Copertina
Autore Anthony DePalma
Titolo L'uomo che inventò Fidel
EdizioneNuovimondimedia, San Lazzero di Savena (Bo), 2006 , pag. 264, cop.fle., dim. 172x206x15 mm , Isbn 978-88-89091-35-7
OriginaleThe Man who Invented Fidel: Castro, Cuba, and Herbert L. Matthews of The New York Times
TraduttoreGiuliana Lupi
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe media , storia contemporanea , storia: America , paesi: Cuba
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

Introduzione                                           7

Capitolo  1 - Si è mai visto niente di più assurdo?   14
Capitolo  2 - Un messaggio dai monti                  28
Capitolo  3 - Veri soldati di ventura                 43
Capitolo  4 - Alba nella Sierra                       64
Capitolo  5 - Una regione inaccessibile               75
Capitolo  6 - Un capitolo di un romanzo di fantasia   87
Capitolo  7 - Il miglior amico del popolo cubano     102
Capitolo  8 - Battaglie decisive                     116
Capitolo  9 - Puoi anche ingannare qualcuno          134
Capitolo 10 - Nessuno tiene il passo                 156
Capitolo 11 - Giorni bui                             172
Capitolo 12 - Fare nomi                              196
Capitolo 13 - Fedele adesione                        206
Capitolo 14 - Un testimone cordiale                  217
Capitolo 15 - Una buona lotta                        230

Epilogo                                              244

Ringraziamenti                                       250

Note                                                 254

Bibliografia                                         261

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 14

Capitolo 1

Si è mai visto niente di più assurdo?


Sabato, 1 dicembre 1956

Al largo della costa sud-orientale di Cuba

Erano in ascolto.

Soffocati dall'oscurità di quella notte invernale, erano in ascolto, tendendo le orecchie per sentire la voce che si faceva sempre più flebile.

"Aquí! Aquí! Aquí!"

L'acqua era nera quanto la notte era fitta, una coperta perfetta che assorbiva ogni barlume di luce e deviava ogni suono. Per una settimana, gli ottantadue uomini pressati a bordo della malconcia imbarcazione da diporto da sessantuno piedi avevano tenuto a freno la lingua, esprimendosi con niente altro che sussurri per non attirare l'attenzione delle pattuglie organizzate da Fulgencio Batista, il dittatore cubano che avevano giurato di rovesciare. Ora, in preda al panico, maledicevano la notte e il mare che aveva preso uno di loro.

"Qui!" La voce si affievoliva sempre più, come il rumore dei passi che si perde in fondo a una via. Soltanto quelli che gli stavano più vicini sapevano che si trattava di Roberto Roque, che si era arrampicato sul tetto sdrucciolevole della cabina di comando in cerca di uno sprazzo di luce. Secondo i loro calcoli, il faro di Cabo Cruz, sulla cima ricoperta di fitte foreste della Provincia d'Oriente, a circa 800 chilometri a est dell'Avana, avrebbe dovuto lampeggiare all'orizzonte. Roque si era sporto reggendosi a una sbarra fissata all'antenna della barca, nel tentativo di cogliere un qualunque bagliore, che segnalasse agli uomini speranzosi il loro approssimarsi a terra. Ma non si vedeva nulla.

Il fatto che sembrassero incapaci di ritrovare la strada di casa era un segno di quanto fosse improbabile la loro missione. Dopo tutto, Cuba è di gran lunga l'isola più grande dei Caraibi, con 3710 chilometri di coste e varie catene montuose, compresa l'impervia Sierra Maestra nella provincia d'Oriente, con il Pico Turquino che sovrasta ogni cosa. L'isola si distende sulle acque color acquamarina dei Caraibi come il fumo di un falò, ondeggiando in direzione delle coste statunitensi che incutono soggezione. E come il fuoco, è calda ed eterea, dalla seducente Santiago de Cuba, a est, alla sofisticata Avana a ovest. Nel mezzo ci sono fattorie, spiagge, ferrovie, fabbriche, musei, teatri dell'opera, donne vestite elegantemente e astuti uomini d'affari dai capelli scuri, un intero mondo esotico e magico a sé stante. E non riuscivano a trovarla.

Roque aveva iniziato a calarsi sulla massa di braccia e gambe aggrovigliate come funi sul ponte proprio nel momento in cui un'onda aveva scosso la vecchia barca. E aveva perso la presa.

"Fermate i motori", gridò qualcuno. Tutti gli uomini che riuscivano ad alzarsi si sporsero fuori bordo, ma era come guardare nel pozzo di una miniera.

"Qui!"

Il pilota dominicano, Pichirilo Mejiàs, fece forza sul timone per far girare la vecchia imbarcazione, guidato soltanto dalla speranza. Continuò a girare e girare, ma inutilmente. Come potevano trovare la testa di un uomo che faceva su e giù come una noce di cocco nell'acqua, quando non riuscivano neanche a localizzare la costa frastagliata di Cuba? Gli uomini erano stanchi, e affamati, e non ne potevano più del mare che li aveva torturati negli ultimi sette giorni quando, partiti da Tuxpan, in Messico, avevano attraversato il Golfo fino alle acque al largo della costa sud-orientale della loro seducente madrepatria.

Erano già disperatamente in ritardo. Avevano ascoltato alla disturbata radio di bordo come l'insurrezione che avrebbero dovuto avviare fosse iniziata senza di loro a Santiago de Cuba per estinguersi rapidamente. Mentre i compagni venivano arrestati o assassinati, loro erano rimasti in alto mare per due giorni.

"Qui!"

La voce di Roque era svanita quasi completamente e molti degli uomini cominciavano a farsi prendere dal panico. Stava andando tutto storto e ancora non avevano sparato neppure un colpo. Tutti quegli uomini avevano giurato di dare tutto, compresa la vita. A quello si erano esercitati, in Messico, agli ordini del vecchio colonnello spagnolo che li aveva addestrati a maneggiare un fucile e a marciare per giorni senza lamentarsi. A quello si erano preparati quando caricavano armi e munizioni sullo yacht mangiato dai vermi che l'ex proprietario americano aveva affettuosamente battezzato Granma, nonna. Su quello si erano concentrati mentre si tenevano lo stomaco e chinavano la testa nei secchi quando i venti di El Norte, a quaranta nodi, scuotevano la loro barchetta sbattendola come un giocattolo da un'onda alla successiva, per gran parte del tragitto dal Messico. Ora, con le ginocchia molli e puzzolenti di vomito e carburante, non erano preparati all'idea che uno di loro morisse senza aver combattuto.

Erano passati quarantacinque minuti, ognuno dei quali aveva contribuito a rafforzare il tremendo pensiero che la missione stessa, così come Roque, fosse condannata. Poi, quando ormai temevano di doverselo lasciare alle spalle, il comandante ordinò di accendere il riflettore, anche se ciò avrebbe rivelato la loro posizione. Sentirono di nuovo la voce di Roque, molto più debole, e più impaurita che pressante.

"Qui!"

Mejiàs, il pilota, fu il primo a individuarlo e poi molti altri si diedero da fare per ripescarlo. Lo tirarono a bordo, grondante acqua gelida e paura. Ancora una volta, a quel che sembrava, la sfortuna aveva minacciato la loro missione dimenticata da Dio, ma erano riusciti a evitare il disastro. Guardarono il loro jefe per essere rassicurati. Fidel Castro appariva sempre risoluto e così andarono avanti.

Tutti quei giri per trovare Roque avevano confuso il pilota e portato la barca ancor più fuori rotta. Quando le vedette scorsero finalmente i bagliori del faro di Cabo Cruz, i primi fili del giorno avevano già cominciato a serpeggiare tra le tenebre. Una foschia bluastra aderiva alla superficie del mare mentre scivolavano in acque meno profonde. Il profilo vago degli alberi li squadrava attraverso l'alba grigia. Silenziosamente, lo scafo di legno della Granma grattò il fondale sabbioso e sbandò arrestandosi, incapace di procedere oltre o di disincagliarsi.

Un centinaio di metri li separava ancora dai primi alberi, che scorgevano in lontananza mentre si strappavano di dosso gli abiti maleodoranti e indossavano le nuove uniformi color grigioverde con lo stemma rosso e nero del Movimento 26 luglio sulla spalla. S'infilarono gli stivali nuovi. Aprirono alcune scatole e Castro distribuì loro fucili e pistole che odoravano ancora dell'olio da imballaggio. Nonostante lo stato miserevole dei suoi uomini e il danno già provocato dai suoi limiti logistici, Castro rimaneva fiducioso. Il pensiero di rimettere piede sul suolo cubano dopo quasi diciotto mesi di esilio lo aiutava a dimenticare tutto ciò che era andato storto. Quegli inconvenienti erano insignificanti in confronto a quanto stavano per compiere. Per la prima volta nella sua storia lunga e travagliata, Cuba sarebbe stata liberata da tutte le catene coloniali. Non avrebbe dovuto più sopportare il giogo spagnolo che aveva fatto di Cuba la prima delle colonie spagnole nel Nuovo Mondo e l'ultima che quell'impero ormai decrepito aveva ceduto (e soltanto dopo aver perso la guerra con gli Stati Uniti nel 1898). E Cuba non sarebbe stata più la pseudo-colonia americana corrotta che si era venuta a creare in seguito alla partenza degli spagnoli, con Washington che sosteneva un Presidente disonesto dopo l'altro. No, la rivoluzione che stavano per avviare avrebbe liberato Cuba una volta per tutte e, sebbene non ne avesse ancora elaborato l'esito finale, né valutato realisticamente come (e da chi) sarebbe poi stata governata, Castro si rendeva conto che la sua rivoluzione sarebbe stata una battaglia di idee come quella mossa dal suo eroe José Martí. Non aveva bisogno di un esercito più grande di quello di Batista. Per la sua guerra gli servivano soltanto cuori intrepidi e voci stentoree per esortarli.

Aveva una vaga idea di ciò che avrebbe fatto dopo la vittoria, e degli ideali che avrebbero trionfato, ma nessun piano definito sul modo in cui avrebbe guidato Cuba. Quello sarebbe venuto dopo. Ora ciò che gl'interessava era tener fede al giuramento fatto nel 1955, nel corso di un viaggio a New York per raccogliere fondi, e poi ripetuto dovunque andasse. "Per la fine del 1956 saremo liberi o saremo dei martiri", aveva promesso seriamente. Ed era quasi l'alba del 2 dicembre 1956.

La Granma giaceva senza vita sull'acqua. Il "dinghy", stracolmo di attrezzature e provviste, pendeva da un lato, poi s'inclinò pericolosamente e si rovesciò, affondando immediatamente e portando con sé molte delle provviste su cui gli uomini contavano per sopravvivere. Non ebbero il tempo di far altro che saltare in acqua. Persino i più leggeri affondarono fino alle anche e tutti dovettero tenere i fucili alti sopra la testa. Erano approdati nel posto sbagliato. Anziché sbarcare sulla riva sabbiosa dove era previsto che alcuni simpatizzanti li attendessero con camion, armi e provviste, erano finiti in una palude coperta di mangrovia che si avvinghiava agli stivali e sferzava loro mani e braccia, facendo di ogni passo una lotta.

Era mattina ed erano pericolosamente esposti. Batista temeva un'invasione del genere e aveva allertato l'esercito. Da una chiatta di passaggio avevano riferito che la Granma si era incagliata in una zona in cui nessun navigatore nel pieno delle proprie facoltà mentali avrebbe cercato di approdare, a meno che non intendesse nascondersi. Con Santiago sotto il suo controllo, il comandante locale dell'esercito riteneva che si trattasse dell'invasione che tutti stavano aspettando. Gli aerei militari trovarono la Granma, ma non riuscirono a localizzare le forze d'invasione nel folto delle mangrovie. Volarono a bassa quota sulla zona, mitragliando indiscriminatamente le cime degli alberi. Nascosti dalla fitta foresta, gli uomini di Castro potevano praticamente vedere all'interno dell'abitacolo degli aerei che passavano rombando sopra di loro.

Verso le sette del mattino del 2 dicembre, circa tre ore dopo aver lasciato la Granma, i primi ribelli uscirono barcollando dalle mangrovie e si lasciarono cadere sulla fine sabbia bianca. Si riposarono soltanto un attimo, prima di ricevere l'ordine di raggiungere rapidamente i boschetti al margine della spiaggia. Si avvicinarono alla capanna di un contadino. Nessuno sapeva se l'uomo avesse mai sentito parlare di Fidel Castro e furono sollevati quando questi offrì loro cibo e acqua. Si fermarono un momento a scrostare il fango dalle loro uniformi. Juan Manuel Màrquez, uno dei capitani di Castro disse: "Non è stato uno sbarco, è stato un naufragio" e gli altri risero. Stavano per gustare ciò che il contadino aveva offerto loro quando udirono alcune esplosioni. Non avrebbero saputo dire se si trattasse di un bombardamento aereo o se a sparare fossero i lunghi cannoni di un cutter della guardia costiera, ma le esplosioni si facevano più vicine e loro non sapevano assolutamente dove andare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 64

Capitolo 4

Alba nella Sierra


Nel febbraio 1957 i turisti americani in vacanza all'Avana giocavano sulle spiagge bianche come lo zucchero durante il giorno, e la sera si mettevano in fila per vedere il nuovo film di Elvis Presley, "Love Me Tender", in un cinema locale. Poiché alloggiavano per lo più negli alberghi classici del centro storico della città o nei vistosi nuovi hotel americani dagli enormi casinò sul lungomare di El Vedado, non sentivano mai le piccole esplosioni che avvenivano quasi ogni notte in periferia o nei quartieri più poveri, ed erano per lo più inconsapevoli che a Cuba si stesse preparando la ribellione. Le bombe di solito venivano collocate dove non avrebbero fatto vittime né tra i turisti né tra i civili cubani - nelle vicinanze delle linee elettriche o delle centraline telefoniche; l'obiettivo, infatti, era di interrompere il normale funzionamento dei servizi e indebolire la fiducia degli abitanti in un governo incapace di fermare la violenza.

Il caos crescente a Cuba preoccupava il governo statunitense, ma non in modo eccessivo. Alcuni viaggiatori americani si erano spaventati a quelle notizie, ma in generale Cuba e l'intera America Latina erano considerate sufficientemente sicure da quando la CIA aveva risolto lo spiacevole problema rappresentato dal Presidente Arbenz in Guatemala qualche anno prima. Quanto accadeva in quell'emisfero non suscitava alcuna irritazione paragonabile al senso di impotenza con cui l'Amministrazione Eisenhower aveva assistito all'ingresso dei carri armati sovietici in Ungheria nel 1956 senza poter alzare un dito per intervenire. Nessuna crisi in quell'emisfero sembrava destinata a concludersi come la spaventosa resistenza nella penisola coreana, dove era stato necessario lasciare dei soldati americani per tenere a bada i comunisti. E sebbene ci fossero di tanto in tanto segnali della presenza di comunisti anche in America Latina, si poteva contare su uomini forti come Batista per controllarli.

Herbert Matthews giunse all'Avana su un volo proveniente da New York la sera di sabato 9 febbraio; disse ai funzionari cubani dell'immigrazione che lui e Nancie erano lì in vacanza, lontani dal freddo inverno newyorchese. Apparivano agli occhi di tutti una coppia di turisti di mezz'età, abbastanza facoltosi da potersi permettere di saltare su un aereo per lasciarsi l'inverno alle spalle. Ovviamente, quella non era una vacanza.

Matthews avrebbe dovuto attendere una settimana prima di partire per la Sierra e in quel periodo lavorò sodo per tastare il polso di Cuba, prendendo nota di ogni esplosione, di ogni figura che si aggirava furtiva per la strada, di ogni rumoroso convoglio di poliziotti o soldati che sferragliava per la città vecchia in un'intimidatoria ostentazione di forza. L'incontro con Javier e Felipe Pazos aveva stuzzicato il suo appetito per l'avventura. Lunedì mattina non gli avevano ancora rivelato i particolari della sua escursione sulla Sierra. Nell'attesa, Matthews era intenzionato a scoprire il più possibile riguardo alle condizioni del paese, che si andavano aggravando nonostante la calma apparente e le orde di turisti.

Lui e Nancie alloggiavano ancora una volta al Sevilla Biltmore Hotel, uno degli alberghi più eleganti della vecchia capitale. Il vecchio hotel era vicino sia al palazzo presidenziale che all'ufficio del Times e, con il suo atrio elegante e le camere lussuose, aveva un'aria europea che faceva sentire Matthews a casa. Colse uno dei primi segni della cappa che gravava sopra Cuba non appena diede un'occhiata a una copia dell'edizione domenicale del New York Times. Sapeva dalle precedenti esperienze che di solito il giornale arrivava in aereo da Miami, più o meno in orario, lo stesso giorno in cui veniva stampato. Ma da quando, all'inizio dell'anno, Batista aveva imposto la censura, il quotidiano era spesso in ritardo di giorni e presentava dei buchi in corrispondenza degli articoli che menzionavano i disordini civili. L'edizione dell'8 febbraio conteneva in origine un articolo, scritto a New York, in cui si diceva che i ribelli nella provincia d'Oriente erano cinquecento, opponevano una fiera resistenza e uccidevano molti dei soldati migliori di Batista. A Cuba nessuno aveva mai visto quell'articolo, se non i censori del governo e Matthews, che aveva avuto occasione di leggerlo prima di partire da New York.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 75

Capitolo 5

Una regione inaccessibile


Castro si fece strada tra i rachitici alberi di guagasí e il folto sottobosco grondante della rugiada del mattino per salutare il sorpreso corrispondente americano che aveva fatto aspettare per gran parte della notte.

Era appena spuntata l'alba e Matthews era infangato, affamato, infreddolito e desideroso di farsi la barba e una doccia calda. Ma era per questo che aveva fatto tutta la strada da New York, era per questo che aveva deciso di rinunciare a una comoda carriera universitaria, era questo tipo di incontri con la storia che l'avevano fatto sentire davvero vivo così a lungo. Castro avanzò nella radura nel momento in cui il sole faceva capolino tra le nuvole e l'alba si trasformava in giorno. Indossava un'uniforme di fatica pulita e un berretto color verde militare; aveva con sé un lungo fucile con mirino telescopico di precisione.

"Possiamo beccarli a un chilometro, con questi fucili", si vantò con Matthews subito dopo averlo salutato, brandendo il fucile come se fosse un trofeo. L'impatto di ogni singola parola non avrebbe potuto essere di maggiore effetto. Era la classica scena dello storico incontro tra due forze inevitabilmente attratte l'una verso l'altra dal destino. Matthews disponeva già di una notevole quantità d'informazioni sulla vita di Castro, sul suo movimento e la sua storia, ma voleva scoprire molto di più. Castro non sapeva nulla di Matthews se non che era americano e scriveva per il Times; avendo trascorso molti mesi a New York a cercare di raccogliere fondi, aveva un'idea chiara della reputazione di quel giornale e del valore che avrebbe potuto avere per il suo movimento ancora incerto un articolo sul quotidiano americano, esente dalla censura di Batista. Era Castro a controllare l'ambientazione, i tempi e, in larga misura, il contenuto dell'intervista. Entrambi intendevano sfruttarsi per le proprie esigenze. Castro vedeva Matthews come un canale per le sue idee, un altoparlante dotato di penna che avrebbe trasmesso al mondo un messaggio importante. Matthews vedeva in Castro un modo per dimostrare che poteva ancora lanciarsi in una situazione difficile e pericolosa, che lo esponeva anche alla fatica fisica, e battere tutti sul tempo. Con quell'accenno ai soldati che avrebbe potuto uccidere, Castro intendeva impressionare, intimidire, magari perfino spaventare Matthews, ma questi era troppo assorto a registrare ciò che vedeva per reagire con paura.

"Ad un primo sguardo, a giudicare dall'aspetto fisico e dalla personalità, era un uomo fuori dal comune: robusto, alto più di un metro e ottanta, carnagione olivastra, un viso pieno con la barba in disordine", avrebbe scritto Matthews nel primo dei tre articoli in cui riferiva l'intervista.

Quando il cielo si fece più chiaro, riesaminò ciò che lo circondava nell'accampamento temporaneo allestito per il loro incontro. Si rese conto che nessuno dei presenti aveva più di venticinque anni, a eccezione di Castro, e che tutti erano infiammati dall'ardore della gioventù rivoluzionaria. "Come sono giovani!", scarabocchiò sui suoi appunti. I guerriglieri possedevano delle armi da fuoco scadenti: dei fucili vecchissimi dismessi dagli americani e una mitragliatrice, di dubbia affidabilità, che i ribelli sostenevano di aver preso durante un assalto a una base dell'esercito qualche settimana prima. Ora Matthews poteva notare che alcuni degli uomini indossavano uniformi raffazzonate, mentre altri portavano abiti civili sbrindellati. Uno aveva indosso una camicia bianca che, benché lurida, spiccava inopportunamente contro il fogliame verdeggiante... un abbigliamento rischioso per un guerrigliero.

"Sono il primo", osservava Matthews, assaporando lo scoop che avrebbe fatto: era in assoluto il primo giornalista a visitare l'accampamento dei ribelli e a tornare con la notizia straordinaria che Castro era vivo. Non aveva portato con sé un blocco notes o una macchina da scrivere. Usava invece alcuni fogli a righe (di dimensioni 21,5 x 28) che aveva piegato in tre, in modo da poterli tenere nella mano sinistra mentre scriveva con la destra. Con il suo metro e ottantacinque di altezza, Matthews era abituato a incombere sulle persone che intervistava. Ora si trovava a guardare dritto negli occhi castani di Castro ed era affascinato dal lampo d'intelligenza e audacia. Osservò la sua "straordinaria eloquenza" e la "personalità irresistibile". Fu colpito anche dalla barba del ribelle, dai peli radi e scuri, per quanto non poteva certo sapere che quella barba sarebbe diventata una parte importante dell'iconografia del ribelle. Sottolineando nei suoi articoli la giovane età di Castro e menzionandone la barba, i capelli lunghi dei suoi seguaci e il loro audace tentativo di sfidare l'ordine esistente, Matthews identificava elementi essenziali del carattere ribelle di Fidel agli occhi degli americani che, ben presto, avrebbero visto i loro stessi giovani adottare alcune di quelle caratteristiche mentre entravano a passo di marcia nei radicali e turbolenti anni '60.

Matthews era soggiogato dal talento teatrale di Castro. Col procedere dell'intervista, Castro gli si era accovacciato accanto e sussurrava, avvertendolo che colonne di soldati di Batista circondavano la zona dove si trovavano, un piccolo crinale sul terreno dove sorgeva il maso di Epifanio Díaz. L'area era ricoperta di una folta vegetazione e nelle vicinanze scorreva un freddo torrente montano. Castro sapeva che l'esercito intendeva liquidare il resto delle sue forze ribelli prima dell'inizio di marzo, quando sarebbe stata revocata la censura. Si sporse verso Matthews, che indossava un cappotto scuro e un cappello, e avvicinò le labbra all'orecchio del corrispondente; parlava con un rauco sussurro e con un'intensità che rendeva significativo tutto ciò che diceva.

Matthews non se ne rese conto, ma non si era addentrato affatto nella Sierra. Il luogo dell'incontro era a nemmeno quaranta chilometri dalla città di Manzanillo e non di certo nel cuore della foresta. Ma la zona era impervia e difficilmente una pattuglia militare avrebbe potuto raggiungerli. La linea principale di accerchiamento dell'esercito era a circa venticinque chilometri da lì, ma non c'erano strade lastricate e il territorio collinare era attraversato soltanto da qualche sentiero solcato dalle ruote dei carri trainati dai buoi. Era una zona pericolosa per l'esercito, ma buona invece per i guerriglieri. La folta foresta offriva anche un nascondiglio dalle pattuglie aeree che volavano a bassa quota.

I ribelli avevano steso una coperta per Castro e Matthews e offerto all'americano un po' del cibo grazie al quale sopravvivevano sui monti: succo di pomodoro, caffè, cracker e prosciutto. Castro gli disse che i contadini locali che fornivano il cibo erano pagati generosamente per i loro prodotti ed elogiati caldamente per il loro sostegno alla rivoluzione. I 300 dollari che Matthews aveva portato sarebbero stati usati a quello scopo, disse, come tanto altro denaro della stessa provenienza. In tutta Cuba c'era gente che sosteneva i loro sforzi di sbarazzarsi di Batista, si vantava Castro... alcuni erano così ricchi e potenti che sarebbe rimasto sorpreso nel conoscerne i nomi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 234

Ora che sono trascorsi cinquant'anni da quando Matthews ha incontrato Castro in montagna, si può valutare con maggiore onestà la precisione dei suoi servizi. Per quello che riguarda il comunismo del leader cubano, il disfacimento dell'Unione Sovietica e la fine della guerra fredda fanno pensare che Castro sia sempre stato mosso dalla brama di potere più che dall'ideologia. Si è mostrato disposto a sfruttare qualunque situazione per mantenere la sua posizione. Quando l'Unione Sovietica si è dissolta, la Cuba di Castro non è scomparsa. Spinto dalla necessità, ha permesso con riluttanza timide incursioni nella libera impresa e ha accolto di buon grado i dollari investiti da capitalisti canadesi, italiani e spagnoli per la costruzione di alberghi più grandiosi ed esclusivi di quelli di Batista. Ingoiò amaro quando concesse ai cubani, per qualche anno, di utilizzare i dollari americani che considerava tanto spregevoli. Cuba non prende ordini da nessun comitato internazionale ed è diventata un'aberrazione, una versione scombinata del comunismo.

Negli articoli scritti dopo la rivoluzione, Matthews aveva tentato di esaminare e spiegare l'opportunismo politico di Castro, ma il mondo in quel momento chiedeva a gran voce risposte semplici e la sua analisi, troppo complessa, non venne compresa né tenuta in considerazione.

Mentre gli ideali socialisti di Che Guevara si erano formati presto e il flirt di Raúl Castro con il partito comunista risaliva all'adolescenza, le radici ideologiche e l'evoluzione politica di Fidel Castro erano sempre più difficili da rintracciare. Dopo la fuga di Batista, Castro aveva assunto il controllo totale del paese molto più facilmente del previsto e quindi aveva dovuto costruire un vero e proprio sistema politico per rafforzare il suo potere. Nel corso di questo processo emersero molti segnali sconcertanti che né Matthews né alcun funzionario governativo, accademico o giornalista concorrente aveva colto o potuto prevedere. "Il comunismo non fu una causa della rivoluzione cubana, bensì un suo risultato", scriveva Matthews nella sua biografia di Castro. "Fu la presenza di svariati problemi ed eventi a portare la Cuba castrista dalla parte dei comunisti, e non il piccolo, inetto e pasticcione Partido Socialista Popular cubano, né la cauta, diffidente ma in genere accondiscendente Unione Sovietica, a portare la Cuba castrista".

Gli interrogativi su Castro e la sua ideologia hanno torturato ben dieci presidenti degli Stati Uniti e legioni di diplomatici e professionisti del Dipartimento di Stato. "Dubito che gli storici saranno mai in grado di mettersi d'accordo sul fatto che il regime di Castro abbia abbracciato volontariamente il comunismo o sia stato costretto a un matrimonio riparatore", scriveva Matthews già nel 1961, nel suo primo libro su Cuba. Si continuano a scrivere biografie di Castro, ma la valutazione finale rimane la stessa. "Castro in realtà non è mai diventato 'comunista'", scriveva la columnist di politica estera Georgie Anne Geyer nella sua biografia del 1991. "La novità storica introdotta da Castro fu quella di distruggere il partito comunista e creare un suo partito fidelista, che chiamò comunista solo per tenere testa agli Stati Uniti e conquistare il sostegno dell'Unione Sovietica. Per la prima volta nella storia, un leader nazionale ha condensato in sé il partito comunista".

Nel 2003, cinquant'anni dopo l'assalto alla caserma della Moncada, Leycester Coltman, un ex ambasciatore britannico a Cuba, giungeva essenzialmente alla stessa conclusione nella sua biografia di Castro. Da decenni, tutte le opere su Castro, a eccezione delle più radicali, hanno sostanzialmente contrapposto il suo idealismo e la sua straordinaria capacità di sopravvivere nel suo ruolo alla ferocia della sua dittatura. In tutto il mondo Fidel è il simbolo ardente della sfida e suscita ammirazione per aver tenuto testa allo strapotere americano. Da cinquant'anni i funzionari americani non riescono a indovinare quale sarà la mossa successiva di Castro, né a mettersi d'accordo su chi sia e cosa voglia davvero.

| << |  <  |