Copertina
Autore Anna De Pace
Titolo Niccolò Copernico e la fondazione del cosmo eliocentrico
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, Ricerca , pag. 450, cop.fle., dim. 14,5x21x3 cm , Isbn 978-88-615-9071-7
TraduttoreAnna De Pace
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe storia della scienza , astronomia , filosofia , cosmologia
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Indice


    INTRODUZIONE. COPERNICO FILOSOFO

3   1.  Due concezioni opposte dell'astronomia: l'Avvertenza
        di Osiander e il Proemio del Libro i di Copernico

44  2.  Il "problema" Copernico nella letteratura critica

65  3.  Intermezzo critico

104 4.  I capitoli 1-7 del Libro I del De revolutionibus
        alla luce del metodo ipotetico

121 5.  L'esposizione copernicana di Almagesto, 17

139 6.  La confutazione delle ragioni fisiche addotte
        da Aristotele e Tolomeo

149 7.  La nuova ricostruzione razionale del mondo.
        Il significato onto-gnoseologico delle proposizioni fisiche

186 8.  La nuova fisica

207 9.  Il percorso dimostrativo dell'astronomo-filosofo:
        istruzioni platoniche

220 10. L'attuazione copernicana delle istruzioni platoniche


    NICCOLÒ COPERNICO, LE RIVOLUZIONI CELESTI. LIBRO I

237 Premessa alla presente edizione
249 Testo latino
293 Traduzione e commentario
    Con la collaborazione di Maria Pizzigoni

409 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
443 INDICE DEI NOMI


 

 

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Pagina 3

1. Due concezioni opposte dell'astronomia: l'Avvertenza di Osiander e il Proemio del Libro I di Copernico


Le celebrazioni del Quinto Centenario della nascita di Copernico, che risalgono a più di trent'anni, furono occasione per molti studiosi di tornare a riflettere sul significato di un'opera che di fatto segnò una svolta nella cultura filosofica e scientifica. Se oggi si trae un bilancio dei risultati allora conseguiti, ma anche di quanto da allora è stato scritto, mi sembra si possa dire che i maggiori problemi interpretativi tuttora persistenti riguardano il primo libro del De revolutionibus, nel quale Copernico espone, come egli stesso dichiara e come conferma Retico, «quasi la costituzione generale dell'universo» e i fondamenti sui quali essa poggia. Molti passi di questo libro sono ancora lontani da un'esegesi chiara e convincente, e nel suo insieme esso viene presentato come la parte più debole dell'opera, inefficace nella generale struttura dimostrativa o nelle singole prove e conservatrice nella sua sostanziale adesione ai principi aristotelici e scolastici e, per alcuni, persino alla tradizionale gerarchia della scienza teoretica: le sole modifiche da lui introdotte sarebbero quelle strettamente necessarie a rendere compatibile la fisica aristotelica con la trasformazione della Terra in pianeta. L'opera del grande astronomo polacco appare insomma un temporis partus masculus nato deforme, privo di un apparato concettuale e di una fondazione filosofica in grado di conferire spessore ontologico al suo personale convincimento o «fede», come è stato detto, che alla nuova teoria planetaria corrispondesse la struttura reale dell'universo in virtù dell'ordine più semplice e più armonioso che essa rivelava.

È proprio all'astronomia planetaria che per molti storici si limitano i contributi di Copernico agli sviluppi del pensiero scientifico, ma non perché i metodi di calcolo copernicani sortissero risultati più accurati, né perché l'ipotesi eliocentrica riuscisse a semplificare davvero l'astronomia tolemaica (contro le affermazioni trionfalistiche del Commentariolus che pretendevano di avere più che dimezzato il numero dei cerchi planetari, gli storici dell'astronomia hanno mostrato che, alla fine, nel De revolutionibus quel numero è in realtà addirittura superiore a quello utilizzato nell' Almagesto); piuttosto, a Copernico viene riconosciuta, oltre ai meriti metodologici consistenti nell'avere chiarito i passi che conducono dalle osservazioni alla determinazione dei valori dei parametri, «l'intuizione» che, postulando il Sole al centro, fosse possibile trovare facilmente le distanze dei pianeti dal Sole senza assunti aggiuntivi e arbitrari, e risolvere il problema delle latitudini planetarie. Quanto però al merito filosofico cui aspirava, esso di fatto non consistette in nulla più che nel ripristino del moto circolare uniforme grazie alla rimozione del punto equante introdotto da Tolomeo.

In questo senso convergono peraltro i documenti storici. Essi attestano che nel corso di tutto il Cinquecento la fortuna dell'astronomia copernicana e la reputazione di Copernico furono assicurati dalle Tabulae Prutenicae elaborate da Erasmo Reinhold sulla base delle osservazioni, dei modelli e delle modalità di calcolo forniti nel De revolutionibus, ma l'astronomo tedesco né accennò allo spostamento della Terra dal centro dell'universo né si preoccupò di discutere la verità dell'ordine planetario; indicò, invece, quale conquista più significativa dell'opera copernicana la restaurazione di quello che egli giudicava il principio indiscusso dell'indagine astronomica: l'«assioma» cioè, come scrisse sul frontespizio della sua copia personale del De revolutionibus, che «il moto celeste è circolare e uniforme o composto di moti circolari e uniformi». Era questo il principio antichissimo, introdotto da Pitagora secondo Gemino, da Platone secondo Simplicio, cui si subordinava ogni astronomo nella stessa scelta dei modelli geometrici utili a «salvare i fenomeni»; principio che, se determinò la nascita dell'astronomia greca quale indagine razionale, era fortemente connotato in senso metafisico, esprimendo la concezione che solo quel tipo di moto convenisse alla natura divina degli astri. Lo stesso Tolomeo, che pure nella sua pratica di astronomo violò quel principio, vestendo l'abito del filosofo ribadì che tutte le apparenti anomalie planetarie dovevano considerarsi «il risultato di movimenti uniformi e circolari, essendo questi i moti convenienti alla natura delle cose divine», e che proprio nel conseguire tale tipo di dimostrazione, l'astronomia era legittimata a far parte della filosofia.

In buona sostanza, la cosiddetta rivoluzione copernicana fu recepita come una purificazione della scienza dei cieli dagli elementi spuri introdotti da Tolomeo, e un ritorno agli ideali metafisici greci della circolarità e dell'uniformità convenienti ai corpi celesti; ma furono ideali di cui presto Keplero avrebbe mostrato l'inadeguatezza a rappresentare con sufficiente precisione i moti planetari. Così, la restaurazione del moto uniforme, che per Copernico rappresentò un motivo forte per sovvertire l'astronomia tolemaica, non fu né veramente rivoluzionaria né longeva – appena nel 1627 le Tabulae Rudolphinae kepleriane soppiantarono le tavole di Reinhold. Ma anche nei decenni in cui il De revolutionibus si affermò come il più importante trattato astronomico apparso dall'antichità e le prime edizioni (Norimberga 1543, Basilea 1566) ebbero un'ampia distribuzione in tutta Europa, esso non sollevò alcun clamore di carattere cosmologico né in Italia né oltralpe: gli astronomi furono più spesso indifferenti, quando non ostili, all'introduzione dei moti della Terra e al nuovo assetto planetario, sebbene apprezzassero e utilizzassero ampiamente l'opera, sia per la parte predittiva delle posizioni angolari dei pianeti, sia per i modelli che sostituivano l'equante o spiegavano la precessione degli equinozi; talvolta si cercò persino di tradurre questi modelli nella struttura geocentrica.

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Pagina 28

Sulla questione del metodo si tornerà più avanti. Per ora, da quanto sin qui è stato detto si possono sottolineare due aspetti che caratterizzano la novità dell'impresa copernicana rispetto all'astronomia tradizionale.

1) In primo luogo, lo statuto superiore dell'astronomia e la ragione di questo suo rango. L'astronomia è al vertice delle discipline umane soprattutto per il fine che aveva indicato Platone essere quello suo proprio: la comprensione certa dell'ordinamento planetario e dell'unità intelligibile che in esso si esprime, la quale introduce alla contemplazione del sommo Bene. Davvero notevole a questo proposito è che Copernico, nel suo Proemio, designi innanzitutto quale oggetto e scopo principale dell'astronomia non tanto il «salvare le apparenze», quanto "salvare" la verità della bellezza del mondo celeste di cui è garante Dio stesso, quasi a dire che orientare la ricerca astronomica verso meri fini sensibili è un modo per esprimere una rassegnazione teoretica, che non si confà al destino dell'uomo e contro la quale aveva più volte messo in guardia Platone, invitando i ricercatori a non lasciarsi prendere dal timore che l'uomo nato mortale non debba affaccendarsi intorno agli «dèi visibili»: «sarebbe assolutamente insensato», infatti, che il dio «si offendesse contro chi ha la capacità di apprendere, invece di simpatizzare [con lui] senza invidia».

Non che per Copernico non fosse importante, anzi necessario mostrare come «salvare» le apparenze - sulle carenze dell'astronomia tolemaica in quest'ambito si sofferma in termini generali nella seconda parte del Proemio, e d'altra parte non si spiegherebbe altrimenti il suo impegno, annunciato nella stessa Dedica a Paolo III e in altri luoghi del De revolutionibus, ad assolvere quel compito negli altri cinque libri -, ma, sostiene, ciò sarebbe conseguito con verità una volta che si fosse riusciti a disporre di un principio vero, un principio cioè, in grado di rendere conto della «cosa principale», e che ci si rivela solo grazie al corretto procedimento razionale di ricerca e di dimostrazione. Egli stesso racconta, in un passo che attirò l'attenzione di Galileo, che dopo avere assunto in prima istanza la circolazione della Terra come quel tipo d'ipotesi che è accordato agli astronomi di poter immaginare per salvare in modo più saldo le apparenze, si convinse della sua verità perché consentiva di determinare in modo univoco la successione ordinata di tutti gli orbi planetari e di configurare il cielo come una totalità armonicamente coesa in cui «in nessuna parte può trasporsi qualcosa senza che ne derivi confusione nelle altre parti e in tutto l'insieme». È dunque il conseguimento di questo obiettivo ad assicurarci che l'ipotesi utilizzata per spiegare i fenomeni abbia valore ontologico; ma se non giungiamo in porto, piuttosto che rifugiarsi nell'inconoscibilità della cosa, converrebbe evincere che la via percorsa, la methodos, non era corretta. È quanto afferma Socrate nel Fedone: se non si riesce ad accedere alla verità, ciò è segno di un cattivo uso del discorso razionale, cioè di un'assenza di metodo; quando ci è precluso «apprendere da altri», ossia tramite la rivelazione divina, il metodo è in effetti l'unico rimedio di cui l'uomo dispone per attingere alla verità.

2) Le cause fisiche non possono tuttavia essere trascurate nel processo dimostrativo, essendo esse «il mezzo senza cui la causa [vera] non potrà mai essere causa» (Phaed., 99b). Su questo tema Platone aveva insistito non solo nel Fedone, ma anche nel Timeo. «Chi ama l'intelligenza e la conoscenza (...) – si legge in 46d-e – deve necessariamente cercare per prime le cause di natura intelligibile, e poi quelle secondarie che sono provocate da altre entità in movimento e che di necessità ne muovono altre ancora. Così dobbiamo procedere anche noi: occorre parlare di entrambe le specie di cause, distinguendo quante producono con intelligenza effetti belli e buoni» da quelle materiali «prive del pensiero».

I documenti e le testimonianze di cui disponiamo non lasciano alcun dubbio che Copernico sin dagli inizi delle sue ricerche non avesse trascurato quest'aspetto teoretico che Platone giudicava necessario all'indagine del filosofo. Allorché tra il 1507 e il 1514 egli delinea nel Commentariolus il primo abbozzo del proprio sistema eliocentrico, tra i postulati (petitiones) – principi, cioè, posti senza giustificazione – premessi alle dimostrazioni con le quali avrebbe dato conto in modo più semplice e più conveniente delle irregolarità che appaiono nel cielo, egli ne inserisce due che sono di pertinenza del filosofo naturale: la seconda petitio stabilisce che «il centro della Terra non è il centro dell'universo, ma solo della gravità», oltre che della sfera lunare; la quinta che «la Terra con gli elementi a essa più vicini si rivolge tutta sui suoi poli con un moto giornaliero». Copernico, com'è noto, non pubblicò questo suo scritto, e oggi, in base alla sua opera maggiore, possiamo comprenderne il motivo. Non solo non aveva sviluppato appieno le dimostrazioni geometriche che alla fine modificheranno la composizione dei «cerchi» e ne moltiplicheranno considerevolmente il numero necessario a rappresentare tutta la varietà dei moti celesti, ma, a quanto pare, non era arrivato a giustificare razionalmente la necessità dei principi (li pone infatti come postulati), né aveva messo a punto tutte le ragioni fisiche che sostengono la razionalità della rotazione terrestre: [...]

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Pagina 189

Le tesi fisiche che qui sono affermate chiaramente o che da qui si possono inferire con sicurezza sono affatto estranee alla dottrina aristotelica, con buona pace di quanti insistono sul conservatorismo di Copernico, e riprendono tutte motivi caratterizzanti la teoria fisica di Platone o della scuola platonica, in specie medioplatonica. Possiamo così esplicitarle:

1) poiché il solo moto naturale è quello rotatorio che conviene alla conservazione dell'ordine, i moti rettilinei verso l'alto e verso il basso, in quanto si verificano in una situazione di disordine o, il che è equivalente, in quanto sono effetti effimeri di una forza, non sono naturali. In modo analogo si è visto che nel Timeo i moti rettilinei meccanici sono associati al disordine, e contrapposti alla rotazione quale moto in cui si esprime l'intelligenza ordinatrice del demiurgo. Tale moto viene aggiunto nelle Leggi, è l'unico veramente naturale. Non vi era alcuna ragione che impedisse a Copernico di estendere alla Terra le considerazioni sul moto rotatorio assiale che Platone svolgeva per la sfera celeste e i corpi astrali, poiché quelle considerazioni non tenevano in alcun conto differenze di sostanza.

2) Il luogo naturale di un corpo terrestre non è più definito a priori sulla base di porzioni assolute dello spazio, ma individuato in rapporto al centro di gravità del tutto rispetto al quale soltanto, annullata la struttura del cosmo aristotelico, può essere ormai descritta la sua «ottima disposizione»: per ogni parte corporea luogo naturale è quello del tutto in cui quella disposizione si conserva.

3) Se entrambi i moti rettilinei non sono naturali, non per questo condividono il medesimo statuto: quello verso l'alto estromette con violenza le parti terrestri dal loro intero o dal loro luogo naturale, l'altro invece ve le riconduce, ripristinando l'ordine temporaneamente alterato; e questa loro diversa funzione non può che avere effetti diversi sulla difformità o «irregolarità» delle loro velocità. Quando una forza esterna, sopraffacendo la tendenza naturale della materia terrestre, la spinge verso l'alto, questo moto non può che rallentare progressivamente ed estinguersi, «quasi a rendere manifesto, dice Copernico, che la causa di quel moto è la violenza inflitta alla materia terrestre»; se invece il moto verso il centro accelera, è perché la forza che lo determina – e che egli ravvisa nell'impeto del peso – è generata dalla stessa tendenza interna di ogni parte terrestre a ricongiungersi al suo tutto: in una parola, dalla gravità. La teoria è quella elaborata da Plutarco nel De facie, sulla scorta della dottrina del Timeo. Copernico è solo più attento a non parlare di attrazione esercitata dal tutto sulle parti, accogliendo la censura di tale concetto espressa nel Timeo (80c).

4) Se dunque non esiste accelerazione verso l'alto, non esiste luogo naturale verso l'alto né leggerezza positiva, come appunto affermava Platone in Tim. 63b-c, e come da lungo tempo anche la tradizione gli attribuiva. Con la conseguenza che,

5) eliminata la contrarietà dei moti naturali rettilinei, non ha nemmeno più senso la distinzione degli elementi posta da Aristotele, anzi il suo stesso concetto di elemento: in effetti dal vocabolario copernicano il termine "elemento" è ormai espunto, e al suo posto compare quello di "parte del tutto", descritta, pressoché in tutti i casi, come corpo misto. Pure per questa concezione Copernico s'ispirava al Timeo (56d), dove persino il «corpo primario» della terra esiste quasi sempre in uno stato di fusione con gli altri tre, anche se per lo più con l'acqua.

6) Contrariamente a quanto aveva stabilito Aristotele, nella realtà naturale non esistono moti rettilinei, ma solo il moto circolare proprio del tutto unitario, e i moti composti propri delle parti che si trovino da esso separate. Teoria, anche questa, già messa in rilievo all'interno della tradizione platonica: l'idea del Timeo di un cosmo visibile già formato, in cui l'intelligenza domina la Necessità persuadendola a «rivolgere al meglio la più parte delle cose che si generano» (48a), era stata interpretata da Attico e Plutarco anche nel senso che i moti provocati dalle cause meccaniche di gravità e leggerezza si combinano con i moti circolari in cui quell'intelligenza si manifesta.

7) Infine: anche a prescindere dalla loro reale composizione con il moto circolare, i moti rettilinei non sono semplici perché non sono sempre eguali a se stessi, secondo quanto pur richiedeva la classificazione aristotelica dei moti semplici a partire dalle linee geometriche semplici. L'unico moto che può essere detto «semplice, uniforme ed eguale» è il moto circolare, perché, sempre partendo dal termine ordinato e sempre giungendovi, è il solo che ha sempre in se stesso la causa del moto, ossia il conseguimento del luogo ordinato: «il moto circolare» afferma Copernico «prosegue sempre in modo uniforme perché ha una causa che non viene mai meno (circularis autem aequaliter semper volvitur, indeficientem enim causam habet)». Per questa sua prerogativa, non solo è uniforme, ma si conserva indefinitamente conservando le relazioni ordinate in conformità con gli scopi della natura. Nel moto rettilineo, invece, dove il principio o il termine del moto è diverso ed esterno rispetto al luogo in cui il corpo è nella sua ottima disposizione, interviene sempre una forza (l'impeto del peso o la "leggerezza"), e a seconda che per il termine del moto il corpo abbia inclinazione o ripugnanza, il moto sarà accelerato o decelerato, ma in entrambi i casi effimero: infatti i corpi, una volta conseguito il loro luogo, «cessano di essere gravi o leggeri, e cessa quel moto».

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Pagina 203

Qui si conclude il percorso «discendente» o la parte fisica del processo dimostrativo seguito da Copernico. Egli ha così assolto quel compito di filosofo naturale che, nella discussione con Giese, era perfettamente consapevole di dover soddisfare «per non perdere il tempo e la fatica» spesi nelle ricerche astronomiche. Egli ha esposto le teorie fisiche convenienti al moto della Terra sia sul suo asse sia fuori del centro del mondo, ed è indubbio che, secondo il suo proposito (riportato nell' Elogio della Prussia), ha palesato la fragilità e l'incoerenza delle tesi che Aristotele aveva presunto fossero efficaci a confutare la dottrina fisica del Timeo e dei pitagorici. Due, ed entrambi d'ispirazione platonica, sono i capisaldi intorno ai quali Copernico ricostruisce la razionalità del mondo naturale: l'identificazione di ordine perenne e perenne rotazione uniforme, che porta all'acquisizione fondamentale del moto circolare quale stato del corpo simile alla quiete, e la generalizzazione del concetto di gravità quale tendenza delle parti a riunirsi alla totalità di appartenenza. In base ad essi egli scarta l'idea di un ordine a priori del mondo definito dai luoghi assoluti di alto e basso; espunge dalla realtà i moti rettilinei e li riclassifica come moti non naturali, generati da forze o impeti; libera la Terra dalla prerogativa di corpo pesantissimo fisso al centro del mondo; infrange quel tipo di corrispondenza tra corpo semplice e moto semplice che era stato teorizzato da Aristotele; stabilisce la legittimità di una composizione reale di moto circolare e rettilineo; recide i legami tra moti e ontologia in modo da concludere alla concezione relativa del moto e da elevare lo stesso moto circolare perenne a «natura» di tutti i corpi. Su un punto, ed è fondamentale, Copernico abbandona i sentieri platonici: quello dell'animazione dei corpi celesti. Ciò gli consentirà non solo di conferire alla trattazione matematica dei moti astrali, nell'acquisita indipendenza da restrizioni e subordinazioni metafisiche, uno statuto pienamente scientifico, ma anche di rimuovere per la prima volta il principio della velocità costante quale effetto di una causa motrice costante.

Alla luce dell'interpretazione qui proposta, acquistano senso anche i giudizi espressi da Galileo sulla teoria fisica del De revolutionibus. Senza qui insistere ulteriormente sulla laconicità dello stile di cui effettivamente si fa esperienza leggendo queste pagine, si comprende ora perché nelle Considerazioni circa l'opinione copernicana Galileo potesse stimare che le «persone che perfettamente avessero ascoltate ed intimamente penetrate e sottilmente esaminate le ragioni e i fondamenti» sia di parte copernicana sia di parte aristotelica avrebbero constatato con quanto maggior vigore venisse difesa la mobilità della Terra. Si comprende anche l'irritazione verso Lansbergen e Keplero per quelle «fantasie» fisiche «poco intelligenti» che temeva gettassero discredito su Copernico per via della loro fama di copernicani. Si comprende, infine, anche la fugacità del dubbio sulla soluzione della difficoltà relativa al volo degli uccelli. Copernico in effetti ha chiaro il concetto di moto circolare quale stato del corpo simile alla quiete, anche se deriva tale concetto dalla sua identificazione con l'ordine e dalle proprietà geometriche della traiettoria circolare. Con esso egli poteva rispondere all'obiezione delle nuvole, giacché per lui queste condividono insieme all'aria il moto circolare della Terra; poteva anche far fronte all'obiezione del sasso lasciato cadere da una torre, replicando che il moto circolare è naturale e sempiterno per il sasso come per la torre, e che l'aria non potrebbe costituire intralcio, seguendo puntualmente il moto della torre e del globo terrestre. Con esso — e pure qui aveva ragione Galileo — avrebbe potuto rispondere senza difficoltà anche all'obiezione thyconiana dei proietti lanciati con eguale tiro verso est o verso ovest: l'indelebilità del moto circolare quale stato naturale (= non provocato né conservato da forze) dei corpi che appartengono alla Terra — dunque anche quando siano da essa staccati — spiega, pace Koyré, perché i moti verso ovest non sono più impediti di quelli che avvengono nella stessa direzione della rotazione verso est della Terra. Forse è vero che un uccello in volo poteva porre a Copernico maggiori problemi per via del corpo animato e della composizione di movimenti così irregolari, ma ancora una volta non si può non convenire con Galileo che, con il concetto di moto circolare quale stato permanente di un corpo, Copernico disponeva degli elementi teorici necessari a risolvere la questione, e a spiegare in generale l'equivalenza tra i fenomeni che avvengono in una Terra in quiete o in moto circolare naturale. Certo, manca a Copernico l'elaborazione del concetto di stato inerziale, ossia la teoria con cui Galileo traduce in termini dinamici il principio della conservazione del moto circolare, unificando la trattazione dei moti naturali e dei moti forzati: spetterà a lui stabilire che lungo una superficie sferica un corpo è indifferente alla quiete e ai movimenti verso qualunque parte dell'orizzonte, sì che, se un impulso o impeto qualunque lo mette in moto, esso non oppone alcuna resistenza e, in assenza d'impedimenti esterni, conserva tale impeto iniziale in modo indelebile, perseverando in un moto uniforme circolare. Ciò, tuttavia, non scalfisce la coerenza e il carattere innovativo della teoria copernicana. E senza la comprensione di questi aspetti, resterebbe davvero difficile capire l'omaggio che al venerando canonico rende Galileo, ossequiandolo quale proprio magister e praeceptor. In realtà, per la prima volta Copernico era giunto a sintetizzare critiche alla dottrina aristotelica e soluzioni nuove in un corpo generale e coerente di proposizioni, come richiedeva il metodo socratico: tra queste, la nozione affatto inedita di un moto naturale che si conserva indelebilmente in tutte le parti terrestri, pur se staccate dal loro corpo integrale, e in cui né la forza di resistenza né quella motrice intervengono come sue condizioni dinamiche. Se Koyré aveva ragione a sottolineare il residuo aristotelico dell'opposizione tra moti naturali e moti violenti, troppo frettolosamente e superficialmente aveva giudicato il contributo del filosofo polacco alla rivoluzione scientifica, indicando peraltro il suo apporto innovativo in una teoria che non gli appartiene.


Con questa parte, si è già detto, il processo dimostrativo non è ancora compiuto. «Credibile» Copernico giudica la concezione generalizzata della gravità e, alla fine dell'esposizione delle teorie fisiche convenienti all'ipotesi della rotazione terrestre egli conclude soltanto che esse «rendono più probabile la mobilità della Terra che non il suo stato di quiete». E di certo la sua conclusione s'impone per varie ragioni. Oltre a quanto sinora è già stato considerato, si può ancora osservare che se il mondo aristotelico-tolemaico è ormai destrutturato, la causa prima sovrintende fin qui solo a ordini parziali: non vi è più l'unità fisica che Aristotele garantiva a tutto il cosmo con i luoghi assoluti, ma non vi è ancora un'altra unità che la sostituisca, conveniente alla natura intelligente di quella causa, tale cioè che riveli l'ordine di tutto l'universo nel suo carattere intelligibile e insieme necessario. Inoltre, quanto alla teoria universalizzata della gravità, se dal De facie plutarcheo Copernico ha appreso che essa può accordarsi con il cosmo eliocentrico di Aristarco, da quel medesimo testo ha appreso che essa si adatta egualmente alla concezione di una Terra centrale. Insomma, per quanto forti e coerenti siano le ragioni copernicane a favore del moto terrestre, questo resta ancora un'ipotesi priva di valore cogente: quelle ragioni si limitano a chiarire che «nulla si oppone alla mobilità della Terra», la quale, anzi, sembra essere l'unica alternativa sostenuta dalla nostra facoltà razionale, e tuttavia esse non autorizzano a concludere con certezza a suo favore. Né le apparenze, governate dalla relatività del moto, modificano questa situazione di indeterminatezza – ciò che appunto, come s'è visto, aveva già precisato Copernico nel Commentariolus. È dunque sul magnum argumentum che lì dichiara accreditare in modo incontrovertibile la tesi pitagorica del moto planetario della Terra (la possibilità, cioè, di determinare le grandezze delle orbite dei pianeti) che occorre ora soffermarsi, per comprendere per quali vie e a quali condizioni Copernico nel De revolutionibus arrivi a considerarla la prova decisiva in grado di conferire verità al suo sistema.

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Pagina 293

Al Santissimo Signore Paolo III, pontefice massimo

Prefazione di Niccolò Copernico ai Libri sulle Rivoluzioni


Con sufficiente sicurezza posso prevedere, Santissimo Padre, che non appena alcuni avranno appreso che, in questi miei libri scritti sulle rivoluzioni delle sfere del mondo, attribuisco alcuni movimenti al globo terrestre, subito andranno schiamazzando che devo essere messo al bando insieme a tale opinione. Né in verità le mie cose mi piacciono al punto ch'io non voglia ponderare ciò che altri ne giudicherà. E benché sappia che i pensieri del filosofo sono lontani dal giudizio del volgo, perché è sua cura ricercare la verità in tutte le cose nei limiti in cui è stato concesso da Dio alla ragione umana, nondimeno son dell'avviso che siano da respingere le opinioni affatto discoste dalla via maestra. Così, quando fra me e me pensavo quanto assurdo avrebbero valutato questo [...] quanti sanno confermata dal giudizio di molti secoli l'opinione che la Terra è posta immobile in mezzo al cielo come suo centro, se al contrario avessi asserito che essa si muove, a lungo fui incerto se dare alla luce i miei commentari scritti a dimostrazione di quel moto, o se invece fosse sufficiente seguire l'esempio dei pitagorici e di alcuni altri [filosofi] il cui costume era tramandare i misteri della filosofia solo a congiunti e amici, non per iscritto ma oralmente, come attesta la lettera di Liside a Ipparco. E a me sembra che facessero ciò non già, come qualcuno pensa, per una qualche gelosia delle dottrine da divulgare, ma perché cose bellissime e investigate da grandi uomini con appassionata applicazione non venissero spregiate da coloro cui è molesto spendere qualche fatica per le lettere quando non siano lucrative, o da chi, benché spinto allo studio liberale della filosofia dalle esortazioni e dall'esempio altrui, per ottusità di ingegno si muove tra i filosofi come i fuchi tra le api. Poiché dunque consideravo tra me e me queste cose, il disprezzo che dovevo temere per la novità e l'assurdità della mia opinione quasi mi aveva indotto ad abbandonare completamente l'opera intrapresa.

Ma gli amici mi rimossero dalla prolungata esitazione, anzi riluttanza; fra questi, primo fu il cardinale di Capua Nicola Schönberg, celebre in ogni campo del sapere, e poi quel personaggio che tanto mi ama, il vescovo di Kulm Tiedemann Giese, molto assiduo nelle lettere sacre e in tutti i buoni studi. Questi, infatti, mi esortò ripetutamente e, aggiungendovi talora rimproveri, insistette vivamente affinché pubblicassi questo libro e permettessi che finalmente uscisse alla luce dopo che lo avevo tenuto nascosto presso di me non da nove anni soltanto, ma già da quattro volte nove anni. Allo stesso modo agirono non pochi altri personaggi eminentissimi e dottissimi, spronandomi a non oppormi oltre, per il timore concepito, alla pubblicazione dell'opera, affinché i matematici ne traessero comune utilità. Sarebbe accaduto, [dicevano,] che quanto più assurda ora appariva alla gran parte di loro la mia teoria sul moto della Terra, tanto maggiore ammirazione e favore avrebbe ricevuto dopo che, con l'edizione dei miei commentari, essi avrebbero viste dissolte le nebbie dell'assurdità grazie a chiarissime dimostrazioni.

Spinto dunque da questi persuasori e da tale speranza, finalmente ho permesso agli amici di provvedere all'edizione dell'opera che così a lungo mi avevano richiesto.

Ma forse Vostra Santità non si meraviglierà tanto che io ardisca dare alla luce i frutti delle mie veglie, dopo aver speso fatica sì grande a elaborarli che non ebbi scrupolo di mettere anche per iscritto i miei pensieri sul moto della Terra; piuttosto, ciò che più si aspetta di udire da me è in che modo mi sia venuto in mente di osare immaginare, contro l'opinione accolta tra i matematici e quasi contro il senso comune, qualche movimento della Terra.

Così non voglio nascondere a Vostra Santità che nient'altro mi mosse a considerare un altro modello con cui fossero da calcolare i moti delle sfere del mondo, se non il fatto di essermi reso conto che i matematici stessi, nell'indagarli, non tengono tutti lo stesso discorso. In primo luogo, infatti, sono così incerti sul moto del Sole e della Luna da non poter dimostrare e osservare la grandezza costante dell'anno tropico. Poi, nel determinare i moti sia di questi astri sia delle altre cinque stelle erranti, non si servono dei medesimi principi e assunti, né dimostrano nel medesimo modo rivoluzioni e moti apparenti: alcuni ricorrono solo a cerchi omocentrici, altri a eccentrici ed epicicli, e tuttavia con essi non conseguono appieno ciò che cercano. Infatti, quanti si affidano agli omocentrici, sebbene abbiano dato prova di poter comporre con essi alcuni moti ineguali, tuttavia non hanno potuto stabilire nulla di certo che fosse davvero conforme ai fenomeni. Invece, coloro che escogitarono gli eccentrici, benché sembrino avere fornito una perfetta soluzione alla gran parte dei moti apparenti con calcoli convenienti [elaborati] per mezzo di essi, tuttavia hanno intanto ammesso molte cose che palesemente contravvengono ai primi principi dell'uniformità del moto. Inoltre, la cosa principale, ossia la bellezza del mondo e la certa simmetria delle sue parti, essi non poterono trovarla o ricavarla da essi, ma accadde loro come a un artista che traesse da luoghi diversi mani, piedi, testa e altre membra di per sé bellissime, ma non modellate in funzione dello stesso corpo e non corrispondentisi affatto fra loro, in modo da comporre piuttosto un mostro che un uomo. E così, nel processo di dimostrazione che chiamano μεθοδον, si scopre che hanno tralasciato qualcosa di necessario, o accolto qualcosa di estraneo e per nulla pertinente. Il che non sarebbe accaduto se avessero seguito principi certi. Infatti, se le ipotesi da loro assunte non fossero false, tutto quello che ne consegue si presenterebbe senz'altro come vero. Ciò che dico, sebbene appaia ora oscuro, diventerà alquanto chiaro a suo luogo.

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