Copertina
Autore Jacques Derrida
CoautoreÉlisabeth Roudinesco
Titolo Quale domani?
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Saggi , pag. 270, cop.fle., dim. 147x220x15 mm , Isbn 978-88-339-1510-4
OriginaleDe quoi demain... Dialogue
EdizioneFayard et Galilée, Paris, 2001
TraduttoreGuido Brivio
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe filosofia , psicanalisi , politica , shoah
PrimaPagina


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Indice

  7    Premessa di Élisabeth Roudinesco

       Quale domani?

 11 1. Scegliere la propria eredità

 38 2. Politiche della differenza

 56 3. Famiglie disordinate

 73 4. Imprevedibile libertà

 92 5. Violenze contro gli animali

111 6. Lo spirito della rivoluzione

150 7. L'antisemitismo venturo

191 8. Pene di morte

228 9. Elogio della psicoanalisi


 

 

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Pagina 40

J. D.

Di conseguenza il mio lavoro ha preso la direzione di un'articolata messa in questione di tutte le differenze considerate come mere opposizioni. Perché - ci tengo a sottolinearlo ancora una volta - la différance non ha la forma di un'opposizione, nemmeno di un'opposizione dialettica. Essa è invece una riaffermazione dello stesso, un'economia dello stesso nella sua relazione con l'altro - senza che ciò implichi, per il fatto stesso che questa relazione esiste, che si debba necessariamente irrigidirla o fissarla in una distinzione o in un sistema di opposizioni binarie.

Ed è certamente possibile, da queste affermazioni apparentemente astratte, trarre tutte le istanze necessarie a una messa in causa di quelle forme etiche e politiche che lei classifica sotto l'etichetta di comunitarismo.

In genere - e per svariate ragioni che ho già esposto altrove, in particolare ne Il monolinguismo dell'altro - ho sempre nutrito dei sospetti nei confronti del culto dell'identità così come del comunitarismo, con cui spesso fa tutt'uno. Per questo cerco in ogni occasione di rievocare la distinzione sempre più indispensabile fra politico e territoriale... Condivido dunque la sua inquietudine di fronte all'avanzata di una logica comunitaria, dinanzi a forme di compulsione identitaria, e cerco al tempo stesso di resistere, esattamente come lei, a questo movimento che tende verso un narcisismo delle minoranze che sta dilagando dappertutto - ivi compresi i movimenti femministi. In certi momenti risulta comunque necessario assumersi delle responsabilità politiche, che ci impongono una forma di solidarietà con coloro che stanno lottando contro un certo tipo di discriminazione o perché venga riconosciuta una certa identità nazionale o linguistica che si trova in pericolo, marginalizzata, messa in minoranza, delegittimata, o ancora nel momento in cui una certa comunità religiosa viene sottoposta a persecuzione.

Tutto questo non mi impedisce naturalmente di diffidare di una rivendicazione comunitaristica o di identità in quanto tale. Anche se so che questa rivendicazione la devo fare mia, almeno provvisoriamente, nel momento in cui mi rendo conto che è all'opera una minaccia o una forma di discriminazione. In questo caso - che si tratti delle donne, degli omosessuali o di una qualsiasi altra minoranza - non mi è difficile comprendere l'urgenza vitale di un movimento identitario. Sono disposto allora ad accettare un'alleanza temporanea, circospetta, che tenda comunque a sottolineare i limiti di una simile posizione, rendendo questi limiti il più possibile evidenti e comprensibili. Non ho dubbi dunque - purché sempre con una certa moderazione - nell'abbracciare la causa del femminismo piuttosto che quella degli omosessuali o dei popoli colonizzati, ma solo fino al momento in cui ciò non suscita in me alcun sospetto, fino a quando cioè la logica della rivendicazione non si presenta come potenzialmente perversa o pericolosa. Il comunitarismo e il nazionalismo statalista costituiscono le figure più evidenti di questo pericolo, e dunque le immagini di questi limiti che si impongono alle forme di solidarietà. Il fattore di rischio dev'essere sottoposto a una rivalutazione continua, all'interno di contesti fluidi che diano vita a transazioni ogni volta originali. Nessun relativismo in tutto ciò, ma al contrario la condizione di una responsabilità effettiva, sempre a patto che qualcosa del genere possa esistere.

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Pagina 60

J. D. Personalmente cercherei di evitare di lasciarmi catturare dall'alternativa naturalismo/costruttivismo. Non ritengo legittima nessuna delle numerose contrapposizioni concettuali che vengono evocate, presupposte o tenute per vere all'interno di una simile alternativa. Il mio intento è quello di cercare di non essere né naturalista né costruttivista - se con quest'ultimo termine ci si riferisce a una sorta di produzione artificiale completamente indipendente e priva di qualsiasi premessa biologica. Fra questi due estremi lei inserisce la nozione di psichico. Bisogna tuttavia ancora stabilire che cosa si intende per psiche. In Freud, il rapporto fra psichico e biologico è una questione che rimane, come lei sa, perennemente in sospeso, rimandata a un'elaborazione futura demandata alle generazioni a venire - e dunque, in realtà, si tratta di un concetto assai problematico.

Nel quadro generale di tutti questi problemi, che sono notevoli, non vorrei comunque esser costretto a rinunciare né a una prospettiva né all'altra. Vorrei cercare di trovare una via per prendere in considerazione anche le determinanti genetiche e biologiche, che sono già complesse in quanto tali e non costituiscono fatti meramente «naturali». Esistono, all'interno della dimensione biologica e genetica, dei codici, dei percorsi, dei «linguaggi» e delle «scritture». Detto in altri termini, esiste una sorta di «cultura», per non dire di «tecnica», all'interno della genetica, che rende possibile ogni tipo di costruzione. Non sono perciò disposto a rinunciare al sapere biologico o genetico, naturalmente in ciò che esso ha di aperto, di progressivo e di continuamente perfettibile.

Eppure, la psiche - ovvero la cultura, la dimensione simbolica, se si vogliono accettare, senza per questo giustificarle, equivalenze ormai date per certe - raccoglie il testimone, in un senso differenziale, per l'appunto, del cosiddetto determinismo genetico biologico. In certi «casi» questa differenziazione può introdurre uno iato; in altri, può introdurre invece nell'immanenza della vita l'economia di una nuova configurazione. Il concetto stesso di iato rientra nell'ambito delle possibilità genetico-biologiche. Non si tratta semplicemente di «fasi» diverse della différance. Con différance si intende infatti contemporaneamente lo stesso - il vivente nel suo essere semplicemente diverso, nel suo essere sostituito, rimpiazzato da un supplemento vicario, da una protesi, da un supplente in cui affiori la presenza della «tecnica» - e l' altro - l'assolutamente eterogeneo, il radicalmente differente, l'irriducibile e l'intraducibile, l'aneconomico, l'altro assoluto o la morte. Lo iato della differenza viene al tempo stesso a reinscriversi all'interno dell'economia dello stesso e si apre all'esorbitante dell'altro assoluto. Ritornando a questo termine, si darebbe psiche - ovvero «vita» - nel momento in cui questa différance emerga, o più esattamente - poiché essa non può apparire in quanto tale, e d'altro canto infatti ciò non accade mai - nel momento in cui essa lasci una traccia - non un segno, un significante, o qualsiasi altra cosa che si possa definire «presente» o «assente», ma semplicemente una traccia.

Per ritornare alla questione della famiglia, credo che attorno a una nascita si stringerà sempre un vincolo familiare. Non si potrà mai cancellare il fatto di nascere - e perciò, tra l'altro, una certa eredità genetica. Ma che cosa significa «nascere»? Volendola distinguere dall'origine, dall'inizio, dalla provenienza e via dicendo, la nascita costituisce forse un problema del futuro, una questione del tutto nuova. La filosofia è molto più preparata ad affrontare problemi come la morte e la vita, la fine e l'origine. Ma a ciò che, nella nascita, si sottrae a tutte queste categorie, la filosofia - ma certamente anche la scienza, e senza dubbio la psicoanalisi - ha dedicato ancora troppo poco della sua attenzione «pensante».

Le è nota la presunta certezza in virtù della quale si saprebbe sempre chi sia la madre ma non, con lo stesso grado di sicurezza, chi sia il padre. La paternità sarebbe dunque il frutto di un'induzione compiuta attraverso un ragionamento, mentre la maternità risulterebbe semplicemente da una constatazione fondata su una percezione. Su una simile «evidenza» - la presunta evidenza della maternità, appunto, e la non-evidenza della paternità - fa leva e si fonda tranquillamente Freud nella sua esposizione del caso dell'«Uomo dei topi», citando Lichtenberg. Egli ne deduce che il patriarcato costituisce un progresso della ragione e del giudizio razionale, un passo oltre la percezione sensibile.

Uno schema del genere, soprattutto in Freud, mi pare incredibilmente fragile. Oggi meno che mai si può essere certi che la vera madre sia quella che si vede partorire. La madre non è soltanto la genitrice poiché - come la psicoanalisi, e non solo, ci insegna da sempre - un'altra persona può diventare o essere stata la madre, o meglio una delle madri. La cosa più difficile da pensare - in primo luogo da desiderare e poi da accettare come se non fosse una mostruosità - è proprio questa: che ci sia più di una madre. Dei supplementi di madre, in un'irriducibile pluralità. Oggi, tra la madre che conduce la gravidanza e quella che diviene, parlando impropriamente, la madre nel senso comune del termine, abbiamo a che fare con due persone. Per non parlare di tutte le altre madri che si trovano a raccogliere il testimone! Detto in altri termini, l'identità della madre - così come la sua possibile identificazione giuridica è frutto di un giudizio ugualmente derivato, di un'inferenza altrettanto svincolata da ogni forma di percezione immediata di quanto non lo sia quella «finzione giuridica» che è la paternità in quanto frutto di un ragionamento congetturale - l' Ulisse di Joyce chiamava la paternità legal fiction.

I nuovi traguardi dell'ingegneria genetica - inseminazione artificiale, gravidanza affidata a una terza persona, clonazione, e così via - contribuiranno indubbiamente ad accelerare, in futuro, i mutamenti della relazione padre/madre. Ma si tratterà semplicemente di un'accelerazione, di una différance, per quanto fenomenali e deprecabili possano sembrarci gli effetti di tutto questo. La «madre» è sempre stata, anch'essa, una madre «simbolica» o «sostituibile», esattamente come il padre, e la certezza che si ritiene acquisita attraverso l'atto del parto costituisce a mio avviso un'illusione. Un'illusione interessata, questo è certo, la proiezione di un desiderio estremamente potente, ma pur sempre un'illusione. E resterà tale per sempre e più che mai.

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Pagina 74

J.D.

Quanto al confondere - ma preferirei dire collegare - il «pensiero» (ciò che almeno si chiama pensiero; ma che cosa significa davvero pensare?), i «comportamenti umani» o la «psiche» con dei fenomeni meccanici, questo potrebbe turbarmi se avessimo a che fare con un atteggiamento sistematicamente riduttivo e semplificante. Ritengo necessario, e personalmente condivido, l'interesse rivolto al mondo delle macchine e alla complessità del loro funzionamento. Ciò che mi imbarazza in alcuni scienziati a cui lei allude è il fatto che i loro modelli meccanici non siano sempre all'altezza della straordinaria complessità delle macchine, reali o virtuali, prodotte dall'uomo - come mostrano, ad esempio, tutte le aporie o gli impossibilia di cui si occupa la decostruzione nel momento in cui mette alla prova, attraverso il linguaggio, i più sofisticati dispositivi di formalizzazione, e ciò non per squalificare le «macchine» in quanto tali, ma, al contrario, per cercare di «pensarle» in un altro modo, per concepire diversamente il loro evento e la loro storicità. Per quanto mi riguarda, ritengo che il pensiero più «libero» sia quello che cerca una continua mediazione con gli effetti prodotti dalle «macchine». È questa la ragione per cui mi servo di rado della parola «libertà» nell'accezione in cui la utilizza lei.

Ci saranno comunque delle occasioni in cui potrò difendere la libertà come una complessità esorbitante rispetto a una determinata prospettiva meccanica, e mi batterò allora per delle libertà - ma non parlerò mai con facilità della libertà. Lacan stesso non ha forse detto da qualche parte di non volersi mai servire di questo termine?

Se diffido del termine «libertà» non è perché io aderisca a qualche forma di determinismo meccanicistico. La ragione è che questa parola mi sembra spesso gravata di presupposti metafisici che attribuiscono al soggetto o alla coscienza - cioè a un polo egologico - un'indipendenza assoluta rispetto alle pulsioni, al calcolo, all'economia, al mondo delle macchine. Se la libertà è un residuo irriducibile di gioco all'interno della macchina, di ogni macchina specifica, allora io mi impegnerò affinché questa libertà venga riconosciuta e rispettata, ma preferisco evitare di parlare di libertà del soggetto o di libertà dell'uomo.

E. R. Che cosa intende esattamente quando parla di «macchine»?

J. D. La macchina esiste dappertutto, e in particolare all'interno del linguaggio. Infatti Freud - nostro comune e privilegiato punto di riferimento - parla di economia, di calcolo inconscio, di principi di calcolo (realtà, piacere), di ripetizione e di coazione a ripetere. Definirei la macchina come un dispositivo di calcolo e di ripetizione. Nel momento in cui vi è un calcolo, una calcolabilità e una ripetizione, in quel momento vi è una macchina. Freud ha preso in considerazione la macchina che regge l'economia e il prodotto della macchina. Ma all'interno della macchina esiste un eccesso in relazione alla macchina stessa - al contempo l'effetto di una macchinazione e qualcosa che elude il calcolo puramente meccanico.

Dunque, tra meccanico e non puramente meccanico è all'opera un rapporto complesso, non basato su una semplice opposizione. Si può chiamare questo libertà, ma ciò è possibile soltanto a partire dal momento in cui si dà qualcosa come un' incalcolabilità. E distinguerei ancora fra un' incalcolabilità che resta omogenea al calcolo - a cui sfugge per ragioni contingenti, ad esempio la finitezza o il limite di una capacità - e una non-calcolabilità che non può rientrare, per essenza, nell'orizzonte del calcolo. L'evento - che per essenza deve rimanere imprevedibile e dunque non programmabile -, ecco ciò che eccede la macchina. Quello che bisognerebbe cercare di pensare - ed è davvero difficile - è l'evento insieme con la macchina. Questa almeno è la mia proposta. Ma per accedere, se ciò è possibile, all'evento al di là di ogni calcolo - e dunque oltre ogni tecnica e ogni economia - non si possono non prendere in considerazione fenomeni come la programmazione, la macchina, la ripetizione, il calcolo. E bisogna farlo spingendosi il più in là possibile, fin là dove non si è preparati o disposti nemmeno a immaginare.

Bisogna seguire fin nei più intimi recessi gli effetti del calcolo economico, non foss'altro che per comprendere fino a che punto siamo toccati dall'altro, vale a dire dall'imprevedibile, dall'evento che, di suo, è incalcolabile - l' altro risponde sempre, per definizione, al nome e alla figura dell' incalcolabile. Nessun cervello, nessun esame neurologico per quanto completo potranno mai permetterci l'incontro con l'altro. La venuta dell'altro, l'arrivo del veniente avviene in quanto evento imprevedibile. Saper «tenere in conto» ciò che lancia la sfida al «tenere il conto», ciò che disfida o devia in un altro senso il principio di ragione nel suo limitarsi a «render conto» (reddere rationem, lògon didómai), non negare o ignorare questa imprevedibile e incalcolabile venuta dell'altro - il sapere, e la responsabilità scientifica, sono anche questo.

E. R. Oggi la nozione di determinazione inconscia e la tesi freudiana delle tre ferite narcisistiche sono termini comuni all'interno del nostro parlare. Si tratta di concetti accettati senza problemi. Oggi tutti sanno che esiste un inconscio - e in tal senso la psicoanalisi ha raccolto il testimone della filosofia della coscienza, della filosofia del soggetto, diventando la filosofia di un soggetto «decentrato». Essa è riuscita dunque a congiungere due tradizioni antagoniste, quella neurofisiologica e quella «spiritualista» - intendendo con quest'ultimo termine l'introspezione, la ricerca di sé, l'indagine interiore modificandole entrambe, l'una attraverso l'altra. A questo ha aggiunto un patrimonio clinico ereditato da un lato dalla psichiatria - la classificazione delle malattie - e dall'altro dalle vecchie terapie psicologiche - la cura attraverso il transfert.

Ma quel che mi pare ancora più singolare oggi, è il fatto che questo soggetto moderno e decentrato non ne vuole sapere di un inconscio di cui peraltro conosce l'esistenza. Preferisce affidarsi alle macchine, ai neuroni, a processi organici su cui non ha alcuna possibilità d'intervento. Da ciò deriva la mia idea di ristabilire uno spazio di libertà per questo soggetto determinato o assediato da ogni parte da macchine - sociali, economiche o biologiche. Perché se si è davvero condizionati da ogni parte e non esiste nessuna via d'uscita, si corre il rischio di sostituire la dimensione psichica con quella culturale e di instaurare, al posto dell'universale, qualcosa che assomiglia non tanto a una forma di differenza o di esilio, ma a delle «radici», a un'origine saldamente ancorata all'interno di una sovranità territoriale, per quanto di natura immaginaria. Come se non bastasse, lo scientismo si è sempre rivelato nefasto in ambito politico. Vorrei inoltre ricordare, parlando di un ambito che conosco bene, che è stato proprio in nome di una presunta neutralità scientifica - e dunque dello scientismo - che il direttivo dell'Associazione mondiale di psichiatria, vent'anni fa, rifiutò di denunciare gli abusi terapeutici compiuti nell'ex Unione Sovietica. Ed è ancora in nome della stessa presunta scientificità, teorica e pratica, che gli psicoanalisti si resero complici delle dittature latinoamericane, affermando che la deontologia professionale imponeva loro di non prendere posizione sulle torture e le violazioni dei diritti umani. Sotto il nazismo, il pretesto della neutralità scientifica è stato abbondantemente sfruttato in maniere analoghe. Ancor oggi, ci troviamo di fronte a una versione più soft dello stesso argomento. In psichiatria, ad esempio, non è affatto raro invocare la presunta scientificità del trattamento delle malattie mentali per perseguire quello che in realtà non è nient'altro che uno sfruttamento psichico dei soggetti.

Quanto alla maniera in cui oggi si tende a ritornare a una causalità di natura puramente traumatica od organica, o a un tracciato di una macchina per spiegare una nevrosi - quando Freud stesso aveva abbandonato questa tesi nel 1897 - mi sembra che vada letta come una tendenza regressiva. Senza negare le determinanti economiche, biologiche o sociali, è possibile lasciare un certo margine alla psiche e all'idea di libertà soggettiva.

J. D. Sono d'accordo, anche se riesco a scorgere con minor chiarezza quello che lei chiama «un certo margine», e che si vorrebbe in effetti preservare. Mentre ritengo che si debba fare qualche precisazione sull'uso di parole come «soggetto» e «libertà». Ciò che resiste, e che deve resistere, a questo determinismo - o a questo imperialismo che è proprio del discorso determinista - non lo chiamerei né soggetto, né io, né coscienza, e neppure inconscio, ma lo ricondurrei piuttosto a uno di quegli ambiti in cui vive l'altro: l'incalcolabile, l'evento. L'individualità in effetti si trova esposta al sopravveniente come alla dimensione dell'altro e dell'incalcolabilità.

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Pagina 117

J. D.

Il mio tentativo è stato quello di rimanere fedele non soltanto a un concetto particolarmente insidioso di eredità, ma anche a uno degli «spiriti di Marx», uno spirito evocato da un concetto di giustizia che è irriducibile a tutte le sconfitte del comunismo. Il libro è stato scritto poco dopo la caduta del muro di Berlino, ma personalmente mi sono sempre rifiutato di vedere il totalitarismo nazista e quello sovietico come due facce della stessa medaglia. E questo anche se penso che i gulag - immagine principe della violenza sovietica - non siano da meno della barbarie nazista.

Mi è capitato di recente di vedere, negli Stati Uniti, un documentario che mostra un gruppo di russi emigrati in Francia durante la rivoluzione d'Ottobre. Richiamati in patria - negli anni ottanta, mi pare - dal regime sovietico con un falso pretesto, vengono invitati a ristabilirsi nelle loro città, dove d'altronde desiderano far ritorno, sotto l'auspicio delle migliori promesse. Soltanto allora si rendono conto di essere caduti in una spaventosa trappola. Vittime delle peggiori persecuzioni poliziesche, finiscono tutti nei gulag.

Se credo che non si debba cedere alla tentazione di stabilire delle analogie, non è perché ritengo che i gulag siano un fenomeno più tollerabile della Shoah. Il paragone si rivela fallace nel momento in cui si prende in considerazione un semplice fatto, assolutamente innegabile e palese: che l'ideologia comunista - l'ideale di giustizia che ha guidato e ispira ancor oggi tanti uomini e donne comuniste, tutti lontani da qualsiasi idea di gulag - non potrà mai essere avvicinato, attraverso un parallelismo, un'analogia o un'equivalenza, o addirittura per opposizione, al ben che minimo «ideale» nazista di «giustizia». Che si nutra o meno una forma di rispetto - rispetto etico o politico - per ciò che chiamo qui un po' approssimativamente un «ideale di giustizia», è assolutamente necessario riconoscere la differenza che separa questo «ideale» «comunista» da ciò che è stato alimentato dal nazismo. Una volta che questo dovere assoluto - un dovere del pensiero che è esso stesso «giustizia» - sarà stato assunto, allora si potrà sviluppare il discorso e porsi tutte le domande necessarie sul senso e la storia di questa «idea» e di questo «ideale», sulla storia come storia di un'idea, sulla storia della storia e del comunismo, e altre questioni essenziali analoghe. Sarà questa un'altra fase e un'altra faccia dello stesso dovere assoluto.

E. R. Sono completamente d'accordo con lei. Dobbiamo dunque stare attenti a tutti quegli storici che pretendono di stabilire un'equivalenza fra queste due idee, riducendo tra l'altro il comunismo allo stalinismo. Il comunismo non ha, all'origine, lo stesso progetto del nazismo, il cui fine è il genocidio tout court.

J. D. In ambito «comunista», il demone del totalitarismo ha assunto la maschera, indubbiamente terrificante, della corruzione del progetto o dell'«ideale». Ma la corruzione di un progetto non è il progetto, anche ipotizzando che il progetto si fosse lasciato pervertire alla sua stessa origine. Il totalitarismo nazista, invece, è stato il progetto stesso in quanto perversione, la perversione portata a compimento. A prescindere dalle domande che ritengo di dover continuare a pormi a tale proposito, il mio rispetto per l'«idea» comunista resta intatto, e Spettri di Marx ne è la conferma con la sua difesa della necessità di un'instancabile critica decostruttiva della logica capitalistica. Le questioni che restano aperte - anche le più radicali e le più inquietanti, le più necessarie - si situano su di un piano completamente differente rispetto a quelle riguardanti il male nazista, l'«enigma» che il nazismo ha rappresentato. L'asimmetria non risiede nella differenza tra fatti o manifestazioni di crudeltà. È situata altrove, nell'interpretazione di un altrove a venire - e che lo si chiami come si preferisce, questo altrove, per il momento: ideologia, ideale, idea...

Anche nel momento in cui nutrivo pesanti riserve nei confronti del partito comunista, così come nei riguardi di chi cercava di tagliare i ponti con esso, ho sempre - ed è questo che mi ha costretto al silenzio - rispettato e direi persino condiviso a modo mio, un modo inquieto e riservato, questo ideale.

Tuttavia se si vuole davvero salvare la rivoluzione, occorre che l'idea stessa di rivoluzione sia trasformata. Ciò che è obsoleto, invecchiato, incartapecorito, impraticabile - e questo per mille ragioni - è una certa teatralità rivoluzionaria, un determinato processo di presa del potere che viene associato in genere alle rivoluzioni del 1789, del 1848 e del 1917. Personalmente credo alla rivoluzione - vale a dire a un'interruzione, a una cesura radicale all'interno del corso ordinario della Storia. Non esiste d'altronde responsabilità etica né decisione degna di questo nome che non sia, per essenza, rivoluzionaria, che non si riveli in rottura con tutto un sistema di norme dominanti - per non dire con l'idea stessa di norma e perciò con un sapere che scaturisce dalla norma che detterebbe o programmerebbe la decisione. Ogni responsabilità ha un carattere rivoluzionario, poiché cerca di compiere l'impossibile: interrompere l'ordine delle cose a partire da eventi non programmabili. Una rivoluzione non si programma. In un certo senso, come l'unico evento davvero degno di questo nome, essa eccede ogni orizzonte possibile, ogni orizzonte del posszbzle - e dunque della potenza e del potere.

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Pagina 124

J. D.

All'indomani dell'esecuzione del sovrano, Condorcet avanza cautamente questa proposta: «Abolire la pena di morte per tutti i crimini privati, riservandosi di valutare se mantenerla per i crimini contro lo Stato». Mozione rifiutata, come altre analoghe, ogni anno, nel 1793, 1794 e 1795. Il Tribunale della Rivoluzione di Parigi e i tribunali speciali fuori della città firmano l'esecuzione di oltre diciassettemila condannati a morte. Ma ci sono anche delle esecuzioni «non formali» come direbbe Kant, senza processo, e si parla di un numero che va dalle trentacinquemila alle quarantamila persone, giustiziate o assassinate senza esser state sottoposte a giudizio.

Una rivoluzione all'interno della Rivoluzione, dunque, e il caso esemplare di Victor Hugo testimonia l'esigenza di distinguere fra più sensi e più tempi della cosiddetta Rivoluzione francese. Quando si pronuncia contro la pena di morte, così spesso e con tale eloquenza, egli lo fa sempre in nome del «non uccidere» o dell'«inviolabilità della vita umana», ma anche in nome dei Vangeli contro la Chiesa, e in nome della Rivoluzione, dello spirito della Rivoluzione contro il Terrore. Egli non propone soltanto di innalzare una statua a Beccaria - «Innalzare una statua a Beccaria significa abolire il patibolo» - ma giunge a proporre una scansione dei tempi stessi della Rivoluzione. La Rivoluzione è una, eppure non è una. Non è corretto considerarla come un blocco unico e indivisibile. È la Convenzione che, dando vita al Terrore, instaurerà il regime della ghigliottina, ma è la medesima Convenzione che dichiara: «A partire dalla data di pubblicazione della pace generale, nella Repubblica francese la pena di morte verrà abolita». Una formula straordinaria. Quali sono i tempi di cui parla? Si potrebbe dire, in un certo senso - come suggerivo poco fa -, che perché questo accadesse ci sono voluti dei secoli.

Oggi una certa pace regna nell'Europa postrivoluzionaria, in questa Europa vagheggiata dai rivoluzionari. Ma ciò non fa che confermare che la pena di morte è stata abolita non tanto per ragioni di puro principio - quelle a cui Kant, e si dovrà riparlare di questo, vorrà strenuamente ricondurre il dibattito, solo contro tutti coloro che, pro o contro la pena di morte, non faranno che invocare sempre e comunque ragioni di utilità o inutilità, di sicurezza o di deterrente esemplarità, in virtù di una logica dei mezzi e dei fini - ma perché essa si sarà rivelata non «più utile né più necessaria».

Sono le parole e la logica di Beccaria, che si opponeva alla pena di morte in modo tutto sommato piuttosto equivoco, per non dire utilitaristico. La riteneva infatti non abbastanza crudele, meno crudele comunque e perciò meno deterrente della condanna ai lavori forzati a vita. Una simile ambiguità non è sparita, e ne restano ancora molte altre, mentre un discorso abolizionista fondato su argomenti di puro principio deve trovare ancora la sua formulazione - ed è esattamente questo che cerco di elaborare nel mio seminario, dopo aver constatato il fatto tutt'altro che insignificante che nessun discorso filosofico in quanto tale, e attraverso la sua sistematicità filosofica, ha finora mai condannato la pena di morte.

La «decostruzione» di ciò che vi è di più egemonico in filosofia dovrebbe dunque passare attraverso la «decostruzione» della pena di morte, di tutto ciò che è solidale con essa - a cominciare da un certo concetto di sovranità - di tutto il suo armamentario - esattamente come il discorso su ciò che si chiama «l'animale». Infatti, in un certo senso, è soltanto dopo aver raggiunto un certo grado di sicurezza e di pace che l'Europa ha abolito, per presunte ragioni di principio, la pena di morte. Oggi, nessuno Stato può entrare a far parte della Comunità Europea senza aver abolito la pena di morte. Gli Stati Uniti meriteranno un discorso a parte a tale proposito. Si tratta di periodi di tempo, a volte assai lunghi a volte molto corti, a seconda della scala di grandezza che si assume - ma esiste una scala di grandezza per la morte? - che occorre studiare nella loro interconnessione.

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Pagina 134

E. R. La cosa più sconvolgente di Spettri di Marx è che lei ridà speranza alla rivoluzione in un periodo in cui si pensa che ogni desiderio rivoluzionario, ogni fantasma di questo desiderio debba essere rimosso in quanto disdicevole.

J. D. Si tratta a ben vedere di una speranza piuttosto esile...

E. R. Non mi sembra. Spettri di Marx è una sorta di antidoto al Libro nero del comunismo, che non esita a condannare in anticipo come criminale il progetto stesso di una rivoluzione riducendo tutta la storia del comunismo, compresa quella di migliaia di militanti di tutto il mondo morti per questo ideale, a una questione di contabilità. In questo senso tutti coloro che si sono schierati dalla parte del comunismo, che hanno aderito nell'arco di cinquant'anni e in tutti i paesi del mondo ai vari partiti comunisti, sarebbero passibili di venir deferiti a un tribunale di epurazione per aver partecipato a un'impresa «criminale».

Ridurre il comunismo ai crimini commessi dai regimi che si sono rifatti al socialismo reale, ridurre il comunismo ai gulag, come abbiamo già detto, mi sembra una cosa terrificante. Faccio un esempio: un mio amico, professore alla vecchia università di Berlino Est, il cui padre era stato un eroe comunista della lotta antinazista morto in Francia durante la Resistenza, si è sentito recentemente accusare di collaborazionismo con il vecchio regime in quanto figlio di un attivista filosovietico. E lui stesso aveva subìto delle persecuzioni a causa della sua ostilità al regime della Germania dell'Est. Situazioni di questo genere non sono rare. Questo è ciò a cui porta identificare il comunismo con una forma di crimine.

Devo ammettere che certamente la perversione di un ideale o di una speranza è quanto di peggio si possa immaginare. È come se si trattasse di una messa a morte dell'immaginario. Un giorno la storia di questa tragedia e delle sue diverse rimozioni dovrà essere narrata. In questo senso - e soltanto in questo senso - quello che è accaduto al comunismo con i gulag è stata la peggiore delle catastrofi. Con il nazismo tutto era già scritto, il peggio era già all'opera nel progetto stesso.

J. D. Il mio libro tenta in questo caso anche di muoversi controcorrente. Conta su ciò che giunge in contropiede, certamente, ma anche sull'eredità e quindi sulla memoria. Fa affidamento sulla memoria e sulla storia. Quanto ai crimini di cui lei parla, la memoria e la storia - la storia degli storici - non devono mai essere separate, anche se l'una non può essere ridotta all'altra. Bisogna dare delle risposte e sforzarsi di render conto, se possibile - dunque cercare di sapere, di analizzare e di non dimenticare.

E. R. Non si tratta certamente di dimenticare ma di compiere un'analisi coerente e non confusa. L'equiparazione fra comunismo e nazismo, di cui parlavamo poc'anzi, conduce alla pericolosa affermazione che fascismo e antifascismo risulterebbero ugualmente speculari e quindi che razzismo e antirazzismo - o neoantirazzismo, come usa dire oggi - sarebbero simmetrici in quanto preda dello stesso fanatismo e si alimenterebbero a vicenda. Questa tesi si può trovare ne Il passato di un'illusione di François Furet, e soprattutto in Paul Yonnet che, a colpi di anticomunitarismo, di anticomunismo esasperato e di critiche al multiculturalismo, ha avuto il coraggio, nel 1993, di rivolgere l'accusa al neoantirazzismo di sos-Racisme di cercare di sostituirsi al «mito marxista e dell'universalismo proletario» nel tentativo di promuovere la «necessità di estinzione dell'identità francese». Si possono trovare tracce di questo anche in Pierre-André Taguieff, le cui opere sul razzismo costituiscono peraltro un riferimento autorevole. Oggi è un po' questa la versione che tende a diffondersi: essere stato antifascista in nome del comunismo, o perché iscritto a un partito comunista nel periodo fra le due guerre o durante la seconda guerra mondiale, sarebbe la stessa cosa che essere stato fascista. Analogamente, l'attivismo antirazzista, con tutte le sue inevitabili semplificazioni, risulterebbe altrettanto pericoloso del razzismo. Personalmente non penso nulla di simile, anche se cerco di rimanere vigile di fronte a tutte quelle derive di cui abbiamo parlato.

Lei, da parte sua, mi pare che proponga un programma che definirei di risveglio delle coscienze. La sua proposta è di creare una nuova Internazionale per lottare contro le piaghe del nuovo ordine mondiale - disoccupazione, non accettazione degli espatriati, guerre economiche, traffico d'armi, etnicismo (fondato sulla terra e sul sangue), potere degli Stati-fantasma (le varie forme di mafia), droghe - e ha addirittura avanzato l'ipotesi di una «Dichiarazione sull'orrore dello stato mondiale», che riecheggia il titolo del libro di Viviane Forrester, L'orrore economico.

In poche parole, mentre il mondo tende a unificarsi sotto il vessillo del neoliberalismo e tutti quelli che hanno creduto all'ideale di una società comunista si sentono obbligati a farne a meno, lei inventa una nuova forma di opposizione.

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E. R. Oggi tutto procede come se l'antisemitismo avesse nuovamente subìto un processo di banalizzazione, un processo che lo ha fatto trovare ben al riparo, forte della sua buona coscienza rinnegatrice. Ne è testimonianza quel terrificante discorso che definirei di «antisemitismo inconscio» che consiste nel condannare radicalmente la Shoah rivendicando al tempo stesso il diritto di «muovere delle critiche» agli ebrei in quanto «ebrei» e di «tenerne il conto». Questa presunta critica non è altro che la versione aggiornata di una vecchia forma di antisemitismo che si basa sulla considerazione che gli ebrei sono «troppo numerosi» in questa o quella professione, che si organizzano in lobby nell'intento di influenzare o destabilizzare l'opinione pubblica, e via di questo passo. In una simile prospettiva, il famigerato «tenere il conto» del numero di ebrei in questo o quel settore funziona evidentemente come un incoraggiamento alla discriminazione.

Due anni fa, in occasione di un sondaggio, i francesi si sono dichiarati razzisti nel settanta per cento dei casi, pur sostenendo di essere contrari a ogni forma di discriminazione. Si tratta dunque di un vero e proprio disconoscimento nel senso freudiano del termine, un modo cioè di esprimere per via negativa un pensiero di cui si rimuove il contenuto - un «certo lo so, ma comunque», per riprendere la celebre formula di Octave Mannoni: «Certo lo so che gli ebrei hanno sofferto, ma comunque stanno esagerando». Oppure: «Certo sono razzista, ma non voglio che i neri siano perseguitati - anche se non desidero frequentarli, e per quanto, comunque, possa capire che non si debba maltrattarli troppo», e via di seguito.

J. D. Quando l'antisemitismo si diffonde - quand'anche si tratti di questa forma criptata, riprovevole ma abbastanza facile in fondo da decifrare - gli «effetti perversi» che genera, come si usa dire, sono numerosi. Il primo è che si corre il rischio, a questo punto, di temere di criticare qualsiasi aspetto della politica di Israele o di una certa comunità ebraica. C'è infatti sempre qualcuno pronto a sospettarvi, come minimo, di collusione indiretta con l'antisemitismo risorgente. Per non dire di negazionismo! Come accennavo poco fa, non posso nemmeno più pensare tranquillamente: «Per fortuna sono ebreo. Questo almeno mi permette di non sentirmi accusare immediatamente quando mostro qualche perplessità sui fondamenti dello Stato israeliano e sulla sua politica, sull'opinione di un ebreo o di gruppo di ebrei, sull'una o l'altra iniziativa della comunità ebraica». Questo meccanismo è una trappola mortale che bisogna neutralizzare. A qualunque costo. Poiché si tratta davvero di una trappola mortale. E bado bene alle parole che dico. Si tratta infatti della morte programmatica della benché minima lucidità, di ogni forma di responsabilità - intellettuale, etica, politica.

Occorre difendersi e battersi contro coloro che dispongono (di) queste trappole. Bisogna opporsi ad essi, magari prendendo tempo, dando o imponendo del tempo per fare discorsi complessi e per produrre argomentazioni stratificate. Perché non mi sembra giusto negare a qualcuno - me compreso - il diritto di criticare Israele o una determinata comunità ebraica con la scusa che ciò potrebbe assomigliare o risultare funzionale a una forma di antisemitismo. Mi rendo conto delle difficoltà, ma se la parola coraggio - intellettuale o di altro tipo - continua ad avere un senso, è proprio in situazioni subdole come questa e di fronte a tentativi di intimidazione che provengono da ogni parte. Già, perché siamo letteralmente accerchiati - e la trappola è un vero e proprio assedio. La cosa peggiore ai miei occhi, dal punto di vista in cui mi trovo, è l'appropriazione e soprattutto la strumentalizzazione della memoria storica. È perfettamente possibile e necessario, senza che ciò comporti la minima forma di antisemitismo, denunciare questa strumentalizzazione, così come il calcolo puramente strategico - politico o di altro genere - che consiste nel servirsi dell'olocausto, utilizzandolo per questo o quel fine. È perfettamente possibile considerare questi fini riprovevoli, o considerare riprovevole la strategia che viene messa in opera, senza per questo rinnegare minimamente la realtà di questa mostruosità passata - quell'olocausto di cui alcuni vorrebbero impadronirsi e servirsi a loro piacimento.

È dunque necessario, mi pare - ed è comunque la mia regola o la mia massima - combattere, senza mai lasciarsi intimidire, ogni forma di negazionismo e al tempo stesso rifiutare lo sfruttamento di una tragedia assoluta, di una tragedia peggiore di ogni tragedia - peggiore cioè di una tragedia ancora «greca» nella sua forma - e che non appartiene a nessuno. Artigianale o industriale, la strumentalizzazione si avvia molto in fretta e molto presto. E si impone dappertutto, ineluttabilmente. Lo fa talora in modo grossolano e plateale, talora invece nascondendosi sotto una maschera rispettabile, in modo più nobile e raffinato, mostrando, ad esempio, i tratti segnati di un volto pietrificato nel dolore impenetrabile del legittimo testimone, un testimone così perfettamente autorizzato da assumerne il ruolo professionale. Questa strategia può conquistare anche la retorica, ogni sorta di attività diplomatica, il mercato e, perché no, anche il mercato dell'arte. Non è sempre facile accorgersene. Ma se occorre essere perennemente vigili per riconoscere questo meccanismo, è necessario nondimeno - al tempo stesso, e senza indugi - tenere sotto controllo l'antisemitismo e ancor peggio il negazionismo che potrebbero cogliere la palla al balzo per mettersi la coscienza a posto. Questi due pericoli opposti vanno di pari passo, e si alimentano e si rafforzano l'un l'altro. Per quanto ciò si riveli arduo, credo che occorra saper opporre resistenza simultaneamente a entrambi. Senza tregua e senza debolezze.

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