Copertina
Autore Marco d'Eramo
Titolo Lo sciamano in elicottero
SottotitoloPer una storia del presente
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1999, Serie Bianca , Isbn 978-88-07-17031-7
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe storia , scienze sociali
PrimaPagina


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Indice


Pag.

  7 Nella notte la Via Lattea abbagliava

    Parte prima

 11 39 tracce per una storia del presente
 13 Il progresso delle taglie
 17 Ma perché si scusano i coccodrilli
 20 Il moderno corre sui pattini
 23 Una fiducia adamantina
 27 Vicino al cassonetto, l'altare
 31 Babele di carta
 34 Lo sciamano in elicottero
 37 Corano, crauti e Kartoffeln
 41 Un eroe di lattina
 45 L'invidia dell'utero, a Osaka
 48 La genesi delle specie
 53 Tutto per una tazza di tè
 57 Futuri di morte
 60 L'avvocato della tribù
 63 La tomba del tesoro
 65 I cancelli del cielo
 71 La lavapiatti del bucaniere
 74 150.000 fortezze assediate
 77 Vincere per un pelo
 81 Il milite noto
 84 A Beirut scorre il Niger
 87 "Prisonfest", o le multinazionali
    delle sbarre
 91 La crociata dei non innocenti
 94 Il potere è una carta bollata
 97 Nobel, i santi laici
100 Un visto al lotto
103 Anche i Saints perdono la pazienza
106 La McDonald's alla griglia
110 Il bidone nigeriano
114 Allah cade in area di rigore
119 I vitaminiaci
122 La pensione del samurai
125 Meta-l-morfosi. Ovvero il signore
    degli anellini
128 Hanno bocciato la scuola
131 Se la vita è tutta uno spray
134 Un nuovo sport di massa - il mobbing
137 Il pisello di Clinton e i
    cittadini-cavia
141 Un iraniano a Tokyo
144 Post scriptum: La storia di Oshin
    (una giapponese a Teheran)
146 Uforia e solitudine

    Parte seconda

151 Un pianeta così piccolo,
    un mondo così grande
153 A Parigi scroscia il Mare del Nord
156   I. Le nuove dimensioni dello spazio.
         In cui smarrirsi
171  II. Un'angoscia del nostro tempo:
         l'identità
186 III. Se la lampada di Aladino si vende
         al supermercato: il problema
         della credulità nel Ventesimo
         secolo

217 Bibliografia
225 Indice analitico


 

 

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Pagina 34

Lo sciamano in elicottero


La loro terra è grande quindici volte l'Italia, eppure rischiano l'estinzione. Abitano regioni nominate solo quando si gioca a Risiko: Yakuzia, Kamchatka. Da nord a sud, nelle sterminate distese della Siberia, spaziano tra la tundra oltre il circolo polare artico e il nord della Cina. Da est a ovest spaziano tra la riva destra dello Jenisei e la costa meridionale del mare di Okhotsk.

Potrebbe essere uno di loro quel pastore errante nell'Asia che tanto aveva colpito Giacomo Leopardi. Si chiamano Evenki e sono nomadi (un po') sedentarizzati dal dominio prima russo e poi sovietico. L'ultimo censimento ne contava 27.500 in Urss. Ve ne sono circa 10.000 nel nord della Cina e in Mongolia. A est della Lena sono stanziati 12.300 even, dello stesso ceppo tungus, di lingua simile, sorta di "cugini". L'economia evenki è presto detta: allevamento di animali da pellicia, magre colture consentite dal clima si aggiungono alle tradizionali caccia, pesca, pastorizia della renna (li chiamano "gli evenki delle renne"): sono loro 45.000 capi, cioè un terzo delle renne del distretto di Krasnojarsk.

(...)

Poi anche sugli evenki e sugli even si abbatté quello che Hobsbawm ha chiamato il "secolo breve'. Fa insieme rabbrividire e sorridere per la disperazione leggere come il potere sovietico cercò d'imporre il comunismo tra una popolazione di pastori erranti dell'Asia. Marx si sarebbe rivoltato nella tomba a vedere i commissari del popolo che instauravano le "brigate familiari' e il "nomadismo produttivo" (sic!). Che ne avrebbero detto lui ed Engels di quella forma di democrazia locale che era il "SOVIET DI CLAN"? Il "soviet", la struttura sociale più avanzata, "postcapitalista", "postmodema", e il "clan" l'aggregazione umana più primitiva, pretribale?

Insieme al potere sovietico arrivò lo sguardo antropologico, lo studio della lingua e del folklore locali: i popoli "civili" hanno l'arte e la storia, gli altri si limitano al folklore e alle tradizioni popolari. Si cominciò a studiare la lingua evenki; per trascliverla, fu introdotto prima l'alfabeto latino (1930) e poi quello cirillico (1937). E fa venire il magone questa storia della lingua evenki. Si tenga conto che a parlarla sono solo 13.000 persone in Siberia e 9000 in Cina e Mongolia (21.000 in tutto). Una manciata di individui, uno striminzito manipolo di umani, secondo i nostri standard. Eppure la loro lingua ha due caratteristiche che stridono con l'esiguità del gruppo che la parla. La prima è la sua straordinaria complessità: l'evenki ha una legge complessa (graded) di armonia vocale quantitativa e qualitativa, è un linguaggio agglutinativo con relazioni grammaticali espresse attraverso aggiunta di suffissi ai temi nominali. La lingua evenki ha un sistema di casi e di coniugazioni verbali altamente sviluppato con gerundi assoluti. Col tempo si sono aggiunti termini presi in prestito dal russo.

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Pagina 48

La genesi della specie


Se su Internet apri il sito riceinfo.rice.edufarmadillo/ Sciacademy/ riggins/ watch.htm, puoi leggervi il seguente argomento: "Okay, così se hai trovato un orologio per terra nel deserto, supporresti mai che si è assemblato spontaneamente da solo a partire dalla sabbia e dalle rocce del deserto? Certo che no", per concludere che la perfezione degli organi animali è tale che qualcuno deve averli creati di propria volontà... Lo stupefacente di questo testo è che, su rete informatica e con tecnologia elettronica, riprende pari pari un tema formulato quasi duecento anni fa con una penna d'oca da William Paley (1802). Paley diceva: "Attraversando una brughiera.. supponiamo che io abbia trovato al suolo un orologio e mi sia stato chiesto in che modo l'orologio si trovi là: non potrei certo pensare [...] che l'orologio stava lì da sempre". Dall'esistenza dell'orologio, diceva Paley, s'induce quella del Grande Orologiaio.

Ancora più stupefacente è che questa tesi non solo sia ripresa da qualche strambo surfista d'Intemet, ma trovi ascolto ortnai tra milioni di americani: a tal punto che dalla frase di Paley il docente di Oxford Richard Dawkins ha tratto il titolo di uno dei più bei libri degli ultimi decenni sulla teoria dell'evoluzione, appunto L'orologiaio cieco. Le idee di Paley sono tanto diffuse che Stephen Jay Gould (darwiniano revisionista e creatore della teoria degli equilibri punteggiati) ha dovuto testimoniare in un processo a Little Rock, Arkansas, a favore di Danwin (!!!): "10 dicembre 1984. Ho trascorso la maggior parte di ieri sul banco dei testimoni tentando di convincere il giudice federale William R. Overton che tutti gli strati geologici della terra non si formarono in conseguenza di un singolo diluvio universale".

(...)

La polemica contro il darwinismo è nata col darwinismo. Le sue implicazioni ideologiche e teologiche apparvero subito così dirompenti da dare origine a quel che ora chiamiamo fondamentalismo. Scrive Fabrizio Tonello nel suo studio sull'estrema destra americana: "Non tutti gli evangelisti sono fondamentalisti: questi ultimi nacquero all'inizio del 1900 come reazione alla pubblicazione, nel 1859, de L'origine delle specie di Darwin e alla teologia progressista che accettava una lettura storica, anziché letterale, della Bibbia. Presero il nome dalla pubblicazione, tra il 1910 e il 1915, dei Fundamentals, un 'manifesto' in 12 volumi".

La tesi dei creazionisti era (è) semplice e chiara: il mondo, con tutte le sue specie, è stato creato da Dio pochi millenni fa, in sei giorni di 24 ore ciascuno, e vi è stato un unico diluvio lungo un anno e i viventi hanno cominciato a morire dopo la cacciata dall'Eden. Ma dopo il cosiddetto "processo delle scimmie" (caso John Scopes), a Dayton nel Tennessee nel 1925, il proselitismo creazionista era andato in crisi.

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Pagina 52

(...)

Vi è però una terza componente, "progressista", che si oppone al darwinismo sociale perché combatte l'idea che nella società debbano vincere i più forti. Gli scienziati ripetono spesso che una cosa è il darwinismo biologico e un'altra è quello sociale. Quando all'inizio degli anni ottanta infuriava la polemica sulla Sociobiologia di E.O. Wilson, anch'io mi stupivo di come la stessa teoria (il darwinismo) avesse due segni opposti e fosse reazionaria se applicata alla società, mentre era progressista nell'ambito naturale. In realtà, leggendo sistematicamente le sue opere, ho scoperto che Charles Darwin era un vero darwinista sociale e che anzi, come egli stesso racconta nell' Autobiografia, delineò per la prima volta nel 1838 la teoria delle specie in ambito biologico proprio riflettendo sul saggio sulla popolazione di Malthus.

D'altronde, in una celebre pagina de L'origine dell'uomo, Darwin scrive quasi il proclama del darwinismo sociale. Egli afferma che 1) la civiltà sta frenando l'evoluzione umana: mentre "nei selvaggi le debolezze del corpo e della mente sono subito eliminate e quelli che sopravvivono mostrano normalmente un vigoroso stato di salute, noi uomini civilizzati facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione; costruiamo asili per pazzi, storpi e malati; istituiamo leggi per i poveri.

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Pagina 53

Tutto per una tazza di tè


(...)

E certo, a sgomitolare la matassa della storia, si viene colti da vertigine di fronte all'arbitrarietà dei destini umani. Una tale valanga di eventi doveva essere avviata da un infuso ancora nel 1600 ignoto agli europei, e ancora molto raro all'inìzio del 1700: il tè. Nel giro di un secolo, questa tisana (che all'inizio era stata trovata insipida) avrebbe scatenato eventi inimmaginabili. Già nel 1786, proprio gettando a mare dal porto di Boston casse di tè, gli americani avrebbero iniziato la loro guerra d'indipendenza.

Un primo mistero sta nell'improvvisa passione degli inglesi per il tè: ancora nel 1700 il caffè era diffusissimo, e in tutti i romanzi del primo Settecento non si vede mai nessuno bere tè: di solito Tom Jones, Moll Flanders, Lady Roxana si scolano chiaretto. Nel 1700 sono importate dalla Cina solo 81 tonnellate di tè. Cinquant'anni dopo, nel 1750, saranno 18.000 tonnellate: il consumo si è moltiplicato per più di 200. E nel 1830 la Cina esporterà 360.000 tonnellate di tè.

Il nodo centrale è che 1) la Cina deteneva il monopolio del tè (le sue sementi erano considerate un segreto nazionale); 2) la Cina non importava quasi nulla dall'Occidente e voleva essere pagata in argento. La Gran Bretagna aveva perciò un forte deficit nel suo commercio con il Celeste Impero. Per pareggiare i conti, gli inglesi cominciarono ad esportare in Cina l'oppio coltivato nel Bengala.

(...)

Mandato a trattare con i barbari, di fronte a un nuovo attacco inglese a Nanchino, il viceré Ch'i Shan accettò le loro condizioni; ma, per aver disonorato la Cina, fu richiamato a Pechino in catene, condannato a morte (e poi graziato). La guerra riprese e il 29 agosto 1842 la Cina capitolò e firmò il trattato di Nanchino con cui pagava agli inglesi un'indennità di 21 milioni di dollari, apriva alle merci occidentali (in pratica l'oppio) i porti di Amoy (Xiamen), Shanghai e Ningho, oltre a quello di Canton, e cedeva l'isola di Hong Kong.

Da allora la vendita di oppio aumentò ininterrottamente: era di 96.000 ceste nel 1873, e alla fine del secolo costituiva il 30% delle importazioni cinesi. Solo nel 1900 la Cina avrebbe prodotto abbastanza oppio da diventare autosufficiente. Ironia della sorte, la guerra dell'oppio era stata combattuta quando gli inglesi erano già riusciti a trafugare le sementi di tè e a trapiantarle in India, dove nel giro di un secolo sarebbe diventata la produzione e la bevanda nazionale.

Da questo percorso labirintico è nata una frenetica città su quello che era uno scoglio semideserto di pescatori, pirati e contrabbandieri. Una città fondata dal (e sul) duplice razzismo tra cinesi e inglesi. La separazione è tale che oggi a Hong Kong si parla molto meno inglese di quanto si parli non dico in India, ma persino a Singapore. Un razzismo curiosamente alimentato dagli stessi commerci: per trattare, cinesi e inglesi parlavano una lingua franca, il piggin, costituita da vocaboli inglesi, indiani, portoghesi in una sintassi di tipo cinese. Questa lingua risultava primitiva, barbara e infantile agli uni e agli altri, e non consentiva di comunicare né idee né sentimenti, ma solo prezzi e merci.

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Pagina 57

Futuri di morte


Death futures li chiamano nel mondo della finanza, anche se gli agenti del settore li definiscono "viatici". "Futuri di morte", proprio come alla borsa di Chicago si contrattano i futures agricoli, di grano, legno, zucchero, vitelli... E proprio come sui futures suini, anche su quelli di morte, si specula, al ribasso o al rialzo.

Ma cosa sono questi death futures, o viatici che dir si voglia? "Viatico", precisano i dépliant illustrativi delle agenzie, era nell'antica Roma il denaro e lo la provvista fornita al funzionario in partenza per un viaggio. Oggi indica l'anticipo pagato a un malato terminale sulla sua polizza vita. Il malato terminale che si vende la polizza è chiamato "viator", l'accordo è detto patto viatical, da cui il nome del settore: "Viatical industry". Naturalmente l'agente anticipa meno del valore nominale, una somma tra il 40 e l'80% della polizza. Quando poi il "viator" muore, il compratore incassa il 100% del premio e guadagna tutta la differenza. Il rendimento sarà quindi tanto più alto, quanto prima il malato morirà. Come dice conciso un altro dépliant, "minore la speranza di vita dell'assicurato, maggiore l'offerta per il viatico". I viatici più alti vanno ai malati terminali con speranza di vita di sei mesi. In Italia speculazioni simili sono attuate con metodi (letteralmente) più caserecci perché riguardano gli appartamenti posseduti da vecchietti. Si compra la nuda proprietà dell'abitazione lasciando loro l'usuftutto a vita.

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Pagina 65

I cancelli del cielo


Il 26 marzo 1997, in una villa nei sobborghi di San Diego (Califomia), tra bougainville e palme, sull'Oceano Pacifico, furono trovati 39 cadaveri, 22 donne e 17 uomini, la maggior parte giovani tra i 22 e i 30 anni. Era l'ultimo di uno dei suicidi di massa, delle tragedie collettive legate a credi religiosi, che hanno costellato gli anni finali del millennio.

Non sapremo mai cosa sarà passato per la mente a questi 39 umani nel momento del loro perire. Certo è che appena poche ore dopo essere stati ritrovati, erano già diventati la leggenda del villaggio, quello globale e mediatico che è il nostro pianeta. La villa miliardaria, per di più in California, in cui vivevano; il lenzuolo triangolare color porpora di cui si erano coperti viso e petto; tutti in pantaloni neri e nere scarpe da tennis, sdraiati con le mani accanto al corpo, senza segni di armi da fuoco né odore di gas. C'era il pittoresco. C'era il mistery. C'era l'horror.

E c'era anche la fantascienza. In un dramma moderno, e californiano, non poteva mancare Internet. Questo gruppo di persone si guadagnava infatti da vivere (più che decentemente, tanto da poter pagare 10.000 dollari d'affitto per la loro bella villa con piscina e campo da tennis) disegnando e programmando siti Web su Intemet, assicurandone la protezione e i servizi collaterali. Il nome della loro ditta di servizi informatici era Higher Source ("la sorgente più alta"). Subito i mass-media sottolinearono indignati, sbigottiti, che questa comunità disponeva, mio dio, di un "sito" Internet. Per tv e giornali, questo gruppo era diventato una setta, e per di più una setta esoterica/tecnologica, di "adoratori del computer". Come se nel 1920 un gruppo fosse stato deriso per aver varato un'agenzia di servizi telefonici. Decisamente qualcosa di satanico. Quando invece, dalle descrizioni di chi li aveva conosciuti, sembrava che somigliassero piuttosto ai personaggi nerds dei Microservi di Douglas Coupland: una quieta, sommessa depressione, una solitudine sussurrata e minimalista.

E così la morte di questi programmatori di computer, come ogni altro suicidio collettivo, suscita due ordini di problemi. Uno ruota intorno alle loro vite e alle loro menti, e si riduce a una sola parola: perché? Ma ancora prima c'è un altro problema. Perché, di fronte a queste morti, i mass-media si comportano sempre con tanta ferocia, barbarie, violenza postuma? Nel caso del gruppo di San Diego, che importa cercare di capire perché 39 menti, 39 ragioni, 39 cuori, 39 (direbbero i credenti) anime avessero scelto di morire insieme? Molto più redditizio per le vendite e molto più a effetto stabilire che alcuni di loro erano castrati. Ma qualcuno si è mai sognato di deridere Origene o tanti altri gnostici - tra i maggiori esponenti della patristica cristiana - perché nel III secolo dopo Cristo avevano deciso di castrarsi "per meglio cercare dio", (...)

(...)

I media irridevano un culto che voleva raggiungere una cometa. Ma i loro direttori e padroni pregano regolarmente un messia il cui arrivo fu annunciato da un'altra cometa.

Viene il sospetto che tanta derisione serva solo a esorcizzare la propria ansia di morte. Come se si volesse provare il sillogismo: "I suicidi sono pazzi. Si sono suicidati. Loro erano pazzi". Ma il suicidio è stato un modo rispettato, onorato di porre termine alla propria vita, è stato elogiato come una via per non soggiacere al fato, ma per scegliere il proprio giorno, come un atto di libertà e di fierezza umana. E il suicidio comune di amici ha avuto precedenti illustri. Che c'è di tanto folle nel suicidarsi in un mondo che ai loro occhi non offre speranza?

(...)

Il problema allora è che non stiamo parlando di derelitti sbandati e di minorati mentali abbindolati dal primo ciarlatano di turno. Il problema è capire come mai questi suicidi collettivi stiano diventando più frequenti e come mai colpiscano anche persone appartenenti alle fasce educate medio-alte. Come ogni processo che ha un risvolto metafisico e abbarbicato nel groviglio della psiche umana, anche questo non ha una risposta univoca ed esaustiva. Ma alcuni elementi pertnettono di situarlo più chiaramente.

Il primo è l'orizzonte millenarista che permea la cultura americana (e la sua diffusione in Europa è uno dei fattori salienti del nostro tempo: in Italia ci sono più testimoni di Geova che iscritti ai partiti della sinistra).

(...)

Credere che la fine del mondo sia imminente, o a portata di mano, assolve parecchie funzioni simultaneamente:

1) funziona da verifica, da controprova della verità della propria fede: il mondo che finisce è la dimostrazione cosmica del mio credo;

2) assicura che non ci sarà un dopo a noi. Ti esime, e ti assolve, dallo struggente rancore che nutri contro coloro che ti sopravviveranno, che godranno il tepore del sole quando tu non sarai più;

3) nell'era dell'ideologia del progresso - per cui i tuoi posteri saranno più progrediti di te, e ti considereranno un primitivo, come tu consideri primitivi i tuoi antenati - nell'era del Progresso, la fede nell'Apocalisse ti sottrae all'immagine della mezza strada, dell'a metà scale, e ti situa in cima all'ascesa, all'apice della storia umana, sopra il quale non c'è nulla;

4) poiché i credenti nell'Apocalisse si annoverano tra gli "eletti", questa fede produce "senso", fa sì che la tua vita abbia senso, che l'insensato (nell'accezione di Qoélet, l'Ecclesiaste) acquisti una ragion d'essere e la tua non sia solo "fame di vento".

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Pagina 97

Nobel, i santi laici


L'annuncio dei premi Nobel scandisce gli autunni della nostra modernità. Ogni ottobre i giorn ali dedicano pagine e pagine all'argomento. Ma poi, a dicembre, la premiazione passa quasi inosservata. Come una noiosa e ufficialissima cerimonia. Ma non è sempre così. Chissà se in un altro autunnno a Stoccolma qualche laureato del Nobel seguirà il riprovevole esempio di Karey Mullis, premiato per la chimica nel 1993, a 48 anni? La sera della premiazione Mullis cercò di rimorchiare, invano, la figlia del re di Svezia. Si consolò portandosi in camera una prostituta che poi inseguì nudo come un verme per i corridoi dell'albergo.

Le disdicevoli performances di Mullis spiccano proprio per l'aura, anzi l'aureola che circonda il Nobel. Hegel diceva che per i borghesi moderni la lettura dei giornali costituisce l'equivalente laico delle devozioni mattutine. Allo stesso modo, il premio Nobel è la versione mondana della beatificazione. Ed è solo giustizia simbolica che nel Ventesimo secolo la santità laica venga finanziata con le royalties della dinamite (inventata da Alfred Nobel). Addirittura una specifica sezione del premio, quella per la pace, sembra fatta apposta per creare santini: laici, come Albert Schweitzer (1952), e non laici, come madre Teresa di Calcutta (1979). Il premio ha anche i suoi martiri, da Martin Luther King (1964) a Dag Hammarskjold (1961, unico laureato post mortem). E si era suggerito di darlo a Lady Diana, non ancora sepolta e già santificata dalla vox populi.

Ma non è solo l'aureola ad accomunare santi e premi Nobel. Come "tutti i salmi finiscono in gloria", così la categoria "Nobel" appiattisce i suoi laureati, tutti uniformati dall'etichetta "won in Sweden". Tra i Nobel per la pace, chi sa oggi perché mai ricevettero il premio Norman Borlaug (1970), Philip J. Noél-Baker (1959), Elihu Root (1912), solo per fare tre nomi? Come nel Medioevo la Chiesa beatificava duca e re (San Venceslao, San Luigi di Francia), così oggi sono premiati Henry Kissinger (1972), George Marshall (1953), Mikhail Gorbaciov,(1990). Ma qualcuno ci dovrà spiegare cosa aveva fatto per la pace il presidente Theodore Roosevelt (1907).

L'anonimato Nobel è ancora più straordinario nel caso della letteratura. Qui il premio dovrebbe sancire l'equivalente di quel concetto ormai in disuso che era la "gloria": oggi infatti la gloria è sostituita dal successo. Ma provate a fare un gioco: nominate ai vostri amici i circa 90 letterati Nobel del secolo. Vedrete che anche i più colti saranno in serio imbarazzo in almeno una trentina di casi. Anche per Nobel recenti come Claude Simon (1985), Yosef Agnon (1966), William Golding (1983), Camilo José Cela (1989) è difficile che qualcuno riesca a citare il titolo di un loro libro. Per non parlare dei premi più remoti: lanci la prima pietra chi sa qualcosa di Kilijan Laxeness (1955), Rudolf Eucken (1908), Carl Spitteler (1919), Henrik Pontoppidan (1917), Ivan Bunin (1933), Frans Sillanpää (1939). D'altronde cosa direbbero a un lettore finlandese nomi come Giosuè Carducci (1906), Salvatore Quasimodo (1959)? Al contrario, nella lista del Nobel non compaiono Jorge Luis Borges, Michail Bulgakov, Franz Kafka, Robert Musil, Bertolt Brecht, Federico Garcia Lorca, Dylan Thomas, Paul Eluard, Scott Fìtzgerald, James Joyce, Marcel Proust.

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Pagina 114

Allah cade in area di rigore


(...)

Molti hanno dato del calcio una lettura etnologica, a volte eccellente, come Christian Bromberger, che scrive nella sua straordinaria inchiesta: Il match di football è linguaggio maschile di riferimento che trasgredisce regioni e generazioni, che fa dialogare il singolare e l'universale, che confronta il merito con la fortuna, la giustizia con il barare, "noi" e "gli altri". La partita di calcio appare così come una delle profonde matrici simboliche del nostro tempo. In bilico tra la festa e la guerra, tra il comico e il tragico, il derisorio e il serio, la finzione e la realtà, il rituale e lo show, condensa in un genere ibrido e singolare i valori fondamentali che plasmano le nostre società.

Ed è vero che il calcio è dotato di una "plasticità ermeneutica" che impedisce di ridurlo a una funzione unica. Ma il calcio è qualcosa di più: si situa in una sfera che può dialogare e competere con il sacro: ben lo sanno i vescovi italiani quando vogliono far spostare la partita al sabato per non farla competere con la messa domenicale. Come scrive Jean-Francois Bayart, "la mondializzazione della sua pratica e le passioni che scatena suggeriscono che il calcio è diventato uno dei grandi rituali attraverso i quali si negoziano le relazioni tra gli attori di una stessa società o di società differenti: la polis moderna è "footballizzata", e più generalmente sportiva, altrettanto che religiosa, l'uno non impedendo d'altronde l'altra, come ha provato, in Algeria, il pubblico giovanile degli stadi che ha aderito in massa al Fronte islamico di salvezza (Fis)".

Ecco che, in margine a una frase, Bayart connette calcio e fondamentalismo islamico. Non che il calcio sia una religione tradizionale, ma calcio e antichi culti "giocano" sullo stesso terreno delle anime umane. L'accostamento non può non balzare agli orecchi se si ascoltano le radio private locali negli Usa e in Italia. In ambedue i paesi, a monopolizzare l'etere a lunghezza di giornate con una monotonia e una paranoia asfissianti c'è solo un tipo di trasmissione: il microfono aperto. Solo che negli Usa sono i predicatori che discutono con gli ascoltatori di peccati, apocalissi, vizi, dannazioni; in Italia a ripetersi in una coazione metafisica sono le diatribe calcistiche con rigori negati, retrocessioni, gol falliti.

Del culto il calcio riproduce innanzitutto i pellegrinaggi. Fa impressione vedere le decine di migliaia di persone che affrontano sacrifici e viaggi faticosi, si sobbarcano spese straordinarie, rischiano le botte dei tifosi avversi per una finale di Coppa dei campioni: 30.000 olandesi a Roma, 20.000 italiani ad Atene. Vere e proprie Völkerwanderungen. Victor Turner ha fatto notare il ruolo che hanno i pellegrinaggi, come esperienza di vita, nel creare un'identità e quindi nel fondare una "comunità immaginata". Attraverso il rito della partita, i club, le radio, il calcio crea un'identità forte quanto la nazionalità: non c'è tifoso che cambi squadra durante la sua vita. L'appartenenza a una squadra è vissuta come un destino originario, proprio come un italiano è italiano per fato, per nascita.

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Pagina 146

Uforia e solitudine


(...)

Tutte le religioni e tutte le civiltà hanno sempre narrato cosmologie angosciose. Se i cristiani temono il giudizio universale, gli hindu paventano che Shiva Nataraya smetta di danzare la sua danza che tiene in equilibrio il mondo. Sembrava con Newton che la scienza moderna avesse sottratto il cosmo all'angoscia e gli avesse restituito una serena obbedienza alle eterne armonie delle leggi del moto.

Ma è stata una serenità effimera. In due secoli l'universo è tornato a essere fonte inesausta di timore. La cosmologia è tornata letteralmente ansiogena. Già i vittoriani furono scioccati dall'idea che il sole un giorno morirà. Poi la cosmologia ci ha narrato stelle che invecchiano spegnendosi lentamente, altre che raggrinziscono, altre che esplodono, le supernove. E poi sono stati immaginati i buchi neri, immensi aspirapolvere cosmici in cui rischiamo di essere inghiottiti. Ma se questo non basta a tenerci svegli, ecco, più modestamente, secondo le leggi della termodinamica, i gas, l'ossigeno e l'azoto, che inesorabilmente fuggiranno dalla terra lasciandola nuda crosta. Oppure la stabilità delle orbite del sistema planetario collasserà in un moto caotico. O un meteorite si abbatterà sul pianeta. Negli Stati uniti nel marzo '98 si è rinnovato il ciclico terrore dell'asteroide che colpirà la terra e farà estinguere l'umanità, proprio come, secondo l'ipotesi di Alvarez, fu l'impatto con un asteroide a provocare l'estinzione dei dinosauri che pure erano riusciti a rimanere sulla terra per quasi 150 milioni di anni (più del doppio di quanto siano riusciti a esistere finora i mammiferi). Ci ritroviamo mortali in un mondo mortale. Soli in un effimero universo infinito.

Ecco, la fede negli Ufo è una risposta contro questa disperata solitudine cosmica. Se gli extraterrestri esistono, la voce dell'uomo non è il futile, vano ululato in un deserto. E se il vivente deve scomparire, almeno non moriremo soli. Possiamo sorridere di fronte a questa fede, ma bisogna ammettere che ci vuole una tempra stoica per sostenere lo sguardo di «un cielo vuoto sopra di noi", secondo una celebre frase di Sartre che capovolge l'ancor più celebre motto di Kant sul cielo stellato.

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Pagina 151

Parte seconda
Un pianeta così piccolo,
un mondo così grande



A Parigi scroscia il Mare del Nord


La rivoluzione è associata di solito con l'idea di guerra: rimbombo di armi, odore di sangue, bagliori di incendi. Alle soglie del Duemila, negli ultimi cinquant'anni l'Europa e buona parte dei mondo nanno vissuto in pace nonostante moltissime, micidiali guerre locali). Questa pace ha perciò come nascosto, ricoperto di una coltre di tran-tran, di business as usual, l'incredibile rivoluzione che invece ci ha travolti. Ci sembra ovvio poter traversare in sette ore un oceano, parlare a bassa voce con un altro continente, vedere in simultanea immagini dall'Antartico.

(...)

La ragione dell'annientamento dello spazio Marx l'aveva individuata nel meccanismo di circolazione delle merci:

Quanto più la produzione si basa sul valore di scambio, e quindi sullo scambio, tanto più importanti diventano per essa le condizioni fisiche dello scambio - i mezzi di trasporto e di comunicazione. Il capitale, per sua natura, tende a superare ogni ostacolo spaziale. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio - ossia dei mezzi di trasporto e di comunicazione - diventa dunque per esso una necessità, ma in tutt'altra misura - diventa l'annullamento dello spazio per mezzo del tempo.

"Rivoluzione delle comunicazioni" è un'espressione ormai tanto lisa che non ce ne accorgiamo più e ci vogliono la poesia di Heine e la brutalità di Marx per ricordarci che "comunicazione" va presa nell'accezione larga. riguarda lo spostamento dei corpi umani e delle merci, e non solo dei messaggi, come c'illustra nel suo libro Armand Mattelart quando cita la voce "Commerce" de l'Encyclopédie, scritta da Denis Diderot: "Per commercio s'intende, nel senso generale, una comunicazione reciproca. Si applica più particolartnente alla comunicazione che gli uomini si fanno tra loro dei prodotti delle loro terre e della loro industria".

La definizione di Diderot costituisce il naturale retroterra della "comunicazione' di Marx e quindi dell'annientamento della distanza "per mezzo del tempo", "oltre ogni barriera spaziale", attraverso le vie e i mezzi di comunicazione dei corpi (aerei in particolare), dei suoni (telefono e radio), delle immagini (tv), multimediali (Internet), per cui cambia il rapporto del nostro corpo e dei nostri sensi con il mondo circostante e della nostra mente col nostro corpo.

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I. Le nuove dimensioni dello spazio.
In cui smarrirsi


Alla comunicazione si potrebbe applicare oggi quel che Michel Foucault diceva a proposito della sessualità nell'era vittoriana: che mai nella storia umana la società aveva tanto parlato, sognato, elucubrato il sesso quanto nel momento in cui la sessualità era negata, perseguitata, proibita. Persino l'ingiunzione di tacere era assordante. Oggi, incomunicabilità, solitudine, bozzoli di silenzio isolanti le singole vite sembrano essere il problema più angoscioso, proprio quando la comunicazione raggiunge livelli incredibili, attinge una molteplicità, un'intensità che mai avremmo potuto prevedere. "Il mondo in cui viviamo sembra [...] schizofrenico, da un lato ispira teorie di sradicamento, alienazione, distanza psicologica tra singoli e tra gruppi, e dall'altro lato fantasie (o incubi) di propinquità elettronica." E' come se, più comunichiamo, più temessimo un black-out comunicativo; più ininterrottamente dialoghiamo, più soffrissimo in anticipo di un possibile vuoto di dialogo. Per essere più precisi, la fame attuale di comunicazione è piuttosto una sorta di bulimia, un'ingordigia, la voracità senza fine dell'insaziabile (un altro dei sensi in cui la nostra civiltà sta diventando obesa).

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Dopo la rivoluzione che ha sovvertito il dialogo umano, i suoi processi, la sua geografia, le sue forme, dobbiamo quindi affrontare una configurazione contraddittoria. La mera quantità di dialogo tra umani cresce sempre più e la sua intensità non dipende più dalla distanza degli interlocutori. La comunicazione non è più in relazione biunivoca con il contatto fisico. Il luogo della comunicazione non è più un dato, un input della nostra vita: non siamo più costretti a dialogare necessariamente con il nostro vicino di casa, possiamo ignorarlo, vivere in un altro spazio delle fasi. Nella scelta dei nostri interlocutori e dei nostri compagni di comunicazione siamo più liberi di quanto siamo mai stati nel corso della storia umana. La morte della città in quanto "fabbrica di comunicazione" significa anche che non siamo più ancorati a un sito, inchiavardati a una città. Possiamo parlare con gente di Melbourne e ignorare gli umani che ci circondano. Nello stesso tempo siamo tagliati fuori da altri flussi di comunicazione, siamo espropriati della sfera pubblica, segregati da gruppi sociali diversi. Sono cresciute a un ritmo incredibilmente veloce le probabilità e le possibilità d'incontrare persone geograficamente remote, ma nello stesso tempo umani socialmente distanti sono sempre più lontani tra loro.

Può essere questa una delle ragioni per cui, nel bel mezzo di un'incredibile abbondanza di comunicazioni, l'uomo moderno soffre tanto l'incomunicabilità: come essere assetati di dialogo sotto una cascata di parole. Le voci dialoganti sono così numerose, così assordanti, così sovrapposte, che creano solo una cacofonia, un vocio inarticolato. La società moderna diventa come un ristorante italiano in cui tutti parlano così forte che ognuno deve gridare per farsi capire dal proprio commensale.

(...)

Un tempo, comunicare era un evento significativo nella vita di tutti i giorni. Adesso è lo stato-base: il silenzio è divenuto insopportabile: anche per questo il walkman incontra tanto successo, oltre che naturalmente per la sua capacità d'isolarti dal tuo contesto dato, ed esprimere cioè la tua libertà di estraniarti. (L'ultima ragione è che il walkman fa della nostra vita un film di cui scegliamo la colonna sonora: come nei film la visione di un paesaggio è sempre sottolineata da un commento musicale che determina lo stato d'animo con cui è guardato, così è con una colonna musicale wagneriana che andremo a vedere la risacca della burrasca frangersi contro la scogliera dopo aver litigato con il nostro amore.)

Siamo abitanti di città che non riescono a dormire in campagna perché il silenzio notturno ci tiene svegli. Oggi noi comunichiamo come respiriamo, senza farci caso.

Poiché gli schemi del dialogo sono cambiati, noi non lo riconosciamo più come comunicazione. Viviamo in un pianeta che la rivoluzione delle comunicazioni ha reso più piccolo perché ha ammazzato lo spazio, ma nello stesso tempo viviamo in un mondo più grande perché ha molte più dimensioni. Ci stiamo stretti, e nello stesso tempo ci perdiamo. Disorientati dalla novità, siamo smarriti in una giungla di dialogo. Geografia, topologia e meccanismi della comunicazione sono tutti stati trasfonnati: di fronte a nuove regole del gioco, non sappiamo più come giocare.

Ma è la stessa nuova libertà di parola, di scelta del comunicare (con chi, su che, dove, quando) a rivelarsi ambigua. Tra i valori etici, la libertà è certo quello più apprezzato dalle società moderne. Di solito la libertà è considerata qualcosa difficile da conseguire ("si è battuto eroicamente per conquistare la libertà"), ma facile da praticare. Difficile diventare liberi, semplice essere liberi. Il libretto d'istruzioni per la libertà sembra elementare.

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Un altro problema di libertà ha a che vedere con la città. La città era il posto e il limite della comunicazione. La città era il luogo in cui comunicare era non solo un diritto, ma anche un dovere. La città rendeva alcune comunicazioni obbligatorie. Dovevi comunicare col vicino, col quartiere, dovevi comunicare nei (e ai) riti collettivi, partecipare a funerali, matrimoni... Certo, la comunicazione obbligatoria era la pietra angolare di un soffocante controllo sociale. E questa era la cattiva notizia. La buona notizia era che, proprio in quanto obbligatoria, non aveva bisogno di produrre senso (di rispondere alla domanda: "che senso ha questa comunicazione?").

Con molto umorismo, ma anche con grande precisione teorica, Umberto Eco dice che alla diuturna domanda filosofica "Perché c'è dell'essere, piuttosto che nulla?", l'unica risposta possibile è: "Perché sì". Così il senso della comunicazione stava nel fatto che era obbligatoria: lo facevi perché dovevi farlo. L'ambiente cittadino prescriveva non solo l'atto del comunicare, ma anche il tema del dialogo, i suoi interlocutori, il tempo e il luogo.

Dovremo tornare ancora e ancora sugli effetti che sta avendo sulla storia delle mentalità la scomparsa del "Perché? Perché si". Per adesso basti notare che non è proprio per caso che, filosoficamente, il problema del senso sia sorto con la modernità, con l'esistenzialismo. A nessun filosofo antico o medievale, ma neanche a Kant, sarebbe mai venuto in mente di porsi il problema "Che senso ha la vita?". Tutt'al più, visto che a volte non era proprio evidente che la vita umana avesse un senso, bisognava pensare che magari il senso fosse nascosto, e perciò andasse disvelato, ma non poteva esservi il minimo dubbio che un senso dovesse esserci ("perché sì").

L'angoscia per l'assurdo della finitudine e il non senso del vivere è stata l'esito, tra l'altro, della nuova libertà ottocentesca. La stessa angoscia assale il comunicare: proprio come la tua vita, le tue parole sembrano bolle galleggianti in un universo di non-senso. A ogni incontro, a ogni dialogo, l'uomo moderno non può sfuggire al magone struggente che lo attanaglia insieme alla domanda: "Che dannato senso ha quest'incontro? che ci sto a fare qui? perché parlo?".

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II. Un'angoscia del nostro tempo:
l'identità


Un fantasma ci ossessiona nella mondializzazione. Ed è che tutto divenga uniforme, che ogni differenza sia spazzata via, dalla tv, dall'americanizzazione, che le identità culturali siano cancellate dallo standardizzarsi dei modi di vita, da Mc-Donald's a Michael Jackson. Che ci venga sottratto il nostro passato, che ci siano strappate le radici. Insomma che ci sia derubata la nostra identità. E così il mondo di oggi ci appare come un ininterrotto guerreggiare tra una mondializzazione che appiattisce e una differenza che resiste contro il Moloc della globalizzazione.

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8. L:impostazione americana è del tutto diversa. Lìamericanità è trattata come un potere sovrano compatibile con altri poteri sovrani. Così, uno può essere e sentirsi americano e insieme, contemporaneamente, musulmano nero; può provare un patriottismo statunitense e, insieme, una forte identità irlandese (o italiana o ispanica, come succede a tutte le etnie immigrate negli Usa). Nel modello disciplinare europeo era impensabile un'assimilazione culturale senza assimilazione linguistica. Negli Usa non è così: si può essere perfettamente americani (e sentirsi tali e provare fierezza di esserlo) senza capire una parola d'inglese. Tra l'egemonia culturale europea e quella americana corre la stessa differenza che c'è tra l'influenza della scuola e quella del cinema, o della televisione. A scuola ci devi andare, fare i compiti, farti interrogare, devi imparare studiando. Da tv e cinema - una nuova tecnologia del potere - impari senza studiare. I fìlm, per parafrasare quel che diceva un anonimo cronista russo dell'anno mille, "sono fiumi che si berrebbero l'universo".

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10. Ma se questa è la natura dell'americanizzazione, non ha molto senso combatterla come fa la (velleitaria) difesa francese della francofonia, che nel linguaggio cibernetico ( disque dur per hard disk, logiciel per software), sfiora il ridicolo mussoliniano per cui nel Ventennio gli italiani dovevano dire "il filmo", "lo sporto'. Non ha senso questo tipo di battaglia, proprio perché si contrappone frontalmente a un avversario che si muove per linee laterali; perché rivendica un'identità unica ed esclusiva contro un nemico che si pone come identità multipla, affiancata, sovrapposta, compatibile. Perché oppone un'idea corporea e solida dell'identità contro un'impostazione liquida, gassosa, dell'identità, che perciò si rivela sfuggente, imprendibile, avviluppante. Basta girare per Parigi per accorgersi quanto profondamente la ville lumière si è americanizzata in un paio di decenni. La difesa della "differenza francese" manca il bersaglio perché non comprende che questi stessi francesi sono già americani, persino quando si dicono lepenisti.

E' nella coesistenza di un'universalità americana con una Babele di idiomi reciprocamente incomprensibili, nella diversificazione e localizzazione linguistica, che sta una delle condizioni di realtà delle immaginazioni identitarie.

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A titolo di conclusione provvisoria, bisogna quindi vedere nella costruzione delle identità l'esito non voluto defl'afferrnazione del libero arbitrio. Il contenuto volontario implicito nell'atto d' identificarsi diventa chiaro se si pensa che dal 1960 al 1990 gli indiani americani sono passati da mezzo milione a quasi due milioni (il quadruplo) e non perché nel frattempo hanno figliato come conigli, ma perché sempre più persone hanno voluto dichiararsi natives.

Globalizzazione e Jihad, questi due termini con cui i coevi leggono la loro epoca, non sono perciò due aspetti opposti del moderno. In realtà, l'arbitrio identitario e la mondializzazione costituiscono un unico processo, quello della modernità, dell'annientamento dello spazio, del suo divenire multidimensionale. Ricordando però, come ci ha insegnato Max Weber, che l'uomo è un animale sospeso nella tela di significati che egli stesso ha tessuto.

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III. Se la lampada di Aladino si vende
al supermercato: il problema della
credulità nel Ventesimo secolo


Chi avrebbe mai detto all'inizio del Ventesimo secolo che pochi decenni più tardi molte sette religiose avrebbero avuto (ognuna) più affiliati di tutti i partiti del movimento operaio messi insieme (e le due cose forse non sono sconnesse fra loro)? Che la fede di un adolescente in un culto avrebbe preoccupato i genitori più dell'assuefazione a una droga? Allora sembrava che il pericolo fosse quello del razionalismo ateo e materialista (ancora due decenni fa era dato per irreversibile il "declino del sacro"). L'orizzonte della società sembrava la sua inarrestabile secolarizzazione. E, secondo Max Weber, il razionalizzarsi della conoscenza (tramite la scienza), della vita economica (tramite il capitalismo privato) e della struttura sociale (tramite la burocrazia statale) andava di pari passo con il disincanto, con il declino del magico.

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C'è di più. Quel che Weber non vedeva è che proprio il trionfo della tecnica offre un'esperienza quotidiana del magico. Infatti, caratteristica decisiva delle società moderne è simultaneamente l'importanza della scienza come modo di produzione del sapere e la sua totale irrilevanza come sapere sociale diffuso. E l'ignoranza aumenta col crescere della conoscenza scientifica e con l'industrializzarsi della vita. Nei nostri gesti giornalieri, non solo non usiamo mai procedimenti scientifici, ma sempre più ignoriamo come funzionano gli oggetti che adoperiamo senza sosta e ci sono indispensabili. Come mai una cornetta di plastica bucherellata trasmette a distanza dei suoni? Perché un forno a microonde scalda il centro di un panino come la sua supefficie? Come succede che premo un tasto e l'oscurità fa posto a una luce? Premo un altro tasto e un'immagine venuta da un altro continente appare sullo schermo? Non lo so, qualcun altro lo sa e non m'interessa saperlo, rispondono i più. E anche volendo capire, imparare non è un'impresa da poco, ma richiede una forma di "ascesi intellettuale" per impadronirsi degli strumenti concettuali, matematici. Stiamo parlando della struttura profonda della nostra società, della divisione sociale del lavoro e delle competenze. Più incorporano un sapere specializzato, più sono sofisticati i prodotti tecnologici che ci circondano, più l'ignoranza cresce: i calcolatori hanno reso inutile saper calcolare.

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Se la magia è una scorciatoia, un coprire grandi tragitti con brevi percorsi, un enorme sconto sugli sforzi per ottenere un risultato (paghi uno compri tre), allora tutta la civiltà della tecnica costituisce un'immensa operazione magica. Possiamo dire che la nostra epoca ha percorso una scorciatoia della storia umana.

La magia è però una scorciatoia non solo in senso pratico, ma anche in senso conoscitivo. Scavalcando la tediosa meticolosità del metodo scientifico, per mezzo di una pura empatia, la magia ti fa entrare in contatto con l'universo. Per Pico della Mirandola, i sortilegi dei maghi non sono altro che le opportune lusinghe con le quali si portano alla luce i miracoli nascosti nei penetrali del mondo e negli arcani di Dio. La magia è simpatia, se questa parola vuole dire l'intima concordia dell'universo. La magia è una scorciatoia della conoscenza. In quest'accezione la usa il Rinascimento: "L'universo appare come un organismo vivente, nel quale ogni membro serve al fine comune, e di conseguenza ogni parte contiene in sé e fa palese il Tutto. Senza seguire il processo intricato delle cause intermedie, possiamo perciò collegare direttamente due punti dell'universo. Questa concezione ha il suo pieno sviluppo nella magia...".

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9. "Stiamo rapidamente avvicinandoci a una situazione in cui nessuno crederà a qualunque cosa noi diciamo su qualunque argomento che abbia a che vedere con il nostro proprio interesse (self-interest)" scriveva Kadanoff nell'articolo già citato, perché "troppo spesso i benefici attesi da una scoperta scientifica sono gonfiati parecchie volte rispetto al loro valore reale": a titolo di esempio "pensate alla fusione fredda (o calda)". Pochi mesi prima, infatti, che crollasse il muro di Berlino, nel marzo 1989, Martin Fleischmann e Stanley Pons, due rispettati e noti scienziati, avevano annunciato di poter realizzare quella che divenne nota come la "fusione fredda", qualcosa che prometteva un'infinita disponibilità di energia pulita e a buon mercato (altra magia), che però andava contro tutte le teorie atomiche fino ad allora elaborate.

Gli atomi possono liberare energia in due modi. 1) Gli elementi pesanti e radioattivi liberano energia quando s'innesca una reazione a catena che spacca (fende) gli atomi pesanti in atomi più leggeri. E' questa la fissione. Le bombe atomiche sganciate nell'agosto del 1945 su Hiroshima e Nagasaki erano appunto bombe a fissione. Anche i reattori atomici fin qui costruiti per produrre energia elettrica funzionano a fissione. 2) L'altro modo con cui si libera energia atomica è quando due atomi leggeri (per esempio d'idrogeno, l'elemento più leggero di tutti, che ha per simbolo chimico la lettera H) si fondono per formare un atomo più pesante (per esempio di elio). E' questa l'energia di fusione. Si ritiene che le stelle funzionino appunto a fusione. Sulla terra non sono stati prodotti finora reattori a fusione perché, secondo la teoria corrente, la forza con cui si respingono due protoni è talmente alta che per accoppiarli è necessaria una temperatura dell'ordine dei 100 milioni di gradi, temperatura che si ha solo all'interno delle stelle o che si può ottenere per brevissimi istanti facendo scoppiare una bomba atomica a fissione. E infatti le bombe atomiche a fusione, le bombe H, vengono innescate con un detonatore che è a sua volta una "bombetta atomica" (a fissione).

L'annuncio perciò da parte di Fleischmann e Pons di aver ottenuto la fusione atomica per via elettrolitica a temperature al di sotto dei 1000 gradi scardinava cento anni di fisica atomica. Ma qui avvenne l'incredibile: un altro fisico, Steven Jones, annunciò di avere ottenuto lo stesso risultato (e si scatenò una disputa su chi era arrivato prima). Immediatamente dopo, nel giro di pochi giorni, l'istituto di Varsavia dichiarava di aver riprodotto l'esperimento. Poi anche l'università dello Utah confermava, poi anche il centro atomico di Frascati produceva "energia di fusione'. Pareva che tutti i laboratori del mondo stessero ottenendo la fusione fredda.

La reazione dei fisici delle alte energie fu di totale smarrimento, un disorientamento che mostrava come la fisica teorica fosse un gigante dai piedi d'argilla, come tutta l'arroganza delle 'scienze esatte' si potesse sbriciolare in men che non si dica. Era la dimostrazione palmare che la scienza può essere opaca per gli stessi scienziati e non solo per i profani.

Poi cominciarono i dubbi, i distinguo, le smentite. Nel giro di pochi mesi la grande scoperta di Fleischmann e Pons venne ridicolizzata. I due scienziati furono posti in quarantena scientifica e marginalizzati. Però. Però nessuno aveva spiegato come mai la profondissima, complicata, matematicamente ultrasofisticata teoria quantistica dei campi avesse potuto credere alla fusione fredda (a posteriori tutti dissero che era impossibile, ma solo mesi dopo). Nessuno s'interrogò sulla fragilità concettuale dimostrata dalla fisica delle alte energie. Nessun responsabile di laboratori fece autocritica sull'effetto suicida che aveva comportato la necessità di rincorrere annunci di scoperte sempre più mirabolanti e sempre più segrete.

Il più curioso è che però, nonostante tutte le smentite, le grandi corporations continuarono per anni a condurre in segreto esperimenti sulla fusione fredda (come si venne a sapere casualmente per un incidente in un laboratorio).

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Per misurare la trasformazione basta paragonare i due modi con cui lo stesso obiettivo è stato perseguito nel passato e lo è nel presente: le missioni e l'apostolato allora, la pubblicità oggi. La stessa trasformazione è avvenuta nei grandi partiti che una volta facevano propaganda, oggi fanno pubblicità.

Vuol dire che, nel modo di comunicazione, l'egemonia è esercitata dalla pubblicità, con le sue regole, i suoi stili, la sua estetica. L'influenza della pubblicità è tale che non sopportiamo nessun discorso serio su di essa: appena se ne comincia a discutere un po' in profondità, reagiamo tutti come i fumatori accaniti quando si parla dei tumori al polmone provocati dal fumo.

D'altronde si pensi che tutti i grandi mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, tv) sono finanziati a più del 50% (e spesso al 100%) dalla pubblicità. Questo vuol dire che l'intera industria dell'informazione e della comunicazione, con i suoi milioni di addetti in tutto il mondo, e con il suo immane impatto sulle mentalità, trova la sua giustificazione economica nell'essere supporto di pubblicità.

11. Cosa vuol dire che la pubblicità esercita la sua egemonia sulle interazioni umane? Intanto realizza in modo compiuto la riduzione del rapporto interumano al rapporto tra merci e, per farlo, deve gonfiare la merce di inusitate valenze simboliche. Quando si parla di mercificazione del mondo, si pensa sempre a un lato del problema, la riduzione dell'uomo a merce, ma si dimentica l'altro capo, che è l'umanizzazione della merce, il suo dotarsi di caratteristiche umane, tenerezza, bellezza, socievolezza. Non è solo per metafora che di un apparecchio si dice consumer friendly, amichevole per chi lo usa. Il segreto della forma della merce, dice Marx, sta nel fatto che essa funziona da specchio che rinvia agli umani l'immagine reificata dei loro rapporti sociali. E non a caso, l'unico paragone che gli sembra adeguato per descrivere il mondo delle merci è quello religioso: "Quello che prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è solamente il determinato rapporto sociale che esiste tra gli stessi uomini. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo immetterci nelle nebulose regioni del mondo religioso. Qui i prodotti della testa umana sembrano essere dotati di una propria vita, figure indipendenti che sono in rapporto tra di loro e con gli uomini. Cosi accade per i prodotti della mano umana nel mondo delle merci. Questo è quel che io chiamo feticismo..." (ibid.).

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13. Ma la pubblicità è egemone in due sensi ancora più profondi. Il primo nasce proprio dal fatto che tutta l'industria della comunicazione, tutto il settore dell'informazione, cioè l'apparato mondialmente preposto alla formazione dell'opinione ubblica e delle mentalità (quel che Louis Althusser avrebbe chiamato "les appareils idéologiques") è fondato solo sulla (e pagato solo dalla pubblicità. A sua volta la pubblicità si basa sulla credulità. Perciò la credulità ha un'utitità economica. Di conseguenza la società è istigata alla credulità (se pur nella forma blanda del credere agli spot). La credulità è cioè un valore positivo, mentre l'incredulità costituisce una forma di sabotaggio dell'economia. L'incredulo non compra lozioni per i capelli, non cambia l'auto ogni due anni, non compra vestiti firmati. E se le merci rimangono invendute, le aziende licenziano, la disoccupazione cresce. Si potrebbe raccontare - a proposito della credulità "proficuamente" opposta al razionalismo - la stessa Favola dalle api che Bernard de Mandeville narrava a proposito della vanità sprecona (che fa funzionare l'economia) contrapposta alla morigeratezza (che invece la manda in malora): in fondo nella modernità avevamo già visto diventare una dote da coltivare e una qualità sociale quel che prima era considerato un difetto, anzi un peccato: l'egoismo. Perché anche la credulità, dopo essere stata disprezzata, non può diventare un pregio?

Secondo Voltaire, la borsa di Londra aveva bisogno della tolleranza per poter funzionare, dunque la tolleranza aveva un fondamento economico e in definitiva la razionalità tollerante era funzionale al capitalismo. Esattamente nello stesso modo (e in senso capovolto), ora l'economia capitalista ha interesse a che l'opinione pubblica sia credula, e quest'atteggiamento viene perciò coltivato, stimolato. La credulità è una pianta ben concimata. Che forse trovate mai nulla, nei messaggi in cui vi imbattete, che inciti alla sorveglianza della ragione, al dubbio sistematico, allo scetticismo preliminare, al sospetto metodico verso le proprie illusioni?

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Viene rivendicata qui come qualità positiva e coerenza quella che per un Adorno sarebbe stata solo confusione mentale. Assieme ai tarocchi e all'astrologia, compaiono le speculazioni sufi, l'ipotesi di Gaia di Lovelock, il Tao della fisica di Fritjof Capra, il Signore degli anelli di Tolkien, l'induismo con il terzo e quarto chakra... il channelling: "Comunicare con entità extra-terrestri pare essere una delle attività più importanti dei seguaci della New Age. I canali (channels), o 'canalieri' (channelers), sono i medium da cui queste guide spirituali extraterrestri sono contattate". Queste entità o spiriti guida (di cui parlava anche Ciuffreda) "sono anime disincarnate che hanno per lo più vissuto molte vite. Presumibilmente avendo raggiunto l'illuminazione, scelgono di essere incorporee ora per guidare le anime racchiuse nei corpi. Non sono dissimili dai bodhisattva del buddismo. Costoro, avendo raggiunto l'illuminazione, scelgono di non entrare nel nirvana, ma di tornare sulla terra per aiutare le anime che sono ancora sulla ruota del karma". Solo nell'area di Los Angeles c'erano alla fine degli anni ottanta più di 1000 canali attivi (a 150 dollari a seduta).

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17. Non si può proprio snobbare quest'ansia di credere. Non avevamo forse già visto che proprio la nuova libertà offerta dal mondo moderno pone un problema di senso e impone l'angoscia dell'identità?

Il destino dell'uomo moderno è di essere "orfano del senso". Paradossalmente è proprio il modo scientifico della conoscenza che consegue quest'esito. Infatti uno dei fattori chiave dell'immenso successo conoscitivo della scienza moderna sta proprio nel suo autolimitarsi, in un suo drastico atto di umiltà, nel rinunciare a porsi il problema del "perché" e nel limitarsi a porre il problema del "come", nel rinunciare a spiegare per dedicarsi a descrivere. Quando Isaac Newton enuncia la legge di gravità, per cui due corpi si attraggono con forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa, egli non spiega affatto perché due corpi si attraggono. Tanto meno ci dice perché mai debba esistere questa forza di gravità. Anzi, Newton non solo non risponde alla domanda "perché c'è la forza di gravità?", ma rende insensata, da un punto di vista fisico, la domanda stessa. In altri tertnini, l'atto fondativo della fisica moderna è il taglio netto tra la fisica e la metafisica. Quando si parla perciò di "spiegazione scientifica", si sta insinuando una mistificazione, perché la scienza non spiega un bel niente, non spiega perché c'è un cosmo, perché viviamo e moriamo. I trionfi della scienza sono stati resi possibili dalla rinuncia a porsi i problemi del senso: "Più l'universo sembra comprensibile, più sembra senza scopo (pointless)" scrive il fisico Steven Weinberg, un altro premio Nobel, che altrove insiste: "Man mano che scopriamo sempre più principi fisici fondamentali, questi sembrano avere sempre meno a che fare con noi". E' a questo che si riferivano Weber e Adorno quando dicevano l'uno che la scienza "sviluppa un rifiuto di ogni visione che in qualche modo s'interroghi sul "senso" degli avvenimenti intramondani", e l'altro che la scienza "si è sostituita alle categorie che una volta interpretavano gli avvenimenti come se fossero dotati di significato".

 

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Riferimenti


Bibliografia
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