Copertina
Autore David Del Pistoia
Titolo Globalizzazione neorazzismo e scontri culturali
SottotitoloQuando la cultura divide
EdizioneArmando, Roma, 2007, Scientia , pag. 320, cop.fle., dim. 13,5x21,3x2 cm , Isbn 978-88-6081-244-5
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe globalizzazione , scienze sociali , relativismo-assolutismo
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Indice


Introduzione                                                  9

1. Razzismo: essenza e funzione, sfruttamento e sterminio    23

2. Differenzialismo culturale come neorazzismo               47

3. Globalizzazione economica e conseguenze sociali           75

4. Tra globale e locale: la metamorfosi dei confini         119

5. La cultura: luogo chiuso o crocevia?                     151

6. Il differenzialismo culturale come arma politica         199

7. Differenza "etnica" e sfruttamento economico             231

8. Sull'ostilità politica                                   259

Bibliografia                                                310


 

 

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Pagina 9

Introduzione


«...mi sono accorto, per la prima volta, che lo stereotipo – di qualsiasi tipo – può essere estremamente comodo, perché permette all'individuo di avere una concezione del mondo già precostituita, [...] senza essere obbligato a pensare [...]. Mi sono accorto, soprattutto, della grande mistificazione che è alla base dello stereotipo, che racconta l'altro senza umanizzarlo, anzi dimenticando che l'altro è un essere umano». 'Ala AL-ASWANI

«Probabilmente, la sfida del prossimo secolo [...] consiste nel potenziare la civiltà a partire da ognuna delle culture e non ciascuna cultura a scapito della comune civiltà...». Fernando SAVATER


Emmanuel Lévinas in un piccolo saggio del 1934 affermava a proposito del fenomeno nazista: «Il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in rapporto col mondo implacabile della materia – la sua aderenza all'Io vale di per se stessa. È un'aderenza alla quale non si sfugge e che nessuna metafora potrebbe far confondere con la presenza d'un oggetto esteriore: è un'unione il cui tragico sapore di definitivo nulla potrebbe alterare». Il nostro saggio avrà ad oggetto principale le metamorfosi del razzismo: dal biologico al culturale. La citazione di Lévinas appare quanto mai appropriata per esprimere il mutamento del paradigma razzista: è sufficiente sostituire a "corpo" i termini "cultura", "etnia", "tradizione" per ritrovare quella perfetta aderenza che inchioda il soggetto a qualcosa di soverchiante. Ad un destino inalterabile, totale fatalità. Invece del corpo e del colore della pelle subentra la "cultura e l'etnia": gli individui divengono appendici di qualcosa che li definisce implacabilmente. In questa descrizione, sia chiaro, non vogliamo dire che non esistano tentativi di rispolverare il concetto di "razza" attraverso le teorie genetiche e la definizione di diversi quozienti di intelligenza. Ciò che a noi interessa è fotografare una situazione in cui il razzismo contemporaneo, per ora e per lo più, è declinato in termini culturalistici. Del resto storicamente il razzismo ha sempre coniugato e amalgamato l'aspetto biologico con quello culturale.

Un esempio: se è vero che il fascismo italiano si è riferito alla razza in termini biologici, è anche da ricordare la componente culturale: «Sanzioni per i rapporti d'indole coniugale fra i cittadini e sudditi. (R.D.L. 19 aprile 1937 – XV n. 880). Art. unico. Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazioni d'indole coniugale con persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelle dei sudditi dell'Africa Orientale Italiane, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. [...]». Già nel 1937 i fascisti volevano introdurre una legislazione che doveva legittimare una specie d' apartheid ante litteram e che prevedeva la distinzione tra italiani e persone d'altra specie sulla base della appartenenza culturale (si noti il corsivo della citazione). Insomma, vorremmo mostrare come aspetti biologici e culturali siano, nel fenomeno razzista, intimamente legati. Ora, a nostro avviso, l'aspetto culturale sta prevalendo. Viene naturalizzato, etologizzato, considerato immodificabile. Un dato di natura, appunto. I primi capitoli saranno impostati in maniera tale da evidenziare la metamorfosi del razzismo, così come sopra delineata: dal biologico al culturale.

Per indagare l'essenzialismo culturale con le conseguenze inerenti ad esso non si può prescindere da un'analisi contestualizzata. Il nostro contesto è la globalizzazione e il fenomeno di ri-localizzazione esasperata attraverso cui le identità si declinano in fenomeni di "etnopolitica". L'attuale globalizzazione dà vita ad una simultanea interazione di molteplici influssi culturali. Però è bene fugare subito un equivoco: la mescolanza culturale, la connessione, non sono eccezioni, bensì regole storiche. Ciò che muterebbe rispetto al passato non è quindi questo fecondo intreccio bensì «...il fatto che esso è oggetto di riflessione e riconoscimento nell'arena pubblica mondiale [...]» e soprattutto la velocità delle trasformazioni in atto. La globalizzazione dell'economia e della cultura vengono viste come sfondo di senso alle nuove versioni dell'essenzialismo sia biologico che culturale. La paura della perdita dell'identità, della tendenziale omologazione e l'incertezza cronica dell'essere umano di questo inizio secolo, sembrano spingere verso un'affermazione identitaria parossistica, insomma verso le nuove comunità organiche declinate in termini "etnici". La differenza culturale, l'appartenenza ad una comunità e il sentirsi parte di una tradizione divengono forze che ristrutturano l'azione politica declinandola in forma "etnica" e di essenzialismo culturale o addirittura di "scontro di civiltà". È dunque in tale contesto che si deve inquadrare il neorazzismo e le nuove parossistiche affermazioni identitarie.

A proposito dell'uomo nell'attuale epoca, Ulrich Beck sottolinea: stiamo assistendo «... all'irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità, dell'informalità all'interno dei bastioni [...] della società della piena occupazione». Il fatto di appartenere ad una "cultura", ad una comunità ben precisa, chiaramente identificabile, rassicura gli uomini che si trovano immersi in un divenire sempre più caotico. Orienta l'azione, dà senso e significato agli individui e alle collettività. Ma non si può dimenticare, sarebbe un errore imperdonabile, uno dei leitmotiv della discriminazione razziale ovverosia lo sfruttamento economico. In definitiva il nostro scritto percorre questo sentiero: le affermazioni identitarie debbono essere viste all'interno di una ricerca di ordine e stabilità politica e inoltre, risultano indissociabili dalle esigenze dell'economia. Non attribuiremo però più importanza ad un aspetto che all'altro: il razzismo è un fatto sociale totale che coinvolge più aspetti dell'esistenza individuale e collettiva. La modernità (nella forma della globalizzazione) liquida le precedenti strutture: in tale contesto gli uomini annaspano e cercano punti solidi. Zygmunt Bauman afferma che «...la principale forza motrice dietro a questo processo sia stata sin dal principio la sempre più rapida "liquefazione" delle strutture e delle istituzioni sociali» e attualmente «...stiamo passando dalla fase "solida" alla fase "fluida" della modernità»: i "fluidi" hanno la caratteristica di assumere una pluralità di forme. Ma quando gli individui si accorgono dell'assenza dei punti di riferimento il loro comportamento può assumere la tentazione esasperata di recuperare degli assoluti. Tentazione di colorare il contingente di assoluto.

Alain Supiot ha evidenziato che le forme di solidarietà nazionale vengono messe in crisi dalla globalizzazione da una parte, e dalla rilocalizzazione dall'altra: questi due aspetti «...sono i due volti inscindibili di strategie economiche globali che si fondano sulla valorizzazione di vantaggi competitivi locali». Se la nazione non è più il punto di riferimento principale, l'identità viene ricercata parossisticamente in un mondo sempre più competitivo, nelle identità religiose, "etniche" e culturali. Ma soprattutto, e sarà del resto uno dei fili conduttori del nostro lavoro, i cosiddetti conflitti o scontri culturali rischiano di occultare e rimuovere l'enorme e intollerabile (non solo da un punto di vista politico, ma anche etico) disuguaglianza planetaria: una abnorme divaricazione economica mondiale che si è andata allargando tra poveri e ricchi, anche negli stessi paesi "sviluppati" dell'Occidente. Ed è partendo da tale analisi che riteniamo doveroso un intervento delle istituzioni per una governance globale. Inoltre, a nostro avviso, lo Stato può recuperare un ruolo importante soprattutto facendo da cerniera tra globale e locale. Molti problemi con cui l'umanità si dovrà confrontare non possono che essere affrontati da una prospettiva globale. Inoltre dobbiamo considerare che se la mondializzazione accelera "i flussi economici e socio-culturali" e crea nuove opportunità per molti, non è da dimenticare che gran parte della popolazione mondiale è inchiodata alla miseria. Negli stessi paesi ricchi si accrescono nuove povertà, insicurezze, e il futuro sembra sempre meno afferrabile con lo sguardo. Queste tematiche verranno approfondite nei capitoli terzo e quarto.

In questo nostro mondo solcato, attraversato e dilaniato da spaventose disuguaglianze e miserie di ogni tipo, emerge con forza in funzione di occultamento e diversivo, la teoria del clash of civilization. A proposito dello scontro tra civiltà vedremo come la ripartizione in compartimenti stagni dei processi di civilizzazione sia una specie di metafisica che oblitera i continui rapporti e connessioni tra i popoli. La cultura non è un monolite, né è strutturata omogeneamente. Vive, nel suo delinearsi, sui confini. Come ha sottolineato acutamente Mondher Kilani «...le culture non riflettono un'unità reale ma esprimono uno stile di vita, un insieme di simboli condivisi [...]» cui gli individui non danno «...il medesimo contenuto e neppure la stessa interpretazione». Jacques Derrida, in un recente intervento, ha affermato: «La molteplicità dei retaggi mediterranei (quello fenicio, bizantino, italiano, greco, arabo, spagnolo, normanno, pagano, ebreo, cristiano, musulmano) è questa profusione cosmopolita della memoria che respiravo già in Algeri e che sono così felice di riconoscere qui, come a casa mia grazie a voi. Le affinità della natura o del paesaggio contribuiscono a questa grazia di parentele simboliche [...]». In tale scritto è posta chiaramente in discussione la dicotomica, esclusiva contrapposizione "noi-loro". L'estraneità viene mediata da una "cosmopolita memoria" e da "parentele simboliche". La diversità non è vissuta come scissione bensì come intreccio fecondo, come affinità. Le connessioni sono feconde e le culture sempre in profonda e perenne trasformazione. Questo sarà il nostro leitmotiv di tutto il presente lavoro (in particolare del quinto capitolo).

Il differenzialismo culturale viene sfruttato non solo per ragioni identitarie ma anche per finalità politiche, economiche e sociali. Insomma le differenze vissute come immodificabili e ineluttabili divengono un potente strumento per l'azione politica, la coesione sociale e per determinare discriminazioni giuridiche ed economiche in un'epoca in cui molti orizzonti sembrano sfumare alla nostra vista. Alla presa visiva. In tale contesto lo scontro delle civiltà sembra restituire un disegno che permetta di fuoriuscire dal caos. Di ritrovare un ordine. A nostro avviso questa posizione è semplicemente catastrofica, oltre che scientificamente infondata dato che le culture sono complesse, i mutamenti continui, l'omogenità solo immaginata e le connessioni e le intelaiature assai strutturate. Con ciò non vogliamo significare che non esistono differenze culturali. Vogliamo solo evidenziare che queste debbono essere viste all'interno di una complessità. Di movimenti tellurici continui, magari impercettibili, ma sempre presenti. Inoltre vorremmo fare riferimento al fatto che le differenze non possono occultare le somiglianze, le parentele, le continuità e le affinità tra gli uomini. Se viste all'interno di questo sfondo significativo tali differenze appaiono meno minacciose. Ci sono momenti anche di riconoscimento: nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Particolare attenzione dedicheremo al fenomeno Islam. Cercheremo di delinerare elementi accomunanti, pregiudizi da sfatare, semplificazioni emergenti. Con ciò non vogliamo affermare che non esistano differenze culturali e che esse non siano rilevanti: chi potrebbe negarlo? Vogliamo soltanto evidenziare come lo statuto ontologico di esse non debba essere considerato immodificabile, soverchiante e dunque ipostatizzato. La realtà è in perenne mutamento e con essa anche le differenze. L'essere umano è un animale incompiuto, aperto. Si dovrebbe sottolineare l'uso strumentale a fini politici, economici e sociali che oggi viene fatto sui termini di "cultura", "etnia", "tradizione", etc. Vorremmo decostruire quell'archivio di intolleranza e inimicizia che si sta strutturando sulla figura del musulmano. L'islamofobia sembra in questo momento il razzismo contemporaneo che filtra nelle nostre società. La figura del migrante non può essere vista come una specie di ipostasi religiosa. I migranti soprattutto quelli che provengono da paesi a tradizione musulmana vengono inchiodati al dato religioso. Ammassati tutti in un genus, religiosamente strutturato, sono vittime di discriminazioni. Enormi. Tutto il nostro testo sarà strutturato in maniera tale da evidenziare che il rapporto con l'altro uomo, che sia musulmano o cattolico, ateo, agnostico o credente, appartenente ad un ceto o ad un altro, istruito o no, etc., non può essere mediato da generalizzazioni, stereotipi e rappresentazioni ma deve nascere dall'incontro singolare. Il volto dell'altro uomo mi appare e non posso, se voglio rispettare la sua dignità, etichettarlo e definirlo prima che mi parli. Non posso annichilire la sua complessità e umanità in una mia interessata rappresentazione. Purtroppo l'ostilità politica e la rappresentazione dello straniero come nemico sembrano dominare. È necessario decostruire tale immaginario e tale pratica di ostilità innanzitutto prendendo coscienza delle nostre rappresentazioni condizionate da interessi: «Un'immagine del nemico - che per l'Occidente è stato dapprima il comunismo, e oggi è l'islam – è utile sotto molti aspetti. Svolge diverse funzioni di psicologia individuale e politico-sociale [...] – l'immagine del nemico discolpa: non siamo "noi" (americani, europei [...]), bensì il nemico, l'islam, ad avere tutte le responsabilità! [...]. Le immagini del nemico rendono possibile pensare per capri espiatori. - L'immagine del nemico stabilizza: anche se sotto molti aspetti "noi in Occidente" ci troviamo in disaccordo [...]. [...] polarizza: riducendo le alternative disponibili [...]. – L'immagine del nemico attiva: informazioni e istruzioni più precise non sono necessarie [...]». È necessario, dunque, descostruire tale immagine, depotenziare il presunto scontro delle civiltà, evitando che divenga una profezia che si autoavvera, e incominciare a vedere l'altro non come nostra rappresentazione interessata, dunque come strumento, ma come fine. Uscire dalle nostre rappresentazioni totalitarie e incontrare gli altri. In uno sfondo significativo: quello del riconoscimento della comune umanità che ci apparenta. Solo così la differenza e le diversità non divengono oppressive. Solo così è possibile mettere in crisi il razzismo che pretende di spezzare l'umanità in gruppi tra loro irrelati. Assolute monadi. Solo così la relazione con altri individui si apre alla ricchezza di un incontro che dischiude nuovi spazi di senso e significato. Solo così l'etica prevale sull'ontologia, direbbe Lévinas. Inoltre in questo modo l'altro non viene condannato ad essere l'epifenomeno di una nostra rappresentazione, il più delle volte inesatta perché contaminata, lo ripetiamo ancora una volta, da nostri interessi e vantaggi.

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In questo lavoro dunque cerchiamo di evidenziare gli elementi che strutturano l'immaginario razzista nell'epoca odierna. Quando ci addentreremo in alcune situazioni di discriminazione non ci soffermeremo sull'antisemitismo. Non perché pensiamo che sia giunto al termine, ma soltanto per il fatto che le immagini dell'islamico e dell'Islam sono divenute, soprattutto dopo l'11 settembre, sempre più minacciose. Sembra che il razzismo in Europa si direzioni verso la discriminazione dei musulmani e dei migranti provenienti dai paesi a tradizione prevalente islamica. Ciononostante teniamo conto di quanto affermato in un'intervista da Saul Friedlander in riferimento allo sviluppo di un antisemitismo sempre più violento in paesi come l'Iran o l'Egitto: «Non dimentichi – risponde alla giornalista – che poco tempo fa, ad esempio, la tv egiziana ha mandato in onda uno sceneggiato sui Protocolli dei Saggi di Sion [...]» in cui si va sostenendo che il mondo musulmano starebbe meglio se non ci fossero gli ebrei. Insomma sembra che il ventre che ha partorito l'antisemitismo sia sempre fecondo: in Europa come in altre parti del mondo. Ciononostante accenneremo soprattutto all'islamofobia tenuto conto però che il razzismo ha innumerevoli bersagli. In questo momento ci sembra che l'Islam, lo ripetiamo, sia il prevelente bersaglio delle estreme destre europee e che molta parte delle nostre società si attardi su una visione stereotipata della religione musulmana e dei migranti che provengono da paesi in cui essa è diffusa. A noi pare che oggi, i migranti che provengono dal Maghreb, per esempio, siano gli ultimi tra gli ultimissimi. Ciò non ci impedisce di considerare l'antisemitismo un pericolo attuale. Del resto, però, la teoria di Huntington sullo scontro delle civiltà ha come bersaglio il mondo islamico e ci sembra opportuno de-potenziare l'immaginario che la sostiene. Immaginario che sta creando un archivio in cui se si immette nel motore di ricerca l'aggettivo fanatico, bellicoso o altro, si finisce per trovare un terrorista che spesso viene identificato con un musulmano. Le immagini che eterodefiniscono un mondo complesso, contraddittorio, plurimo come quello che va dal Marocco all'Indonesia ci sembrano caricature pericolose. Ovviamente non pensiamo che quel "mondo" sia il migliore dei mondi possibili. Ci sembra opportuno però problematicizzare la nostra visione. Evitare stereotipi e semplificazioni. Inoltre si deve dire che il progresso civile non è "unilaterale" cioè riguardante solo l'altro, bensì multilaterale (ci riguarda tutti). Nessuno è esente da colpe, da barbarie. Questo è un modo saggio di affrontare le questioni evitando inutili etnocentrismi. Questo sarà il tema dell'ultimo capitolo. Vogliamo sottolineare, per evitare fraintendimenti, che in tutto il nostro scritto la "polemica" sarà indirizzata contro tutte quelle concezioni che assolutizzano e ipostatizzano la "cultura". Con ciò lungi da noi voler negare l'esistenza di differenze culturali. Riteniamo però che queste debbano essere problematicizzate. Oggetto prevalente della nostra critica sarà la semplificante visione, dicotomica ed escludente, "Noi/Loro". Le differenze trapassano e informano tutti i livelli: anche all'interno del "Noi". Esse si costituiscono, mutano e si dileguano, in certi casi, nell'orizzonte ampio dell'interazione culturale. Le connessioni fra gli esseri umani sono la regola da quando hanno iniziato a respirare. Inoltre, ultima sottolineatura, quando ci riferiamo all'individuo (usando questo termine) non lo consideriamo come una "monade" ma come "persona", come relazione, interazione, in continua connessione con altri soggetti. Individuo-cultura: il rapporto è complementare, dialettico, contraddittorio e aperto. Insomma nessun riduzionismo.

Josef K è un impiegato di una banca che all'improvviso viene dichiarato in arresto da due persone. Inizialmente, sicuro di sé, non prende sul serio l'accusa (di cui non sa alcunché) ma piano piano gli eventi, l'arbitrarietà, l'incertezza della situazione si insinueranno ossessivamente nelle sue occupazioni fino a stravolgerle. Alla fine altri due uomini vestiti di nero, lo preleveranno e ai margini della città sarà giustiziato. Senza che il capo di imputazione sia nemmeno conosciuto. La forza di due uomini, appunto, sarà determinante. Il razzismo, nelle sue varianti, si presenta come un capo di imputazione prima, come una condanna poi, senza che l'imputato possa difendersi. Il differenzialismo culturale si presenta come una sorta di inchiodamento dell'altro ad una nostra rappresentazione che ci torna utile. Dissoluzione dell'individuo in un genere (cultura, tradizione, etnia) preteso come immutabile e annichilimento della trascendenza e della dignità di ogni singolo uomo. Soprattutto, per ultimo, vorremmo sottolineare che l'etica, in un'epoca di globalizzazione, di riflessione del rapporto dialettico tra parte e tutto, si deve rimodellare oltre la declinazione della prossimità. Un'etica della distanza, dunque. La vita di un indonesiano o di un filippino non sono estranee, ma collegate alle nostre. Le nostre azioni, infatti, hanno delle conseguenze nel sistema-mondo. Non si può far finta di niente. Il cuore dell'umanità batte dappertutto. L'interrogativo di Caino "Sono forse io il custode di mio fratello?" dovrebbe essere l'esemplificazione negativa di come gli uomini non si dovrebbero comportare. Si narra che davanti a Victor Hugo sfilassero vari ambasciatori: «Entrò l'ambasciatore tedesco e Victor Hugo lo salutò con solennità: "Germania! Ah, Goethe!", arrivò poi lo spagnolo [...] "Spagna! Ah, Cervantes!" [...]. Alla fine si presentò per felicitarlo l'ambasciatore, diciamo, della Lapponia e Victor Hugo, senza batter ciglio: "Lapponia! Ah, l'umanità!" [...]». Ebbene con tale consapevolezza, per così dire cosmopolita, invece di rispondere come Caino si potrebbe affermare «Sì, eccomi, io al posto di tutti!» – «Io responsabile per tutti!». Solo così lo sguardo può soffermarsi sui lineamenti di un nuovo mondo.

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