Copertina
Autore Domenico De Masi
Titolo Ozio creativo
SottotitoloConversazione con Maria Serena Palieri
EdizioneRizzoli, Milano, 2000 , pag. 304, dim. 140x225x20 mm , Isbn 978-88-17-86418-3
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe sociologia , economia , lavoro
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Indice


Introduzione                                 11

 1 Come i gigli del campo                    17

 2 Il cretino specializzato                  43

 3 La ragione del profitto                   55

 4 Né ridere né piangere ma capire           67

 5 «Jobless growth» e «turbocapitalismo»     79

 6 Bentornata soggettività                  103

 7 Una società preveggente e programmata    113

 8 Un futuro globalizzato e androgino       129

 9 Il servilismo zelante                    155

10 Il piacere dell'ubiquità                 171

11 Da «io faccio» a «io so»                 197

12 Il grande trompe-l'oeil                  225

13 Parole-chiave per il futuro              243

14 Il lavoro non è tutto                    265

 

 

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Pagina 19

Professor De Masi, c'è chi parla di lei come di un «profeta dell'ozio». E secondo qualcuno lei preconizzerebbe addirittura l'avvento di un mondo simile al «paesi di Bengodi». Etichette, immagino, irritanti. Quale rapporto hanno con il suo vero pensiero?

Io mi limito a sostenere, sulla base dei dati statistici, che noi, partiti da una società dove gran parte della vita delle persone adulte era dedicata al lavoro, stiamo andando verso una società in cui gran parte del tempo sarà, e in parte già è, dedicato a qualcos'altro. Per molti versi questa osservazione empirica è analoga a quella che fece il sociologo americano Daniel Bell quando, nel 1956, registrò negli Stati Uniti il sorpasso dei colletti bianchi sui colletti blu e avvertì: altro che potere operaio!, la società va verso una prevalenza del terziario e dei servizi. Quel sorpasso Bell lo registrò, appunto: non lo indovinò, non lo profetizzò. Allo stesso modo io mi limito a registrare che stiamo andando verso una società fondata non sul lavoro ma sul tempo libero.

Oltre a questo, sempre in base alle statistiche, constato che, sia nel tempo di lavoro sia nel tempo libero, noi esseri umani oggi facciamo sempre meno cose con le mani e sempre più cose col cervello, al contrario di quanto abbiamo fatto, fin qui, per milioni di anni.

Ma ecco due ulteriori passaggi: tra tutte queste attività che realizziamo col cervello, quelle più apprezzate, più spendibili nel mercato del lavoro, sono le attività creative. Perché anche le attività intellettuali, come quelle manuali, quando sono ripetitive possono essere affidate alle macchine.

La caratteristica principale delle attività creative è che si distinguono poco o niente dal gioco e dall'apprendimento, per cui resta sempre più difficile scindere queste tre dimensioni della nostra vita attiva che, in precedenza, erano state nettamente e artificiosamente separate l'una dall'altra. Quando lavoro, studio e gioco coincidono, siamo in presenza di quella sintesi esaltante che io chiamo «ozio creativo».

Perciò credo che il fuoco della nostra conversazione debba essere questo triplice passaggio: dall'attività fisica a quella intellettuale; dall'attività intellettuale di tipo ripetitivo a quella di tipo creativo; dal lavoro-fatica nettamente separato dal tempo libero e dallo studio, all'«ozio creativo» in cui studio, lavoro e gioco finiscono per coincidere sempre di più.

Queste tre traiettorie connotano il passaggio da una società che è stata chiamata «industriale» a una società nuova. Possiamo definirla come vogliamo. Io, per comodità, la chiamo «post-industriale».

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Pagina 45

Eccoci alla nascita della società che a tutti noi, tranne che alle giovanissime generazioni, appare un habitat naturale: la società industriale. All'inizio non fu percepita affatto come «naturale». Piuttosto, come uno sconquasso. Quanto è profonda la rivoluzione avviata nel Settecento?

Come ho già detto, quando nella nostra storia coincidono tre tipi di mutamento - la scoperta di nuove fonti energetiche, una nuova divisione del lavoro e una nuova organizzazione del potere - allora siamo di fronte a un balzo epocale. E questi tre tipi di mutamento portano con sé una nuova epistemologia, un nuovo modo di concepire il progresso e il mondo. La società industriale è stata tutto questo.

Intorno alla metà del Settecento nasce un nuovo movimento, il razionalismo, che contrappone la fiducia nella ragione umana alla soluzione dei problemi in chiave emotiva, fatalistica o religiosa. La vita pratica dell'uomo del Settecento non è diversa da quella del suo antenato dei tempi di Giulio Cesare o di Hammurabi. È parimenti impaurito da fulmini, tuoni, pestilenze, da eventi che, pur essendo naturali, gli appaiono del tutto soprannaturali, dei quali non ha spiegazioni se non di carattere religioso o, appunto, fatalistico. Nel Settecento si insinuano per la prima voita il dubbio e la speranza che la ragione possa capire e poi gestire gli eventi: forse, si dice con fiducioso ottimismo (quell'ottimismo su cui ironizza il Voltaire di Candide), verrà un domani in cui l'uomo saprà con anticipo se pioverà o se ci sarà siccità e saprà anche come imbrigliare un fulmine. Per arrivarci occorre studiare razionalmente, occorre nutrire la nostra mente, occorre «coltivare il nostro giardino».

Il dubbio nasce a livello teorico, in chiave puramente intellettuale?

Sì, da quell'immensa fioritura di club, salotti, iniziative che diedero vita all'Illuminismo. Nasce da quell'impasto di scientismo, razionalismo, ironia e autoironia che fece del Settecento il «secolo dei Lumi».

Guardiamo questo secolo, per un attimo, attraverso l'evento dell' Encyclopédie: un gruppo di persone coltissime che decide di trasmettere il proprio sapere a coloro che ne sono privi. Decide, cioè, di raccogliere lo scibile in un corpus di libri, ma non perché sia contemplato, oppure utilizzato in senso strettamente intellettuale, bensì perché venga utilizzato come fonte di sapere tecnico. L' Encyclopédie offre una serie di planchettes, di tavole illustrative, con disegni dettagliati e misure precise di svariati macchinari. Dunque, dietro c'è la volontà di permettere a chiunque possegga quei libri di riprodurre un universo tecnologico che prima era patrimonio dei soli illuminati. Gli illuminati insomma illuminano, diventano «lumi».

Ma l' Encyclopédie è un evento interessante anche per altri motivi. Oltre che per l'intento di divulgare il sapere tecnico e scientifico contro il sapere irrazionale, anche per il fatto di aver creato una macchina organizzativa capace di produrre scienza con un metodo originale di lavoro collettivo.

Vale la pena di studiare il metodo con cui lavoravano gli enciclopedisti - Diderot, Rousseau, D'Alembert e gli altri - che si riunivano nella casa di campagna di d'Holbach. La mattina restavano a studiare ciascuno nella propria stanza, il pomeriggio si incontravano e si leggevano l'un l'altro quanto avevano scritto, la sera era dedicata alla musica e all'intrattenimento. Così, accanto a un sistema di diffusione del sapere, misero a punto anche un metodo per incrementare la creatività scientifica. Un metodo possibile grazie al fatto che questi «lumi» erano liberati da problemi economici e pratici. Dopo i Greci, gli illuministi sono i più grandi cultori di «ozio creativo».

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Pagina 75

«Attingere da», citare, sono caratteristiche della cultura postmoderna.

Il postmoderno è la cultura, appunto, della società postindustriale. In ogni sistema sociale possiamo individuare elementi di base, elementi strutturali, sovrastrutturali e culturali. In una nazione, per esempio, gli elementi di base sono la popolazione, il territorio e le loro modificazioni.

Elementi strutturali, un po' come lo scheletro nel corpo umano, sono la ripartizione del lavoro e la ripartizione della ricchezza: quanti sono gli occupati, quanti i disoccupati, quanti i poveri, chi guadagna e chi spende, se c'è più agricoltura, più industria o più terziario.

Poi ci sono i fattori sovrastrutturali che hanno a che fare con la divisione del potere: democrazia o dittatura, sistemi elettorali, potere delle élite formali. Ma anche potere di élite informali come i divi, o i parroci, o i professori universitari.

Infine restano i fattori culturali: la cultura ideale di un popolo (lingua, ideologie, pregiudizi, ecc.); la cultura materiale (case, suppellettili, macchine, ecc.); la cultura sociale (usi, galatei, mode, tradizioni, innovazioni).

Accanto a tutti questi elementi ci sono fattori di solidarietà (patti, clan, religioni, ecc.) o di conflittualìtà (contrapposizioni ideologiche, di sesso, di generazioni).

Se il cambiamento che investe la società è epocale, allora incide su tutti questi aspetti contemporaneamente. Ora noi, nel mezzo del nostro cambiamento epocale, chiamiamo la nostra cultura «postmoderna» perché viene dopo il «moderno». Così come la società «postindustriale» viene dopo la società «industriale».

Il postinoderno, ripeto, è la dimensione culturale della società postindustriale. Su questo si possono leggere testi fondamentali come Critica della modernità di Alain Touraine, o Cultura della modernità di David Harvey, pubblicati tutti e due negli anni Novanta.

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Pagina 87

Edward Luttwak, noto esperto americano di strategia politica ed economica, per definire una tendenza dell'economia attuale, ha coniato il termine di «turbocapitalismo». Questo termine, e la sostanza cui si richiama, esercitano qualche fascino al suoi occhi?

Anzitutto mi sembra davvero singolare che il «turbocapitalismo» riscuota l'approvazione entusiasta dei governi europei di sinistra mentre preoccupa gli economisti e i politologi americani: non solo i radicals ma anche alcuni conservatori.

Per capire di che cosa stiamo parlando occorre fare un passo indietro nella nostra storia recente. Per settant'anni si sono fronteggiati due sistemi economici e politici: comunismo e capitalismo.

La caduta del Muro di Berlino ha sancito la vittoria del secondo, che ne ha tratto una fede euforica ed eccessiva nei confronti del libero mercato, della concorrenza, della competitività. Gli ultimi dieci anni del ventesimo secolo saranno ricordati come quelli più infatuati di liberismo.

I capitalisti hanno messo a punto in tutto il mondo una precisa strategia, anticipata da Reagan negli Usa e dalla Thatcher in Gran Bretagna. Con grande spiegamento di media, hanno condotto una campagna denigratoria contro tutto ciò che è pubblico: burocrazia, aziende statali, trasporti, sanità, scuola.

Hanno così ottenuto la privatizzazione dei settori più lucrativi e hanno acquistato sottocosto le azioni delle società privatizzate: ferrovie, elettricità, telecomunicazioni, la migliore argenteria del patrimonio statale.

Non contenti, si sono fatto ridare il denaro pagato allo Stato pretendendo sgravi fiscali e incentivi a fondo perduto. Poi, in queste aziende privatizzate hanno iniziato a ridurre i costi realizzando fusioni e licenziando personale. In tal modo hanno accumulato somme immense, anche con la scusa che esse sono indispensabili per effettuare investimenti produttivi e rilanciare l'occupazione.

In realtà, sia in America che in Europa gli investimenti privati sono diminuiti anziché aumentare.

E quei guadagni dove sono finiti?

Una parte in favolose stock options, cioè in percentuali sugli aumenti di valore, elargite al top dei dirigenti aziendali che si erano prestati a compiere queste operazioni: il presidente della Coca-Cola ha superato i 200 miliardi all'anno; il presidente del Travelers Group ha superato i 400 miliardi; il presidente della Walt Disney ha superato i 700 miliardi.

Ma la maggior parte delle ricchezze accumulate è stata investita in Borsa, dove il rendimento è rapido e non richiede i rischi dell'imprenditorialità e la fatica della gestione aziendale. Uomini culturalmente apolidi, sciolti da ogni patto di lealtà nei confronti dei dipendenti e della cosidetta mission aziendale, giocano ogni giorno cifre sbalorditive in quella planetaria Las Vegas che è la Borsa: una Las Vegas sempre aperta perché quando chiude Tokyo aprono Londra, Milano e Zurigo, quando chiudono Londra, Milano e Zurigo aprono Wall Street e San Paolo.

È il regno - in via di accelerata espansione - dell'economia immateriale. Chi non gioca in Borsa, lo subisce come un mondo incomprensibile e minaccioso. Chi invece ha il suo pacchetto di investimenti si euforizza o si deprime a seconda dell'andamento dei suoi titoli, ma comunque si sente una pedina nelle mani del fato e dei broker.

Anche per chi non gioca in borsa è stata predisposta una macchina altrettanto aleatoria e vorace, per drenarne i piccoli risparmi: il Lotto, la Sisal e l'intera gamma delle lotterie rappresentano la Borsa dei poveri. Una Borsa gestita direttamente dallo Stato, che ne ricava migliaia di miliardi l'anno, alimentando il sogno che ogni cittadino, dall'oggi al domani, con minimo rischio e nessuna fatica, possa diventare un Paperon de' Paperoni.

Mentre avviene tutto questo, i mass media continuano la loro campagna denigratoria contro ciò che è pubblico, propagano periodicamente l'idea che l'economia ristagna, che la crisi galoppa, che gli imprenditori sono alle corde, che siamo alla vigilia di un tracollo globale.

Invece, vediamo i fatti. Mi limito ad alcuni dati riguardanti l'Italia, comunque emblematici per tutti i paesi dell'Ocse. Il 9 agosto 1999 Mediobanca ha diffuso il suo rapporto annuale, cioè il referto più autorevole sulla salute delle nostre aziende. Il Corriere della Sera ha commentato: «L'Italia dehe imprese è sempre più ricca, anche grazie al Fisco, che ha ridotto la presa». E la Repubblica: «Mai, nella loro vita, le aziende italiane hanno guadagnato così tanto». Cito due giornali che non possono certo essere accusati di Bolscevismo. Se perfino loro anunettono che gli imprenditori hanno fatto soldi a palate, significa che non vi sono dubbi.

Ma quanti soldi hanno fatto? Anche su questo, i dati sono certi: nel 1994 accumularono profitti per 1 miliardo di euro; nel 1997 ne hanno accumulati 7,6 miliardi; nel 1998 ne hanno accumulati 11,7 miliardi. Nell'ultimo anno, cioè, i nostri imprenditori hanno intascato il 53 per cento in più. E, intanto, continuavano a lamentarsi.

Come è ovvio, non tutti sono stati parimenti fortunati: quelli del settore industriale hanno fatturato più o meno la stessa cifre dell'anno precedente; quelli del settore terziario hanno fatturato il 7 per cento in più. Ma tutti, a prescindere dal fatturato (cioè dai soldi incassati) hanno visto crescere a dismisura i loro profitti (cioè i soldi che gli sono rimasti in tasca, una volta detratte le spese e le tasse).

Chiariamo il trucco.

Come dicevo, gli imprenditori hanno ottenuto prestiti a tassi sempre più convenienti, hanno goduto di sgravi fiscali sempre maggiori (2 punti per le imprese industriali; ben 10 punti per le imprese del terziario), hanno licenziato sempre più lavoratori (60.000 persone in tre anni). In parole povere, il maggiore guadagno dei datori di lavoro corrisponde a una perdita secca di introiti per lo Stato, a una maggiore disoccupazione e a un disagio crescente per i lavoratori.

Passiamo a decifrare i segnali che giungono dall'altra parte del mercato del lavoro, cioè dal fronte dell'occupazione. Secondo i dati Eurostat, i paesi dell'euro restano inchiodati a una disoccupazione media del 10,3 per cento. La media italiana arriva al 12 per cento, ma tra i giovani sotto i 25 anni raggiunge addirittura il 32 per cento, eguagliando il record spagnolo.

Dunque, punto più o punto meno, in Italia continua in modo sempre più irreversibile il fenomeno dello sviluppo senza lavoro: aumenta la ricchezza e si riduce l'occupazione; i ricchi diventano sempre più ricchi mentre i poveri diventano più numerosi e più poveri. Recentemente il presidente della Confcommercio ha denunziato che l'intera classe media italiana ha perso in un anno l'l per cento del suo potere d'acquisto. Esattamente come negli Stati Uniti, dove la classe media ha perso 15 punti in quindici anni, mentre i miliardari sono diventati ancora più sfacciatamente ricchi.

Solo che in America la disoccupazione è mitigata sia con le nuove professioni sia con i lavoretti di bassa qualità e, in più, è camuffata sotto un fumo di statistiche improbabili. Noi, invece, non bluffiamo sulle statistiche e, purtroppo, i nostri settori più avanzati, come le tecnologie dell'informazione, non riescono a produrre nemmeno 20.000 posti all'anno.

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Pagina 94

Un suo collega, Aris Accornero, dice che la fatica manuale non è affatto scomparsa, ma, piuttosto, si è spostata dall'industria ai servizi. Accornero ricorda i 600.000 addetti alle imprese di pulizie, oppure i camionisti che spostano merci in autostrada ubbidendo a traiettorie non diverse dalle catene di montaggio. Un lavoro «da operai», dice, di cui nessuno si interessa...

Sarei pazzo se negassi che esiste ancora una massa numerosa di operai e manovali. Il fatto è che essi non sono più capaci di accollarsi problemi universali, non sono più una forza «rivoluzionaria», non sono più «centrali» nella strategia di riscatto dallo sfruttamento, che ormai passa,soprattutto attraverso la manodopera del Terzo Mondo e la mentedopera del Primo Mondo.

Comunque il lavoro manuale non cresce, diminuisce, mentre quello intellettuale aumenta. Come ho già detto, ai tempi di Marx su cento dipendenti, nelle fabbriche, novantasei erano operai e solo quattro erano impiegati; oggi in molte aziende novanta sono impiegati e dieci sono operai. Il lavoro manuale dentro le aziende viene sempre più affidato alle macchine, perché conviene economicamente e, in più, riduce la conflittualità.

Certo, una parte viene appaltata all'esterno delle imprese: per esempio le pulizie. E camerieri, spazzini, lavapiatti non sempre vengono sostituiti dalle macchine, perché la manodopera del Terzo Mondo costa poco. Però, fuori e dentro l'industria, il lavoro manuale è nel complesso sempre più delegato alle macchine, la tecnologia colonizza sempre più i lavori di basso livello. E comincia a colonizzare anche quelli di livello alto.

Un architetto che progettava case, un tempo aveva la sua squadra di giovani collaboratori che gli disegnavano le piante, le assonometrie e calcolavano le strutture di cemento armato. Oggi gli basta inserire nel computer un programmino già bell'e pronto.

Anche gli addetti al lavoro domestico e di cura diminuiranno: baby sitter, colf, infermiere. Poiché gli orari di lavoro si contraggono, ci sarà sempre più tempo libero e sempre meno bisogno di appaltare la cura del figlio o dell'anziano genitore oppure la pulizia della casa ad altri. Lo faremo ognuno per nostro conto, con l'aiuto di elettrodomestici sempre più flessibili e intelligenti.

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Pagina 98

Tutto qui lo sforzo dei vari governi? Non le sembra che, nel contesto delle sinistre europee, la Francia di Jospin abbia seguito una strada più innovativa?

Incalzati da una tecnologia onnivora che ormai ingoia con pari velocità sia le mansioni operaie che quelle impiegatizie e manageriali, invece di ridurre drasticamente gli orari e i carichi di lavoro, i governi hanno detassato i datori di lavoro, corteggiato gli investimenti stranieri nel proprio paese, riesumato forme larvate di protezionismo, incentivato la flessibilità contrattuale.

Jospin rappresenta l'unica eccezione: è di sinistra e da sinistra ha agito, procedendo molto più cautamente nelle privatizzazioni, difendendo le classi deboli e riducendo l'orario di lavoro nonostante le manifestazioni di piazza organizzate dagli imprenditori. I giornali italiani, tutti in linea con Clinton, hanno passato sotto silenzio la sua politica del lavoro fin quando gli effetti positivi delle 35 ore non li hanno costretti ad ammettere i fatti: nel corso del 1999 gli occupati in Francia sono saliti del 2,5 per cento.

Solo recentemente si va diffondendo l'esatta percezione che la società postindustriale, a differenza di quella rurale e di quella industriale che l'hanno preceduta, è caratterizzata da una progressiva delega del lavoro ai computer e da un rapporto sempre più sbilanciato tra tempo di lavoro e tempo libero (a favore di quest'ultimo).

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Pagina 101

Per Bell quali sono i fattori che sanciscono il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale?

Primo il passaggio dalla produzione di beni alla produzione di servizi. Secondo, l'importanza crescente della classe dei professionisti e dei tecnici rispetto alla classe operaia. Terzo, la centralità del sapere teorico, cioè, come dirà poi Dahrendorf, il primato delle idee. Quarto, il problema della gestione dello sviluppo tecnico: la tecnologia è diventata così potente e così importante che non può essere gestita da singoli e, al limite, neppure da singoli Stati. Quinto, la creazione di una nuova tecnologia intellettuale: l'avvento, cioè, di macchine intelligenti in grado di sostituire l'essere umano non solo per ciò che concerne la fatica fisica, ma anche per quanto riguarda la fatica intelletttiale.

Questi sono ciò che Bell chiama i «cinque principi assiali» della nuova società. È straordinario che egli li abbia individuati e teorizzati già alla fine degli anni Sessanta!

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Pagina 135

Passiamo a un secondo tratto connotativo della nuova società.

Il tempo libero. Un grande filosofo russo, Alexandre Koyré, ha scritto: «Non è dal lavoro che nasce la civiltà: essa nasce dal tempo libero e dal gioco». Ma io credo che questo sia stato più vero nel passato, quando era possibile distinguere meglio il lavoro dal gioco, perché la maggior parte del lavoro era di natura fisica e sconfinava nella fatica.

Non a caso Henry Ford scrisse nella sua autobiografia che «quando lavoriamo dobbiamo lavorare. Quando giochiamo dobbiamo giocare. Non serve a nulla cercare di mescolare le due cose. L'unico obiettivo deve essere quello di svolgere il lavoro e di essere pagati per averlo svolto. Quando il lavoro è finito, allora può venire il gioco, ma non prima».

Ormai queste distinzioni tipicamente industriali hanno perso molto del loro significato. Già non era così nell'epoca rurale, quando il contadino e l'artigiano vivevano negli stessi luoghi in cui lavoravano, il loro tempo di lavoro si intrecciava con le faccende domestiche, con i canti e con lo svago.

Fu l'industria a separare la casa dal lavoro, la vita delle donne da quella degli uomini, la fatica dal divertimento. Fu con il suo avvento che il lavoro assunse un'importanza spropositata fino a diventare la categoria dominante della vita umana, alla quale ogni altra cosa - famiglia, studio, tempo libero - rimase subordinata. Ancora recentemente il sociologo Aris Accornero ha insistito: «Lavoro e vita è bene che si separino... Lavoro e vita hanno logiche e culture diverse e la ricchezza dell'esistenza sta nel combinare i loro tempi e i loro ambiti. La loro giustapposizione è un mito: un mito da scongiurare».

Io sono di tutt'altro avviso. Quanto più un lavoro è esecutivo e si avvicina alla fatica bruta, tanto più viene privato della dimensione conoscitiva (area 2 dello schema 2) e di quella ludica (area 3). È questa la posizione infelice che nello schema corrisponde all'area 1.

Ci sono, però, dei lavori che sconfinano nel gioco, come per esempio quello di una troupe cinematografica che si diverte a girare un film comico (4); e ci sono lavori che sconfinano nello studio, come per esempio quello di un'équipe di scienziati che conduce un esperimento (5). Ma la pienezza dell'attività umana si raggiunge solo quando in essa coincidono, si cumulano, si esaltano e si ibridano il lavoro, lo studio e il gioco (7); quando, cioè, nello stesso tempo noi lavoriamo, apprendiamo e ci divertiamo. E ciò che mi succede, per esempio, quando sono in aula a fare lezione. Ed è ciò che io chiamo «ozio creativo», una condizione che, a mio avviso, si estenderà sempre più nel prossimo futuro.

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Pagina 199

Il lavoro, mestiere o professione, è il nostro biglietto da visita: ci dà un'identità sociale. Noi siamo quello che facciamo. Oltre che attività necessaria, il lavoro è qualcosa di più: si radica giù tra gli archetipi del nostro inconscio. Lavorare sempre di meno, oziare sempre di più ci obbligherà a fondare su nuove basi la nostra identità? E quanta fatica richiederà questa metamorfosi?

Per migliaia di anni, l'aristocrazia sociale si distingueva non per il fare ma per il non fare. Chi era nobile non doveva lavorare: per questo c'erano la servitù e gli impiegati. Noi stiamo attraversando un passaggio epocale, dall'attività fisica all'attività intellettuale. Cioè da un mondo esplorato, ben noto, a un mondo del quale sappiamo pochissimo.

L'uomo è attività, fisica o cerebrale. Quasi sempre queste due attività sono accoppiate, tranne in casi estremi come quello di una persona inchiodata immobile a letto da un handicap gravissimo che gli lascia l'unica possibilità di muoversi mentalmente; oppure - al contrario - un lobotomizzato che agisce solo fisicamente. Ma, per l'appunto, sono casi estremi.

L'uomo si muove e pensa tutto il tempo, dalla nascita alla morte, di giorno e di notte, mentre veglia e mentre dorme. Nel corso dei secoli, comunque, abbiamo disattivato sempre più il corpo e abbiamo attivato sempre più la mente. Tuttavia, continuiamo ad avere maggiore considerazione per la fatica, la malattia, la bellezza, la prestanza e l'abilità fisiche che non per l'abilità, la prestanza, la malattia mentali. Siamo così devoti al corpo perché è il corpo, con la sua forza e la sua flessibilità, che ci ha salvato nel corso dei millenni. Solo recentemente abbiamo scoperto la malattia psicologica e qualche sua terapia. Ancora oggi, se uno ha la febbre è considerato malato, se è triste è considerato sano. La cura della polmonite ci sembra una necessità, la cura psicanalitica ci sembra tuttora un lusso.

Siamo, insomma, nella fase di transizione che va dal considerare il corpo come elemento principale, al considerare tale la mente. Siamo in una fase di dematerializzazione, su tutti i fronti.

Una fase cominciata nel novecento?

No, è cominciata molto prima, in Mesopotamia, con l'invenzione della scrittura, poi è proseguita con l'invenzione della stampa. Ma nel nostro secolo ha avuto una forte accelerazione con l'invenzione della radio, poi della televisione, poi dell'informatica, quindi di Internet.

Precipitiamo nella (o ci eleviamo alla) a-fisicità. Al punto che cominciamo a dimenticare fin troppo la nostra dimensione fisica. Ce ne ricordiamo solo quando ci fa soffrire e quando non ci piace. In tal caso, ce la modelliamo perché ormai abbiamo gli strumenti per farlo: plastiche, chirurgie correttive, cure dimagranti e ingrassanti.

Ma queste cure, di nuovo, segnano il prevalere della mente sul corpo. Il quale non rappresenta più un dato ineluttabile ma solo un'ipotesi.

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Pagina 212

L'azienda è come un carcere o un manicomio: un'istituzione totale?

Sì. Succhia l'intelligenza dei collaboratori, manipola le loro emozioni e i loro affetti. È la dimensione collettiva che prevale su quella individuale. Per duecento anni la cultura industriale, rispetto a quella rurale, è stata un motore ben più potente di modernizzazione e civilizzazione. Ma ormai è anch'essa in crisi irreversibide.

Nelle aziende, oggi, in nome della parità persiste il massimo della discriminazione contro le donne; in nome dell' uomo giusto al posto giusto si eludono i criteri della meritocrazia; in nome dell'efficienza si consumano gli sprechi più inverecondi di tempo, soldi, intelligenze; in nome della razionalità si compiono le scelte più squinternate e incoerenti; in nome della produttività si moltiplicano le procedure burocratiche; in nome dell'onestà professionale si giustificano i mezzi con i fini, si froda il fisco e si pagano tangenti. È interessante il fatto che gli entourage dei manager finiti sotto inchiesta con Tangentopoli hanno finto di non sapere, di non essere neppure sfiorati da sospetti. A casa, mogli e figli pronti a spergiurare sulla rettitudine del coniuge e del padre, come se non si fossero mai chiesti da dove arrivavano i soldi per pagare lo yacht e la villa al mare. In ufficio, idem. Cagliari, ex presidente dell'Eni, si è suicidato in carcere: ma quanti suoi collaboratori, dai dirigenti agli uscieri, partecipavano al suo sistema delle tangenti? De Benedetti, presidente dell'Olivetti, è stato condannato per aver rifilato computer fasulli al Ministero delle Poste: ma quanti suoi venditori erano coinvolti?

In effetti Tangentopoli non ha provocato, nelle società finite sotto inchiesta, esplicite dissociazioni da parte dei dipendenti. Mentre una parte della Confindustria ha pubblicamente fatto quadrato intorno a Romiti, in seguito alla condanna in primo grado. Qual è il genere di solidarietà che ha prevalso, nei due esempi?

La doppia morale: come singolo non posso fare certe cose, ma come dipendente o dirigente dell'azienda sì, perché il fine aziendale giustifica i mezzi manageriali, perché l'eccessiva severità o l'arretratezza delle leggi vigenti impongono a migliaia di persone dei comportamenti illeciti. Nell'azienda, in nome dell'etica professionale si mortificano i più deboli; in nome della partecipazione si celebra l'autoritarismo. Ormai l'azienda è una delle strutture più autoritarie, assieme ai partiti; però in questi ultimi almeno sopravvive la ritualità democratica del capo eletto dalla base. Nell'azienda, in nome della praticità, si mortifica persino l'estetica, sotto una valanga di formica di colore ospedaliero, e di cibi precotti.

So bene che l'azienda non è solo questo: è anche sopravvivenza, stipendio, è socialità, erotismo, carriera, è la sensazione di «essere in», perché crea l'illusione che al suo interno arrivano, di prima mano, le notizie che contano. Però il problema sono i prezzi da pagare, le rinunzie e le nevrosi.

Tutte le organizzazioni che, oggi, producono servizi e informazioni sono figlie della vecchia azienda manifatturiera che per duecento anni ha gestito maestranze di analfabeti addetti a mansioni ripetitive. Ora si pretende di fare lo stesso con i diplomati e con i laureati.

Per duecento anni l'azienda manifatturiera ha perfezionato con sadismo l'arte del controllo su tutto: ingressi, uscite, spese, ritmi e bioritrni. Ora si pretende di fare la stessa cosa con persone addette a lavori creativi che, invece, richiedono motivazione.

Nel corso di due secoli l'azienda manifatturiera ha mandato in pensione i lavoratori a 60 anni, perché era l'età media in cui morivano. Oggi che la vita media s'è allungata, li mettono in prepensionamento a 55 anni condannandoli così a un trentennio di inutilità, dopo averli spremuti e dopo averli illusi, facendogli credere di essere indispensabili all'impresa.

L'azienda sottoutilizza tutti. Ogni manager, già oggi, sarebbe in grado di fare le stesse cose che fa il suo capo. Finché i manager sono in tempo, dovrebbero riorganizzare la loro vita a cominciare dal delirio di credersi eterni, dando alla vecchiaia il godersi la famiglia e i figli. Dovrebbero cominciare a coltivare la propria vita interiore, non una carriera che, comunque, si fermerà al di sotto del livello che gli hanno furbescamente prospettato: ognuno pensa di diventare presidente, ma il presidente è uno solo.

Quando hanno finito ciò che devono fare, i lavoratori se ne vadano a casa. La smettano di tornare stanchi in famiglia, per passare dal dominio dei capi a quello dei teleschermi. Soprattutto, queste persone che sono state abituate a operare di giorno e dormire di notte, capiscano che tra la notte e il giorno non c'è gerarchia etica, per cui la notte è cattiva e il giorno è buono, la notte è per gli sfaccendati, il giorno per i laboriosi.

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A quali altri principi dovrebbe ispirarsi la pedagogia postindustriale?

Nei paesi del Primo Mondo si sa fin troppo bene come produrre la ricchezza. A questa scienza essi hanno dedicato gli ultimi due secoli della loro storia. Ora essi debbono progettare un modo nuovo per distribuire questa ricchezza, per sostituire la competitività e l'esclusione con la solidarietà e l'accoglienza. Si pensi, per esempio, a quale carica di egoismo, avarizia, razzismo è sottesa al termine «extracomunitario», che abbiamo coniato e che usiamo disinvoltamente in Europa, senza neppure vergognarcene.

Alla condivisione della ricchezza, fin qui abbiamo preferito la sua accumulazione. Nelle business school americane ed europee ancora oggi si insegna come conquistare sempre più beni e più potere, come scalare le piramidi aziendali, come accumulare e investire.

In tutto il mondo le riviste patinate rivolte ai manager (Capital, Vip, Fortune, Class ecc.) e alle loro signore (AD, Vogue, Marie Claire, ecc.) sono un continuo incitamento allo sciupio vistoso, al collezionismo inutile, all'ostentazione lussuosa. Molto meglio, invece, sarebbe insegnare come conferire senso alle tante cose che già possediamo: è inutile e stupido sprecare energie per accaparrarsi nuovi beni, se non abbiamo ancora gustato fino in fondo quelli che già sono a nostra disposizione. È inutile comprare libri o dischi nuovi se non abbiamo ancora letto o ascoltato abbastanza quelli che avevamo. Vi sono miliardari che non riescono a dividere il loro scarso tempo libero nelle varie ville disseminate in ogni continente.

Un tempo i ricchi riposavano e i poveri sgobbavano; oggi, al contrario, i ricchi corrono come matti dietro ai loro affari mentre i poveri sono costretti all'inerzia dalla disoccupazione.

Altrettanto grave, però, è che un numero enorme di lavoratori sia costretto a svolgere mansioni nettamente inferiori alle proprie capacità: dunque, avvilenti e alienanti.

Torniamo alle parole-chiave.

Occorre educare alla «complessità» e alla «discontinuità», due categorie che non debbono farci paura perché sono tutt'uno con la nostra natura umana. L'uomo è tanto più maturo quanto píù disinvoltamente è in grado di gestire la discontinuità e la complessità.

La società industriale, quando si imbatteva in un problema complesso, cercava di semplificarlo, magari sminuzzandolo in tanti piccoli problemi semplici. Invece la società postindustriale è in grado di affrontare i problemi nella loro complessità perché dispone di strumenti altrettanto complessi e potenti. E se si affrontano problemi complessi con strumenti complessi, si trovano, senza troppa difficoltà, soluzioni complesse ma non per questo difficili, adeguate a tutto il portentoso sapere accumulato nel corso dei secoli. Così tutta la catena di bisogni, problemi, tecniche, soluzioni diventa più coerente e ricca, più umana. Perché l'essere umano è complesso e aspira a gestire la complessità. Solo gli istinti animali sono semplici.

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La paura che molte persone, diciamo «apocalittiche», nutrono verso il futuro, affonda le radici qui, nell'incapacità di accettare la discontinuità?

In gran parte è così. Perché tanta gente oggigiorno ha paura? Vive mille volte meglio di come vivevano i nonni eppure ripete continuamente: «Con i tempi che corrono ... ». Ma che tempi corrono?

Più la gente è ricca, più è cinica e timorosa. Teme di perdere i privilegi che non merita. È questa la paura che fece da base al fascismo. La gente che ha paura non chiede altro che un padre disposto ad accollarsi la cura delle sue questioni più complesse. Dal papà, poi, accetterà pure le sculacciate.

«Con i tempi che corrono...» Gente ricca e ipergarantita, che magari prospera evadendo il fisco, pagando tangenti, inquinando il territorio, speculando sulle aree urbane, ha paura di tutto e vede ovunque delle minacce: il declino demografico, l'arrivo degli immigrati, il buco dell'ozono, le radiazioni dei telefonini, il crollo dei valori, la pedofilia, le rapine, tutto, a suo avviso, è in agguato in questo nostro mondo. Per definizione, il peggiore dei mondi possibili.

Viviamo il doppio dei nostri bisnonni, in molti paesi abbiamo quasi sconfitto la fame e il dolore, ci siamo abbastanza affrancati dalla schiavitù della tradizione e dell'autoritarismo. Eppure molti, soprattutto i privilegiati, non se ne rendono conto.

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Cambia, dunque, l'intera ottica del lavoro collettivo e dei processi organizzativi?

Nell'azienda postindustriale, dove ormai la maggioranza degli occupati è fatta di lavoratori intellettuali, l'accento si sposta dall'esecutivo all'ideativo, dalla sostanza alla forma, dal duraturo all'effimero, dalla pratica all'estetica. Cioè, dalla precisione al pressappoco; dal prescientifico al postscientifico.

Tutto ciò non significa trionfo del banale, del superficiale, del peccaminoso, del mediocre, dell'inutile. Significa necessaria sostituzione di una cultura (moderna) del sacrificio e della specializzazione finalizzata al consumismo con una cultura (post-moderna) del benessere e dell'interdisciplinarietà finalizzata alla crescita soggettiva, all'affettività, alla qualità del lavoro e della vita.

Nel 1948 il filosofo russo Alexandre Koyré scrisse un saggio rimasto famoso che aveva come titolo Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione. Lei, nel Futuro del lavoro, ha scritto che oggi l'accento si sposta dall'universo della precisione al mondo del pressappoco. Significa che stiamo tornando indietro?

No. Significa che stiamo andando avanti.

Quella mia affermazione ha dato luogo a interpretazioni ben lontane da ciò che realmente penso.

Come dicevamo all'inizio, i Greci e i Romani, nonostante la raffinata complessità della loro cultura, trascurarono il progresso tecnologico fino a detestarlo. Nei loro miti, ogni eroe che tenta di introdurre innovazioni è punito severamente: si pensi ai castighi inflitti a Icaro, Prometeo, Sisifo, Ulisse.

Ma perché un popolo come quello greco, capace di esprimersi ai massimi livelli di raffinatezza nella poesia, nella filosofia, nell'arte, nella politica, si condannò all'arretratezza scientifica e non riuscì ad anticipare le grandi scoperte e le grandi invenzioni che abbiamo avuto nel dodicesimo secolo dopo Cristo e poi, a partire dal Seicento, in misura sempre più accelerata?

In un saggio del 1962, intitolato appunto Perché l'antichità non ha conosciuto il macchinismo?, Pierre-Maxime Schuhl ricordava che vi furono grandi filosofi-ingegneri: Talete di Mileto riuscì a deviare il fiume Halys per consentire il passaggio all'esercito di Creso, Platone inventò la clessidra, Archita di Taranto costruì automi stupefacenti, i tecnici chiamati a Siracusa da Dionigi il vecchio costruirono macchine con cui fu possibile respingere la flotta di Imilcone. Erone di Alessandria racconta come erano costruite le catapulte, Vitruvio descrive una specie di tassametro in uso ai suoi tempi.

Secondo Schuhl, queste invenzioni non ebbero ulteriori sviluppi per quattro buoni motivi: perché i Greci avevano a disposizione quelle macchine duttilissime che erano gli schiavi; perché non erano pungolati dal demone dell'utilitarismo; perché ciò che era meccanico sembrava opposto e inferiore a ciò che era naturale; perché, infine, erano afflitti da un «blocco mentale» che gli faceva disprezzare tutto ciò che era lavoro, tecnica, affari, modificazione e inganno della natura: «una macchina è una macchinazione, un espediente, un tranello che viene teso alla natura».

Le spiegazioni addotte da Schuhl sono acute, ma quelle che aveva già dato Koyré ventiquattro anni prima mi sembrano ancora più convincenti: «Per quanto ci possa apparire sorprendente, si possono edificare templi, palazzi, e anche cattedrali, scavare canali e costruire ponti, sviluppare la metallurgia e la ceramica, senza possedere alcun sapere scientifico, o non possedendone che i rudimenti». Da sola, la pratica quotidiana del muratore o del fabbro, benché perfetta, resta basata sulla semplice esperienza tecnica e quindi non diventa mai «tecnologia». Perché ciò avvenga, perché si compia il salto di qualità, occorre che vi siano persone staccate dalla pratica, che dispongano di tempo libero dalla fatica fisica e provino gusto a teorizzare sia attraverso speculazioni mentali, sia attraverso esperimenti con cui la natura viene osservata, stuzzicata, provocata.

Come mai, dunque, dopo Euclide e Tolomeo la scienza non fa passi avanti e occorre attendere venti secoli prima che arrivino Copernico e Galileo?

Ecco la spiegazione di Koyré: i Greci ritenevano che la precisione fosse una caratteristica esclusiva del mondo celeste, scientificamente scandagliabile, perciò, attraverso la pazienza e l'esattezza degli astronomi. Il mondo sublunare, invece, il mondo umano, era dominato dall'imprecisione, dal caso, dall'imprevedibilità. Dunque non valeva la pena di misurare, contare, valutare alcunché con la stessa matematica esattezza riservata al mondo siderale.

Solo con Galileo il movimento, il tempo e lo spazio verranno sottoposti a osservazioni sistematiche, saranno misurati con strumenti precisi, scandagliati in modo puntuale, attraverso esperimenti che sono «l'incarnazione della teoria». Solo a partire dal Seicento, la riflessione precederà l'azione, la «tecnica» diventerà «tecnologia». I Greci avevano usato l'astronomia matematica per misurare il cielo; Newton userà la fisica matematica per misurare la Terra.

«È attraverso lo strumento di misura che l'idea dell'esattezza prende possesso di questo mondo e che l'universo della precisione arriva a sostituirsi al mondo del pressappoco.» Con Cartesio, la teoria penetrerà nella pratica e la guiderà.

Dopo Galileo, Newton e Cartesio, per trecento anni l'esattezza ha marciato trionfalmente e ha via via colonizzato i vari campi della scienza e della tecnica. La società industriale, incarnazione storica di questa marcia, è caratterizzata dalla frenesia della precisione, dalla quantità anteposta alla qualità, dalla produzione e dal consumo pianificati e proceduralizzati fin nei minimi dettagli. Attraverso il cronometro di Taylor, la precisione conquista la fabbrica e l'organizzazione spontanea diventa «management scientifico».

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Il titolo che abbiamo scelto per questo libro è Ozio creativo. È ora di indagarne tutto il senso.

Recentemente sono state divulgate dai quotidiani, non senza ingiustificata meraviglia, alcune statistiche sul tempo libero negli Stati Uniti, appena sfornate dai competenti istituti di ricerca. A quanto pare, anche al di là dell'oceano, le 170.000 ore di vita che un adulto medio dedica al tempo libero già superano di gran lunga le 80.000 ore dedicate al lavoro. Senza accorgersene, dunque, persino gli Stati Uniti sono diventati una repubblica fondata sull'ozio e sull'economia dell'ozio.

Questa circostanza comune a tutti i paesi avanzati, non è sopravvenuta improvvisamente ma è frutto di un processo secolare fatto di scoperte e di invenzioni, a volte rare e molto distanziate l'una dall'altra, a volte così numerose da apparirci torrenziali.

Già negli anni Trenta, come abbiamo visto, personaggi di grande rilievo come l'economista John Maynard Keynes o il filosofo Bertrand Russell erano preoccupati della mancanza di lavoro dovuta al macchinismo incalzante e suggerivano rimedi in termini di riduzione drastica dell'orario, accompagnata da un'attenta rieducazione al tempo libero.

In un delizioso saggetto del 1930, Prospettive per i nostri nipoti, Keynes scriveva: «L'efficienza tecnica è andata intensificandosi con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell'assorbúnento della manodopera... La disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera... Visto in prospettiva, ciò significa che l'umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo».

Già nel 1930, dunque, Keynes sostiene che «il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo». A quel punto «per la prima volta dalla sua creazione, l'uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».

Pochi anni dopo, nel 1935, Bertrand Russell pubblica il già citato Elogio dell'ozio, un libretto altrettanto godibile, in cui esibisce fin dalla prima pagina le proprie tesi eterodosse: «Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa... La strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro... La tecnica moderna consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi».

Se già negli anni Trenta gli effettì del progresso tecnologico e il problema del tempo libero assillavano Keynes e Russell, cosa dovrebbero pensare oggigiorno menti altrettanto raffinate, poste di fronte a invenzioni come l'informatica e le biotecnologie? Ormai, nelle prospettive esistenziali di un ventenne, il lavoro rappresenta appena un settimo di tutto il tempo che egli dovrà vivere. Il lavoro, dunque, può finalmente essere invitato a scendere dal trono sul quale era stato collocato alla fine del Settecento dai padroni, dai filosofi e dalla Chiesa.

Cento anni fa l'idolatria della fatica era ancora indispensabile per liberarci dalla miseria, ma oggi, nella maggioranza dei casi, essa rappresenta soltanto una schiavitù psicologica. Una volta delegate alle macchine le mansioni esecutive, alla maggioranza delle persone resta da svolgere solo attività che, per loro natura, sconfinano nello studio e nel gioco. Il pubblicitario che deve creare uno slogan, il giornalista alla ricerca di uno spunto per scrivere un articolo, il magistrato alle prese con una pista criminale, hanno più probabilità di trovare le soluzioni giuste se passeggiano o nuotano o vanno al cinema che se restano sigillati nelle solite, grigie, noiose quattro mura del loro ufficio.

In altre parole, durante gli anni passati fu il lavoro a colonizzare il poco tempo libero; negli anni futuri sarà il tempo libero a colonizzare il poco lavoro.

 

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Riferimenti


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