Copertina
Autore Erri De Luca
Titolo L'ultimo viaggio di Sindbad
EdizioneEinaudi, Torino, 2003, L'Arcipelago 32 , pag. 56, cop.fle., dim. 123x182x5 mm , Isbn 978-88-06-16630-4
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe teatro italiano
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Pagina 7

Scena I


Notte, una piccola nave, una stiva in cui entrano uno alla volta dei passeggeri di fortuna, futuri clandestini d'Europa. Terminato l'imbarco una voce brusca detta i primi ordini.

CAPITANO Malvenuti a bordo. Per la durata della traversata resterete nella stiva. Sarà permessa l'uscita di un uomo alla volta e per un'ora al giorno. Nessuna donna esce. Ci sono satelliti che controllano pure quanti pidocchi abbiamo in testa. Chiaro?

Nessuno risponde.

CAPITANO Bene, ora mi presento, mi chiamo Sindbad, marinaio da che mondo è mondo. Sono il capitano, quello che vi farà sbarcare in bocca all'occidente, alla civiltà. Vedrete che civiltà, che accoglienza. Voi volete andare là e io vi porto, ma su questa barca le leggi le faccio io e chi sgarra finisce buttato a mare. Il mangiare passa una volta al giorno. Se c'è mare mosso non si mangia, cosi non si vomita e non si spreca il cibo. Per lavarsi c'è acqua di mare a volontà, là c'è il secchio, lo calate da quell'apertura sulla fiancata. Da bere un litro al giorno per ognuno. Non c'è il gabinetto, buttate fuori quello che vi esce.

Dopo il discorso, il trambusto di chi occupa il proprio spazio che conserverà per la durata della traversata. Sembrano di molte nazionalità.

MARINAIO Capitano Sindbad, c'è una donna incinta, piena fino alle orecchie. Facile che sgrava a bordo.

CAPITANO Non sono stato io a riempirla. Sgravasse pure, ma dalla stiva non esce.

UN PASSEGGERO Siamo poveri e prigionieri come al nostro paese. E abbiamo anche pagato per questo.

ALTRO PASSEGGERO Io ho pagato per la libertà. Non importa come viaggio, mi possono infilare pure in una cassa da morto, basta che mi fanno sbarcare vivo. Dev'esserci da qualche parte la libertà e se sta dall'altra riva del mare io la trovo.

ALTRO PASSEGGERO Abbiamo patito cosi tanto che qua dentro sarà una villeggiatura.

MARINAIO Zitti, oh!

Le donne si muovono meglio degli uomini che sono spaesati e non sanno dove mettersi. Mentre loro in fretta e semplicemente si spartiscono i posti e li organizzano. Spunta uno spago, stendono un filo, appoggiano sopra una tela per separare. Uno straccio serve a ripulire, la donna incinta viene aiutata dalle altre a sistemarsi dove c'è un po' d'aria.

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Scena 3


Notte, in cabina di comando vicino alla barra del timone. Il capitano ascolta dal nostromo il conto degli imbarcati. Alla fine il nostromo conclude:

NOSTROMO Gente di popoli nemici che a terra si è scannata e si scannerebbe subito, qui dorme fianco a fianco e si aiuta pure. Com'è strana l'umanità.

CAPITANO Oltre alle guide all'imbarco non c'era nessun altro? Qualcuno che all'ultimo momento non è voluto salire o che è venuto solo per accompagnare?

NOSTROMO Nessuno.

CAPITANO Non ci sono testimoni?

NOSTROMO No.

CAPITANO Meglio. Quando l'emigrazione era legale scendevano a migliaia nelle stive della terza classe e risalivano all'aperto dall'altra parte dell'oceano. Allora il molo del porto di Napoli era nero di madri. Facevo il fuochista nella sala macchine dei transatlantici. Gli emigranti viaggiavano meglio di me, tenevano speranze. Io tenevo solo la voglia di mangiarmi la paga con le puttane di New York, certe femmine russe che mandavano in cielo gli uomini che salivano sopra di loro. Non me ne ricordo neanche una, solo il naso ha conservato l'odore del loro sapone di Marsiglia mischiato al mio sudore nero di carbone.

Di quegli anni d'inizio del mille novecento tengo a mente il molo Beverello di Napoli fitto di gente che salutava, salutava, salutava a vuoto che già quelli di terza classe stavano nei cameroni sottocoperta. La nave si staccava dalla città trainata dai rimorchiatori. Partiva la sera, i motori al minimo, si potevano sentire le voci che ancora chiamavano da lontano i bei nomi meridionali. Quando eravamo già all'altezza del faro, staccati da terra ma non ancora in navigazione sentii lo strillo. Stavo affacciato a poppa vicino alla bitta della fune di ormeggio a guardare le luci dei fanali a gas, s'era fatto silenzio come una tenda calata e all'improvviso il grido, una coltellata che straccia un lenzuolo. Una donna che non potevo vedere gridò dal molo il nome, Salvatore, come una che si strappa il petto e fa uscire la voce dall'intestino e non dalla gola. Gridò da madre, da sirena, da cagna. Un nome strappato via dal cuore e gettato al largo a sillabe disperate: Sal va to re e e e.

Ho imparato da giovane la musica perciò lo so ripetere. Chi sa perché il dolore si fissa meglio in un solfeggio, in una cantilena? (Ripete piu forte stavolta con la stessa violenza quel nome) SAL VA TO RE E E E. (Qualcuno nella stiva si tappa le orecchie).

Mentre lo ripeto mi torna la pelle d'oca. Quella donna sconosciuta ha cucito nelle mie orecchie il nome di un estraneo e mi ha lasciato una cicatrice musicale nella testa. Un nome solo e basta, finito nel timpano di un marinaio indifferente che non faceva il postino e non poteva portare l'ambasciata a quel Salvatore, per dirgli che lo chiamava sua madre con l'ultima voce buona per raggiungerlo, con l'ultima sua forza carnale. Proprio a me doveva far sanguinare le orecchie, mannaggia a lei. Ogni viaggio mi torna a mente e mi fa male tale e quale, non si è smorzato neppure un decimo di grado di quella bruciatura. Allora le vite si spezzavano sopra un molo, si scambiavano addii veraci, sicuri di non rivedersi piu. Si poteva sentire il rumore degli addii, un brusio di raccomandazioni e una slogatura di ossa. (Pausa).

NOSTROMO Con l'emigrazione clandestina si salutano prima, s'imbarcano già salutati.

CAPITANO Grazie nostromo, tieni sempre la parola giusta per smorzare i soprassalti di sentimento.

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