomio, ridotta a problema di umanizzazione, di eliminazione di una violenza aggiuntiva e superflua. Periodo che quindi si dichiara a ciò limitato e concluso. Credo che quest'equivoco sia frutto di una banalizzazione molto fuorviante, interessata a ridurre e a esorcizzare la portata della rottura epistemologica introdotta dall'Istituzione Negata e a riautonomizzare la psichiatria.


1. L'equivoco non è probabilmente tale, ma una profonda discriminante sul riconoscimento dell'oggetto della psichiatria. Cosa è stata l'istituzione da negare? L'istituzione in questione era l'insieme di apparati scientifici, legislativi, amministrativi, di codici di riferimento culturale e di rapporti di potere strutturati attorno ad un ben preciso oggetto per il quale erano state create: la "malattia" cui si sovrappose in più, nel manicomio, l'oggetto "pericolosità".

Perché volemmo quella deistituzionalizzazione? Perché per noi l'oggetto della psichiatria può e deve essere non quella pericolosità né questa malattia (intesa come qualcosa che sta nel corpo o nella psiche di questa persona). L'oggetto fu sempre per noi invece l'esistenza-sofferenza dei pazienti ed il suo rapporto con il corpo sociale.

Il male oscuro della psichiatria è stato nell'aver costituito istituzioni sulla separazione di un oggetto fittizio, la malattia, dall'esistenza complessiva del paziente e dal corpo della società.

| << |  <  |