Copertina
Autore Luigi De Pascalis
Titolo Il nido della fenice
EdizioneLa Lepre, Roma, 2012, Fantastico italiano , pag. 320, cop.fle., dim. 13,5x21x2,5 cm , Isbn 978-88-96052-59-4
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe noir , fantascienza
PrimaPagina


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Indice


  9     Prologo

 15     Prima parte
        Il maestro dei brutti momenti

 87     Seconda parte
        Il nido della fenice

217     Terza parte
        Acheronte

315     Epilogo



 

 

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Pagina 9

Prologo



Pantelleria, 21 ottobre 2086


Mi chiamo Saladino Rizzitano e oggi compio sessantatré anni.

Di mio padre non ho mai saputo nulla, di mia madre mi è stato detto che era nordafricana, forse maghrebina. Nient'altro, neppure il nome.

Per molto tempo il mio incubo ricorrente è stato che queste due persone non erano mai esistite e che io ero nato in un laboratorio clandestino di genetica, frutto dei sogni di un vecchio di cui a volte mi sembrava perfino di ricordare qualche tratto somatico.

Con il passare degli anni l'incubo s'è trasformato in angoscia, quindi in ansia, infine in vaga preoccupazione, ma non s'è mai dissolto. E ciò, nonostante i miei genitori adottivi mi abbiano raccontato mille volte che sono nato in mare, a circa dieci miglia da Pantelleria, su una motovedetta italiana con il nome vagamente ben augurante di Stella maris.

Quel giorno il Canale di Sicilia era battuto da un maestrale furibondo. Onde alte come case lo ripulivano da carrette e gommoni stracolmi di migranti, eppure un piccolo fuoribordo proveniente da chi sa dove resistette alla tempesta e arrivò in vista dell'isola. Poi il motore andò in avaria.

Mia madre era su quella barca. Mi partorì e morì sul guardacoste che aveva soccorso i naufraghi, ma prima riuscì a dire il nome che voleva per me: Salah Ad-Din... Saladino!

Poche settimane dopo fui dato in adozione al marinaio che mi aveva aiutato a venire al mondo. Si chiamava Angelo Rizzitano e sua moglie si chiamava Maria. Ancora oggi non so pensare a loro senza provare affetto e commozione.

Ho trascorso la prima infanzia qui, a Pantelleria, in un dammuso in cima a un roccione, fra la via per Scauri e Punta di Nicà, di fronte al braccio di mare che separa l'isola da Tunisi, lo stesso dammuso che abito ora.

Più tardi ho frequentato le scuole pubbliche di Mazara del Vallo e mi sono arruolato nell'Arma dei Carabinieri.

Per gran parte dell'esistenza ho avuto due sole passioni: il mestiere di carabiniere e mia moglie Amina.

Nel 2082, quando lei è morta, mi sono sentito troppo vecchio per l'Arma. Così sono tornato alla solitudine ventosa di quest'isola e ho scoperto la passione per la pittura, la stessa coltivata da Amina. Ma l'ho fatto solo per il bisogno, forse patetico, di vedere il mondo per conto di occhi che non potevano più farlo. Chi ama, capirà...

Questa zona di Pantelleria è ancora più o meno come quando ero bambino, forse perché si trova a poche decine di metri dal cimitero dei migranti clandestini dove, all'epoca dei grandi sbarchi, hanno trovato pace i tanti disgraziati ripescati nelle acque territoriali della Confederazione Italiana. Provenivano quasi tutti da Libia, Tunisia, Marocco, Egitto, dove le grandi rivolte del 2011 e le successive guerre per l'acqua e il grano hanno fatto milioni di vittime e almeno il doppio di profughi.

Quando mi ritirai a vivere su questo scoglio perso nel mare di fronte all'Africa avevo cinquantanove anni e non mi rimaneva più nulla a parte qualche ricordo, la convinzione di aver sempre fatto il mio dovere e alcuni amici, primo fra tutti Sandro Zac, un dandy un po' folle, con una gran barba bianca e l'aria da pessimo babbo natale.

Sandro è più giovane di me di alcuni anni e siamo diversi in tutto. Lui è alto e allampanato, io sono rotondo e tarchiato. Lui è di pelle chiarissima, io scura. Lui cammina appoggiandosi a un antico bastone col pomo d'argento e l'anima d'acciaio, una lunga lama che usa con una certa destrezza; io resto fedele al mio vecchio laser d'ordinanza. Lui ha due amori grandi, turbinosi e impegnativi, la letteratura e le belle donne; io ne ho due molto più tranquilli, la cucina pantesca e la pittura.

Ci accomunano la brama di giustizia, il piacere dell'avventura e la passione per la pesca in mare. Inoltre Sandro è un ottimo conversatore ed è di grande appetito, il che controbilancia i miei lunghi silenzi e solletica il mio orgoglio di cuoco.

A chi obietta che tutto questo non è molto, rispondo che non è neppure poco.

E poi, se non gli sta bene, che vada a farsi fottere!


Da come la vedo io, molti guai del mondo cominciarono alla fine del secolo scorso quando gli Stati Uniti d'America, gelosi della propria leadership, invece di fare sistema con l'Europa decisero di ostacolarne la crescita politica, complici alcuni governi europei asserviti a quel disegno.

Nello stesso periodo, per non mettere in discussione il loro tenore di vita, gli USA e i loro alleati scelsero cinicamente di fare a pezzi qualunque piccolo Stato avesse risorse energetiche e minerarie da rapinare. Ma si guardarono bene dal ridisegnare il proprio modello di sviluppo o di mettere freno alla temeraria voracità della grande finanza.

E così, dopo alcune crisi economiche sempre più gravi e altrettanti salvataggi sempre più onerosi, nel 2016, sette anni prima che io nascessi, ci fu il collasso dell'Occidente, già sopravanzato nella crescita da Cina e India e poi fiaccato militarmente dai troppi anni di guerra a quello che allora si chiamava terrorismo globale e solo più tardi si capì essere l'esplosiva mistura della miseria dei tanti con l'avidità dei pochi.

Due o tre anni prima della mia nascita l'incremento dei rivolgimenti ecologici e climatici dovuti all'effetto serra, all'incipiente inversione dei poli magnetici della Terra e a un'abnorme attività solare, determinarono il rapido mutamento di flusso delle grandi correnti oceaniche e l'accelerazione del processo di scioglimento delle calotte polari; cosa che cominciò a fare innalzare rapidamente il livello dei mari e a sconvolgere ulteriormente il clima e il disegno delle coste.

Nel 2028 ci fu il disastro della vecchia centrale atomica di San Simeon, a nord di Los Angeles, costruita con leggerezza a poche decine di miglia dall'intersezione tra le faglie di San Andreas, di Owens Valley e di Garlock. E molti scienziati attribuirono a tale evento parte della responsabilità del famigerato Big One, il terremoto che mesi dopo trasformò il sud della California in un arcipelago di isole quasi disabitate.

Nel 2040, l'anno in cui m'arruolai nell'Arma, molte nazioni costiere e insulari erano quasi scomparse e una larga fascia della parte emersa del pianeta era diventata una sterminata palude salmastra. Il tutto aggravato dai disastri provocati dalle centrali nucleari costruite lungo le coste per necessità d'acqua.

Nel 2053, l'anno in cui da intendente mi fu assegnato il primo comando di stazione, il livello del Mediterraneo era già salito al punto che il territorio italiano s'era ridotto a tre grandi arcipelaghi.

A nord nacque la Repubblica Padana, composta da alcune isole e da un susseguirsi di terre aspre e nebbiose collegate al vecchio continente da ciò che resta degli antichi trafori alpini e al resto della Confederazione Italiana dall'immensa Laguna Adriatica.

A partire dal lato sud della laguna, dove s'affaccia l'Isola Appenninica, sorse la Repubblica dell'Arcipelago Centrale.

Ancora più a sud fu fondata la Repubblica delle Isole Meridionali: Calabria, Sicilia, Sardegna e le altre isole dal Golfo di Napoli in giù. La capitale è Mazara del Vallo, il porto più grande e attivo del Mediterraneo sud occidentale.

Nel resto d'Europa e nel continente americano, intanto, una lunga serie di guerre locali ha visto nascere e morire numerosi piccoli Stati. E a New York hanno fatto la mesta fine dei ghiacci polari anche le Nazioni Unite.

In tale caos Russia, Cina, India e altri stati minori dell'Asia Centrale si sono federati col nome di United Regions of Asia, un gigante divenuto subito leader mondiale. Ad esso si è parzialmente contrapposto solo la SAC, South America Confederation, che raggruppa l'America Latina e gli stati dell'area caraibica. Mentre altri padroni del mondo risiedono a Lunacity, la colonia lunare fondata per sfruttare le risorse minerarie di lassù. Tra loro ci sono molti rappresentanti della Confederazione Mondiale dei Trivellatori: un covo di banditi.

Ah, dimenticavo. Anzi no, volevo dimenticare.

Fino all'anno scorso nelle zone temperate dell'Atlantico navigava New World, una sterminata piattaforma galleggiante sede privilegiata del potere economico mondiale. Ad essa facevano capo quasi tutte le grandi holding, leader nella produzione delle più avanzate e remunerative tecnologie genetiche e informatiche.

L'indipendenza e la leadership di New World erano garantite e protette dallo Scudo, un sistema di satelliti armati di laser, con smisurate capacità di controllo del territorio e della Rete. Lo Scudo apparteneva agli oligarchi di New World, ai quali faceva capo anche il 60% della ricchezza mondiale.

Ne parlo al passato perché oggi New World non esiste più. E, per quanto possa apparire incredibile dato il nulla che sono, devo confessare con orgoglio di aver avuto qualche parte nella sua distruzione.

Anzi, il motivo principale del racconto che vado tracciando su carta, alla maniera antica, affinché sfugga a ogni residua forma di controllo elettronico del mondo, è proprio il bisogno di capire chi o cosa abbia guidato i miei passi fino a quella terribile notte di un anno fa.

Al momento, l'unico elemento chiaro è che tutto cominciò il 21 luglio dell'anno precedente quando, come ogni estate, io e Sandro Zac c'incontrammo al Troian Resort per la consueta settimana di vacanze.

Quella stessa notte qualcuno a cui tenevo molto mi chiese di svolgere una piccola indagine. E subito ci furono morti, complotti, inganni.

Poi niente, ma proprio niente, fu come prima...

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Pagina 71

Accanto all'ascensore troviamo Cassandra. Sta piangendo.

«Non era la morte di voi due che ho visto» mi fa «ma quella di Kim, del mio Kim. Mi hanno detto che è stato mandato in manutenzione, ma temo che sia stato ritirato. Non lo rivedrò più!».

Le sfugge un gemito di dolore. Prima che qualche ospite del Troian si affacci sulla soglia della propria camera per vedere cosa accade, io e Sandro la prendiamo sottobraccio e la portiamo nella mia stanza. Poi blocchiamo la porta con una sedia.

«Cassandra, sappiamo della tratta di umani costretti a fingersi biorobot per sopravvivere. Si calmi e ci dica quello che sa».

Sospira, un po' sollevata.

«È vero, sono umana e anche Kim lo è».

«Tutti i biorobot del Troian lo sono?» domanda Sandro.

«Quasi tutti».

«Come diavolo è possibile mandare in manutenzione un essere umano, o peggio ritirarlo?».

Sandro ha visto con me la testimonianza olo di Testoridés e sa già la risposta, ma non ci vuole credere. E neppure io.

«Qui, ogni mancanza è punita con la manutenzione» risponde Cassandra il cui nome era certamente un altro, quando aveva ancora una famiglia e una terra d'origine e non era stata declassata a mero strumento di lavoro. «La manutenzione consiste nella detenzione più o meno lunga in una cella che si trova sotto le cantine. Senza luce, senz'aria. Un inferno che rende dementi e ha spinto un paio di noi al suicidio. Il ritiro è la morte, naturalmente».

È la seconda volta in pochissimo tempo che sento parlare di questo orrore e continuo a non volerci credere. Succede perché penso che il mondo sia migliore di quello che è, o perché c'è di mezzo Heléna che in un giorno diverso da questo mi ha nominato maestro dei suoi brutti momenti?

«Che colpa avrebbe commesso Kim per meritare la morte?».

Ho la bocca impastata di disgusto e pena.

Cassandra pensa al suo uomo e alle inutili discussioni affrontate per convincerlo a desistere dai suoi piani.

«Ha messo lui la Phoneutria nel comodino del cuoco, ma non intendeva ucciderlo. Voleva solo attirare la vostra attenzione su quanto succede qui dentro, invitarvi a indagare senza essere costretto a scoprirsi».

«L'idea non era sbagliata» mi fa Sandro meditabondo. «Tant'è vero che la stessa Heléna ti ha chiesto d'investigare».

Ho uno scatto di rabbia.

«Accidenti, Sandro, lei non mi ha chiesto d'indagare; mi ha chiesto di farle da testimone, anzi da garante, nei confronti di Schneider! Voleva dalla sua parte la mia rispettabilità di ex carabiniere. Sapeva già chi aveva organizzato lo scherzo del ragno, o almeno lo sospettava. E, appena ha potuto, ha messo Kim in "manutenzione"». Mi rivolgo a Cassandra. «Dove si trova questa cella?».

Risponde in un soffio.

«Mi ci hanno rinchiusa, una volta. Si passa dal magazzino viveri».

«Ci porti lì. Se Kim è ancora vivo, lo tireremo fuori».

«La cella è sorvegliata da gente armata!».

«Anche noi lo siamo» dico mostrandole il laser.

Non mi sembra necessario aggiungere che spero di trovare nello stesso posto anche Testoridés.

Per non dare nell'occhio raggiungiamo il magazzino dei viveri ciascuno per proprio conto. È buio, non c'è nessuno. Cassandra va verso la parete di fondo, a non più di un metro da dove si trovavano i corpi di Alexandra e del cuoco. Spinge di lato un armadio di ferro che scorre silenzioso su ruote di gomma e appare un vano scuro, con scale che vanno giù.

Armo il laser e faccio cenno a Sandro e alla donna di seguirmi.

Una ventina di gradini più in basso c'è un corridoio. È umido, freddo, ed è illuminato da un unico, flebile punto luce.

In fondo, davanti a una porta blindata, ci sono due uomini armati. Stanno parlando tra loro e, quando mi sporgo oltre l'angolo, non mi notano.

È impossibile coglierli di sorpresa, a meno di fare fuoco da dove mi trovo; ma quattro decenni e più nell'Arma non sono passati inutilmente. Mi ripugna uccidere, se posso evitarlo.

Sto ancora pensando a come agire quando Sandro mi scansa con una gomitata e, prima che possa impedirglielo, si avvia verso i due trascinando più del consueto la gamba offesa e facendo sì che il bastone risuoni forte nel silenzio. Non posso vedere la sua faccia, ma riesco a immaginarla: il maledetto pazzo sorride!

«Scusate, signori» lo sento esclamare con voce insolitamente mite. «Questo albergo è un labirinto, mi ci sono perso. È qui il bagno dei portatori di handicap?».

I due lo guardano sbalorditi. Lui viaggia verso di loro a velocità crescente. Immagino che abbia intenzione di distrarli per darmi modo d'intervenire e mi tengo pronto.

Invece va tutto storto.

La porta blindata si spalanca e ne esce Heléna. Ha in mano un laser e lo punta contro il petto di Sandro.

«Lei è un rompiscatole, signor Zac» sibila. «Ho ragione a trovarla insopportabile!».

Dal rumore del bastone sul pavimento mi rendo conto che Sandro non rallenta. Quando non lo sento più, capisco che è fermo di fronte ai tre. Probabilmente è tra me e loro, sulla linea di fuoco.

Questa considerazione e la voce di Heléna mi dissuadono dall'agire.

«Dov'è il suo amico Rizzitano, signor Zac? Se lei è qui, non può essere lontano. Un dongiovanni incallito come lei è più portato a sedurre giovani donne ingenue che a prendere iniziative, diciamo così... azzardate!». Il tono di voce si fa alto canzonatorio. «Venga avanti, intendente. Non mi costringa a far del male al suo insopportabile sodale barbuto».

Non ho scelta. Faccio cenno a Cassandra di tornare su per cercare aiuto, infilo il laser nella cintura dietro le reni e scendo gli ultimi due gradini con le mani alzate. Giro l'angolo. Avevo ragione: Sandro è tra me, Heléna e i due uomini. Non avrei potuto fare fuoco senza rischiare di ucciderlo.

«Sono disarmato, Heléna, arrivo».

Vado verso il gruppetto.

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Pagina 75

La direttrice del Troian mi accoglie con un sorriso di scherno.

«Faccia il bravo come al solito e se la caverà senza danni». Quando la raggiungo, abbassa leggermente l'arma. «Che ci fa quaggiù? Come ha fatto a scoprire questo posto?».

Evito di rispondere e cerco di assumere un'espressione paterna.

«Perché non mi dice cosa succede, Heléna? È in difficoltà?».

Sono a un passo da lei. Potrei disarmarla, ma avrei subito addosso i suoi tirapiedi. Devo distrarli, o almeno impedire loro di ragionare con lucidità. Spero che Sandro non faccia ancora di testa sua.

Giocherò la carta della più patetica gelosia.

«Lei nasconde troppe cose al suo maestro dei brutti momenti, sa?». Mi guarda con curiosità. «Perché non mi ha detto di lei e di Testoridés? Una donna così bella, così gentile, tra le mani di un tipo così... dozzinale. Che pena! Che delusione!».

Ho gli occhi lucidi: sono bravo a recitare o sto male davvero?

I due armati ghignano divertiti. Heléna è vagamente imbarazzata. La punta del suo laser è rivolta verso il pavimento.

«La mia vita privata è solo mia, intendente. Lei non ha diritto di...».

La interrompo con foga imbarazzata. E imbarazzante.

«Ha ragione, ha ragione: la sua vita è solo sua. Ma lei mi ha chiesto d'indagare sulla morte della ragazza e del cuoco. Mi ha chiesto di cavarla da un altro brutto momento, insomma, senza dirmi che Alexandra era un suo clone... sua figlia, in parole d'una volta. Non è irrilevante, sa? E ha omesso di dirmi che le due vittime erano a poco più di un metro dall'ingresso di questo scantinato. Perché sono state uccise proprio lì? Perché erano insieme? Cosa stavano facendo?».

Sandro poggia la schiena al muro, dalla parte di Heléna. Si sorregge al bastone da passeggio e finge di volersi godere la scena, che Dio lo stramaledica.

«Non so che risponderle, intendente. L'investigatore è lei, è lei che deve dire com'è andata».

«È giusto. Secondo me Alexandra e Gabriel sono morti a pochi minuti l'una dall'altro e i moventi dei due omicidi non sono gli stessi. Sa, Heléna, dicono che un clone sia più di un figlio: è una nostra replica, è noi stessi... Com'è possibile che ci tradisca? Com'è possibile che pretenda di avere vita propria, assumendo decisioni autonome?».

Sandro e i due uomini ascoltano con attenzione. Heléna mi guarda torva. La direzione è giusta.

«Ha mandato Alexandra dal mio amico Sandro, l'insopportabile signor Zac, perché lo drogasse con il pretesto di un incontro galante. Poi avrebbe dovuto cercare nella stanza qualcosa che Testoridés, suo amante, ci aveva nascosto un paio di giorni prima. Ma che fa, il clone? Disobbedisce! Prende iniziative sgradite, sgradevoli! Si permette di fare sesso con lo stesso odioso personaggio a cui lei, Heléna, non sfiorerebbe neanche la mano per un saluto. E l'aspetto peggiore è che sono le sue cellule, la sua carne, a fare ciò che le dà il voltastomaco: Com'è possibile? Che razza di clone è Alexandra? E poi, come se non bastasse, la puttanella afferma di non aver trovato niente nella stanza 2104. Difficile non sospettare che abbia addirittura dimenticato il perché è stata mandata là dentro!».

Heléna è livida.

Per quanta pena mi costi, insisto.

«A lei, pur essendo l'immagine della femminilità trionfante, non è mai capitato di perdere la testa per un uomo, vero Heléna? Lei va a letto solo con chi le serve, magari turandosi il naso per lo schifo. Povero Testoridés, chi sa se l'ha mai notato». Mi volto verso Sandro. «Che direbbe il tuo amico poeta, eh?».

Le dita strette sul bastone hanno le nocche bianche. Quando parla, la sua voce tremante cita versi di Seferis che non ho mai sentito prima ma sono più che adatti alla circostanza.

«... sentire arrivare messaggeri / con la nuova che tanto travaglio, tante vite / son finiti nel baratro / per una spoglia vuota, per un'Elena...».

«Ecco, sì» incalzo. «Lei, Heléna, è una spoglia vuota. Però Alexandra non lo era. Era una ragazza vera, viva, persino capace di dare un po' d'amore a un impenitente, un po' patetico, dongiovanni! A quel punto c'era da scegliere: o lei riconosceva di aver smarrito qualcosa di sé lungo la via, chi sa quando, o Alexandra era un errore genetico da cancellare a coltellate. Tante coltellate! Il sangue e il dolore degli altri non hanno mai contato molto per lei, vero? L'importante è che niente metta in discussione l'immagine che ha di se stessa... Con il cuoco, invece, le cose sono andate diversamente. Risultava che fosse un agente sotto copertura. Adesso questo agente poteva aver scoperto che fine lei aveva fatto fare al suo amante. Perciò lo ha ucciso; tuttavia la morte era, come dire, un atto dovuto, perciò si è limitata a un unico colpo di pugnale, a sorpresa. Come vede, Heléna, resta aperto un solo interrogativo: Testoridés!».

Sogghigna, con falsa benevolenza.

«Povero amico, lei farnetica! Colpa dell'età, lo capisco. Tuttavia non ho ucciso la cameriera né il cuoco i quali, per quanto ne so, erano e restano tali... Alexandra, un mio clone! Si può sapere chi le ha messo in testa una sciocchezza simile?».

So che ciò che sto per dire può essere la mia condanna a morte, ma non resisto alla tentazione.

«Ho letto i microchip d'identità di quei poveretti, Heléna! Li ho tolti ai cadaveri, li ho decrittati e li ho consegnati all'intendente Schneider. Dunque anche i carabinieri sanno la verità, su di loro. Per il resto, mi permetta di insistere: lei ha ucciso entrambi».

Più che spaventata Heléna sembra esasperata, quasi avesse a che fare con un bambino cocciuto e indisponente.

«Andiamo, intendente, che prove ha per le sue sciocchezze senili?».

Ho la testimonianza olo di Testoridés, una prova valida in qualunque tribunale, ma lei non lo sa. Invece di dirglielo, gioco la carta dei nervi.

«Kim, mi sente?» urlo verso la porta chiusa alle spalle di Heléna. «So che è là dentro e so che non è un biorobot. Lo stratagemma del ragno ha funzionato. I carabinieri sanno tutto. Tra poco saranno qui e la libereranno!».

«Fatemi uscire, maledetti!» urla Kim da dietro l'uscio metallico. «Sono umano come e più di voi».

Heléna mi preme il laser sul petto.

«Mi dispiace, sa troppo per continuare a vivere».

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Pantelleria, 18 giugno 2085


Dicono che poco prima della mia nascita il tragitto Roma-Pantelleria si coprisse in un'ora di aereo. Non stento a crederci, ma da allora sono cambiate tante cose. L'Italia era ancora una penisola che si poteva percorrere tutta in automobile ed era un unico paese, tra i più ricchi e avanzati del mondo. Ora i voli aerei sono rarissimi, le automobili a benzina si vedono solo nei musei e quel che resta dell'Italia, dopo l'innalzamento del livello del mare e il collasso dell'Unione Europea, è una confederazione di tre arcipelaghi sovrappopolati, scarni e montuosi.

Molto è cambiato in peggio, insomma, ed è andata così anche nel Canale di Sicilia, dove ai migranti di qualche decennio fa si sono sostituiti i pirati con barche veloci, ben attrezzate e meglio armate. Barche che ingannano la sorveglianza satellitare perché sembrano battelli da pesca, ma colpiscono rapide, letali. E il più delle volte non si lasciano dietro alcun testimone.

È per timore di tutto ciò che non chiudo occhio da due giorni e sono sulla banchina del traghetto in arrivo da Mazara un'ora prima del dovuto. Perché a bordo, stavolta, c'è Sandro che non ama il mare e odia le attese nei porti, le dogane, i controlli, eppure viaggia da quattro giorni per raggiungermi a Pantelleria; così me ne sento responsabile.

Se fosse per lui, non lascerebbe mai la sua casa con vista sulla cupola trasparente che protegge il Colosseo dalla palude salata in mezzo alla quale si trova; ma poi curiosità e cuore sono più forti della pigrizia... e parte.

Sandro è meno pessimista di me, circa il futuro; forse perché non è un ex carabiniere immalinconito dalle brutture con cui ha avuto a che fare. Così accetta quello che ha e cerca di ricavarne il meglio. La cui essenza, secondo lui, sono belle donne, buone chiacchiere e cibo saporito. C'è anche la letteratura, naturalmente, ma quella, dice lui, è un piacere solitario. Onanismo di testa...

Mentre aspetto sotto il sole bollente, lo immagino che guarda Pantelleria ingrandire a vista d'occhio man mano che il traghetto le va incontro. È un'isola piccola, la mia, poco più di uno scoglio dorato e puntuto in mezzo al mare. Ma da incallito amante della letteratura, che ama forse più dei nostri intrighi polizieschi, non credo che in questo momento Sandro possa fare a meno di ripensare al primo canto dell' Odissea, quello in cui Minerva implora Giove di avere pietà di Ulisse prigioniero della ninfa Calipso nell'Isola di Ogigia.

Dalle nostre parti si crede che l'isola di Calipso, l'Ogigia di Omero, sia Pantelleria e che la cima della Montagna Grande, ora non più nera di selve come ai tempi omerici, sia la più alta di questo tratto di mare. Peccato che tutte le grotte antiche, fra cui quella della mitica ninfa, oggi siano sotto metri d'acqua; sicché anche lei, probabilmente, è intrappolata sotto il mare, da qualche parte.

L'Africa del Nord e il suo inferno di calura sono più vicini a Pantelleria che alle coste siciliane. Nonostante la brezza che increspa la superficie dell'acqua, fa molto caldo. Mi asciugo la fronte sudata, strizzo gli occhi e ammiro, alle mie spalle il vecchio castello semisommerso dal mare e le case del paese, piccole e bianche, tutte raccolte attorno al porto nuovo.

L'olopad vibra. È Sandro. La sua immagine è nitida. Sorride.

«Ti aspetto sul molo già da un po'» dico. «Guarda che non sei una bella donna, cerca di non prendertela comoda a sbarcare. Qui fa un caldo infernale».

«A proposito di femmine, come va lì? Si rimedia?».

«Alla mia età e alla tua, che vuoi rimediare?».

«Parla per te, io sono un dandy della vecchia scuola!» risponde lisciandosi la candida barba da filosofo.

Mezz'ora dopo le sue incredibili scarpe bicolori e il suo inseparabile bastone da passeggio calcano la terraferma.

«Com'è andato il viaggio?» domando abbracciandolo.

«Sei ingrassato, eh?» dice invece di rispondere.

Vero, sono appesantito. Tuttavia sono sempre stato un po' rotondo. Sono uno con un aspetto tranquillo.

«La traversata è stata un mortorio» prosegue Sandro senza attendere una risposta che sa non arriverebbe mai. «A bordo c'erano solo vecchiacce».

«Non era quello che intendevo».

«Lo so cosa intendevi... Come vuoi che sia andata? Sai che detesto il mare e che odio viaggiare».

Sorride di nuovo. I baffi bianchi s'inarcano verso l'alto. Sulla pelle attorno agli occhi si moltiplicano le rughe.

«So che non ti piace muoverti da Roma» rispondo. Poi aggiungo ghignando: «E so che sei venuto fin qui solo perché mi sei affezionato».

«Non t'illudere, non sei il mio tipo!».

Ridacchio a mia volta, afferro la sua borsa da viaggio e lo guido verso il mio sgangherato veicolo a idrogeno. Avrà almeno trent'anni, il trabiccolo, e io stesso non capisco perché continui a fare il suo lavoro; ma lo fa e si muove silenzioso e veloce lungo la strada che è piuttosto trafficata. Sandro si rende conto che sto usando la guida manuale.

«Coraggio, non ci vorrà molto» dico notando la sua espressione preoccupata. «Abito all'altro estremo dell'isola che, da quando il mare s'è alzato di livello, è anche più piccola di prima. Una decina di minuti e saremo a casa».

Non risponde. Sta ammirando il nostro paesaggio senza tempo, immerso in una luce abbacinante.

Qui, in effetti, i segni del passato progresso e dell'attuale declino del mondo sono pochi. L'energia necessaria all'isola viene da un sistema sottomarino che sfrutta correnti e maree e in cima a Montagna Grande c'è un ripetitore per olopad, ma per il resto quasi tutte le case rispettano l'antica architettura locale e così anche i giardini, delimitati da alti muri a secco di forma circolare o quadrangolare al cui interno si coltivano agrumi, olivi, viti. Una vera ricchezza, di questi tempi!

Qualche edificio d'acciaio e vetro atermico, con il giardino sul tetto per mitigare il calore, c'è, naturalmente, ma non da questa parte dell'isola.

Alla nostra destra, alcuni metri più in basso, il mare scintilla di luce azzurra.

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Pagina 93

Dieci minuti passano in fretta.

La facciata principale del mio dammuso guarda la Tunisia. Entriamo. Accanto alla finestra da cui si vede Capo Mustafà c'è una vecchia poltrona con la seduta e il poggiatesta lisi. È il mio angolo preferito. Ci passo ore e ore a guardare la striscia di terra da cui salpò la barca di migranti con mia madre incinta, e forse anche mio padre.

Sul pavimento c'è un tappeto rosso a disegni geometrici. A terra, contro i muri bianchi di calce, sono poggiati alcuni dipinti su tela, roba a cui nessun serio artista osa applicarsi da almeno cinquant'anni. I pochi mobili sono di buon, vecchio legno. Roba di lusso, in fondo.

La cucina è piccola. Ci sono un lavello di pietra, un frigorifero e una piastra elettrica alimentati dal pannello solare che ho sul tetto. Sulla piastra, spenta, c'è una casseruola protetta da un coperchio. Tutto è in ordine, pulito, ma solo ora m'accorgo che si sente un effluvio a cui io sono abituato ma che Sandro giudicherà insolito: un misto di cibo in cottura e di acqua ragia.

«Cos'è questo strano odore?» chiede infatti.

Sorrido con un po' d'imbarazzo.

«Ci conosciamo da molti anni, eppure ci sono cose di me che non sai. Mia moglie Amina era una brava cuoca; quando è morta, per un po' sono andato avanti nutrendomi malissimo. Poi ho deciso che dovevo prendermi cura del mio stomaco e ho imparato a cucinare. Non bene come Amina, ma insomma... Ti ho preparato una specialità isolana: coniglio ai capperi, un piatto che ormai è quasi impossibile assaggiare fuori Pantelleria. Capirai, un coniglio vero è roba proibita dalla legge federale sugli alimenti per uso umano... ma in un piccolo posto come questo, dove tutti si conoscono, sono possibili cose impensabili nelle isole maggiori, nell'Arcipelago Centrale, o peggio in Padania».

«Coniglio? Perché no, non l'ho mai mangiato. E l'altro odore cos'è?».

Senza rispondere, lo precedo nella stanza in fondo al soggiorno. Lui entra, si guarda attorno e trasecola. È tutta bianca, ha la volta a cupola. Al centro ci sono un cavalletto con sopra una tela bianca di medie dimensioni. Accanto c'è un piccolo tavolo laccato di bianco con sopra alcuni barattoli di vetro pieni di polveri colorate, un vaso di terracotta traboccante di pennelli e due vasetti di vetro a chiusura ermetica, contenenti trementina e olio di lino per belle arti.

«Uno studio di pittura alla maniera antica» borbotta sorpreso «e colori da stendere a mano sulla tela! Ma questa roba non la usa più nessuno. Ci sono altri strumenti, più attuali. A chi interessa fare o guardare un'arte così antiquata?».

«A me». L'ho detto in tono quasi offeso. Me ne accorgo e mi sforzo di cambiare registro. «Ad Amina piaceva dipingere paesaggi e figure. Amava gli impressionisti francesi, soprattutto Monet: sai chi era?».

«Sì, certo, anche se la storia delle arti figurative non è una mia passione».

Pur non volendo, sulle labbra mi si disegna una smorfia.

«Già, in un mondo in cui nessuno ha più voglia di occuparsi della differenza tra uomini, cloni, androidi e robot, a chi vuoi che interessi dedicare tempo a un riflesso sull'acqua o a un bagliore di luce tra le foglie di un giardino?». Sandro è a disagio. Detesta essere considerato culturalmente inadeguato. Decido di non preoccuparmene e proseguo: «Amina era nata nel sud della Francia. Da ragazza sognava di diventare pittrice e ha imparato a usare tele e colori come si faceva una volta. Ha dipinto per tutta la vita, appena aveva tempo. I quadri più belli che vedi per casa sono suoi. Quando se n'è andata, ho pensato di usare la pittura per mantenere il legame tra noi». Ho un pensiero improvviso. È un po' macabro, ma lo esprimo lo stesso. «Insomma, ho imparato a guardare il mondo con i suoi occhi. Di', Sandro, sei mai stato gli occhi di qualcuno che non c'è più? Per amore, dico?».

«Né per amore né per altro» risponde turbato.

«Era solo per dire che non ho la pretesa di essere un artista» preciso. «Sono e resto un ex carabiniere. E tuttavia, da quando Amina se n'è andata, se sono stressato, stanco, o semplicemente ho bisogno di riflettere, mollo tutto e mi metto a pasticciare con tele e colori. So di non essere bravo, che credi? E un po' me ne vergogno. Anzi me ne vergogno talmente che, fino a quando sono stato in servizio, l'ho considerato una specie di vizio segreto».

Mi osserva come se l'invincibile Achille gli avesse appena confessato il segreto della propria vulnerabilità.

Alla fine del ventunesimo secolo, dopo tanti decenni di arte virtuale, chi può voler pasticciare ancora con pigmenti tossici? Giusto uno come me, roso dalla nostalgia e dalla solitudine. Questo so che pensa Zac, ma so anche che se ne pente subito perché i poeti che ama lui sono ben più vecchi, anzi antichi, di Monet.

Omero, Saffo, Alceo, Anacreonte: senza i loro versi a Sandro la vita sembrerebbe peggiore. Uno dei suoi poeti preferiti è Omar Khayyâm, che non era greco ma persiano, e, a proposito e a sproposito, me ne recita spesso una quartina che, guarda caso, parla di un giardino: «Ogni mattina, quando il volto del tulipano gocciola rugiada / E l'esile vita della viola sul prato si piega a un inchino, / Davvero m'allieta vedere il virgineo bocciolo / Avvolgersi stretto nel manto colorato di rosa».

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Martinengo ha proibito a Sandro di scendere dal veicolo, così andiamo alla tomba io, il dottore, Clara, Scarlino e Valérie.

Il posto è segnato da una lastra di marmo situata ai piedi del sedile e nascosta da un mucchio di foglie secche accatastate lì, credo, da Santa Calì. Sull'esterno c'è inciso il nome di Tecla Olivares. L'interno è decorato con il bassorilievo di un uccello fiammeggiante ad ali spiegate.

«Ecco la fenice e il suo nido» dico ai miei compagni.

Accanto al contenitore delle ceneri della defunta ce n'è un altro d'acciaio, a tenuta stagna. Contiene uno dei primi registratori olopad, un antiquato lettore ottico grande quanto una pistola laser e un gioiello di ossidiana rotondo, perfettamente levigato, che pende da una catenina d'oro.

Clara dice d'avere notato il gioiello in certe immagini di casa, al collo di Tecla Olivares. Scarlino capisce che le sue striature somigliano a un codice a barre e l'accosta subito al lettore. Il contatto attiva l'olopad.

Appare un vecchio, lo stesso delle mie confuse reminiscenze infantili. Dice di essere Guillermo Ortega, dunque è il marito di Tecla Olivares e il padre del defunto governatore. Guarda fisso davanti a sé e parla del suo proposito di risollevare l'umanità dal degrado in cui l'hanno precipitata la smemoratezza dei singoli, la sconsideratezza delle collettività nazionali, l'avidità delle multinazionali e l'impotenza degli organismi politici sovranazionali.

Poi parla di New World che è stato appena varato; dello Scudo che può gestirlo al meglio; e dei Figli della Fenice, il progetto genetico con cui si è proposto di gettare le basi per una nuova razza umana. Il genoma di partenza è suo, dice. Ma immagino che quello del figlio Álvaro abbia a che fare con Valérie e con i suoi dodici fratelli. E immagino anche che sia stato Álvaro a trasformare la tomba della madre nel nido della Fenice.

«New World è il più ambizioso disegno d'ingegneria sociale che l'uomo abbia mai concepito» dice poi il vecchio. «Si fonda sulla ricchezza genetica e sul censo elevato dei suoi abitanti, nonché su meditate regole sociali. Gli eccellenti individui imbarcati sull'Arca costruiranno una nuova società tendente a benessere, sicurezza, ordine e concrete prospettive di evoluzione dell'uomo. Perni di questo sistema sono lo Scudo, che tutto regola e protegge, e il Laboratorio Centrale di Biogenetica in grado di alimentare un armonico ricambio generazionale della popolazione. L'obiettivo è ambizioso: come l'Atene di Pericle fu d'esempio per l'antica Grecia, così New World sarà d'ispirazione per il mondo attuale.

«Eppure, se qualcuno oggi ha sentito la necessità di disturbare il riposo della mia amata Tecla, vuol dire che non tutto è andato in maniera conforme alle mie intenzioni e che il disastro, invece di allontanarsi, s'è fatto più vicino.

«Forse ho sottovalutato qualche variabile genetica; forse c'è stato un malfunzionamento dello Scudo; forse è degenerato lo stesso progetto sociale di cui New World è simbolo. Ma, qualunque cosa sia accaduta, dopo il potenziale veleno propinato in buona fede, io e mio figlio consideriamo nostro dovere mettere a disposizione dell'umanità un antidoto efficace.

«E dunque eccolo: ogni Figlio della Fenice, che sia di prima o di ultima generazione, che sia venuto al mondo sotto la mia supervisione o sotto quella di Álvaro, ha tatuato sul braccio sinistro un codice a barre. I numeri sottostanti si riferiscono al singolo individuo ma il codice è identico in tutti...».

Per un attimo penso che Guillermo Ortega è il mio vero padre e che tutto ciò che ho creduto di sapere sulla mia vita è falso. Amarezza e smarrimento mi prendono alla gola. Fatico a respirare. Poi capisco che non c'è tempo per le debolezze e torno ad ascoltare.

«Questo codice attiva un virus informatico che costringe lo Scudo a riformattarsi. So che potrebbe non essere lo Scudo il problema ma esso, in quanto sentinella a guardia dello status quo, sarà comunque d'impedimento a una riforma di New World. Dunque va fermato in via prioritaria. Con un'avvertenza: è possibile che nel periodo trascorso dal momento in cui registro questa comunicazione a quello in cui è visionata, il sistema abbia elaborato autonomamente un antivirus. Se le cose stessero così, l'iniziativa volta a disattivarlo potrebbe essere considerata un attacco e scatenare una reazione di violenza inimmaginabile. Cittadini del futuro, ora che avete la chiave, spetta a voi decidere se e come è meglio usarla».

Fine della comunicazione olo. Silenzio.

Non so a cosa pensino gli altri, io riesco solo a dirmi che sono stato concepito per preparare la strada a Valérie e che tutto ciò che ho fatto e sono stato fin qui è secondario.

«Secondo me» dice Scarlino «quello che è accaduto qui, a Pantelleria, dimostra che lo Scudo sa che Valérie e gli altri bambini fanno parte di un progetto che può danneggiarlo; ma non ne conosce la natura, altrimenti avrebbe dato altri ordini agli androidi e noi non staremmo qui a discuterne. Dunque non sa del virus. Credo che dovremmo usarlo subito, neutralizzando il sistema prima che capisca cosa stiamo per fare e corra ai ripari».

«Hai ragione» convengo mentre i pensieri continuano ad aggrovigliarmisi dentro. Poi mi rivolgo a Valérie. «Hai sentito, piccola? È tutto in mano tua».

Occhidoro mi porge il braccio tatuato.

Io ci appoggio il lettore laser.

Il vecchio olopad s'accende di nuovo.

Sta trasmettendo: comunque vada è tardi per tornare indietro.

Se Sandro fosse con noi, forse ci farebbe notare che lo Scudo è custode e gestore di tutte le biblioteche del mondo e che bloccarlo farà un danno peggiore dell'incendio della Biblioteca di Alessandria. Per cui fra un attimo il suo olopad, come tutti gli altri olopad del mondo, avrà accesso solo ai dati che ha già in memoria o a quelli presenti nelle poche reti locali. Una perdita immensa!

Ma lui non è con noi, così non può dire niente.

Del resto, che scelta abbiamo?

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