Autore Alain Deneault
Titolo Governance
SottotitoloIl management totalitario
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2018, I colibrì , pag. 188, cop.fle., dim. 14x21,5x2 cm , Isbn 978-88-545-1581-9
Originale«Gouvernance». Le management totalitaire
EdizioneLux, Paris, 2013
TraduttoreAlberto Folin
LettoreGiangiacomo Pisa, 2018
Classe scienze sociali , politica , economia , economia politica , economia finanziaria , economia aziendale












 

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Indice


 13 Introduzione

 23 Premessa 1.
    Ridurre la politica a una tecnica

 25 Premessa 2.
    Ridurre lo Stato a entità privata

 27 Premessa 3.
    Fantasticare sulla "società civile"
    in uno stato di natura dove tutto è tranquillo

 29 Premessa 4.
    Postulare che un "cittadino" abbandonato
    a se stesso acquisti nuovo vigore

 31 Premessa 5.
    Rendere folcloristico il diritto dei popoli
    all'autodeterminazione

 33 Premessa 6.
    Assegnare funzioni e prerogative
    secondo una definizione sui generis

 35 Premessa 7.
    Porsi implicitamente come risposta
    alle presunte carenze dei soggetti

 37 Premessa 8.
    Applicare una logica di esclusione
    facendola passare per il suo contrario

 41 Premessa 9.
    Rendere la parte (l'impresa privata)
    maggiore del tutto (lo Stato)

 45 Premessa 10.
    Privatizzare privando

 47 Premessa 11.
    Avere interesse a difendere interessi

 51 Premessa 12.
    Pretendere all'orizzontalità, fondare spietate gerarchie

 57 Premessa 13.
    Eleggere i leader

 61 Premessa 14.
    Privatizzare i progetti di società

 63 Premessa 15.
    Inalberare il motto «Libertà, fraternità, ineguaglianza»

 67 Premessa 16.
    Giustificare con l'etica del discorso un onere morale
    individuale

 71 Premessa 17.
    Costringere al consenso

 73 Premessa 18.
    Privatizzare le prerogative governative

 75 Premessa 19.
    Riservare sempre il ruolo peggiore all'istituzione
    pubblica (lo Stato)

 79 Premessa 20.
    Evitare il ritorno di manifestazioni popolari

 81 Premessa 21.
    Più far decidere che decidere

 83 Premessa 22.
    La governance governi e i media mediatizzino

 87 Premessa 23.
    Assottigliare le parole e la loro cosa

 91 Premessa 24.
    Predicare bene e razzolare male

 93 Premessa 25.
    Sorvolare sulla storia e sulle condizioni di arricchimento
    dei potenti

 97 Premessa 26.
    Naturalizzare l'economia di mercato

101 Premessa 27.
    Rinchiudere gli Stati nella competitività fiscale

103 Premessa 28.
    Riciclare i discorsi militanti senza nuocere al sistema
    di sfruttamento

105 Premessa 29.
    Lottare contro una corruzione... dove non esistono
    corruttori

109 Premessa 30.
    Invertire cause ed effetti creando un passato di pura
    fantasia

113 Premessa 31.
    Discutere a vuoto

115 Premessa 32.
    Favorire le ricerche universitarie... sovvenzionate

119 Premessa 33.
    Far assumere al dogma una parvenza di pensiero critico

121 Premessa 34.
    Darsi arie di teorici

127 Premessa 35.
    Pretendere invano all'interazionismo

129 Premessa 36.
    Effettuare una "selezione naturale"

131 Premessa 37.
    Addestrare le anime docili

133 Premessa 38.
    Fare ricorso scientemente a un pensiero disincarnato

135 Premessa 39.
    Rifuggire da ogni conclusione

139 Premessa 40.
    Estrarre dal bene comune patrimoni che prima erano
    essenzialmente condivisi

141 Premessa 41.
    Elaborare "norme" private di ispirazione imperialista

145 Premessa 42.
    Dimenticare il carico fiscale e la sua ragion d'essere

149 Premessa 43.
    Mostrarsi compatibili offshore

151 Premessa 44.
    Candidamente "dialogare" con matti e criminali

155 Premessa 45.
    Privatizzare un diritto "postmoderno"

157 Premessa 46.
    Determinare con il denaro l'accesso al diritto pubblico

159 Premessa 47.
    Limitare la lotta di classe agli attori imprenditoriali

161 Premessa 48.
    Rendere mediocri le classi medie

163 Premessa 49.
    Anestetizzare chiunque sia sensibile alla dissonanza
    cognitiva

167 Premessa 50.
    Fare del nulla una forza

169 Conclusione.
    «D'accordo... ma lei cosa propone?»

175 Note


 

 

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Pagina 13

Introduzione


"GOVERNANCE"... termine apparentemente inoffensivo, ma con conseguenze nefaste. La governance cancella il nostro patrimonio di riferimenti politici per sostituirli con i termini tendenziosi del management. Ogni materia ruoterà d'ora in poi attorno a sfide gestionali, divenendo così il modello di ogni politica. La perversione è totale. "Governance"... Termine privo di risonanza filologica il cui scopo è quello di mettere in scacco la lingua e disorientare il pensiero. Questa parola, nella sua forma originaria francese, gouvernance, tutt'al più significava nella Francia del XV secolo il fatto di mantenersi in buona salute. «Cavaliere, disse la voce, una cattiva gouvernance dell'essere umano lo porta a una fine sordida [...]». Era già presente anche nel XIII secolo come sinonimo di governo. Impiegato in questo senso dagli inglesi nel XV secolo, che se ne appropriarono, il termine scompare, per riapparire alla fine del XX secolo nell'ambito manageriale della lingua inglese, e quindi nel discorso sociopolitico della mondializzazione contemporanea.

I teorici delle imprese, tra cui Oliver Williamson , riattivano per primi il termine "governance" nell'ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali, rifacendosi così ai lontani lavori sviluppati tra le due guerre dall'economista Ronald Coase sul "coordinamento" degli attori di un'impresa. Il mondo degli affari adotta a sua volta l'uso della parola, facendone un sinonimo di integrità e di rigore nella gestione degli enti privati. Siamo negli anni in cui gli investitori tentano di riscattarsi dai crimini commessi dai consigli di amministrazione di aziende come IBM, Kodak, Honeywell, e, in un periodo successivo, WorldCom e Enron. Per di più, gli azionisti, i creditori e i fornitori, incoraggiati dalla deregulation dell'economia nella pratica dell' institutional shareholder activism (i militanti di class action in ogni campo), si preoccupano delle potenziali derive cui possono essere soggette le istituzioni private di cui condividono la sorte. Il licenziamento degli amministratori delegati o le dichiarazioni fallimentari non sembrano bastare a rassicurare i mercati. Si annuncia allora la messa in campo di programmi di corporate governance, ossia l'applicazione di metodi di sana gestione dei fondi affidati dagli investitori alle imprese, attraverso procedimenti, norme, politiche, regolamenti e professioni di fede, di tipo etico. Questa riconfigurazione delle regole poggia sulla volontà delle istituzioni private di autoregolamentarsi. Esse sono dunque invitate a creare meccanismi di dirigenza delle rispettive organizzazioni; al punto che la "buona governance" giunge a giustificare per le imprese l'adozione di misure aggiunte di sorveglianza dei propri dipendenti – preferibilmente per via elettronica e informatica – al fine di metterli sotto controllo e di "ottimizzare" le loro operazioni anche minime.

La governance diventa allora per l'impresa privata ciò che la politica è per la società nel suo insieme. E basterà un solo passo, presto varcato, perché il sintagma venga rovesciato, giungendo dunque a vedere nella politica l'analogo della governance d'impresa. Introdotta nell'ambito della vita pubblica da Margaret Thatcher all'inizio degli anni Ottanta, la governance darà così giustificazione a un mutamento del ruolo dello Stato. Ma la parola "mutamento" è un eufemismo, che maschera in realtà una vera e propria rivoluzione. Col pretesto di riaffermare la necessità di una sana gestione delle istituzioni pubbliche, il termine designerà non solo la messa in opera di meccanismi di sorveglianza e di controllo, ma anche la volontà di gestire lo Stato secondo modalità di efficienza aziendale. I tecnocrati della prima ministra «affibbiarono perciò il grazioso nome di governance alla gestione neoliberale dello Stato, che si tradusse in una deregulation e in una privatizzazione dei servizi pubblici, oltre che in un richiamo all'ordine delle organizzazioni sindacali». Cosa più importante, "governance" designerà la volontà politica di adattare le istituzioni alle necessità dell'impresa stessa, allo scopo di aiutarla a spiccare il volo, identificando la sua performance con la pianificazione nazionale e mondiale, nel presupposto che dal suo sviluppo dipenda quello del corpo pubblico preso nel suo insieme. Successivamente, l'Unione europea pubblicherà un Libro bianco sulla governance con l'obiettivo di farne accettare le premesse alle popolazioni del continente in una modalità pseudopartecipativa, cosa che Denis Saint-Martin qualificherà come «colpo di stato concettuale».

La sociologia delle imprese aziendali, volendo essere critica, travalica allora i confini del proprio campo per investire l'insieme delle modalità politiche organizzative e non più soltanto questo o quel tipo circoscritto d'istituzione.

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Pagina 19

Contrariamente ai termini "democrazia" o "politica" che essa tende a occultare, "governance" non definisce niente in modo netto e rigoroso. L'estrema malleabilità della parola elude il senso, e questo sembra precisamente il suo scopo. Tutto avviene come se si sapesse ciò che si vuol dire proprio nel bel mezzo di una totale vanità semantica. Ci si convince. A causa della sua indeterminatezza, l'espressione offre scarsi appigli alla discussione o alla disputa, pur rilasciando un messaggio fondamentale: si tratta di una politica "senza governo", promossa a livello mondiale, che membri sociali isolati in rappresentanza di interessi diversi praticano secondo una modalità gestionale o commerciale. Spregiudicati finanziatori non hanno dovuto faticare molto per trovare nel popolo degli universitari, dei giornalisti e dei responsabili aziendali, ribattezzati "società civile", individui pronti a diffondere la Buona Novella. Confiscare in questo modo i termini tradizionali del pensiero politico a profitto di un nuovo lessico si chiama forse rivoluzione. La nostra attualità viene da qui, ma in una modalità indiscernibile. Perché in nome della governance, non si tratta più di erigere il mito di un nuovo contratto sociale, ma di pretendere che, strappato questo contratto, si apra la felice età della contrattazione plurale e della discussione perpetua.

Fino ad allora, la gestione governativa era sempre stata intesa come una pratica al servizio di una politica dibattuta pubblicamente. Ma poiché la politica si è lasciata rovesciare da quella pratica al punto di cancellarsi a suo vantaggio, è lecito dire che la governance aspira a un'arte della gestione in quanto tale. Nessun registro discorsivo sembra in grado di dominarla. Una simile mutazione promuove il management d'impresa e la teoria della tecnica aziendale al rango di pensiero politico. Ne conseguono infinite semplificazioni. La morale della storia, quella della "governance", postula implicitamente la fine stessa della storia. Si parla soltanto di interessi specifici per cose circoscritte. Nessuna agorà è richiesta per discutere del bene comune. Questo fenomeno è tristemente corroborato dalla monotonia del discorso politico e dalla mediocrità dei "partiti politici di governo".

Gli anonimi "esperti di semantica" della governance riescono perfino a cancellare la brevissima genesi del loro termine feticcio. Vanamente si cercherà nei manuali della governance una storia del concetto che risalga a prima della commissione del 1995. Il passato manageriale della nozione è taciuto per poterle così assegnare una portata politica piena e intera. Se la gestione tecnicistica prevale sulla politica, è ovvio che la coscienza pubblica si ritrovi immersa in un angusto presente. Un presente sconnesso, etereo, che non ha niente a che fare con la presenza, ma che vi si libra al di sopra, o addirittura la contraddice indifferentemente. Si spiega così come mai questa nuova matrice si sia costituita, nella forma di un sostantivo, a partire da un participio presente, quello del verbo "governare". Essere governante = "governanza", governance. Il participio presente è il tempo verbale più debole, il meno afferente. Così, ricondotta a un presente coniugato in permanenza, la governance non designa neppure più l'atto di governare, ma il "governare" come stato. L'esperienza ne esce svuotata di ogni significato, come se improvvisamente si dicesse "la camminanza" invece che "la passeggiata".

Per questa ragione, anche se stampata a lettere maiuscole, la GOVERNANCE non turba nessuno e non procura alcun effetto. In ogni caso non suscita neppure una delle passioni e delle idee sollevate storicamente dalla Repubblica, dal Leviatano o dal Capitale. Nondimeno, conviene studiare questa modalità operativa della politica del XXI secolo alla luce del pensiero politico tradizionale se si desidera comprenderne le premesse inquietanti che guidano d'ora in poi i nostri ragionamenti. Una premessa è un'asserzione di partenza da cui derivano una serie di conseguenze. Noi oggi facciamo collettivamente le spese di quelle che fondano sordamente la governance. Si tratta in questo caso, alla peggio, di una rivoluzione anestetizzante.

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Pagina 25

Premessa 2.

Ridurre lo Stato a entità privata


Nella prospettiva della governance, è dato per scontato che l'unico interesse rappresentato dallo Stato sia quello di un clan chiuso in se stesso. Lo Stato si rivela come l'appellativo particolare di una consorteria priva di qualunque legame con il resto della società. Θ un postulato issato perentoriamente al rango dell'evidenza: «I nostri dirigenti politici non incarnano necessariamente valori comuni: essi difendono progetti privati» scrive il politologo e consulente Gilles Paquet, trascurando completamente il fatto elettorale che lega in modo minimale il governo alla popolazione o il legame d'influenza che lo associa tanto spesso alle lobby private. L'ONU non sfugge all'implacabile logica promossa dai pionieri della "governance globale": essa si rivela come «appartenente a se stessa, essendo proprietà di funzionari ed essendo anche, in certa misura, superflua». La dottrina della governance riconosce certo le istituzioni pubbliche, ma per isolarle e neutralizzarle subito dopo. Essa le presenta alla stregua di «diversi settori della società» e di «cittadini atomizzati». Viene qui richiamata la teoria ultraliberale di Thomas Paine , letta però fuori contesto. Si può capire che questo personaggio britannico e i suoi compagni isolati nelle colonie americane del XVIII secolo sentissero il bisogno di fare a meno di strutture, riflettendo così situazioni vitali contingenti. L'unico governo che avevano era effettivamente una forza imperiale straniera che li opprimeva. Avevano quindi ragione di concludere che «gran parte dell'ordine che regna tra gli uomini non è effetto del governo». Ma l'esistenza di un governo ostile non rendeva per questo superflue delle forme di impresa pubblica: Paine, per quanto individualista ante litteram potesse essere, premetteva nondimeno che «nessun uomo è capace, senza l'aiuto della società, di soddisfare i propri bisogni». Il problema circostanziale affrontato da Paine – l'ingerenza di uno Stato inadeguato negli affari di una comunità – viene introiettato dalla governance come un dato fondamentale, diventando perfino una premessa: lo Stato esiste come una polarità di interessi marginali in un mondo che evolve senza di esso, mantenendo con quest'ultimo solo rapporti di interesse di tipo privato. Non si tratta dunque di uno Stato che è perverso in quanto denuncia la teoria della governance, ma di uno Stato che è in sé un'entità necessariamente perversa. Di qui, l'auspicio di un contenimento dello Stato. Simili asserzioni non sono prive di secondi fini. Esse aprono la strada a nuove forme di potere chiamate a svilupparsi nello spazio lasciato libero da strutture pubbliche così isolate. «La governance è più che un governo, più che un'amministrazione pubblica, più che un modello o una struttura di governo». Lo Stato, ridefinito secondo il principio latente della governance, acquisirà in seguito la funzione principale di legittimare le modalità di funzionamento dei potenti che lo porteranno quindi a intervenire il meno possibile di sua iniziativa negli affari del mondo. La "governance", in quanto neologismo indeterminato, consiste così nel nominare il nuovo ordine politico che deve disegnarsi al di là dello Stato, ma, più che per istituzionalizzare un ordine comune, per mettere i popoli ulteriormente fuori dalla portata di strutture pubbliche attraverso le quali essi potrebbero cercare di costituire sovranamente la propria soggettività storica.

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Pagina 35

Premessa 7.

Porsi implicitamente come risposta alle presunte carenze dei soggetti


La teoria delle organizzazioni aziendali e del management rivendica l'origine moderna del discorso sulla governance. Declinata su diverse pratiche, questa teoria costituisce l'attrezzatura della comunità dei gestori, in particolare per «considerare un impiegato come un capitale piuttosto che come una risorsa». Una certa sociologia delle organizzazioni s'impegnerà in seguito a dimostrare scientificamente che l'impiegato diventato «capitale» è completamente fuori strada quando esprime un parere contrario sulle logiche di sfruttamento da cui è dominato. Proviamo a seguire il ragionamento di un'autorità in materia, Michel Crozier. Quest'ultimo giura solennemente di impostare il proprio discorso al di là di ogni ideologia. La sua premessa: i «sistemi» aziendali soffrono d'inerzia a causa delle eccessive prerogative conferite agli «attori». Curiosamente, tutti gli esempi addotti di strategie controindicate e di errori manageriali mettono in scena piccoli attori: il caporeparto, l'operaio, il sindaco di un piccolo comune, il prefetto di una regione periferica. Al contrario, il dirigente di un'impresa, il rappresentante di istituzioni internazionali, il grande banchiere o il leader sindacale sembrano esogeni al sistema. Quando si passa agli esempi, i superiori prendono decisioni che vanno nel senso delle qualità dall'esperto «perfettamente dimostrate» e «seriamente sperimentate», mentre i subalterni applicano «la strategia egoistica dell'attore», «barando». Nei manuali che essa stessa confeziona, l'élite viene presentata come teoricamente infallibile. Gli elementi presentati come disfunzionali corrispondono a coloro che personalmente non hanno interesse che il sistema si sviluppi in quel determinato senso. Costoro devono dunque sopportare l'obbrobrio di accuse quali la disobbedienza, l'instabilità, l'incompetenza, la furberia e l'irresponsabilità. Così, quando Crozier segnala che gli ingranaggi istituzionali restano costituiti da persone, non lo fa tanto per umanizzarne le prese di decisione sistemiche, quanto per guardare con apprensione la portata nefasta che questa umanità potrebbe avere sugli interessi delle aziende, nel caso in cui dovesse prevalere. Θ sulla base di questa tipica rappresentazione che oggi si cerca di modellare il cittadino della governance.

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Premessa 9.

Rendere la parte (l'impresa privata) maggiore del tutto (lo Stato)


Il termine "governance" riduce l'inesauribile polisemia del termine "società", estraendone uno dei sensi, che successivamente occulterà tutti gli altri. Del resto, è curioso che lo stesso termine "società" designi sia entità commerciali distinte, sia strutture e disposizioni di una società nel suo insieme. All'inizio della nostra era, il termine societas indicava particolari alleanze tra associati che cercavano, di impadronirsi del potere, di delinquere o di condurre operazioni commerciali. Da quest'ultima accezione (ma forse da tutte e tre) deriva oggi il termine sociétà, quando si tratta di designare un'organizzazione finalizzata alla produzione, alla distribuzione e alla commercializzazione di beni e servizi. Ma il termine sociétà ha assunto anche il senso di tutto ciò che rientra nella vita pubblica in generale. Più precisamente, la modernità riconosce sotto l'appellativo sociétà la res publica subentrata all'ordine dialettico antico, in cui si opponevano, da un lato, la sfera della vita domestica (l'economia come gestione di una famiglia e di una stirpe, l' oikos-nomos) e, dall'altro, quella della vita politica (la polis). Ora tutto è diverso. Per Hannah Arendt , la società moderna è più soggetta a poste in gioco di tipo amministrativo che a considerazioni politiche. Da essa prende corpo una specie di governo anonimo che gestisce il conformismo. Le due accezioni del termine "società" trovano qui il loro punto di incontro. Le "leggi" sociali rientrano in una scienza del controllo delle masse più che in quella del diritto e del dibattito politico di cui un tempo godevano gli "uomini liberi" di Atene. Mentre il pensiero politico si trova a essere superato dagli sviluppi della società moderna, un certo ambito privato cesserà invece di essere relegato nei margini di ripiego scelto da soggetti che intendano sottrarsi al pesante conformismo dello spazio civico. Il "settore privato" non ha ormai più niente a che fare con iniziative marginali, ma con qualcosa – al contrario – di così socialmente centrale che risulta incomprensibile il motivo per cui si continua a qualificarlo con l'epiteto di "privato". Ciò è vero sul piano della ricchezza economica. Se la ricchezza è sociale, mentre la proprietà è privata, gli oggetti in gioco restano fondamentalmente gli stessi. Le risorse, di cui viene messo in discussione lo statuto – ossia se esse rientrino nel dominio pubblico oppure no –, sono oggetto di un passaggio al privato allorché diventano fatti di proprietà. L'epiteto "privato", quando è utilizzato per caratterizzare un'appropriazione della ricchezza comune, assume allora un senso che non ha più niente a che fare con l'atteggiamento del ritrarsi consistente nel volersi distinguere dal tutto sociale. Arendt lo mette bene in evidenza: «la distinzione tra proprietà e ricchezza [...] perde il suo valore di uso privato che era determinato dalla sua posizione, per acquisire un valore esclusivamente sociale». Privatizzando elementi della vita pubblica, l'impresa privata li sottrae alla collettività. La società privata opera dunque una sottrazione di ricchezze a beneficio della proprietà; essa non si disimpegna dalla vita pubblica, ma al contrario vi si impegna allo scopo di assicurarsene la colonizzazione. La società viene così dominata dalle società. Il programma manageriale nella società moderna, sostituendosi al fatto politico, contribuisce allora a gettare le basi di un ordine gestionale che, radicalizzandosi, verrà in seguito battezzato "governance". Tale colonizzazione raggiunge in realtà tutte le sfere del linguaggio, al punto che la governance cerca attualmente di codificare le modalità di funzionamento della collettività nel suo insieme a partire dal lessico organizzativo già a suo tempo sviluppato per facilitare la gestione delle società private. La società moderna, così concepita, apparirà come un'entità globale di cui la società privata, referenziale, è l'autoritaria sineddoche. Un equivoco questo, che ritroviamo in alto loco: «L'errore della Banca mondiale è di non separare con chiarezza le riforme settoriali o locali (un'amministrazione come quella doganale) dalle riforme globali». In un simile contesto, il cittadino, privo di una definizione fondamentale, deve ridursi al ruolo di giocatore, nel senso competitivo di player, e al ruolo di partner, nel senso commerciale di stakeholder, per scoprirsi alla fine fagocitato nella logica dell'impresa.

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Pagina 45

Premessa 10.

Privatizzare privando


Si finge di credere che sotto il vocabolo della governance si celino modalità attraverso le quali sarebbe possibile una convivenza... precisamente in un modo che contraddice questa possibilità. La governance designa ciò che resta del desiderio di condivisione nel contesto della privatizzazione economica. Il collettivo allo stato fantasmatico. Un miraggio. Giacché la privatizzazione del bene pubblico non è né più né meno che un processo di privazione. Mentre il liberalismo economico promuove quest'arte della privazione negli ambienti di chi ne trae profitto, la governance serve ad ammortizzarne lo choc, peraltro solo per lo spirito, in quanto non si oltrepasserà mai su questo punto l'ambito del lavoro retorico. Privare, in latino, designa l'azione di mettere da parte – il contrario di spartire. Privatizzare un bene consiste nel privare qualcuno di qualcosa a vantaggio di qualcun altro, dal momento che non viene pagato nessun diritto di cessione. Il privatus designa di conseguenza colui che è privato di qualcosa – privatus lumine, il cieco privato della vista di cui parla Ovidio. Anche quando i costi relativi al bene sono ammortizzati da tempo, ad esempio nel caso di un immobile, gli inquilini continuano all'infinito a finanziarlo a vuoto, invece di limitarsi ai costi reali, ossia a quelli di manutenzione. O addirittura si strapagano esercenti di beni fabbricati e distribuiti da subalterni scandalosamente sottopagati. Il profitto delle multinazionali, da questo punto di vista, deriva da una specie di imposta privata estranea a qualunque interesse pubblico. Si tratta, in altre parole, di logiche mafiose legalizzate. Dallo stesso privare latino proviene del resto l'espressione "privilegio". La parola letteralmente significa legge (lex) privata (privus): il privilegio corrisponde all'atto di privare (escludere) un altro di un bene o di un favore in virtù di una regola generale (legge). In altri termini, è, in diritto, una disposizione giuridica che fonda uno statuto particolare – come quello della nobiltà nell'Antico Regime. Di qui le espressioni care a coloro che ne traggono un grande beneficio: «rispettare la legge», «agire nel quadro della stretta legalità» ecc.

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Premessa 15.

Inalberare il motto «Libertà, fraternità, ineguaglianza»


Resta inteso che i partner della buona governance sono formalmente ineguali. Θ uno strappo fondamentale che viene fatto alla teoria della sovranità politica, in contraddizione assoluta con i principi democratici più elementari. Il sofisma: poiché i "partner" concordano sulla bontà del "progetto" al quale partecipano, poiché hanno "interesse" che in un modo o nell'altro tale progetto si realizzi (siano essi ambientalisti, sindaci di paese, parlamentari, investitori o fornitori di materie prime), essi saranno tutti d'accordo che gli attori in grado di portare a termine il progetto vengano al primo posto. Una società mineraria se si tratta di colonizzare un'intera contrada, una società forestale se si tratta di radere al suolo una foresta. Nell'integrazione economica difesa dai pionieri della governance, «alla fine degli anni Settanta le società transnazionali hanno acquisito un nuovo ruolo mobilitando capitali, generando tecnologie e divenendo attori internazionali legittimi all'interno di un sistema emergente di governance mondiale». Questa è la funzione che viene loro riconosciuta dai membri cooptati di un forum deliberante. Ne consegue un aspetto esplicitamente non egualitario a fondamento della teoria della governance, diffuso senza mezzi termini dai "creativi" cui è stato affidato il compito di confezionare le brochure informative sulla governance:


Il termine "partenariato" non implica una distribuzione uguale di potere, risorse, competenze e responsabilità. In realtà, i partenariati possono inglobare un'ampia gamma di disposizioni, da associazioni o reti informali fino a intese formali legali. I partenariati sono questioni di potere, sia individuale sia collettivo, e se il potere è sempre presente, raramente è uguale. Un partenariato riuscito accorda valore ai diversi tipi di potere portati da ogni individuo o organizzazione, riconoscendoli esplicitamente.


Il carattere disinvolto e la scrittura cristallina di questa premessa tolgono il fiato: poiché la governance non consiste più in una politica pubblica e neppure in un mitico contratto sociale, ma espressamente e scientemente nella pianificazione di processi di mediazione tra attori disuguali, i risultati possono solo concorrere all'elaborazione di decisioni, piani, protocolli, regolamenti, «politiche e processi» che accentuano queste disuguaglianze. Le organizzazioni che rappresentano la gente qualunque, ossia la "società civile" nel gergo della governance, si vedranno affidati solo problemi insignificanti e questioni di scarso interesse: «Le organizzazioni della società civile sono riconosciute sempre più spesso come l'attore più appropriato quando si tratta di occuparsi di problemi di politiche e di programmi pubblici per lo più fuori dalla portata della burocrazia statale, suscitando un interesse relativamente scarso da parte del settore privato». Questa perdita assoluta di interesse per la cosa comune verrà coperta con un'espressione alla moda – la "democrazia partecipativa" – per ammettere il principio democratico solo quando esso verte su margini affaristici e giurisdizionali insignificanti. Questa frammentazione ineguale dei campi d'azione, dal punto di vista degli scribi della governance, sarà un modo di far poggiare il fatto stesso delle disuguaglianze strutturali su un senso di "responsabilità" degli attori: «Una governance decentralizzata dà potere alle istanze locali che devono accettare maggiormente rischi e responsabilità, a mano a mano che si cessa di tenerle sotto tutela, rendendo conto del modo con cui esse sono riuscite (o no) a contrastare i rischi di una congiuntura turbolenta. Decentralizzazione vuol dire fine dell'omogeneizzazione, ma anche possibilità di disuguaglianze maggiori, meno normalizzazione ma più disparità» scriverà, paternalistico, un professore canadese di governance.

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Premessa 26.

Naturalizzare l'economia di mercato


Gli obiettivi più triti del capitalismo industriale rinascono nell'ordine della governance come fossero fenomeni di natura. I saggi dell'elitaria Commission on Governance postulano che l'espansione delle società multinazionali contribuisca alla creazione di ricchezze. A profitto di chi? Per pudore, essi non citeranno i privilegiati del capitale, nelle mani dei quali si concentrano i profitti. Verranno ignorate, inoltre, le crisi devastatrici provocate dall'economia di mercato, attribuendone la causa alle carenze del Fondo monetario internazionale (FMI) che avrebbe il dovere di prevederle. E si aggiungerà, senza batter ciglio, che alla stregua degli Stati che lo dirigono, «il FMI dovrebbe avere un peso maggiore nel contrastare gli choc internazionali, mentre dispone invece solo di risorse limitate». Si procederà quindi a giustificare l'assenza di condivisione di quelle ricchezze su scala mondiale con la troppo debole integrazione delle economie a un sistema unico, integrazione incoraggiata in primo luogo dall'OMC. Si assegneranno infine al progetto di buona governance i termini stessi della sua teleologia, ossia l'incorporazione di ogni cosa a un sistema economico unificato d'ispirazione capitalista. Gli esperti minerari della Banca mondiale elaborano proposte in particolare «perché la buona governance porti alla crescita». Interrogarsi su questa dottrina storicamente costosa per i popoli e per l'ecosistema è improvvisamente bandito da ogni ordine del giorno, come anche l'indebitamento cronico cui essa costringe le popolazioni da decenni. Ogni sforzo è proteso in primo luogo a sviluppare l'impresa privata. Gli interessi di quest'ultima sono eretti a finalità. Vero è che i mercati finanziari condizionano la prosperità del Paese: essi determinano il corso delle materie prime che il Congo è costretto a svendere alle economie straniere. I sostenitori dell'economia di mercato si autopromuovono allora in ogni occasione ad agenti decisionali capaci di risolvere determinati problemi, ossia i loro. Il versante retorico di questa strategia consiste nello spiegare l'impoverimento cronico del popolo congolese e il fenomeno endemico della corruzione con un'utilizzo improprio del capitale investito e delle ricadute finanziarie, perché non corrispondente al «modo razionale e sostenibile» della grande impresa privata. Tutto concorre insomma a modellare lo Stato affinché esso sia sempre più conforme agli interessi dell'industria mineraria e a quelli della finanza, pur nello sdoganamento delle proprie responsabilità. I programmi di buona governance della Banca mondiale ingiungono così allo Stato di pianificare il proprio quadro amministrativo e regolamentare alle convenienze delle potenze del denaro. L'istituto di Washington lo invita perfino a porre fine alla sua posizione storica di «redditiere» corrotto. Esso procederà di conseguenza alla difesa e all'illustrazione di un codice minerario congolese esageratamente vantaggioso per l'industria; i suoi rappresentanti si compiacciono di vedere lo Stato congolese istituire una fiscalità quasi nulla per le industrie straniere presenti nel Paese. Il problema, tuttavia, è che, storicamente, l'applicazione di queste proposte, quando messa in pratica, ha portato direttamente proprio a ciò che si voleva evitare: quando lo Stato abbandona ogni missione sociale al principio della libera impresa, la corruzione si rivela per gli attori del Paese l'unico modo per spremere quel poco che rimane delle ricchezze estratte dal territorio. Sia come sia, accentuare la causa del fenomeno e negare il ruolo fondamentale dell'impresa nella trasformazione in una cleptocrazia degli ordinamenti congolesi è una delle "soluzioni" avallate dagli autoproclamatisi esperti. Benché nessun regime fiscale degno di questo nome giunga a favorire l'elaborazione di un vero sistema di giustizia sociale, l'imposta ufficiosa costituita in ultima istanza dalle desolanti forme di corruzione viene a essere combattuta nel nome della buona governance. Tutto si risolve in una questione di concorrenza e, alla fin fine, di redditività degli investimenti. E ciò vale anche per ciò che riguarda la tanto conclamata lotta contro la corruzione:


Θ importante instaurare la buona governance non solo dal punto di vista morale, ma anche per istituire un'industria mineraria efficace, di elevate prestazioni e competitiva sul piano internazionale. Il costo supplementare indotto da una bustarella versata a un agente doganiere o una donazione azionaria fatta a un alto responsabile dello Stato può sembrare uno spreco tollerabile a breve termine; invece esso porta inevitabilmente a un'escalation di pagamenti illeciti che rappresentano, alla lunga, uno svantaggio concorrenziale considerevole per il settore minerario congolese.


Chiusi nella loro logica capitalista e sordi ad altri interessi che non siano i propri, i sostenitori dell'industria mineraria, come quelli della buona governance, cercano di guadagnare su tutti i tavoli – portando le popolazioni alla rovina. La Banca mondiale valuterà in seguito i programmi di buona governance secondo una metodologia tendenziosa in grado di garantirle anticipatamente buoni risultati.

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Premessa 32.

Favorire le ricerche universitarie... sovvenzionate


Tutto ciò che riguarda la governance vira a vantaggio del settore industriale o finanziario e viene definito come sua iniziativa. Le rappresentazioni tendenziose della partecipazione, dell' uguaglianza, dello sviluppo e dell' organizzazione prodotte dalla governance si sono subito imposte nello spazio culturale mondiale. Lo snaturamento delle istituzioni di ricerca e d'insegnamento universitario costituisce a questo riguardo un esempio di alto livello. La Svizzera, paese classificato primo per il decennio 1990-2000 nello studio sociologico britannico intitolato The Scientific Impact on Nations, ad esempio, ha riformato un modello di ricerca che pure era esemplare. I fondi stanziati per la ricerca erano utilizzati in modo ottimale nei laboratori. I temi di ricerca erano di competenza di ricercatori sostenuti dai loro pari, con riferimento all'evoluzione del sapere nella loro specifica disciplina. Le ricadute di questa organizzazione del lavoro intellettuale erano verificabili da parte di tutti i cittadini. Perché allora trasformare in quegli anni la prestigiosa Ιcole polytechnique fédérale de Lausanne in Swiss Federal Institute of Technology in Lausanne? Perché imporre dirigenti statunitensi all'"impresa"? Perché ridisegnarne l'organigramma secondo una dinamica top-down e una cultura costosa della good governance, del controlling burocratico, dell' accountability, della transparency e del robust monitoring? Perché modificare tanto radicalmente la funzione stessa dei professori per farne agenti di ricerca dediti quasi esclusivamente al networking, fundraising, marketing e management? Perché cedere alla tentazione di una "scienza bling-bling", attratta dalle scoperte appariscenti atte più a soddisfare le public relations che il pensiero critico? Perché valutare d'improvviso l'istituzione in funzione di criteri concernenti soltanto obiettivi di visibilità – il QS World University Ranking – senza nessuna attenzione per il rigore dei lavori che vi vengono condotti realmente? Perché trasformare l'insegnamento in una caccia ai superb students? Perché un numero così elevato di una simile leadership "perversa"? Libero Zuppiroli, professore di rilievo tra le vittime di questa grande trasformazione, considera la risposta evidente: «Si trattava in realtà di mettere questa ricerca al servizio delle grandi società multinazionali». Al punto di snaturare l'istituzione stessa e di impedire ai suoi artigiani onesti di fare ciò per cui sono retribuiti: ricerche serie e orientate all'interesse comune più che a strette considerazioni commerciali. La constatazione è universale dal momento in cui si universalizza il modello di governance delle istituzioni di ricerca. L'Europa è entrata in questa cultura della concorrenza universitaria col favore del processo di Bologna, lanciato nel 1998 per uniformare i corsi universitari dei vari Paesi, e della strategia di Lisbona, fondata nel 2000 per assecondare le istituzioni di ricerca europee nella concorrenza da loro istituita nei confronti degli altri continenti. I ricercatori quebecchesi Eric Martin e Maxime Ouellet osservano inoltre che


la riforma della governance deve essere intesa come l'importazione in seno alle istituzioni pubbliche, in questo caso universitarie, di un modo di regolazione delle pratiche sociali esistenti in seno alle organizzazioni private. Questa colonizzazione è parte di un piano di riconfigurazione dei rapporti interni dell'università e della deviazione della sua missione sociale verso finalità che non sono più la trasmissione e la conservazione della conoscenza e della cultura, ma la produzione di un sapere mercantile.


L'appellativo di "governance delle università" viene allora affibbiato alla gestione delle istituzioni universitarie da parte di attori dell'ambito privato, ai quali questa posizione di forza permette una vera appropriazione nel settore delle ricerche e della conoscenza. Non c'è da stupirsi che nelle istituzioni in cui la scienza del business ha assunto un posto preponderante, un ministro in carica se ne esca a parlare del business of science. Θ ciò che fa Gary Goodyear, ministro canadese delle Scienze e della Tecnologia, quando afferma che «il Canada e i canadesi beneficiano al massimo dei dollari fiscali» collocati nelle istituzioni di insegnamento e di ricerca. I «canadesi» ai quali egli pensa corrispondono «naturalmente» al «versante affaristico dell'innovazione». L'università diventa del tutto naturalmente un'impresa il cui valore è considerato in funzione di un potenziale di rendita a breve termine. I progetti di ricerca e sviluppo sono valutati in funzione del loro potenziale mercantile. L'accesso ai risultati di ricerca viene condizionato da una cultura del brevetto delle scoperte che è amministrativamente gravoso, intellettualmente sterile e giuridicamente costoso. Alcune società private fanno firmare intese di riservatezza ai testimoni che assistono alle sedute di laurea su tesi che esse hanno parzialmente finanziato. Ciò consente chiaramente all'impresa di approfittare a proprio vantaggio di un'istituzione di ricerca finanziata per la maggior parte dai contribuenti. Perché non spetta più a questi ultimi definire le istituzioni di patrimonio comune. Il settore privato ne fa uso come moneta di scambio per ottenere capitali a rischio nel settore della ricerca, ipotecando per questa via quelle istituzioni, pure originariamente votate alla ricerca indipendente. La più zelante delle "imprese" di ricerca, l'Università di Montréal, ha ceduto il controllo dei suoi consigli decisionali e dei comitati di influenza, in questi ultimi anni, di volta in volta a gestori provenienti soprattutto dai settori bancario (Banque nationale), farmaceutico (Jean Coutu), industriale (Air Canada e SNC-Lavalin), dell'industria del gas (Gaz Métro) o mediatico (Power Corporation e Transcontinental). Essa lo ha fatto ricalcando il modello di governance promosso dall'Institut sur la gouvernance d'organisations privées et publiques (IGOPP, già citato sopra), fondato assieme alle Hautes études commerciales di Montréal. Il rettore dell'Università di Montréal, forse ispirato dal presidente-direttore generale di una televisione privata francese, Patrick Le Lay di TF1 – autore di una dichiarazione celebre secondo cui il suo canale televisivo doveva «vendere alla Coca-Cola tempo disponibile del cervello umano» – affermò nell'autunno 2011, a proposito del personale e degli studenti della sua università: «I cervelli debbono corrispondere ai bisogni delle imprese».

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