Copertina
Autore Felice De Martino
Titolo Cerchiamoci ancora
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2012 , pag. 292, cop.fle., dim. 14x21x1,6 cm , Isbn 978-88-7937-597-9
LettoreGiovanna Bacci, 2012
Classe narrativa italiana , paesi: Italia: 1940 , regioni: Campania
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Pagina 7

«Cuántas cosas perdí por miedo a perder».

«Quante cose si sono perse, proprio per paura di perderle».

Gli avevano scritto in gioventù amici cileni quando molte cose della vita potevano essere conquistate o perse da Agostino con la stessa nonchalance che il giovane mostrava al tavolo da gioco nelle notti trascorse al Circolo del Mare, nei pressi di piazza Micheli, di fronte la darsena vecchia del porto di Livorno.

Un ritrovo, a quei tempi, alla moda ma anche chiacchierato perché frequentato dai figli della borghesia cittadina i quali, giocando alle carte nei fumosi privè, al riparo da sguardi indiscreti, mascheravano con istintiva incoscienza il timore di dover crescere in fretta. Erano allora i tempi della gioventù. L'ingenua spensieratezza prevaleva, le scelte di vita erano lontane e tutte da prendere ancora. Agostino si dimostrava un adolescente irrequieto, un po' disordinato ma pronto, intelligente e con la prospettiva di una carriera sicura, al riparo da grandi incertezze.

Il Fascismo era agli inizi e il Regime, nel consolidarsi, viveva il tempo dell'innamoramento con la stragrande maggioranza degli Italiani. Il capo, Benito Mussolini non sentiva ancora il bisogno di indossare le vesti del cattivo dittatore.

Era una stagione di attesa, un po' per tutti, con alle porte un futuro che nessuno poteva immaginare così disastroso come invece man mano poi, sempre più, si andò delineando.

In Agostino non vi era quindi, in quegli anni, ansia di sbagliare come accadeva invece ai suoi conoscenti sudamericani.

Non era ancora presente nella sua anima la paura.

Non fibrillava il "miedo", l'insicurezza che può far perdere le partite decisive.

Il sentirsi protetto dalla casta alla quale apparteneva, questo era il riparo ideologico di Agostino, ribadito anche da alcuni suoi conoscenti ai quali la politica del Duce non piaceva affatto. Critiche espresse dagli stessi con le dovute cautele e che avevano suscitato nel giovane universitario i primi dubbi sulle condizioni reali della Nazione. A quel tempo la politica non aveva ancora fatto presa in Agostino ma stazionava vigile nei primi strati della pelle.

Eppure quella frase menzionata negli scritti dagli amici sudamericani, in evidente difficoltà nel loro paese con il potere dominante, Agostino non l'avrebbe mai più scordata.

Molti anni poi erano trascorsi da quei giorni indecisi e il professorino elegante e civettuolo di un tempo, si era trasformato in un uomo forte, realista e sempre più alle prese con un mondo completamente diverso.

Tragedie e lutti avevano investito l'Italia dove non si aveva più la minima voglia di scherzare. La vita di Agostino era diventata amara come la terra intorno che l'uomo ora calpestava senza una conveniente ragione se non quella della sua ideologia politica che, nel volgere degli anni, l'aveva affascinato e completamente trasformato.

I danni determinati dall'aver avuto un opinione non conformista erano stati per lui infiniti e penalizzanti. A ricordarli Agostino però non soffriva molto.

La politica, per l'ormai non più giovane professore, apparteneva ad una categoria assoluta, probabilmente l'unica che davvero catturasse la sua attenzione emotiva.

Aurora, la giovane donna della contrada Capuana, dal canto suo sapeva che anche quel giorno il professor Agostino, se le circostanze lo avessero permesso, sarebbe potuto tornare. Bisognava stare all'erta quindi, con le orecchie "appizzate" anche perché l'uomo era solito annunciare il suo arrivo con tre lunghi fischi convenzionali, lanciati dal sovrastante Vallone della Pila. Nei pressi della casa dove la ragazza abitava, il professore avrebbe poi iniziato ad intonare il verso di una canzone, concordato con il padre di Aurora, il tanto temuto don Vincenzo Lauria.

«Amore vuol dir gelosia». Il professore doveva cantare e Aurora nell'ascoltare, sin dal primo momento, aveva sospirato:

«Comm'è bella stà canzone. E pure chi la canta».

Al professore invece quel motivo dava solo malinconia. I suoi affetti più cari erano lontani, centinaia di chilometri più a nord, congelati nel ricordo insieme ad una parte della sua vita vissuta in condizioni completamente diverse.

«La mia famiglia, gli amici. Vivi, morti chissà?».

Si chiedeva spesso l'uomo senza avere una risposta. I collegamenti con loro tutti si erano interrotti da tempo. Bisognava solo attendere che lo strazio della guerra finisse per capire che fine avevano fatto.

L'intesa con Lauria stabiliva tra l'altro che se non vi erano imprevisti, la ragazza doveva zittire, altrimenti lei aveva il compito di rispondere al motivetto con delle frasi prestabilite che dicevano:

«Come mai da queste parti, professore? Vi siete perso per caso? Volete che chiami qualcuno della mia famiglia?».

Quella mattina di inizio estate tutto era a posto, perfino il tempo che finalmente sembrava volgere al meglio tra le ultime montagne salernitane prima dei confini con la Lucania potentina.

La neve era da poco scomparsa dalla sommità del Monte Cervati che si ergeva più su, a nord-ovest e dominava incontrastato i versanti del Cilento e del Vallo di Diano.

Le sue falde, innevate per buona parte dell'anno, erano diventate ora un susseguirsi intenso di macchie di verde e di granito levigato. S'udiva tra le forre arcigne del massiccio montano un silenzio fitto, interrotto solo dal vento che scendeva veloce da nord. Antichi eremiti avevano raccontato che, in quei posti solitari, il vento di settentrione ululasse di notte con voci umane, parlando di storie di streghe e di briganti senza pace. Scoscese e impervie erano poi le gole nei pressi dei sacri altari, innalzati dai pellegrini per la Madonna della Neve che custodiva fiera gli anfratti ricolmi di neve eterna. Le famose "nevere" della Grande Montagna conservavano infatti il freddo come il canto delle donne giù nella valle annunciava l'inizio della bella stagione. Il tempo del mietere era vicino e l'aria disegnava di chiaro i campi rigonfi di grano.

Tutto di quella visione senza ombre diceva che non poteva esservi guerra in nessuna parte della Terra, invece la realtà, purtroppo era ben diversa. Tuonavano i cannoni nel mondo intero e la gente moriva ininterrottamente, ormai da quattro anni.

La bella stagione da quelle parti era però una fugace apparizione. Appena pensavi d'averla per un po' accanto, a portata di mano, essa ti svaniva improvvisamente tra le dita. Come d'incanto, e non la rivedevi più per molto tempo.

Era sempre così.

Guai a fidarsi quindi, come sostenevano, a dir la verità un po' per tutto, gli abitanti di quel paese, posto quasi a mille metri, lungo l'Appennino meridionale.

La situazione era dunque calma quella mattina e Aurora doveva, per copione, rimanere in silenzio. Qualcosa invece d'irrefrenabile diede alla ragazza la forza di parlare, non appena il professore ebbe modo di entrare in casa. Don Vincenzo era nella stalla e lei aveva la possibilità di rimanere da sola per alcuni minuti con l'uomo.

«Io so, professore, di cosa parlate con mio padre».

Il professore si girò di scatto cercando lo sguardo della ragazza. Era meravigliato per le parole che stava ascoltando. Da lei aveva udito solo frasi di circostanza, per di più nei momenti di pericolo.

Molto incuriosito però e, con garbo, le chiese:

«E di cosa parliamo, signorina Aurora?».

Lei, di slancio, rispose:

«Parlate di un mondo diverso, di un mondo più giusto».

«Un mondo migliore?».

«Professore, io non riesco ad immaginarmi con precisione cosa significhi davvero questo termine, però migliore, mi piace».

«Avete studiato, Aurora?».

«Si, mi è costato però caro».

«Perché?».

«Perché qui le donne non devono studiare, professore. Devono solo ubbidire».

«E voi sapete ubbidire?».

«Certo! Ma non mi piace affatto».

Aurora si fermò un attimo per prendere fiato, poi aggiunse, sconsolata:

«Oggi l'ubbidienza è per mio padre, domani dovrà essere per il mio sposo».

«Ubbidire è una cosa inevitabile a quanto pare».

«Dolorosa, professore. Io però sento che non la vivrò fino in fondo questa mia condizione».

«Volete forse ribellarvi?».

«È molto difficile farlo. E così, credetemi, si perde anche la gioia di vivere».

«Bisogna saper accettare».

«Allora quello che predicate con tanta forza è solo nu suonno, una chimera?».

L'uomo era stato preso alla sprovvista, si sentiva un po' in difficoltà. E poi, considerare un fatto aleatorio la sua visione politica. Preferì pertanto non rispondere. La ragazza invece incalzò:

«Voi parlate con mio padre di cambiamento, rispetto, uguaglianza».

«Ci ascoltate per davvero, allora?».

«Certamente».

«È tutto vero e possibile, Aurora. Ci vuole tempo, però».

«Io sento che non ho molto tempo, professore».

Dopo queste parole Aurora chinò il capo a terra e lasciò la stanza senza salutare.

La tristezza sembrò andarsene via con lei.

Il professore, negli attimi prima che arrivasse Vincenzo Lauria, pensò:

«Che ragazza strana, diversa da tutte le altre, qui».

In quelle prime calde giornate estive, Aurora invece paventava che molto del suo futuro era già stato scritto e che la sua vita, se non fosse accaduto qualcosa di veramente dirompente, sarebbe scivolata verso uno scontato epilogo, probabilmente deciso in buona parte da altri. Eppure la ragazza nutriva un senso di ribellione che aveva radici profonde. A volte percepiva la sensazione, accompagnata da flash emotivi, che lei non era appartenuta solo a quel mondo nel quale ora viveva. Altri orizzonti, molto diversi, erano apparsi ai suoi occhi e altra aria avevano respirato i suoi polmoni. Probabilmente un'altra esistenza, vissuta lontana nel tempo e nei luoghi, l'aveva vista bambina prima gioiosa e poi molto triste.

Erano ricordi o solo dei sogni quelli che si mescolavano da anni, senza pace, nella sua mente?

Aurora doveva, a breve, risolvere anche il problema matrimonio.

La sorella più grande, Rosina era già sposa e madre e lei ancora niente. Per Aurora era già pronta una pista che portava direttamente a qualche casa più avanti della sua e ad un uomo che non le piaceva affatto: Sporco e sboccato, con un orizzonte esistenziale che finiva alla stalla del barone Gerbasio dove lui lavorava come fattore. Uno sgravio per la famiglia, invece un vero tormento per la delicata e piacente Aurora la quale, quando era presa dallo sconforto, si recava nella stalla per parlare con la cavalla che il padre Vincenzo le avrebbe regalato un giorno, come lo stesso aveva solennemente promesso.

«Ce ne andiamo da qui, che dici Maddalena?».

E la cavalla nitriva, quasi per rassicurarla sulla sua fedeltà.

«Io so, purtroppo, quando tu potrai diventare mia» sospirava Aurora per poi aggiungere, inviperita:

«Solo il giorno che sposerò quel mostro».

Maddalena era la cavalla di casa Lauria. Essa era stata acquistata in fasce da alcuni carbonai lucani nei dintorni di Brienza, ad un prezzo scontato. Era il frutto di un parto prematuro e la stessa, a stento, si manteneva in piedi. Appena però la cavallina giunse nell'aia della masseria di don Vincenzo Lauria lanciò un nitrito liberatorio che meravigliò un po' tutti. Da allora si dimostrò forte e orgogliosa e crebbe in simbiosi con la giovinetta Aurora.

La cavalla fu chiamata Maddalena per le sue origini geografiche. La stessa era infatti venuta alla luce nella piccola catena montuosa che divide la bassa Campania dalla Lucania occidentale. Non era difficile vederla scorazzare, senza briglie, intorno alla quercia secolare che troneggiava, con la sua mole antica, nel bel mezzo della masseria dei Lauria. Don Vincenzo spesso sedeva nei pressi su un mezzo tronco che lui stesso aveva prima tagliato e poi sistemato ai piedi del grande albero. Era il posto che lui amava di più e dove era piacevole distendersi parlando, in particolare nella breve stagione, con un amico sincero, in compagnia di un buon bicchiere di vino.

La fugace ma intensa chiacchierata che quella mattina Aurora aveva avuto con il professore poteva aprire una speranza, perlomeno questo lei sentiva nell'animo. Quel signore distinto, venuto da lontano, dal Nord Italia e tanto diverso da chiunque altro in paese, ispirava fiducia. Quest'ultimo era una persona importante, un professore famoso, diventato da qualche tempo una conoscenza abituale del padre Vincenzo.

I due uomini si erano affratellati per il desiderio comune di cambiare il mondo e per l'avversione che nutrivano nei confronti del potere imperante. Volevano entrambi giustizia ed uguaglianza ma ognuno riteneva di possedere la strategia idonea per ottenerle.

Il signore alto che parlava bene e svelto veniva di nascosto nella loro casa, spesso nelle ore più impensate. Ai due si univa, con una certa frequenza, un uomo anziano ma sempre arzillo che veniva da una frazione in montagna. Quest'ultimo si chiamava Francesco ed era un tipo non molto disciplinato tant'è vero che veniva continuamente ripreso affinché abbassasse la voce durante gli incontri e contenesse gli atteggiamenti baldanzosi quando si trovava in pubblico.

Le riunioni a casa Lauria erano pur sempre a rischio, le Guardie Regie avevano occhi e orecchie dappertutto. I Tedeschi che operavano nell'altopiano di Magorno, poi erano sempre più sospettosi e invadenti.

Nel frattempo molte altre cose sarebbero accadute in Italia e nei vari fronti di guerra in quell'estate del 1943. Il giorno 19 di luglio, in particolare, il cielo di Roma si sarebbe riempito di una miriade di aerei. Essi però non avrebbero proseguito il cammino, come erano soliti fare, secondo una prassi ormai consolidata ma si sarebbero disposti all'attacco. Quella volta, purtroppo, gli aeroplani non avrebbero solo intimorito ma anche fatto distruzioni e ucciso molta gente. Tutti i tentativi della diplomazia mondiale per risparmiare la Capitale dalle bombe alleate non avrebbero sortito effetti, compreso le suppliche dirette del Pontefice.

Il bombardamento di Roma con ogni probabilità segnò la fine ultima del Fascismo. La notizia dei tremila morti e degli undicimila feriti che questo episodio aveva determinato era infatti trapelata, creando sconcerto ovunque nella popolazione.

In un paesino del Meridione poi, quello nel quale vivevano i Lauria, alcuni privilegiati conoscevano perfino i dettagli di quanto era avvenuto, grazie ai canali strettamente personali di un confinato politico eccellente, per l'appunto il professore, amico di famiglia dei Lauria, relegato lì, in provincia di Salerno a Montesano sulla Marcellana.

Il professore aveva, da qualche tempo, preso contatto con il padre di Aurora, stabilendo così un sodalizio politico che stava per dare i primi frutti operativi.

Il confinato, mal sopportato dai notabili fascisti per il suo esasperato anticonformismo, si era spinto oltre il tollerabile quando, qualche anno prima della guerra, non aveva voluto firmare le rituali lettere di fedeltà al Regime. Una delle rare mosche bianche nel panorama della cultura italiana che aveva avuto il coraggio di farlo, ribellandosi così al sistema coercitivo imposto da Mussolini nel mondo della scuola. Al professore, da quel momento, fu precluso l'insegnamento e, dopo qualche tempo, scattò anche il foglio di via per il confino coatto nel comune campano.

Un'esistenza distrutta, separazioni forzate con la famiglia e poi la guerra. Addii, dolori, umiliazioni, perdite: Un condensato di eventi negativi che solo la grande passione del professore per la politica aveva potuto in parte compensare. E ora, dopo tanti anni, forse qualche piccola soddisfazione. Al professore infatti, evitato come un appestato dalla gente del luogo per le sue idee rivoluzionarie, si erano, da un po' di tempo, avvicinati alcuni simpatizzanti.

La gente timidamente iniziava anche al Sud a metter la testa fuori dall'uscio per vedere se il tempo si decideva a volgere al meglio. In quei tempi difficili, augurarsi il tempo buono significava non solo auspicare a breve il tanto sospirato blocco delle ostilità ma anche pretendere la fine del malgoverno e delle sopraffazioni perpetrate da chi deteneva il potere in sede locale. Svariati giovani poi e molti capifamiglia erano, loro malgrado, impegnati nei tanti fronti di guerra.

Non si avevano di loro notizie precise e quelle poche che filtravano parlavano solo di morte, tragiche ritirate o di sofferte prigionie.

L'onda fascista che doveva travolgere in pochi giorni le plutocrazie occidentali, si era arrestata da un bel po' e una funesta risacca di brutte conseguenze si stava approssimando.

Il professore cercava di preparare nel migliore dei modi i suoi adepti agli ulteriori eventi negativi.

Il caso di Roma era fin troppo eclatante. La città, per secoli simbolo della cristianità mondiale, aveva conosciuto l'onta dei bombardamenti. Questo tragico fatto voleva significare che il nemico non concedeva asili più a nessuno. Tutti erano in pericolo.

Il professore, con un filo di voce e grande enfasi emotiva, aveva raccontato il fatto agli esterrefatti uditori.

La flottiglia degli aerei alleati, secondo quanto riferito al Palma, era arrivata dal mare, probabilmente dal Nord Africa o dalla Sicilia, già da giorni invasa dagli Americani e prossima alla completa capitolazione:

«Le squadriglie alate si sono addensate sulla Capitale come un'unica macchia, compatta e funerea».

Il professore aveva poi proseguito, irriverente, il racconto:

«Con le eliche dei loro aerei, i vampiri capitalisti (chiamati proprio così, e con disprezzo) hanno risucchiato l'ultima energia vitale della città eterna».

L'uomo aveva poi aggiunto quasi con godimento, pulendo i vetri dei suoi occhialini, che la Roma papalina era stata sorprendentemente violata, per di più in assenza dello stesso Mussolini, impegnato in concomitanza, nei pressi di Belluno, in un colloquio "segreto" con Hitler.

«Ma chist (questo) comme face a sapè tutti sti cazzariedde (come fa a conoscere tutti questi fatti)?» chiedeva il buon Francesco all'amico Vincenzo.

«Francì o professore nuoste», rispondeva Vincenzo, «tene amice putente (potenti) che u'mparano (gli riferiscono le cose)».

Il ben informato professore si chiamava all'anagrafe Agostino Palma ma era meglio conosciuto dalle sue parti, per gli avventurosi trascorsi di mare, con lo pseudonimo di Comandante Nettuno, regolarmente storpiato dai paesani di Montesano in Comandante Nisciuno. Prima canottiere di grande speranze e poi famoso velista, aveva partecipato, tra l'altro, a svariate regate internazionali, Palma era di Livorno e raccontava a chi poteva del suo mare e della sua terra natia, posta di fronte all'Elba e alle altre isole dell'arcipelago toscano. Per molti mesi era stato un soliloquio, quello del professore, per i vicoli stretti del Borgo Vecchio di Montesano ma da qualche giorno le cose sembravano mutate. La gente era più disposta al dialogo e dimostrava meno paura di esporsi con le autorità di vigilanza. Alcuni compaesani ultimamente si erano fermati finanche a parlare con lui proprio sotto il Palazzo Baronale lungo la frequentatissima via Roma.

«Noi di Livorno abbiamo il mare dentro, quasi per decreto» aveva riferito il toscano agli improvvisati uditori i quali non potevano sapere cosa volesse significare decreto ma vennero subito catturati dalla avvincente eloquenza del professore.

«La famiglia dei Medici, padroni per secoli della mia città, sapevano il fatto loro. Per migliorare i commerci imposero, fin dalla fine del Cinquecento, di essere ospitali per legge, con le Leggi Livornine, appunto».

«Ospitali? E perché?» chiese, timidamente, uno dei presenti.

«Per il commercio, naturalmente. Noi livornesi abbiamo avuto sempre un porto importante. E ciò è stato un richiamo per tutta la gente di mare. Ha determinato nuovi rapporti, incrocio di razze».

«Moneta che gira» intervenne Umbertino Maggio, un vecchio e saggio maniscalco che aveva una piccola bottega nelle vicinanze.

«Certo! Da noi, nel corso dei secoli, ci sono stati banchi di credito ebrei, agenti greci, spagnoli, musulmani ma anche cattolici inglesi. Gli esuli di tutte le parti del mondo trovavano sempre chi li accogliesse a Livorno».

«Nu paravise, truvavano (un paradiso trovavano) questa gente!» esclamò ironico, un tizio del rione Chiazzolella che passava di là in compagnia del suo asino e che si era fermato per vedere cosa stesse succedendo.

«Non proprio, anche da noi c'erano manigoldi e prepotenti ma la solidarietà e il rispetto per gli altri, u bene pe l'aute, come dite voi qui, era degnamente rappresentato».

«Per decreto, come avete detto prima» intervenne a questo punto il maestro De Girolamo che si trovava anche lui lì a curiosare.

«Appunto! I livornesi quindi non possono sopportare imposizioni senza ribellarsi».

«Siete 'ndossicosi, tutti quanti allora?» chiese ancora Umbertino Maggio.

«Cosa vuol dire questo termine?».

«Vuol dire, un po' insofferenti e un po' irrispettosi» cercò di chiarire il maestro De Girolamo, appassionatosi alla discussione.

«Ecco perché a me non piacciono i prepotenti, quelli che fanno la voce grossa. Insomma i dittatori» esplose il professor Palma che subito però si pentì di aver imprudentemente espresso in pubblico un giudizio così tranciante.

«A voi quindi non piace per niente il nostro Duce?» intervenne puntuale Salvatore Nascimbene che aveva avuto quindici figli, di cui ben sei disseminati nei vari fronti di guerra.

«Non fatemi parlare».

In men che non si dica, dopo l'ultima esternazione del professor Palma, il gruppo dei presenti scomparve per incanto. La particolarità della circostanza era però un'altra e consisteva nel fatto che, per la prima volta da molti anni, si era visto un capannello di gente dialogare spontaneo per alcuni minuti senza che fosse disperso all'istante dalle Guardie Regie.

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Il pensiero di Agostino, una volta ritornato tra le viuzze strette e ripide del paese, andò inspiegabilmente altrove per consegnargli, man mano che camminava, un senso di vuoto e poi un brutto presentimento per il prossimo futuro che si indirizzava verso la sua terra lontana.

Sentiva che la stessa poteva essere minacciata da qualcuno e da qualcosa di terribile.

E così sarebbe stato infatti.

Orde senegalesi e marocchine, a seguito delle truppe regolari francesi, da lì a qualche mese, avrebbero assaltato la sua Toscana e in particolare proprio quell'Isola d'Elba a lui tanto cara, facendo strage in particolare di donne.

Ma Agostino Palma tutto questo non lo sapeva e né lo poteva mai immaginare possibile.

La Francia, madre di civiltà e democrazia mai avrebbe dovuto, sotto la sua diretta giurisdizione, consentire tutto quello che poi terribilmente avvenne.

L'indomani intanto, nel territorio di Montesano, bombe di un calibro che da quelle parti non si conoscevano, crivellarono impietose la piana di Magorno. Gli aerei, gli stessi che si erano alzati in volo da quel campo di atterraggio, lo colpirono fino a renderlo inservibile. E continuarono a sganciare bombe anche nelle vicinanze. Il raid aereo fu il saluto ufficiale del Terzo Reich alla bassa Campania ed alla confinante Lucania. Gli aeroplani, dopo aver bombardato anche il ponte del Sale che si trovava nei pressi del crocevio per Tardiano e l'altra frazione di Magorno, planarono su Montesano, radendo le alture del Castello. Scomparvero poi alla vista, defilandosi verso il Cilento dietro le cime impervie del Monte Cervati. Gli altipiani del paese salernitano furono in pochi minuti ridotti a colabrodo e trasformati in una fitta rete di buche, circondate da cumuli di terra sollevata. Le spianate di Magorno, Tardiano e Spigno apparivano dall'alto come filari abbandonati di tane di animali. La guerra era arrivata fin sugli usci delle case e nei campi pronti per le nuove semine.

Dopo qualche ora di calma sopraggiunsero per le vie del paese le colonne armate dirette a valle. Le truppe germaniche avevano rallentato il cammino per far saltare anche i ponticelli più insignificanti. Non volevano lasciarsi alle spalle nulla di praticabile. Tutto doveva essere reso inservibile. La popolazione, terrorizzata per il passaggio dei soldati stranieri, si era prudentemente tappata in casa.

Una parte esigua dell'imponente colonna si fermò nella piazza del paese, disponendosi a cerchio. Il grosso delle truppe invece continuò il cammino.

Un gruppo di soldati con i fucili spianati, scese a terra. Buona parte di essi si diressero verso il municipio, gli altri risalirono la prospiciente via Roma, dipanandosi man mano lungo le stradine del centro storico. I primi sfondarono i portoni del Municipio e dei vani di servizio a livello strada penetrando, come cavallette impazzite, negli ambienti del fabbricato. I soldati, man mano che guadagnavano i piani sovrastanti, si affacciavano ai balconi e scaraventavano in strada carte e masserizie mentre cospargevano di benzina gli arredi e in particolare gli scaffali di legno dove erano conservati gli atti pubblici comunali. Le prime fiamme si propagarono all'esterno dal lato del municipio che dava verso la salita dell'Annunziata, proprio quando stavano ridiscendendo da via Roma i soldati, i quali tenevano nel mezzo, ammanettati, cinque giovani e un vecchietto. Questi ultimi vennero fatti mettere lungo le mura del municipio pronti per essere fucilati. Gli ordini per l'operazione venivano dati da un colonnello affacciato al balcone principale del palazzo comunale. L'uomo in divisa era esagitato e faceva in continuazione volteggiare al cielo una pistola, ripetendo la frase:

«Traditori italiani, popolo di vigliacchi. Morirete tutti quanti, come questi porci che sono qua sotto».

Per le strade non c'era ombra di persone del posto, compreso governanti e funzionari comunali che rimanevano rintanati nelle loro case.

Il discorso del tedesco rimaneva quindi un monologo senza contraddittorio per la manifesta impossibilità di replica da parte dei prigionieri.

La scena aveva un sapore surreale ma anche terribilmente amaro. Quella mattina Montesano non aveva orecchie. La popolazione sembrava essere stata colpita da un'improvvisa e letale epidemia.

Il professor Palma, in analogia con il contesto locale, aveva deciso di non farsi vedere in giro. Doveva, tra l'altro, scrivere delle importanti missive e decifrare alcuni dispacci, custoditi in uno armadio sgangherato della sua camera, l'unica disponibile nella locanda Cafaro dove lo stesso alloggiava. Quest'ultima era situata lungo il corso, nei pressi del Palazzo Volentini, nelle immediate vicinanze della piazza sulla quale si affacciava la casa comunale. Il professore pertanto potette udire chiaramente le parole offensive del colonnello germanico che procurarono al suo animo un fremito di reazione.

Tutti se la prendevano con la povera Italia.

Ormai quest'ultima era diventata una nazione offesa e umiliata, dopo essere stata impunemente usata, spesso in termini anche pletorici, dal regime fascista.

Bisognava reagire invece. Si rodeva dentro il professore.

La notizia della firma dell'armistizio con gli Alleati era evidentemente trapelata. Il comportamento aggressivo e di rottura dei Tedeschi che Montesano stava sperimentando sulla propria pelle, avvalorava ancor più questa tesi.

Il Palma era combattuto. Non riusciva a trattenersi in camera. Si sentiva un vigliacco, non poteva starsene senza muovere un dito, come avevano stabilito Lauria e gli altri.

Il professore, dopo molto riflettere, decise pertanto di uscire in strada per andare quantomeno a protestare con le forze germaniche per il saccheggio della casa comunale che gli stessi stavano perpetrando in modo ingiustificato, vigendo ancora, seppur molto incerto, un rapporto di alleanza con gli Italiani.

Il proprietario della locanda però lo bloccò, tentando di dissuaderlo:

«Stamattina, professore, nun tenete proprio che pensà. Volete fare l'eroe. I Tedeschi, se andate a sfrogoliarli, vi ammazzeranno come stanno facendo con quei poveracci che hanno fatto prigionieri».

«Proprio per questo, don Vincè».

«C'è stato già troppo sangue, professore. Pensate ai vostri figli. È meglio nu (un) padre vigliacco che nu padre muorto».

Nella mente del Palma, dopo le accorate parole del locandiere, passarono in un attimo indelebili flash di ricordi: la moglie Cecilia, il figlio Anselmo, la sua casa vicino al mare, le barche con le quali aveva veleggiato, gli amici, i suoi ex alunni, la sua bella città. Da quanto tempo lui si era allontanato da tutto questo.

E ora quegli affetti erano ancora vivi?

Esisteva ancora la sua città o era stata bombardata come Roma? Mille dubbi e cattivi pensieri frullavano nella sua mente. Tutto appariva in ombra e le sue persone care vagavano come fantasmi in una nebulosa lontana, concentrati come buchi neri in un ricordo doloroso dal quale non riusciva a svilupparsi nessun ottimismo. Palma era assalito anche dal dubbio: La sua famigliola aveva poi raggiunto le campagne nei dintorni di Livorno, come si era concordato prima dell'interruzione dei contatti? Lì vivevano i genitori della moglie Cecilia. Chissà se tutti erano riusciti nell'intento che avrebbe significato per loro la salvezza o non ce l'avevano fatta? E nell'atroce dubbio di non rivederli più, decise:

«Meglio morire! Quanto meno lascio un bell'esempio».

«Io vado, don Vincè» disse pertanto al locandiere che, avvilito, ribattè:

«Vui site solo nu pacce (un pazzo)!».

«Non posso rimanere qui mentre quegli innocenti muoiono».

«Fate come volete, professore io vi ho messo in guardia».

E i cospiratori in pectore del paese? Dov'erano? Latitavano come cinicamente, la sera prima, aveva annunciato Lauria al professore.

Il problema Tedeschi, secondo il ribelle della Capuana e dei suoi accoliti, non era di competenza dei Montesanesi, bensì degli Italiani. Come se gli abitanti di quel piccolo paesino del Meridione non facessero parte della Nazione e del popolo italiano.

Il professor Palma aveva rimurginato per tutta la notte sulle scelte da prendere e su che cosa fosse più giusto fare in quei frangenti ma la mattina seguente i Tedeschi si erano presentati sul Comune, la casa di tutti, comportandosi in modo arrogante e dispotico. E questa era una circostanza che non poteva essere sopportata. Ne valeva la dignità di tutti.

Il problema più serio lo avevano però i cinque giovani e il vecchietto che stavano per essere fucilati seduta stante.

Il drappello era già pronto al fuoco. I componenti del plotone di esecuzione però, per la fretta, non avevano coperto gli occhi ai condannati a morte.

«Senza processo si può anche morire, Comandante, ma senza le bende no».

Più o meno così dovette implorare Gigino Sarno, uno dei morituri e questa pretesa, quanto mai geniale, fondata anche nella sostanza giuridica, salvò la sua vita e quella degli altri condannati. La ricerca infatti delle bende fece perdere tempo prezioso al commilitone incaricato dal colonnello di trovarle seduta stante. Il soldato dovette raccattare pezze vecchie e qualche fazzoletto. Quest'ultimi, intrisi di puro muco ariano (ma nessuno badò al fatto) furono stretti, uno ad uno sugli occhi degli attoniti condannati a morte. Il ritardo accumulato per questa operazione che metteva in risalto la furbizia degli Italiani ma ancor più il maniacale rispetto delle procedure da parte dei Tedeschi, consentì di salvare la vita anche al professor Palma. Quest'ultimo infatti, appena uscito allo scoperto nella strada, era incappato in un drappello di soldati tedeschi che, senza farlo neanche parlare, lo avevano coperto di botte con i calci dei fucili. Mezzo tramortito venne pure lui messo in fila, bendato e sbeffeggiato ma poi fortunatamente graziato perché il colonnello tedesco, sempre dal balcone, invece di dare l'ordine di sparare, aveva sollecitato la carovana a rompere le righe e a ripartire immediatamente:

«Shnell, shnell, andiamo via! Aerei americani sono in vista».

Nel giro di qualche minuto la colonna era pronta a partire.

Si attendeva solo il via del Comandante il quale, dopo essere sceso dal municipio, volle fare un ultimo affronto agli abitanti del paese, andando ad orinare, in posa marziale, proprio al centro della piazza.

«Ah, se ci fosse stato un cecchino».

Dopo, scampato il pericolo, molti avrebbero in questi termini commentato lo sgarbo subito. È facile parlare quando è passata la paura. Quella vera che ti taglia il respiro e ti porta in gola le budella.

Sensazione che gli scampati alla fucilazione nella piazza di Montesano avevano sperimentato tutta e fino in fondo, sulla loro pelle. Gli stessi rimasero, per molto tempo, in uno stato di stordimento e increduli. Nessuno aveva il coraggio di togliersi la benda. Erano impauriti a tal punto che non avevano neanche voglia di guardare di nuovo la vita che, nel frattempo, era ritornata a pulsare nelle loro tempie in esubero esponenziale. Sembrava che gli scampati avessero corso per chilometri, pur essendo rimasti sempre fermi. Il cuore camminava a mille e ci volle del tempo prima che lo stesso riprendesse, per ognuno, a battere un ritmo accettabile. Nessuno intanto parlava e nessuno della popolazione si avvicinava. Il silenzio cresceva, man mano che la colonna tedesca si allontanava celermente per la discesa del Castelluccio. E il silenzio diventò irreale quando i cingoli dei carri armati e i rumori dei motori scomparvero dietro il curvone che tagliava a sbalzo la gola del Capocaccia. Allora si sentirono perfino impercettibili aliti di vento simili a quelli che alla fine di agosto, risalgono timidamente dalla bassa Mangosa e si dirigono, con cadenzato intervallo, verso la piazza nuova del paese.

«Se ne so ghiute (se ne sono andati)?» chiese a voce bassa uno degli uomini.

«Ne putimme luvà u maccaturo coppa l'uocchie (ci possiamo togliere la benda dagli occhi)?» ribattè un altro.

«Cazzarola, me so fatto sotto!» esclamò Gigino Sarno, accennando ad un sorriso furbo e imbarazzato. E gli scampati alla morte scoppiarono in una risata nervosa, decisamente liberatoria.

Dopo un po' alcuni parenti degli scampati decisero di avvicinarsi. Tra i sopravvissuti all'esecuzione vi era anche Cesarino, un vecchietto del Borgo, che si chiedeva ancora incredulo:

«E ch'aggia (che ho) fatto di male io per meritarmi questo affronto?».

L'anziana moglie e un giovane nipote, dopo aver sollevato da terra il congiunto, si incamminarono verso casa. Cesarino, zoppicando e col capo sulla spalla del nipote, continuava a ripetere sempre la stessa domanda:

«E ch'aggia fatte di male io pe me merità stu affronto?».

La moglie, dopo un po', forse per non sentirlo più lamentare, rispose decisa:

«Cesarì, è a guerra ca ce corpa (la colpa è solo della guerra)».

Ma cosa avevano davvero fatto i sei?

Erano stati tutti catturati per legami, a vario titolo, con la gente che frequentava le montagne ed, in particolare, la cosiddetta Comune Basilisca. Il vecchietto, non ne era a conoscenza ma il nipote più grande, Giuseppe, teneva contatti stretti con alcuni cittadini di Sanza, un paese come detto nelle vicinanze, dove erano in atto da giorni fermenti per scalzare dai posti di comando i responsabili del potere locale. Il clima sociale e le ragioni del malessere erano, in quel comune confinante, le stesse che si vivevano a Montesano. I Tedeschi, su ciò che accadeva nelle zone da loro controllate, erano informati più delle Autorità del posto. Il clima poi in generale, tra i due alleati dell'asse Roma-Berlino, non era per niente buono. Infatti i germanici, intuito che la tensione con gli Italiani era giunta probabilmente a un punto di non ritorno e che Badoglio stesse per firmare o avesse già forse firmato una pace separata con gli anglo-americani, avevano stabilito di dare esempi per intimorire la popolazione. Probabilmente, se non ci fosse stato il malinteso per le bende e l'ordine poi di allontanarsi immediatamente dalla piazza del paese, i sette cittadini del luogo sarebbero stati giustiziati. I Tedeschi si sarebbero così, anche a Montesano, macchiati della lunga sequela di crimini che li vedrà cinici protagonisti in tutta Italia. A cominciare da quelli militari, con l'affondamento della corazzata Roma, l'ammiraglia della Marina Militare italiana. Colpita da aerei tedeschi al largo del porto di La Spezia, la nave, con il suo equipaggio di 2.500 uomini, non giunse mai alle basi alleate per consegnarsi, come concordato tra le parti nell'armistizio di pace separata, ai vincitori anglo-americani. E poi gli eccidi di civili, come quello di Boves in Piemonte che può considerarsi forse, in ordine di tempo, la prima strage di italiani del dopo 8 Settembre. Nel piccolo centro del cuneese infatti furono uccise, molte bruciate vive, da parte delle SS tedesche, trentadue persone innocenti e il paese intero poi messo a ferro e fuoco.

Gigino Sarno, il geniale estensore della richiesta di bende per l'esecuzione fortunatamente mancata nella piazza principale di Montesano, non frequentava le montagne per motivazioni politiche ma per esigenze ben più terrene.

Sì, anche lui saliva in alta quota. La sua famiglia era numerosa e di conseguenza molte erano le bocche da sfamare e poi quasi tutti, in quel periodo di ammassi, si davano da fare per lo stesso motivo. Bisognava sopravvivere e si mercanteggiava al nero, chi nella piana e chi in montagna.

Gigino, non lo sapeva ancora ma, da quella brutta esperienza vissuta nel 1943, si sarebbe portato dietro una delicata conseguenza, quasi una malattia. Non avrebbe infatti potuto più ascoltare la lingua tedesca perché, ogni qualvolta che ciò accadeva, si faceva automaticamente sotto, come era accaduto quel mattino d'estate, nella piazza principale del suo paese.

In quel gruppo sofferente si era trovato anche il professor Palma e tra tutti era quello messo più male. Era stato infatti pestato senza pietà ma il maggior cruccio che l'uomo sentiva era quello di non aver potuto esternare ai Tedeschi tutta la sua contrarietà e disprezzo per l'inconcepibile comportamento che gli stessi avevano tenuto quella mattina. Il toscano era tutto un dolore, aveva oltretutto il viso tumefatto per le percosse ricevute ma sentiva di poter finalmente meritare la benevolenza della gente. Montesano non era stata mai solidale con lui. Agostino Palma era da molti considerato un estraneo, un ficcanaso, uno di cui non doversi fidare. Ora però, dopo il pestaggio subito dai Tedeschi, molte incomprensioni sarebbero sicuramente svanite.

Si erano intanto avvicinati al toscano steso a terra, don Vincenzo il locandiere e la vicina di casa, la signorina Serafina. Il Cafaro aveva intenzione di sollevare da terra il professore ma Serafina sconsigliò di muoverlo senza precauzioni. Bisognava trasportarlo con cura alla locanda e chiamare al più presto un medico. Serafina pertanto non si perse d'animo e si mise quasi a strillare all'indirizzo dei suoi concittadini i quali continuavano a star chiusi nelle loro case e a spiare da dietro le finestre.

«Aprite i scure re fenestre, vigliacchi! I capebiondi (i Tedeschi) se ne sono andati. Putite uscì fora (potete uscire fuori). Aiutatemi a dare una mano a stu poveriedde (questo poverino) che ha patuto (patito) per noi tutti».

Confortato dalle parole della donna, don Vincenzo si fece coraggio e aggiunse:

«Currite (correte)! Iate a chiamà (andate a chiamare) don Nicola Cestari, o miereco nuoste (il medico nostro). Facite subbeto (fate presto)!».

E intanto il locandiere, recuperato un tavolaccio che era stato buttato in strada dai soldati dall'alto del palazzo comunale, cercò di fare una barella per trasportare il ferito. Notato poi che all'imbocco della discesa della Serra Inferiore avevano iniziato a fare capolino due uomini, li chiamò, dicendo:

«Venite cca (qua)! Rateme na mano a purtà (datemi una mano a trasportare) a do mme (a casa mia), stu poveriedde (questo poverino)».

I due si avvicinarono prudentemente, chiedendo chi fosse quell'uomo, ridotto così male.

«Nunne o verite chi è (non lo riconoscete)? E u (il) confinato ra (della) Toscana, mo (ora) è un amico dichiarato».

«E che ha fatto stu bell omme (questo bell'uomo) per diventare un nostro amico?» ribattè uno dei due.

«Ha fatto chire (quello) che non abbiamo fatto ne io e ne voi. Mò basta re parlà, rateme na mano o iatevenne. (Ora basta parlare, datemi una mano o andate via)».

I due non risposero ma si inginocchiarono vicino al professore.

Uno dei due poi gli disse nell'orecchio:

«Nui (noi) non simme (siamo) malamente!».

«Lo so, lo so» rispose il professore con un filo di voce e poi svenne.

In tutta fretta l'uomo venne così portato alla locanda, lavato con cura e poi messo a letto. Gli uomini in silenzio lo vegliarono in attesa di don Nicola, il medico.

Come per incanto il paese, nel frattempo, si era risvegliato, il silenzio e la paura, momentaneamente, si erano accommiatate. Crebbe lentamente il rumore, la gente ricominciò a muoversi. Dopo aver fatto tanti bisbiglii in casa, la gente provò di nuovo a vociare per le strade. Tutti erano convinti che solo un miracolo di San Nicola, il protettore di Montesano, aveva potuto salvare i sette uomini e il paese dall'ira dei Tedeschi.

Purtroppo però non era ancora finita.

Una flottiglia di aerei sbucò infatti da dietro il cocuzzolo del Monte Scialandro e si abbassò sul lato dei bastioni del Castello per planare poi giù verso le case sparse della contrada Varchiera.

«Sono americani, sono americani!» esclamò in piazza il farmacista.

Tonino di Cono invece che aveva parenti emigrati, prima della guerra, a New York, di rimando, aggiunse convinto:

«È vero sono Americani. Tenene (hanno) la bandiera a stelle e strisce vicino a mitragliera».

Molti dei paesani pensarono di andare sull'altura del castello a vedere meglio lo spettacolo. Volevano probabilmente assistere in diretta al bombardamento dei Tedeschi in fuga ma quest'ultimi si erano ben nascosti, mimetizzandosi in un boschetto, posto in un'ansa delle montagne tra la frazione di Arenabianca di Montesano e il vicino paese di Padula.

Le truppe germaniche avrebbero atteso in quel luogo che il pericolo passasse per riprendere poi la marcia verso Salerno. Marcia di avvicinamento che avrebbe determinato ingenti danni al sistema delle infrastrutture viarie e ferroviarie dell'intera provincia.

Il lavoro dei Tedeschi infatti fu portato a termine con zelo estremo e con l'abituale loro capacità. I ponti dei tornanti di Campostrino, un'opera di alta ingegneria, innalzati dai Borboni per superare il dislivello tra le zone dell'alto Sete e il Vallo di Diano furono completamente distrutti, bloccando, per molto tempo, i collegamenti con Salerno. I Tedeschi avrebbero perseguito la loro odiosa strategia di non lasciarsi mai nulla più di edificato alle spalle. Probabilmente gli stessi scaricavano anche in questo modo l'odio accumulato nei confronti dell'Italia che si era permessa di defilarsi unilateralmente dal conflitto in corso. Intanto la flottiglia aerea alleata, materializzatasi all'improvviso su Montesano, invece di stanare la colonna dei Tedeschi in ritirata, ritornò inspiegabilmente sui suoi passi, dopo aver effettuato a cerchio una larga virata verso nord. Essi sganciarono, in pochi attimi, i loro carichi di morte sulla parte alta di Montesano, lasciando un bel ricordino a molti compaesani. A quei primi concittadini infatti che giunsero di corsa sugli spalti in rovina dell'antico Castello e salutavano euforici, facendo ampi gesti delle braccia, in segno di benvenuto, riservarono proiettili e bombe che ne tramortirono più di uno.

Quella mattina non fu pertanto delle più calme, la guerra aveva lambito anche Montesano che subì, in quell'occasione, l'unico attacco aereo della sua storia.

Per il paesino salernitano era stata solo una triste mattinata di cronaca, in altre parti della Nazione invece era già purtroppo diventata un'immane tragedia.

Torino, Genova, Milano, Bologna, Napoli, poco di queste città sarebbe rimasto in piedi, nonostante il Fascio Littorio fosse stato abolito dalle banconote e le Am-lire americane iniziate a circolare.

L'Italia era sulla via della totale distruzione.

Non esisteranno più per molti mesi i mezzi di comunicazione. Sventrata dentro, la Nazione imploderà. I francobolli con su il Duce resisteranno fino ad autunno inoltrato. Ci sarà però poco da spedire, senza vie, senza treni e con le biciclette dei postini requisite dallo Stato.

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«Bha!» intercalò perplesso, il toscano. E Aurora, sorridendogli, scappò via involandosi per la ripida discesa, detta del Lucito che portava celermente ai territori pianeggianti posti a valle del paese.

«È proprio bella» sospirò Agostino con se stesso, vedendo la ragazza che si allontanava sempre più. L'erba umida a tratti faceva scivolare Aurora la quale rotolava lungo il declivio accidentato come se avesse avuto ai piedi scarpe con suole metalliche. La ragazza, in alcuni tratti, si confondeva con l'onda piegata dell'erba alta che veniva, man mano, ammorbidita dai suoi fianchi flessuosi. Avvolta in una nuvola di verde intenso, la figlia di don Vincenzo si sentiva addosso una sensazione che lei già conosceva ma che questa volta però tardava a scomparire. Era per caso quella, la tanto decantata felicità della quale parlavano tutti e solo pochissimi la raggiungevano appieno? Aveva quasi paura Aurora, angosciata com'era dal poterla poi perdere quella insperata felicità, spesso solo sfiorata e mai raggiunta del tutto. Rimanere ancora una volta delusa era ciò che Aurora temeva di più.

«Basta pensare in negativo! Oggi sto al meglio e solo questo conta davvero» disse a sè stessa per congelare forse, il più a lungo possibile nell'animo, quella sensazione da tanto tempo cercata.

Agostino la seguì con uno sguardo bonario fino a quando lei diventò un puntino lontano, immerso nell'intensa vegetazione del declivio che, deciso, precipitava a valle.

«Ho davvero perso la testa se sorrido e mi sento diverso per cose così semplici e stupide?» si chiese il toscano.

«Chissà forse la vita è anche questo» rispose il suo animo.


* * *


Cose accadde allora a Montesano, nelle settimane successive, dopo la festa di San Rocco? Dopo tanto clamore, paventate sommosse, baci furtivi e innocenti promesse?

La gente doveva continuare a vivere sotto i padroni, almeno per qualche altro mese. La strategia populista di Vincenzo Lauria aveva dovuto soccombere.

Ovidio Gerbasio, ovvero la baronia di sempre, ammantata per l'occasione di accattivante bonomia, ebbe la meglio nel solco ipocrita di continuare a cambiare tutto per non cambiare nulla. I fascisti dichiarati però se ne dovettero andare dal Comune, almeno per quanto avrebbe salvato le apparenze. I casi limite, insomma. Aurora il suo, lo aveva fatto. Intercedendo presso il padre si era fatta rispettare al punto da meritare dal professor Palma una dichiarazione spontanea quanto realista:

«Donna in gamba, altro che ragazza da formare».

E anche una riflessione profonda:

«È diversa da tutti gli altri. Una donna affabile ma determinata. È vero, ha ragione la gente. Non sembra una persona che ha vissuto solo da queste parti. Ha un'educazione superiore».

Il professore, oltre a quanto costatato di persona, aveva ascoltato in paese cosa si dicesse di Aurora e sulla sua particolare storia di vita: commenti smozzicati, riferimenti ambigui e soprattutto molte chiacchiere. L'unica fonte attendibile poteva essere quella del padre ma vai ad aprire con Lauria un argomento di discussione così scottante e intimo. Bisognava quanto meno attendere un momento propizio o che lui e sarebbe stato molto meglio, avesse deciso di parlarne.

I dimostranti, con l'elezione a commissario del barone Ovidio Gerbasio, avevano perso l'appuntamento con la storia e con la vera rivoluzione. Mai, come in quella occasione, infatti poteva essere nominato, al posto di un nobile, un esponente del popolo, talmente popolare da non saper né leggere e né scrivere.

Il tormento che seguirà a Montesano sarà figlio di questa scelta sbagliata.

«Vincè, ma che ti incazzi a fare? Abbiamo capito come è andata per l'intervento proditorio degli amici basilischi». Francesco, Matteo, Nicola, un po' tutti, cercavano di confortare il Lauria per l'episodio accaduto in piazza durante la manifestazione anche se, nello stesso tempo, chiedevano di fatto spiegazioni.

«Stateme a sente (Statemi a sentire)».

«Dicci, Vincenzo».

«Nun aggia potuto ricere re no (Non ho potuto dire di no). Sto strutto (distrutto) e ncazzato (incavolato)».

«E perchè nun e (non hai) potuto, Vincè?».

«Sparavano, credetemi. Sparavano su nu ghia accussì (avrebbero usato le armi se io non cedevo)».

«A gente invece rice (la gente invece dice) che tu vulive fa (volevi fare) il Sindaco» ribattè Matteo Carnevale.

«Stupetò (stupidone) il Sindaco nunne o (non lo) faranno mai fare nè a me e nè a te. E manco ad Antonio di Spigno o a Francesco. Nui simme (Noi siamo) troppo sinceri e puliti per comandare in questo maledetto paese» e poi aggiunse deciso:

«Solo con la forza ci potranno rispettare».

A Montesano, caduto Volentini, timida, tra l'altro apparizione della borghesia al potere, i nobili ritorneranno ufficialmente a comandare con il barone Gerbasio. Il notabilato locale che non volle, a nessun costo, diventare in quei frangenti borghesia illuminata, sceglierà una figura super partes, attingendo però dal contenitore storico sbagliato. Pur di continuare a gestire il potere reale, il notabilato riuscirà a far sopravvivere perfino alcune strutture fasciste. Cosa che nessuno riteneva più possibile. Il segretario comunale a casa? Alcuni sostenevano invece, già qualche giorno dopo l'allontanamento del funzionario, che era sempre lui a comandare da dietro "il sipario delle apparenze".

E per il resto?

Solo qualche accomodamento funzionale: licenziamento del responsabile dell'Annona e degli impiegati titolati al rilascio delle tessere annonarie. Il raccordo istituzionale rimaneva però invariato rispetto alla logica della gestione politica. Il contadino, vero motore economico della comunità, (le braccia reali del processo lavorativo), rimarrà fuori dalla cabina di comando. La sua delega rimarrà ancora saldamente nelle mani dell'agrario di turno, contestualmente datore di lavoro e carnefice sindacale. Le istanze popolari continueranno a non avere voce. Prevarranno invece le pressioni degli "uomini ben vestiti e dai cappelli a larghe falde" insieme alle sollecitazioni, porta a porta, degli invadenti sai religiosi. Le incertezze dei partiti in via di organizzazione faranno il resto. I suggerimenti, poi, degli inviati degli Americani avranno il loro peso, supportati dalle armi delle forze di polizia. Coloro i quali davvero contavano in quei giorni, non avendo chiari tutti i risvolti della situazione, preferirono non rischiare orientandosi per la riconferma dei poteri esistenti. L'input tracciato per il futuro sarà chiaro: stabilità e continuità.

Il lungo passaggio di potere dal Fascismo alla Repubblica sarebbe stato caratterizzato da questa prudente indicazione.


* * *


L'articolo n° 10 dello "Short Military Armistice", l'armistizio Italia-Usa&alleati, disponeva che le aree occupate dalle forze alleate fossero messe sotto il diretto controllo del Governo Militare Alleato (AMG).

Uno degli effetti conseguenti pertanto dello sbarco alleato a Salerno fu la istituzione a Vallo della Lucania, una cittadina nel bel mezzo del Cilento, del "Field Security Service", un'articolazione comprensoriale dello AMG che avrebbe avuto un'incidenza non di poco conto sugli avvenimenti che si susseguiranno in tutta la provincia di Salerno. La prima importante decisione di questo organismo fu la consegna all'Arma dei Carabinieri Regi del potere reale sulle popolazioni locali. I Carabinieri disponevano infatti, in quei giorni di grande sbandamento, dell'unica organizzazione affidabile e funzionante, ancorpiù su tutto il territorio nazionale.

«A Sala Consilina», rimarcava il professor Palma, «gli antifascisti sono riusciti a far nominare Macchiaroli come coordinatore di zona ma i Carabinieri e in particolare il tenente Bianco stanno dando filo da torcere».

«Macchiaroli è nu comunista!» ribattè, deciso Francesco Cestari.

«Non è un comunista, ma che male ci sarebbe se poi lo fosse?» esclamò Palma.

«Russe (rossi), Ianche (bianchi), tutti sti culure (tutti questi colori) a me non piacciono» rimarcò Lauria.

«Voi contadini non potete non condividere le idee comuniste. Esse dovrebbero essere il vostro pane quotidiano», il professore Palma, punto nell'onore, puntualizzò più che mai determinato.

«I cumuniste nun vonno a Dio (i comunisti non vogliono Dio)!» esclamò incurante il Cestari.

«I cumuniste nun (non) rispettano l'uommene (gli uomini). aggiunse a sua volta Lauria.

«Ma che dite? Chi vi insegna queste cose? I comunisti vogliono l'eguaglianza, la giustizia».

«Senza Dio non c'è giustizia!» esclamò, tutto di un fiato, Cestari.

«Ne sei proprio sicuro, Cestari?» chiese Palma con molta rassegnazione però. Il professore aveva capito che era inutile insistere su questo argomento. La Chiesa aveva catechizzato a dovere le sue pecorelle smarrite, raccontando tutto il male possibile dei cattivi bolscevici, incalliti mangiatori di bambini. I suoi amici cospiratori erano ferventi credenti e giammai, per nessuna ragione al mondo, sarebbero potuti diventare ferventi comunisti.

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