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| << | < | > | >> |IndiceLa Libera Università Metropolitana 7 Afferrare il fulmine a mani nude 9 La «cosiddetta» accumulazione originaria 23 Sandro Mezzadra Astrazione determinata 53 Paolo Vinci Classe 65 Mario Tronti Cooperazione 77 Paolo Virno Crisi della legge del valore-lavoro 87 Antonio Negri Diritto 95 Michele Surdi Forza lavoro 105 Paolo Virno Lavoro produttivo e improduttivo 117 Antonio Negri Produzione/Riproduzione 137 Alisa del Re Socialismo del capitale 155 Christian Marazzi Storia 169 Augusto Illuminati Trinità del capitale 181 Carlo Vercellone Notizie sudi autori 197 |
| << | < | > | >> |Pagina 7La Lum, Libera Università Metropolitana, è un esperimento di autoformazione e di conflitto costituente dentro e contro le trasformazioni dell'università. Le riforme elaborate dal tecnocrate e iperliberista Martinotti, passate poi per la ratifica di Berlinguer e di Zecchino, hanno segnato la catastrofe dell'università italiana. I saperi sono stati irresponsabilmente parcellizzati e dequalificati con la pretesa – che si è rapidamente rivelata una dannosa illusione – di funzionalizzare la conoscenza alle esigenze del mercato del lavoro. Mai come oggi il mercato del lavoro è sempre esposto al mutamento e qualificato dalla centralità di saperi versatili e non specialistici. La licealizzazione e la strettoia specialistica introdotta con il 3+2 hanno dato vita ad un mostro inservibile. I privati, non solo non danno un euro alle università pubbliche, ma succhiano continuamente denaro pubblico per dare vita ad università o fondazioni private e per finanziare processi di formazione interni alle imprese. L'illusione tecnocratica ha fallito e nessuno vuole ammetterlo! Nello stesso tempo l'università è mutata in modo irreversibile attraverso l'introduzione dell'autonomia. L'autonomia è un processo ambivalente: per un verso logica competitiva e aziendalizzazione; per l'altro possibilità di sperimentazione di un'università pubblica ma non statale, non perimetrata da vincoli centralistici. Chiaramente i potentati baronali e la loro cecità hanno fatto emergere solo il primo corno della questione. La Lum prova a far emergere il polo positivo dell'autonomia: una libera e autonoma produzione di saperi lungo la frontiere tra Università e Metropoli. Un laboratorio fatto da studenti, dottorandi, ricercatori, docenti. Un luogo dove ridare forza al carattere infunzionale, critico e sperimentale della conoscenza e delle sue forme di produzione. Un dispositivo che insiste sulla condivisione piuttosto che sulla mera trasmissione delle conoscenze. Il problema della Lum è creare saperi, mettere in comune il pensiero, in aspro contrasto con le derive aziendalistiche e individualizzanti dell'università riformata. I seminari della Lum sono frutto dell'incontro di discipline differenti, meglio accentuano il carattere sempre ibrido, non-disciplinare dei saperi. La multidisciplinarità è una pratica di rottura dei confini epistemici, la configurazione di una ricerca di frontiera. I materiali dei seminari sono ascoltabili e leggibili sul sito. La Lum è dunque un dispositivo di resistenza dentro l'economia della conoscenza e la messa a valore di saperi, competenze e linguaggio. La resistenza e il conflitto del lavoro cognitivo non è pensabile senza la costituzione di luoghi di autorganizzazione del lavoro cognitivo stesso. La Lum è uno di questi luoghi. Laddove la precarietà si afferma attraverso la frammentazione e la specializzazione idiota dei saperi, la definizione di spazi di produzione e condivisione di conoscenze diviene un tentativo, tra gli altri, di rovesciamento della precarietà e di uscita dal ricatto. | << | < | > | >> |Pagina 9«Se il marxismo può ancora, per lampi, rivivere, i partiti sono morti in piedi, fossilizzazioni nel loro potere e nel loro apparato che detiene questo potere e si riproduce comodamente per detenerne lo sfruttamento. Viviamo in questa contraddizione, ed è la sorte della nostra generazione di farla esplodere. E malgrado tutte le difficoltà esploderà, nella nuova giovinezza del mondo».
Louis Althusser
COMUNISTI, QUINDI NON DI SINISTRA? Gli interventi che avete tra le mani e che compongono questo Lessico marxiano nascono da una sorta di zona di sperimentazione, da un lavoro culturale nato tra le mura del centro sociale Esc e della sua Libera Università Metropolitana (Lum). Una sperimentazione che ha messo in discussione le forme tradizionali di trasmissione del sapere, dove la ricezione si scrolla di dosso tutta la passività a cui scuola e università addestrano, e dove comincia un processo attraverso il quale le parole spese, profuse e scambiate possono diventare strumenti di azione politica. Passando nei tunnel sotterranei della riappropriazione critica che le soggettività esercitano, ravvivano quindi la capacità di aggredire lo stato di cose esistenti. Da qui è nata l'idea di rileggere Marx contro la miseria del marxismo e la vulgata accademica, che ci propongono puntualmente un teorico determinista o utopista, precursore del socialismo reale o addirittura inconsapevole profeta del pensiero liberal, come la recente biografia di Attali sostiene. Quello che qui presentiamo è un lavoro culturale su Marx attraverso un lessico che ne ripercorre alcuni concetti chiave, è lo spazio di ricerca di un anno di Lum, un anno di sperimentazione, proprio perché tutta l'opera del barbone di Treviri si posiziona sul crinale fra teoria e prassi politica, dentro il campo di tensione nel quale le conquiste del sapere divengono forza materiale di trasformazione della società, all'insegna partigiana dell'ultima tesi su Feuerbach, secondo la quale i filosofi hanno interpretato il mondo a sufficienza, e si tratta, oggi come allora, di trasformarlo. Marx, e questo ce lo ricorda Derrida, è oggi il fantasma che si aggira nell'impero. Fukuyama e il tentativo di chiudere la storia entro i confini dello sviluppo del capitale e seppellirla sotto le macerie del muro di Berlino, o meglio e innanzitutto sotto il peso della sconfitta delle lotte operaie, hanno provato a uccidere un fantasma. Progetto miseramente fallito, il fantasma vive ancora: lo abbiamo visto nel recente ciclo di lotte che è passato da Seattle a Genova, lo abbiamo visto nelle lotte dei contadini indiani, nel Messico zapatista, nelle nuove lotte operaie in Cina, nella mayday dei precari. Nell'impero scava ancora la vecchia talpa marxiana. Ciò che non troverete in questa serie di voci marxiane è il tentativo di rapportarsi a una tradizione in quanto tale, con tutto il carico di dogmatismo che l'operazione comporta. In altri termini, non si tratta con questo lavoro di ristabilire il canone dell'ortodossia, né di scoprire il «vero» Marx nei labirinti vertiginosi che gli sono succeduti. Marxisti, orto-marxisti che non hanno ancora rinunciato alla eredità di Marx, cripto-marxisti o para-marxsti: chi se ne frega! Anzi, proprio perché siamo gente a cui non importa, proprio per questo possiamo leggere Marx mettendolo alla prova del presente e in maniera ricca, facendoci in un certo senso i conti. Non si tratta solamente di riportare la figura di Marx al centro della critica, ma soprattutto di iterare nell'orizzonte contemporaneo i nodi teorici e politici a cui ci pone davanti. Il ciclo di seminari che qui abbiamo raccolto ci è infatti servito per affrontare problemi e questioni che sono completamente usciti dai territori dell'attualità, allo stesso modo in cui si inabissò il continente Atlantide. Dal lavoro produttivo alla crisi della forma valore, dall'accumulazione originaria alla critica dell'economia politica fino alla filosofia della merce, questa raccolta si propone di presentare quelle problematiche su cui lo stesso Marx si è misurato, così come di analizzarne i colpi a vuoto, i punti di blocco, laddove la teoria così come la pratica politica deve andare avanti. Potremmo anche dire che quello che ci preme non è tanto o solo come Marx abbia affrontato questi problemi. Il punto non è abbracciare le sue soluzioni o stringere nuove alleanze con lui. No. Quello che ci interessa è riportare in luce quei problemi, quel «continente» sommerso, e interrogarne l'attualità. È allora qui che questo libro può rappresentare uno strumento importante, un tentativo, una sperimentazione. L'unico modo per fare questo, tuttavia, è ripercorrere genealogicamente le risposte di Marx, studiare con lui, situare il suo pensiero nel fuoco della lotta di classe. Ritornare a Marx per accompagnarlo nel capitalismo contemporaneo, per ricominciare a battere insieme a lui il campo che è contro il lavoro salariato, per usarlo nella costruzione di nuovi dispositivi teorici di attacco. Quello che non si è respirato in questi ricchi seminari tra le mura occupate dell'atelier Esc è il mantra di quei vecchi e inguaribili compagni che di solito cantano il de profundis di regimi caduti con un misto di risentimento, che diventa la lagna piagnucolosa della fedeltà alle tradizioni, e di uno storicismo che giustifica e potrebbe giustificare tendenzialmente tutto, che si materializza nella totale incapacità di comprendere la potenza e la radicale trasformazione del presente. In questo caso il richiamo a Marx nasconde una fede che in realtà è tradimento. Del resto, lo stesso Marx aveva saggiamente premesso di non aver nulla a che spartire con i marxisti. Quello che abbiamo tentato di costruire è stata una ricerca vera e propria per riprendere il discorso sull'attualità e validità di alcune fondamentali affermazioni marxiane, e questo lo si può fare solo mettendo a confronto Marx non con il suo tempo ma con il nostro. Abbiamo tentato di leggere Il Capitale a partire dai conflitti che oggi ci stanno di fronte, piuttosto che fare il contrario. Quello che non troverete in queste pagine, perché è quello che non ci interessa, è il Marx dell'accademia, quello della minuziosa ricostruzione filologica delle tappe e della formazione del suo pensiero. A parte alcune accezioni, come Rosdolsky, Althusser e Dussel, che costruiscono i ponti tra l'esercizio filologico e l'utilizzo politico della rilettura di Marx, troppe volte si è trattato di imbalsamare Marx in una mummia dell'erudizione senza parzialità, o dell'ideologia senza attualità. A un altro tipo di operazione esprimiamo estraneità e inimicizia: quella che mira alla separazione del Marx scienziato della società dal Marx agitatore e organizzatore politico. Questo tipo di operazione è avvenuta sotto l'egida della rilettura kantiana, per prima esercitata da Bernstein, oppure sotto la lente weberiana, e molte altre ancora: si è sempre trattato di una operazione di esorcismo del carattere spettrale del pensiero marxiano, la normalizzazione del suo segno sovversivo, nascosta dall'esigenza formale di trovare una descrizione oggettiva della società capitalista sfrondata dall'interesse rivoluzionario. Per noi Marx non è e non può essere semplicemente l'esegeta dei secoli XIX e XX: non è infatti possibile disgiungere il suo nome dalle lotte, dai movimenti, come dal nome di rivoluzione e comunismo. Comunisti quindi, e aggiungiamo, non di sinistra. Possiamo dire di non sentire nulla di familiare a noi quando viene pronunciata la parola sinistra. E proprio per questo ritorniamo a leggere Marx, a partire dalla sua critica ai fondamenti della rivoluzione francese, dalla sua radicale alterità all'«eden dei diritti naturali dell'uomo» fatto a pezzi dall'ironia del primo libro de Il Capitale. Ritornare a leggere Marx vuol dire per noi allora ripartire dalle lotte sul rifiuto del lavoro salariato, opponendoci a quella tradizione del movimento operaio irrimediabilmente intrisa dell'interesse generale, rispedendo al mittente una volta per tutte l'etica del lavoro e dello Stato gelosamente custodita e puntualmente riproposta ancora oggi dalla sinistra. Nelle sue belle pagine Virno scrive che essere marxisti non di sinistra vuol dire «riconoscere a colpo sicuro la vocazione del capitalismo alla "rivoluzione permanente", all'innovazione continuativa del processo lavorativo e delle forme di vita, evitando perciò di restare attoniti, o di cospargerci di cenere il capo, quando la produzione di plusvalore non passa più per la fabbrica e la sovranità non coincide più con gli stati nazione»: non possiamo che essere d'accordo con lui. Insomma, in questo periodo storico della scomparsa della sinistra, in Italia e in Europa, noi non abbiamo alcun lutto da elaborare. Sarebbe anzi stupido elaborare quello di altri, dal momento che l'impotenza che contraddistingue oggi i «mercanti della forza lavoro e gli addolorati dello Stato» non è cosa che ci tocchi. Il nostro, dunque, è un Marx irriducibilmente di parte. A maggior ragione, pensiamo che l'incursione nell'opera marxiana attraverso l'occasione delle voci qui presentate possa essere utile a coloro che vogliono scoprire cosa succede nel passaggio di fase dalla grande industria al general intellect. Quel passaggio che gli uomini della sinistra non hanno mai capito, e quando lo hanno capito hanno scelto il campo della reazione. Se infatti si tratta di definire una capacità di lotta sul terreno di una forza lavoro sempre più metropolitana, dove la centralità ed egemonia di fabbrica è diventata sempre più egemonia del lavoro cognitivo nello spazio metropolitano diffuso a livelli globale, il sindacato si è trasformato in una corporazione della forse più rassicurante tuta blu, sociologicamente e non politicamente intesa (non vogliamo dire qui che non bisogna difendere i lavoratori, in palio c'è ben altro!). La sinistra non ha riconosciuto le istanze e i nuovi soggetti metropolitani, identificando il precariato metropolitano con i nuovi ceti medi, da un lato ripercorrendo le tradizioni peggiori del vecchio socialismo, dall'altro assumendo il peggio del neoliberalismo. È nella crisi della legge del valore che proviamo a muoverci in questa raccolta di testi. Quella legge del valore lavoro, per intenderci, che invece la sinistra ha assunto come sua base di proposta politica, nonché delle forme di pianificazione socialista. Una crisi che gli autori qui presenti al contrario ci mostrano come esplosione della assoluta incapacità del capitale di far fronte alle esigenze sociali. La crisi, allora, è crisi del comando del capitale di fronte alla esplosioni di relazioni sociali, perché troppo ricche per essere ricondotte al rapporto di capitale. Questo lavoro è possibile attraversarlo in molteplici modi: non solo quindi per chi vuole inoltrarsi sul sentiero dell'adeguamento ai tempi del pensiero di Marx, ma anche per chi desidera un luogo per iniziare a frequentare davvero il pensatore forse più citato e meno letto al mondo, impietoso critico ante litteram di quella che oggi si chiama sinistra europea. Una lettura di Marx che per alcuni potrebbe risultare addirittura scandalosa: laddove ci troviamo su un terreno che è completamente al di fuori della rivendicazione dei diritti, che irride il motto della repubblica francese che ora compare sulle insegne del capitale come Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham.
Intendiamoci, non si tratta di liquidare frettolosamente la questione
dei diritti; la stessa figura militante di Marx non mancava affatto di realismo
sul tema. Potremmo forse dire che le pagine de
Il Capitale
ci mostrano una nozione di sfruttamento che si realizza anche dove regna il
pieno sviluppo del regime democratico. La critica marxiana dello sfruttamento
è, infatti, scientifica e non moralistica. Del resto, come è noto, Marx
presuppone che la merce forza lavoro – a differenza del lavoro, che non è
una merce – venga scambiata, come tutte le altre merci, al suo valore di
mercato. Il capitalista non si appropria furtivamente del lavoro operaio,
non è uno strozzino: per «svelare l'
arcano della fattura del plusvalore»,
dopo aver analizzato la merce e il denaro, Marx abbandona così la «sfera
rumorosa» della circolazione per seguire il possessore di denaro e il possessore
di forza-lavoro nel «segreto
laboratorio della produzione
[...] Qui si vedrà non solo
come produce il capitale,
ma anche
come lo si produce,
il capitale». Allora, non è nella giustizia che bisogna cercare le ragioni della
lotta e della rivoluzione, ma nella materialità del conflitto di classe contro
classe. Questi sono i problemi che il «continente» Marx ci pone.
RILEGGERE MARX, PENSARE L'IMPENSABILE Proveremo ora a definire alcuni dei nodi aperti e dei campi di ricerca che questo ciclo di incontri su Marx ci ha consegnato. Se questa non è esattamente un'introduzione, potrà essere tranquillamente letta dopo, o al più potrà accompagnare la lettura degli interventi qui raccolti. Accumulazione Originaria, Astrazione determinata, Classe, Cooperazione, Crisi della legge del valore-lavoro, Diritto, Forza Lavoro, Lavoro produttivo e improduttivo, Produzione-riproduzione, Socialismo del capitale, Trinità del capitale, Storia: sono dodici le voci che compongono questo lessico di un Marx riletto dall'operaismo e dalla critica femminista, irriducibilmente di parte e continuamente piegato all'azione politica che ci parla dell'attualità in modo diretto e non attraverso il ventriloquio dell'ortodossia. Possiamo presentare queste voci secondo tre linee guida, tre terreni di ricerca, su cui abbiamo provato a condurre il lavoro teorico, alle volte sparigliando un po' le carte con definizioni forse troppo nette, ma che possono servire a forzare orizzonti ossificati. Dicevamo tre aperture, o campi: anzitutto la critica del concetto di storia e del determinismo storicista che delinea, nell'ambivalenza del concetto stesso di storia in Marx, un dispositivo critico per pensare le esperienze pratiche dei movimenti e lo stesso concetto di tendenza, per mettere radicalmente in discussione le coordinate del tempo omogeneo e vuoto così come quella stessa idea di progresso teleologicamente collocata su una linea di sviluppo unidirezionata. In secondo luogo, si tratta di una rilettura delle categorie di cooperazione e di forza lavoro a partire dal rapporto, oggi attuale più che mai, tra produzione e riproduzione, che si riconfigura tanto nell'esternalizzazione e salarizzazione del lavoro di cura, quanto nell'egemonia di quella che è la forza lavoro complessa, dentro i processi della cooperazione sociale del cosiddetto postfordismo. Infine, un ultimo filone di ricerca riguarda il tema dell'egemonia del comune, laddove il lavoro produttivo stesso viene a essere concepito come lavoro produttivo di comune. Ma procediamo con ordine. | << | < | > | >> |Pagina 105Il concetto di forza lavoro, insieme alla critica al «valore del lavoro» articolato dalla economia classica, costituisce il fondamento della critica marxiana alla economia politica. Nello stesso tempo, la forza lavoro è un elemento centrale nella ridefinizione del processo produttivo contemporaneo. Nell'ultimo capitolo della sezione II del Libro primo de Il Capitale, il capitolo in cui Marx si occupa della trasformazione di denaro in capitale e in cui indaga l'ambivalenza e la doppia qualità della forma merce come valore di scambio e come valore d'uso, è affrontato il tema della merce forza lavoro, una merce assolutamente particolare. Scrive Marx: «Per forza lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella persona vivente d'un uomo, e che gli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere». Con forza lavoro, dunque, non si intende tanto un determinato lavoro in esecuzione, ma piuttosto la capacità in generale di produrre lavoro. È la potenza di un corpo di produrre valore e di lavorare. È l'insieme delle attitudini umane che costituisce la vita di un individuo. La forza lavoro è immessa giornalmente sul mercato. Tuttavia ciò che è realmente in vendita non è altro che un'attività in potenza, ovvero la possibilità stessa di produrre. Il prezzo della merce forza lavoro, ossia il suo valore di scambio, è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrre questa merce «speciale», una merce che non è separabile dall'individuo che la mette in vendita. La produzione della forza lavoro, e dunque il suo valore di scambio, è indissolubilmente legata alla riproduzione del detentore di forza lavoro, ovvero delle capacità fisiche e intellettuali che vengono giornalmente messe in vendita. Tuttavia il valore d'uso della forza lavoro, ovvero la sua capacità di soddisfare i bisogni produttivi, non ha più a che fare con il lavoro in potenza, è al contrario lavoro in atto. Nello scarto tra potenza e atto del lavoro, tra forza lavoro acquistata e forza lavoro scambiata (quest'ultima comprensiva dei costi del lavoro necessario a produrre la forza lavoro, costi del tutto occultati nella definizione del valor di scambio della merce forza lavoro) si dà la produzione di plusvalore. È infatti il lavoro come attività che produce, è ciò che rende possibile, nel consumo di questo valore d'uso, la produzione di un plusvalore. È solo in questo passaggio, precisa Marx, che si produce capitale. È la forza lavoro in atto che produce plusvalore e quindi la possibilità di trasformare il denaro – che da solo non produce capitale – in capitale.
Questi temi, che Marx affronta nel Libro primo de
Il Capitale,
saranno ripresi tanto nella distinzione tra capitale costante e capitale
variabile, quanto
nella definizione del saggio di plusvalore in cui si determina la capacità di
sfruttamento dentro il processo di valorizzazione della forza lavoro stessa. Ma
per quello che qui più ci interessa, il concetto marxiano di forza lavoro riveste
indiscutibile centralità nel dibattito contemporaneo sulla trasformazione del
lavoro, sulla messa in produzione delle attitudini linguistiche e cognitive, e sul
tema della precarietà. È un prezioso dispositivo teorico per comprendere cosa
cambia nel rapporto di valorizzazione capitalista quando il lavoro in atto
diventa motore di un processo produttivo sempre più socializzato e ricco di
cooperazione dove, anzi, possiamo dire che la premessa stessa è una cooperazione
che avviene prima del processo produttivo.
Sono evidenti a tutti le difficoltà di un lavoro non accademico su Marx; perché si tratta di un oggetto esotico, forse dell'oggetto teorico più esotico che ci sia dato pensare e, per giunta, di un autore che, suo malgrado, ha irradiato di tristezza chi, negli anni, se ne è occupato. Ciò vale per quella generazione per cui il nome di Marx fa tutt'uno con le anime morte del movimento operaio storico e con quelli che di mestiere hanno fatto i venditori della forza lavoro, accompagnati dalle nenie dei comitati centrali, delle burocrazie, delle internazionali. Per chi non è più giovane, inoltre, questo autore presenta un ulteriore inconveniente: quello cioè di costituire un vecchio paesaggio di pessimo gusto, una sorta di angolo del focolare vicino al quale coltivare qualche imperdonabile malinconia personale o nostalgia. Ci sarà sempre qualcuno che, parlando di Marx, penserà «finalmente a casa!» ed è quanto di peggio possa accadere a un teorico come Marx. Si tratta allora di scrollarsi di dosso quest'aria di noia e di mestizia o anche solo di fascinazione per l'esotico e di considerare Marx per quello che egli è veramente stato: un irregolare e un edonista che, come ricorda Adorno, aveva sposato la più bella ragazza di Treviri perché riteneva importante perseguire il piacere e il benessere terreni, avendo di questi ultimi un'idea certamente meno immediata rispetto all'oggi. Era un tipo arrogante, uno che non si trovava mai laddove ci si sarebbe aspettati di trovarlo, uno che detestava i luoghi comuni, impietoso nella polemica, uno che non si sarebbe mai trovato tra le fila della «sinistra europea» – considerando l'intera parabola novecentesca di quest'ultima, poiché sarebbe sin troppo facile riferirsi soltanto a questi ultimi anni – perchè il marxismo, di fatto, è all'opposto simmetrico della sinistra. Tutto ciò è difficile da visualizzare, poiché storicamente le cose si sono profondamente intrecciate. Nel capitolo IV del Libro primo de Il Capitale, dedicato alla «forza lavoro», uno dei concetti marxiani più noti, anche a chi non ha mai letto una sola pagina degli scritti di Marx, si delinea, con grande precisione, la struttura di un pensiero che si irride, ad esempio, della tematica dei diritti o meglio, che la considera avversa. Ecco, appena sottratto alla sua aura esotica o alla patina di malinconia di cui parlavo prima, il pensiero di Marx presenta anzitutto questo paradosso: marxista e dunque non di sinistra. Se non si accetta tale paradosso, allora sarebbe preferibile non occuparsi di Marx piuttosto che fare uno sforzo titanico per trasformarlo in un pensatore democratico o «per i diritti». Questi, al contrario, era profondamente antidemocratico e non va considerato l'erede della Rivoluzione Francese, ma piuttosto il critico più impietoso dei concetti di «liberté», «égalité» e «fraternité». Questi assunti, come ho già detto, emergono in maniera molto chiara dal capitolo sulla forza lavoro. Se solo questo genere di argomenti producesse un disagio o anche solo un'esitazione, sarebbe un bene. Un disagio, poiché non ci si trova in un luogo abituale, trattando di Marx come si trattasse del continente Atlantide, di cui non è neppure accertata l'effettiva esistenza. Marx non è stato confutato da Foucault, non è stato confutato da Deleuze, da Chomsky o da Habermas; ciò non vuol dire che avesse ragione, questo è il problema. Può essere che Marx avesse torto su tante questioni che attualmente ci stanno a cuore, ma la dimostrazione dei suoi torti è cosa preziosa e non può essere affidata ai mediocri pensatori che hanno affollato l'orizzonte del tardo novecento. Marx non è stato confutato neanche dalla caduta del muro di Berlino del 1989, ma con le armi, con la polizia e con i licenziamenti attorno al 1980, quando gli operai della catena di montaggio, che disprezzavano il lavoro salariato, sono arrivati a negare se stessi in quanto forza lavoro. Questo è il vero punto cardine del comunismo: abolire quella forma di barbarie moderna che porta il nome di forza lavoro; a questo mi riferisco quando asserisco che vi è stata una «confutazione» di Marx avvenuta con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari in occidente. Un'ultima nota introduttiva: Marx non è un punto di riferimento, ma è un terreno di battaglia, è quello che evangelicamente si definisce un segno di contraddizione, ovvero, esso è, come punto di riferimento, quasi inesistente. Negli anni della rivoluzione in occidente e in Italia, fra la morte di John E Kennedy e la morte di John Lennon, quelli fra il 1963 e il 1980, nuovamente Marx, e in maniera ancora più acuta, divenne un terreno di battaglia. Marx pensatore dell'interesse generale? Di quell'interesse generale che la borghesia avrebbe trascurato? Così voleva il movimento operaio ufficiale. Oppure, Marx come pensatore di parte, critico impietoso, feroce e sistematico della stessa nozione d'interesse generale? Colui che mette in rilievo un interesse parziale, un interesse settario: quello della classe operaia moderna nel liberarsi dalla forma stessa del lavoro salariato. Questa doppia lettura si è data anche in Italia. Potevate trovare un Marx davanti ai cancelli della Fiat o tra le fila dell'operaismo italiano o nei Quaderni Rossi, dove alcuni dei suoi celebri brani, prima ovviamente che «Atlantide» affondasse, costituivano la «sostanza di cose sperate», per dirla con l'Alighieri. Ma se alcuni brani di Marx sono stati «sostanza di cose sperate» dei movimenti nel '77, allo stesso tempo troviamo anche il Marx dell'istituto Gramsci, quello appunto di tutto il popolo, il Marx che avrebbe suggerito alla classe operaia di farsi Stato! Capite come la sua lettura si sia offerta a delle divaricazioni formidabili! Veniamo ora al nostro tema, al concetto di forza lavoro; decisivo per tutta la critica di Marx all'economia politica. Al centro di questa critica c'è il concetto di forza lavoro. I grandi economisti come Adam Smith e David Ricardo – anche se più che tali potremmo definirli antropologi della modernità – che Marx chiama «classici» riconoscendone l'alto livello teorico, avevano messo a fuoco il tratto fondamentale della realtà di quel tempo ovvero che non si trattasse «dell'epoca della tecnica» ma del capitalismo, di cui avevano riconosciuto le leggi principali. Eppure questa «economia classica», non aveva colto, secondo Marx, la distinzione essenziale fra il concetto di lavoro e quello di forza lavoro. | << | < | > | >> |Pagina 137Ne Il Capitale Marx non affronta mai in modo esplicito il tema della riproduzione della forza lavoro. L'unica argomentazione è affidata alle parole di un operaio nel capitolo VIII del Libro primo de Il Capitale: «A te dunque appartiene l'uso della mia forza lavoro quotidiana. Ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo, quotidianamente poterla riprodurre, per poterla tornare a vendere». Il lavoro quotidiano necessario alla riproduzione di quella «merce speciale» che è la forza lavoro è dunque ciò che rende possibile il funzionamento del sistema produttivo. È un momento cruciale dell'intero processo che rimane tuttavia taciuto in Marx. Un silenzio assordante. Questa almeno è la valutazione critica del pensiero femminista che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Muovendo da un produttivo ripensamento del testo marxiano, il femminismo ha portato al centro del dibattito teorico e politico il tema della produzione-riproduzione, soffermandosi prevalentemente su due temi. In primo luogo la critica femminista si è concentrata sul valore negato al lavoro di riproduzione. Nel capitolo VIII del Libro primo de Il Capitale, Marx precisa che «Il valore della forza lavoro include però anche il valore delle merci necessarie per la riproduzione dell'operaio», ovvero il valore proprio ai mezzi di sussistenza necessari per la conservazione e la riproduzione del possessore di forza-lavoro (cibo, vestiario, abitazione). A partire da questa lettura, la riflessione femminista ha messo a nudo l'esistenza di altri costi e dunque di un altro valore: il valore del lavoro necessario a trasformare le merci in concreti elementi di sussistenza per l'operaio. Da qui in avanti il lavoro necessario a riprodurre la giornaliera forza lavoro dell'operaio diventa lavoro di «produzione-riproduzione», svelando il valore intrinseco di tutto il lavoro affettivo e di cura che va dalla preparazione dei cibi e del vestiario alla cura della casa così come di anziani e bambini, dalle prestazioni sessuali alla produzione di affetto e comprensione, fino alla gestione del budget familiare. L'altro tema al centro della critica femminista riguarda la divisione sessuale del lavoro, fondamento della produzione capitalistica. Nel capitolo XIII del Libro primo de Il Capitale la divisione sessuale del lavoro segna il passaggio dalla manifattura alla grande industria: «prima l'operaio vendeva la propria forza-lavoro della quale disponeva come persona libera formalmente. Ora vende moglie e figli. Diviene mercante di schiavi». Si instaura dunque un nuovo rapporto giuridico, un rapporto di servitù che lega le nuove figure del lavoro (donne e bambini) al capitalista attraverso il contratto stipulato dall'operaio in qualità di capo famiglia. Un contratto che è insieme contratto di lavoro e – per dirla con Carol Pateman – «contratto sessuale» (contratto di matrimonio, di prostituzione, di maternità surrogata) che dà agli uomini il libero accesso al corpo delle donne e dei lori figli così come al loro lavoro. Tuttavia, la critica femminista ha posto in evidenza come la subordinazione del lavoro delle donne sia un fattore storicamente e socialmente determinato. Legata com'è ai processi di accumulazione originaria costantemente rideteriminati lungo le coordinate dei processi di ristrutturazione capitalistica così come dalle lotte e dagli spazi di resistenza, non può che avere una natura reversibile. D'altra parte, lo stesso Marx, il Marx maturo degli appunti manoscritti (pubblicati postumi come The Ethnological Notebooks of Karl Marx) era stato molto chiaro su questo punto: la famiglia patriarcale non è l'unica forma di sistema parentale e di «commercio/scambio sessuale» esistente. Nelle isole della Polinesia la famiglia consanguinea punalua organizza le relazioni tra i sessi secondo linee di consanguineità (che conferiscono un ruolo centrale alle donne depositarie dall'attività riproduttiva) e non di proprietà, senza dunque riprodurre le forme di subordinazione del diritto patriarcale.
Da queste discontinuità dobbiamo ripartire per ripensare nel presente
il tema produzione-riproduzione. Per leggere le inedite coordinate della divisione
sessuale del lavoro, lungo le linee di genere e del colore attraverso cui
si riarticola la divisione capitalistica del lavoro. Per ripensare la relazione tra
produzione e riproduzione alla luce della crescente necessità di ricorrere a
palestre, beauty-farm, consulenze psicologiche, o anche al consumo di
sostanze come condizione necessaria alla valorizzazione capitalistica contemporanea.
O ancora per riconsiderare, in questa stessa ottica, le biotecnologie
che fanno della funzione riproduttiva un lavoro salariato (si pensi alla pratica
dell'utero in affitto), o l'orizzonte di vita sterile che ci consegna la precarietà.
La riflessione marxiana, a partire magari proprio dai suoi limiti, offre
su questi temi strumenti straordinariamente attuali.
Nel Libro primo de Il Capitale, Marx definisce la forza lavoro merce e solo merce. A partire da questa definizione, in un articolo del 1978, ho tentato di analizzare cosa fosse il lavoro di riproduzione di questa merce con tanta timidezza che per cinque o sei pagine non ho osato nemmeno chiamarlo così, sostituendo il termine lavoro con «fatica legata alla riproduzione», poiché non corrispondeva alla definizione marxiana. Infine, superando le esitazioni, ho cercato di dimostrare che il lavoro di riproduzione (il lavoro domestico, se volete, ma in fondo anche qualcosa di più: il libro si intitolava infatti Oltre il lavoro domestico) è a tutti gli effetti lavoro perché, consentendo un'estrazione di plusvalore «differito», partecipa alla produzione di valore. Ho fatto un'analisi della struttura del salario definendolo «una corresponsione complessa e articolata di danaro, beni e servizi», ovvero composto da una parte monetaria e una parte socializzata (i servizi e i beni), che non entra direttamente nella busta paga. Le trasformazioni del rapporto lavorativo normato, con l'allargamento dell'industrializzazione, cominciano ad ammettere l'esistenza di un lavoro di riproduzione che rientra nel mercato sotto forma di salario indiretto. Tra gli esempi più immediati possiamo annoverare gli assegni famígliarí e la pensione di reversibilità, che sono evidentemente erogazioni monetarie dipendenti dal salario ma connesse direttamente con il lavoro di riproduzione.
Di fatto, in questo testo del 1978 viene descritto un rapporto salariale
che è storicamente determinato: il lavoro di riproduzione viene riconosciuto,
è parzialmente salariato e la prospettiva è l'aumento della sua
salarizzazíone. Esso è già,
in itinere,
contro l'obiettivo politico più diffuso
all'epoca – il salario al lavoro domestico. La richiesta di
salario al lavoro domestico
di allora rimanda alla richiesta del
reddito di cittadinanza o di esistenza
di oggi. Con il salario si sarebbero comperati sul mercato servizi
(a prezzo di mercato), oppure ci sarebbe stato un controllo «salariale» sul
lavoro gratuito di riproduzione, senza che i parametri dello sfruttamento
venissero modificati.
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